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PREGHIERA
1. La Chiesa della Lavanda dei piedi
Gesù continua, ancora oggi,
a lavare i piedi alla tua Chiesa,
come hai fatto nell'ultima cena,
quando ti sei alzato da tavola
e con un gesto di carità e di umiltà
hai purificato le estremità
dei tuoi Dodici apostoli
del tuo Regno di amore e verità.
Gesù, quanto è distante
dal tuo modo di agire,
il nostro metterci al servizio
della Chiesa e dell'umanità,
segnate da tante
debolezze e necessità.
Insegnaci Gesù,
in ogni Giovedì Santo,
a stare con te
in quel cenacolo
dell'ultimo incontro conviviale
con i tuoi dodici apostoli,
per essere tuoi veri discepoli
nell'umiltà e nel servizio generoso
verso i più poveri e bisognosi
di questo nostro mondo.
Donaci un amore grande
verso la tua amata chiesa,
per la quale ti sei offerto
vittima sacrificale sulla croce,
dalla quale hai dettata
la legge fondamentale dell'amare
che è donazione totale
della propria vita per gli altri.
Amen.
giovedì santoserviziolavanda dei piedi
inviato da Padre Antonio Rungi, inserito il 11/10/2024
RACCONTO
Gesù è nato a Betlemme e dal lontano oriente tre sapienti si sono messi in viaggio per venire a conoscere il re dei re. Li guida una stella, ma in realtà non sanno cosa troveranno. Il linguaggio degli astri ha detto loro che è nato un re: porterà la pace nel mondo, inizierà un regno che non avrà mai fine e unirà il cielo con la terra, ma non ha detto loro dove accadrà tutto questo e, soprattutto, come. Ecco allora che, seguendo la stella, arrivano in Palestina.
Dove andreste a cercare il futuro re? Nella città più grande, nei palazzi dove abitano i ricchi e i potenti, ed è proprio quello che fanno i tre magi a Gerusalemme.
«Dov'è il re dei Giudei che è nato?», vanno chiedendo a tutti, ma nessuno sa rispondere loro.
«Abbiamo visto sorgere la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» affermano con sicurezza i tre forestieri, e all'udire queste parole tutti, ma proprio tutti, si stupiscono, perché a un re normalmente si fa omaggio, ma non adorazione; per questo tutti comprendono bene che i Magi cercano un grande re, non uno dei tanti che regnano sulla terra.
Il loro abbigliamento, le loro domande insistenti non passano inosservate e vengono riferite a chi ha il potere in quel paese, e cioè al re Erode, ma anche ai soldati romani che da anni hanno conquistato la Palestina e sono di fatto i veri padroni del territorio.
Il comandante del presidio di Gerusalemme invia loro un soldato con la scusa di proteggerli, ma in realtà per sapere cosa c'è di vero nelle loro affermazioni.
Erode raduna i suoi consiglieri più fidati, gli studiosi della bibbia di quel tempo per conoscere dove avrebbe dovuto nascere il più grande di tutti i re, cioè il Messia d'Israele. La risposta, come potete leggere nel Vangelo di S. Matteo, è Betlemme, allora il re fa' chiamare segretamente i Magi perché ha in mente un piano. Invia i magi a Betlemme e chiede loro di tornare quando l'avranno trovato, così potrà andare anche lui ad ad «adorarlo». Di fatto pensa solo ad individuare il suo rivale per eliminarlo.
Ecco allora che i tre Magi riprendono il cammino assieme al soldato romano che li scorta sul suo cavallo, armato di lancia e di spada. I tre personaggi parlano tra di loro, sono emozionati perché sperano di arrivare presto alla fine del loro viaggio. Il soldato, che si chiama Longino, ascolta tutto con grande attenzione, così impara quali sono le caratteristiche di questo re nato da poco che i tre sapienti stanno cercando con impazienza.
Sarà un re più grande di ogni altro re; il suo regno si estenderà su tutti i popoli (e questo preoccupa molto il romano se pensa che l'impero della sua Roma possa essere in pericolo), ma nonostante tutto questo sarà un regno di pace, un regno buono, come non ce ne sono stati altri.
Alla sera, quando si accendono le prime stelle, i tre saggi scrutano con visibile apprensione il cielo e d'improvviso scoppiano in esclamazioni di gioia: la stella, ecco di nuovo la stella!
«Quale stella?» chiede Longino ai sapienti che lo guardano con occhi pieni di felicità.
«Guarda, quella è la stella che ci ha guidati», dice Melchiorre indicando un punto luminoso nel cielo.
«E' la stella del più grande dei re, come dicono tutti i libri che insegnano il linguaggio delle stelle», continua Gasparre.
«L'abbiamo vista per la prima volta nei territori d'oriente, da dove veniamo, alcuni mesi fa», aggiunge Baldassarre.
«Per settimane ci ha guidato, poi è sparita, così abbiamo proseguito il cammino solo sulla fiducia», riprende Melchiorre.
«Ma ora i nostri occhi la vedono di nuovo e la nostra gioia è talmente grande che tu non puoi nemmeno immaginare», conclude Gasparre.
«Voi saggi stranieri non lo sapete - dice Longino - ma la stella è proprio nella direzione di Betlemme, che dista da qui meno di un'ora di cammino».
I tre Magi sono eccitati come bambini.
«Cosa aspettiamo? Presto, prepariamo i doni. Partiamo subito», si dicono l'un l'altro.
Longino vorrebbe trattenerli, ma i tre sapienti insistono tanto che alla fine il romano è costretto a far loro da guida.
Il viaggio diventa sempre più disagiato, perché ormai il buio è totale e si intravede solo la via al bagliore delle stelle. L'aspettativa dell'evento ha contagiato anche il soldato, cosicché la comitiva procede in silenzio. Ognuno pensa a ciò che tra poco troverà: un sapiente, un re, un inviato dal cielo, un pericoloso concorrente.
Dopo più di un'ora di viaggio difficoltoso i quattro finalmente giungono in vista delle luci di Betlemme. A quel tempo non c'erano le strade illuminate come adesso. Solo chi era sveglio aveva un lume acceso che filtrava appena dalle finestre già chiuse. Nel buio totale della campagna bastava una luce o due per segnalare la presenza di un villaggio.
Eccolo il paesino tanto a lungo cercato. Una decina di case costruite sulla roccia, qualche muro che circonda cortili e piccoli orti, una luce accesa fuori di una porta dalla quale esce luce e un brusìo continuo. I quattro entrano e si trovano in una locanda. Tre soldati romani ad un tavolo, qualche altro cliente agli altri tavoli, ben lontani dai soldati. Longino si avvicina ai commilitoni, scambia qualche parola in latino, poi va dall'oste, parla animatamente per qualche minuto, poi torna dai Magi che aspettano in piedi vicino alla porta.
«Nessuno sa nulla, nessun personaggio importante è passato di qui ultimamente. Tanti ebrei sono passati di qui in occasione dell'ultimo censimento, ma si trattava quasi esclusivamente di povera gente, se non proprio di straccioni. In qualche momento c'è stata tanta gente che qualcuno ha dovuto alloggiare nelle grotte dei pastori che si trovano intorno al villaggio.»
I quattro escono delusi dalla locanda e si ritrovano in una specie di piazza, nello spazio lasciato libero da alcune casette tutt'intorno. I magi guardano il cielo e interrogano muti la stella che li ha guidati fin qui. Tutte le stelle brillano con qualche tremore della luce, ma questa brilla in un modo strano anche se non fa più luce delle altre.
«E' qui vicino, guardate la stella, sembra che danzi», dice Gasparre come in trance.
«Sembra che stia cantando e che ci chiami», risponde Melchiorre come in estasi.
«Andiamo», dice Gasparre come in sogno.
Longino non capisce bene, ma anche lui è affascinato da questa strana atmosfera che si è creata e senza parlare segue i tre sapienti che si sono incamminati per un sentiero che esce dal paese, nella stessa direzione della stella.
A meno di cinque minuti di cammino c'è una grotta, dentro una piccola luce. I piedi camminano da soli, i quattro procedono come automi e si fermano sulla soglia della grotta. Quello che vedono è molto diverso da quel che si aspettavano. Un giovane uomo che gioca con un bimbo in braccio mentre la moglie, giovanissima, sta cucinando in un angolo della grotta. Di fianco a loro un bue ed un asinello legati vicino ad una greppia. Il giovane uomo si accorge della presenza dei nuovi arrivati e senza nessuna esitazione li invita ad entrare.
«La notte è umida, lì fuori: entrate e dividete con noi la nostra cena.» Poi, rivolto alla moglie: «Maria, il Signore benedice la nostra dimora con quattro ospiti.»
«Siate i benvenuti, riposatevi qualche istante mentre io impasterò e cuocerò per voi delle focacce», risponde lei.
I quattro entrano, si siedono su alcune logore stuoie per terra ed osservano questa piccola famiglia cercando con gli occhi conferme ai loro pensieri più profondi. Si aspettavano tutto tranne la straordinaria normalità di ciò che vedono: una semplice famiglia che vive l'ancor più semplice felicità di tutti i giorni che è stata loro concessa dalla nascita di un figlio. La sicurezza che accompagnava i tre saggi durante la loro ricerca è svanita. Più che delusi sono sorpresi. Qui niente ha l'apparenza dell'abitazione di un re, nemmeno le persone che stanno davanti a loro hanno un comportamento di chi aspira a comandare, le parole che sentono non son quelle di chi ha studiato tanto sui libri o di chi ha grandi sogni ed ambizioni. Eppure tutt'intorno a quel bambino c'è una tale atmosfera d'amore che i tre saggi, ma anche il soldato, ne sono conquistati. Non sono sicuri di essere davvero arrivati perché qui non corrisponde nulla alle loro aspettative, per questo debbono cambiare completamente prospettiva per poter vedere con altri occhi ciò che sta loro innanzi.
Più tardi, mentre mangiano tutti insieme, decidono di fidarsi della loro intuizione e raccontano del loro viaggio, del messaggio delle stelle, dei presagi sul futuro di quel bimbo che ora dorme nella mangiatoia degli animali. Maria e Giuseppe, suo sposo, ascoltano stupiti il racconto dei Magi. Capiscono che possono fidarsi di loro e raccontano dei pastori che, la notte della nascita di Gesù, loro figlio, erano accorsi raccontando di visioni di angeli nel cielo.
Longino ascolta anche queste notizie senza ben capire se deve considerarle verità o frutto d'immaginazione. L'unica cosa che percepisce chiaramente è un'atmosfera di serenità che lo circonda. Per i Magi invece questo racconto è la conferma che cancella tutti i loro dubbi. Sicuramente quel bimbo che dorme tranquillamente nella paglia profumata sarà il grande re annunciato dalle stelle, ma sarà anche molto diverso da tutti gli altri. Il loro cuore e non solo la mente finalmente si è aperto, è ora di aprire anche le bisacce e offrire i doni che hanno portato dal loro paese per il Re dei re. A turno depongono ai piedi del bambino Gesù l'oro, segno di ricchezza della regalità, l'incenso, profumo che sale al cielo segno di unione Dio, e mirra, profumo raro e prezioso, segno di nobiltà e di pulizia terrena, ma anche di profonda umanità, visto che viene usato anche nei riti di sepoltura.
Longino è confuso da questa atmosfera che si è creata: percepisce che quel bambino avrà un futuro misterioso e decide di donare anche lui qualcosa, ma non ha nulla. Allora prende la lancia e la depone ai piedi di Gesù: un re deve avere potere anche se sarà un re di pace: se non vorrà fare guerre almeno potrà difendersi, e la lancia è l'arma più adatta a tener lontani i nemici. Giuseppe e Maria osservano tutto con grande attenzione mista a sorpresa: anche questi doni sono davvero inaspettati. Poi Giuseppe prende la lancia e la restituisce al soldato.
«Amico soldato, non ti offendere se non accetto il tuo dono. Capisco la tua buona intenzione e te ne sono profondamente grato. Non so cosa diventerà da grande mio figlio, ma prego il Signore che non tocchi mai un'arma e che il suo potere sia solo di amore.»
Longino si guarda intorno ma non vede ombra di rimprovero o di commiserazione, ma solo sguardi di comprensione e di stima, allora riprende la lancia e torna a sedersi sulla sua stuoia silenzioso. C'è qualcosa che gli sfugge, che non riesce a capire, che non riesce ad accettare. È tardi, per tutti c'è bisogno di dormire. Il sonno dei Magi è ricco di emozioni, di presagi, di calcoli astronomici. Quello di Longino è un sonno pesante, un po' disilluso, ma anche affascinato dalla serenità di un incontro inaspettato.
È Gesù che sveglia tutti poco prima dell'alba perché ha fame. Maria lo allatta cantando sottovoce per non disturbare gli ospiti, ma questi sono già svegli. I tre saggi discutono tra si loro sommessamente, mentre Longino accompagna Giuseppe a prendere del latte dai pastori che stanno in una grotta poco lontano. Il cielo è ormai chiaro, è l'ora di salutarsi, ma prima che Gesù si riaddormenti i tre sapienti lo prendono a turno in braccio e lo cullano guardandolo con grande affetto. Sembra che se lo mangino con gli occhi, che vogliano fissare per sempre nella mente l'immagine di quel fanciullo che per loro è così importante. Prima di riconsegnarlo alla madre lo sollevano e tenendolo più alto delle loro teste chinano il capo in segno di omaggio, di sottomissione e di adorazione. Anche il romano saluta con gentilezza e accarezza delicatamente il piccino.
I quattro s'incamminano silenziosamente verso Betlemme, ma dopo poco Baldassarre chiede a Longino: «Cambiamo strada, non torniamo a Gerusalemme, andiamo direttamente ad oriente, torniamo a casa.»
«Ma Erode vi aspetta.»
«E lascia che aspetti: secondo me considera il bambino come un rivale che intralcia i suoi progetti», risponde Gasparre.
«E poi non potrà certamente capire quali possano essere i piani di questo fanciullo: non sono chiari nemmeno per noi!», conclude Melchiorre.
Dopo qualche giorno i Magi salutano il soldato romano e lo rimandano alla sua guarnigione.
«Vai, riferisci al tuo comandante ciò che hai visto: Roma non deve aver paura di un bimbo che parlerà di pace e non di guerra. Il cielo ti benedica buon Longino.»
Passano più di trent'anni, Gesù è stato crocifisso da pochi giorni e a Gerusalemme si è sparsa la voce che è risorto. Alcuni discepoli dicono perfino di averlo visto, di aver mangiato con lui. Nel Cenacolo sono riuniti i suoi apostoli, hanno paura perché c'è chi li ha già minacciati di morte. Il sommo sacerdote e i capi religiosi vogliono chiudere per sempre l'avventura di un maestro, di un profeta troppo scomodo che ha avuto l'ardire di chiamarsi Figlio di Dio: chiunque osa affermare che Gesù è risorto viene imprigionato. Alla porta del Cenacolo qualcuno bussa: è un soldato romano, e subito il terrore si dipinge sul volto degli apostoli. Ma è un volto noto, è il vecchio Longino, il più anziano tra i soldati della guarnigione, rispettato da tutti perché non ha mai abusato del proprio potere.
Appena entrato depone la spada e la lancia per terra e chiede di parlare con Pietro. È qui a titolo personale, spiga subito, non in veste ufficiale. Vuole sapere se è vero quel che dicono di Gesù. Pietro si fida di lui e racconta di averlo visto più volte e di aver assistito alla sua ascensione al cielo in Galilea. Allora Longino si mette a piangere, sommessamente, ma incapace di smettere. Tutti gli apostoli gli sono intorno stupiti cercando di fargli coraggio, poi, finalmente, il vecchio soldato riesce a trattenersi. Viene fatto sedere e comincia il suo racconto.
«Sono io che sul Golgota ho trafitto il costato di Gesù con quella lancia», dice con fatica.
«Ti ho visto, c'ero anch'io - conferma Giovanni - ma non sei stato tu ad ucciderlo, non devi avere rimorsi».
«Lo so, ma non avevo ancora capito nulla, ero deluso per la seconda volta.»
«Non capisco per cosa tu sia rimasto deluso, e soprattutto perché la seconda volta», dice Pietro.
«E' una storia lunga», esordisce il vecchio soldato, quindi racconta il primo incontro con Gesù nella grotta di Betlemme. «Cercavo un re, il più grande dei re, ma ho trovato un bambino, una famiglia meravigliosamente normale, troppo normale per far crescere un re speciale. Ho provato nonostante la mia delusione ad offrirgli tutto ciò che avevo, cioè la mia lancia, ma mi è stata rifiutata, allora ho pensato, a differenza dei tre sapienti, di aver fallito la mia ricerca. È passato tanto tempo da quel giorno. Sono tornato a Roma e dopo parecchi anni son tornato qui e ho sentito parlare di Gesù. L'ho cercato, una volta l'ho persino ascoltato e ne sono rimasto turbato. Forse, pensavo, nonostante tutto poteva essere lui quello che doveva venire, anche se era così diverso da come l'aspettavo. Ma la mia speranza è morta con lui sul Golgota. Non sono io che l'ho ucciso, ma la mia incredulità lo ha trafitto, proprio con quella lancia che più di trent'anni fa lui mi aveva rifiutato. Ma adesso è risorto. Tanti lo dicevano e io non volevo crederci. Eppure questa notizia sconvolgente si è aggrappata al mio cuore e non ha più voluto staccarsi: ho cercato inutilmente di cancellarla, di pensare che era impossibile, che era una solo una voce messa in giro per confondere i più deboli e creduloni. Alla fine mi son deciso a venire da voi, i suoi amici per avere una parola definitiva, ed ora voi mi testimoniate che è vero: è risorto. Solo adesso, finalmente, i miei occhi cominciano a vedere, il mio cuore crede quel che la mia mente ha sempre rifiutato. Comincio adesso a capire che nulla è successo per caso, che tutto, proprio tutto è servito perché il suo disegno si compisse. Quando a Betlemme ho voluto donargli la mia lancia, Gesù non l'ha rifiutata, l'ha accettata ma me l'ha lasciata in custodia fin quando non è servita, sul Golgota. Sì, ha preso anche la mia lancia non per conquistare o comandare, ma solo per donarci il suo sangue fino all'ultima goccia.»
Maria, presente in mezzo al gruppo degli apostoli, non ha perso una sola parola del romano: il suo stupore e la sua commozione sono evidenti. Non apre bocca, come pure nessuno dei dodici, come se volesse ben imprimersi nella memoria quella testimonianza.
Dopo qualche istante di silenzio, Pietro propone di pregare tutti assieme e di ringraziare Dio per il dono di Gesù. Longino si ritira in un angolo della stanza per rispetto delle usanze degli Ebrei. È una preghiera semplice «Benedetto sei tu, Signore, che ci hai donato Gesù, tuo figlio, il quale ha versato il suo sangue per la nostra salvezza ed è risorto dai morti per confermare la nostra fede.»
Nel silenzio che segue alla preghiera si sente un fragore come di un vento che scuote le porte, le finestre si spalancano con frastuono e una luce, come una palla di fuoco entra nel cenacolo e si divide in tante piccole fiamme che scendono sulla testa degli apostoli e sulla Madonna. Ancora una volta Longino è testimone di un evento straordinario ed assiste alla prima predicazione pubblica fatta dagli apostoli per bocca di Pietro dopo la discesa dello Spirito Santo. Nei giorni successivi frequenta assiduamente i dodici, poi dà le dimissioni da soldato e si fa battezzare.
Il soldato romano che trafigge Gesù con la lancia compare anche nei Vangeli Apocrifi: è da queste fonti che abbiamo il suo nome. La tradizione vuole anche che la sua conversione sia stata talmente esemplare da farlo diventare uno dei primi vescovi della Cappadocia, e poi santo martire.
ricerca di Diore magiepifaniacrocifissione
inviato da Guglielmo Morini, inserito il 26/09/2017
TESTO
Carlo Carretto, Deserto in città
Quando partii per il deserto avevo lasciato tutto com'è l'invito di Gesù: situazione, famiglia, denaro, casa. Tutto avevo lasciato meno... le mie idee che avevo su Dio e tenevo ben strette riassunte in qualche grosso libro di teologia che avevo trascinato con me laggiù.
E là sulla sabbia continuavo a leggerle, a rileggerle, come se Dio fosse contenuto in un'idea e avendo belle idee su di Lui potessi comunicare con Lui.
Il mio maestro di noviziato continuava a dirmi: "Fratel Carlo, lascia stare quei libri. Mettiti povero e nudo davanti all'Eucarestia. Svuotati, disintellettualizzati, cerca di amare...contempla...". Ma io non capivo un bel nulla di ciò che volesse dirmi. Restavo ben ancorato alle mie idee.
Per farmi capire, per aiutarmi nello svuotamento mi mandava a lavorare. Mamma mia! Lavorare nell'oasi con un caldo infernale non è facile! Mi sentivo distrutto. Quando tornavo in fraternità non ne potevo più.
Mi buttavo sulla stuoia nella cappella davanti al Sacramento con la schiena spezzata e la testa che mi faceva male. Le idee si volatilizzavano come uccelli fuggiti dalla gabbia aperta. Non sapevo più come cominciare a pregare. Arido, vuoto, sfinito: dalla bocca usciva solo qualche lamento.
L'unica cosa positiva che provavo e che cominciavo a capire era la solidarietà con i poveri, i veri poveri. Mi sentivo con chi era alla catena di montaggio o schiacciato dal peso del giogo quotidiano. Pensavo alla preghiera di mia madre con cinque figli tra i piedi e ai contadini obbligati a lavorare dodici ore al giorno d'estate.
Se per pregare era necessario un po' di riposo, quei poveri non avrebbero mai potuto pregare. La preghiera, quindi, quella preghiera che avevo con abbondanza praticato fino ad allora, era la preghiera dei ricchi, della gente comoda e ben pasciuta, che è padrona del suo tempo, che può disporre del suo orario.
Non capivo più niente, o meglio, incominciavo a capire le cose vere. Piangevo!
E fu proprio in quello stato di autentica povertà che io dovevo fare la scoperta più importante della mia vita di preghiera. Volete conoscerla?
La preghiera passa per il cuore, non per la testa.
Sentii come se una vena si aprisse nel cuore e per la prima volta sperimentai una dimensione nuova dell'unione con Dio. Che avventura straordinaria mi stava capitando. Non dimenticherò mai quell'istante. Ero come un'oliva schiacciata dal torchio. Al di là della "sofferenza", che dolcezza indicibile mi inondava tutta la realtà in cui vivevo.
La pace era totale. Il dolore accettato per amore era come una porta che mi aveva fatto transitare al di là delle cose. Ho intuito la stabilità di Dio.
Ho sempre pensato, dopo di allora, che quella era la preghiera contemplativa.
preghieracontemplazionepoveripovertàrapporto con Diolavoro
inviato da Qumran2, inserito il 30/06/2017
PREGHIERA
4. Visita al Santissimo Sacramento 1
Ti adoro, o mio Salvatore,
qui presente quale Dio e quale uomo,
in anima e in corpo,
in vera carne e vero sangue.
Io riconosco e confesso
di essere inginocchiato
innanzi a quella sacra umanità,
che fu concepita nel seno di Maria,
e riposò in grembo a Maria;
che crebbe fino all'età virile,
e sulle rive del mare di Galilea chiamò i Dodici,
operò miracoli
e disse parole di sapienza e di pace;
che quando fu l'Ora sua,
morì appesa alla croce,
stette nel sepolcro,
risuscitò da morte
ed ora regna in cielo.
Lodo e benedico e offro tutto me stesso
a Colui che è il vero Pane dell'anima mia
e la mia eterna gioia. Amen.
adorazione eucaristicaeucaristiaadorazione
inviato da Qumran, inserito il 29/10/2014
RACCONTO
Min-Hi era una graziosa e simpatica cinesina di dodici anni che viveva con la mamma e il papà in un villaggio al margine della foresta. Il compleanno di Min-Hi coincideva con la stagione calda, quando il sole scottava e la gente andava in cerca di ombra. Perciò, per il suo compleanno, ricevette in regalo un bel parasole.
«Posso andare a fare una passeggiata col mio nuovo parasole?», chiese alla mamma.
«Va bene, stai attenta però, e torna presto!».
Min-Hi stava camminando sul ciglio di una risaia, quando vide un enorme gorilla dondolarsi su un albero con le braccia penzoloni.
«Povera me! Non mi resta che nascondermi dietro il mio parasole e aspettare che mi acchiappi», pensò Min-Hi. E, tremando tutta, si rincantucciò dietro il parasole. Ma non accadde niente... proprio niente! Quando fece capolino, tutto era tranquillo e non c'era traccia del gorilla!
Non aveva fatto molta strada, quando intravide una grande ombra aggirarsi minacciosa fra i cespugli. Era un'enorme tigre che puntava silenziosamente verso di lei.
«Oh, povera me! Non mi resta che nascondermi dietro il mio parasole e aspettare che mi acchiappi», pensò sgomenta. E, tremando tutta, si accoccolò dietro il parasole. Ma non successe nulla... decisamente nulla. Quando fece capolino, tutto era tranquillo e non c'era traccia di tigre.
Non era andata molto più lontano quando un'ombra nera sulla sua testa la fece guardare in alto. Su di lei stava calando un grosso uccello dalle enormi ali spiegate, con un becco adunco e gli unghioni affilati.
«Oh, povera me! Non mi resta che nascondermi sotto il mio parasole e aspettare che mi acchiappi», pensò terrorizzata. E tremando tutta si fece piccola sotto il parasole. Ma non successe nulla... assolutamente nulla. Quando fece capolino, tutto era tranquillo e non c'era traccia dell'aquila.
Quando Min - Hi tornò a casa, raccontò alla mamma le sue tremende avventure.
«Ma hai guardato cosa c'è sul tuo parasole?», le chiese la mamma.
Min - Hi lo aprì e fece un salto per lo spavento.
Sopra il parasole c'era dipinto un drago coloratissimo e terrificante, con enormi artigli e narici fiammeggianti.
«Hai visto?» le chiese la mamma, «Contro il tuo potentissimo drago non c'è gorilla, tigre o rapace che tenga».
E aggiunse: «Il tuo parasole, farai bene a portarlo sempre con te».
E da quel giorno, Min - Hi non se lo fece certo dire due volte.
inserito il 20/09/2013
TESTO
6. La bisaccia del cercatore 2
Tonino bello, La bisaccia del cercatore, ediz. La meridiana
Se io fossi un contemporaneo di Gesù, se fossi uno degli Undici ai quali Gesù, nel giorno dell'Ascensione, ha detto: "Lo Spirito santo verrà su di voi e riceverete da lui la forza per essermi miei testimoni in Gerusalemme e in tutta la Giudea, la Samaria e fino all'estremità della terra" (At 1,8), nell'atto di congedarmi dai fratelli, sapete cosa avrai preso con me? Innanzitutto il bastone del pellegrino e poi la bisaccia del cercatore e nella bisaccia metterei queste cinque cose: un ciottolo del lago; un ciuffo d'erba del monte; un frustolo di pane, magari di quello avanzato nelle dodici sporte nel giorno del miracolo; una scheggia della croce; un calcinaccio del sepolcro vuoto. E me ne andrei così per le strade del mondo, col carico di questi simboli intensi, non tanto come souvenir della mia esperienza con Cristo, quanto come segnalatori di un rapporto nuovo da instaurare con tutti gli abitanti, non solo della Giudea e della Samaria, non solo dell'Europa, ma di tutto il mondo: fino agli estremi confini della terra. Ecco, io prenderei queste cose. Ma anche il credente che voglia obbedire al comando missionario di Gesù dovrebbe prendere con sé queste stesse cose.
segnifedecredereobbedienzamissioneevangelizzazionelibertàinterioritàesterioritàtestimonianzaascensione
inviato da Don Fabio Sgaria, inserito il 23/09/2012
PREGHIERA
Maria,
tu eri tutta ascolto...
Per questo hai potuto rispondere "sì"
alla volontà di Dio.
Con te vogliamo ascoltare la Parola.
Dacci la tua fede per rispondere:
"Sia fatto di me secondo la tua Parola".
Tu eri piena di gioia...
per questo hai potuto cantare
le meraviglie di Dio.
Con te vogliamo gioire.
Dacci la tua speranza
per scoprire che già gli affamati
sono saziati
e i ricchi vanno a mani vuote.
Tu eri colma di dolore...
per questo hai potuto stare ai piedi della croce.
Con te anche noi
vogliamo stare in piedi
accanto al dolore del mondo.
Dacci la tua compassione per stare là,
accanto a quelli che soffrono.
Tu eri carica di attesa...
per questo hai potuto, con i Dodici,
accogliere lo Spirito.
Con te noi lasciamo
che questo Spirito ci invada.
Dacci il tuo amore per la comunità
perché possiamo uscire
ad incontrare i nostri fratelli.
MariaMadonnaattesafedesperanza
inviato da P. Vincenzo Di Blasio Pms, inserito il 24/06/2012
TESTO
Tonino Bello, Dalla testa ai piedi
Carissimi,
Io non so se nell'ultima cena, dopo che Gesù ebbe ripreso le vesti, qualcuno dei dodici si sia alzato da tavola e con la brocca, il catino e l'asciugatoio si sia diretto a lavare i piedi del maestro. Probabilmente no. C'è da supporre comunque che dopo la sua morte ripensando a quella sera, i discepoli non abbiano fatto altro che rimproverarsi l'incapacità di ricambiare la tenerezza del Signore.
Possibile mai, si saranno detti, che non ci è venuto in mente di strappargli dalle mani quei simboli del servizio, e di ripetere sui suoi piedi ciò che egli ha fatto con ciascuno di noi? Dovette essere così forte il disappunto della Chiesa nascente per quella occasione perduta, che, quando Gesù apparve alle donne il mattino della risurrezione, esse non seppero fare di meglio che lanciarsi su quei piedi e abbracciarli. "Avvicinatesi, gli cinsero i piedi e lo adorarono". Ce lo riferisce Matteo, nell'ultimo capitolo del suo Vangelo. Gli cinsero i piedi. Non gli baciarono le mani o gli strinsero il collo. No.
Gli cinsero i piedi! Erano già bagnati di rugiada. Glieli asciugarono, allora con l'erba del prato e glieli scaldarono col tepore dei loro mantelli. Quasi per risarcire il maestro, sia pure a scoppio ritardato, di una attenzione che la notte del tradimento gli era stata negata. Gli cinsero i piedi. Fortunatamente avevano portato con sé profumi per ungere il corpo di Gesù. Forse ne ruppero le ampolle di alabastro e in un rapimento di felicità riversarono sulle caviglie del Signore gli olii aromatici che furono subito assorbiti da quei fori: profondi e misteriosi, come due pozzi di luce.
Gli cinsero i piedi. Finalmente! Verrebbe voglia di dire. Ma chi sa in quel ritardo ci doveva essere anche tanto pudore. Forse la chiesa nascente rappresentata dalle due Marie prima di cadergli davanti nel gesto dell'adorazione aveva voluto aspettare di proposito che Gesù riprendesse davvero le vesti. Non quelle che aveva momentaneamente deposto prima della lavanda. Ma quelle veramente inconsutili del suo corpo glorioso. Carissimi fratelli, oggi voglio dirvi che la Pasqua è tutta qui. Nell'abbracciamento di quei piedi. Essi devono divenire non solo il punto di incontro per le nostre estasi d'amore verso il Signore, ma anche la cifra interpretativa di ogni servizio reso alla gente, e la fonte del coraggio per tutti i nostri impegni di solidarietà con la storia del mondo.
Non c'è da illudersi. Senza questa dimensione adorante, espressa dal gruppo marmoreo di donne protese dinanzi al risorto, saremo capaci di organizzare solo girandole appariscenti di sussulti pastorali. Se non afferriamo i piedi di Gesù, lavare i piedi ai marocchini, o agli sfrattati, o ai tossici, non basta.
Non basta neppure lavarsi i piedi a vicenda, tra compagni di fede. Se la preghiera non ci farà contemplare speranze ultramondane attraverso quei fori lasciati dai chiodi, battersi per la giustizia, lottare per la pace e schierarsi con gli oppressi, può rimanere solo un'estenuante retorica. Se, caduti in ginocchio, non interpelleremo quei piedi sugli orientamenti ultimi per il nostro cammino, giocarsi il tempo libero nel volontariato rischia di diventare ricerca sterile di sé e motivo di vanagloria. Se l'adorazione dinnanzi all'ostensorio luminoso di quelle stigmate non ci farà scavalcare le frontiere delle semplici liberazioni terrene, impegnarsi per le promozione dei poveri potrà sfiorare perfino il pericolo dell'esercizio di potere. Non basta avere le mani bucate. Ci vogliono anche i piedi forati. E' per questo che quando Gesù apparve ai discepoli la sera di Pasqua "mostrò loro le mani e i piedi".
E poi, quasi per sottolineare con la simbologia di quei due moduli complementari che senza l'uno o l'altro, ogni annuncio di risurrezione rimarrà sempre mortificato, aggiunse: "Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io".
Mani e piedi, con tanto di marchio! Ecco le coordinate essenziali per ricostruire la carta d'identità del risorto. Mani bucate. Richiamo a quella inesauribile carità verso i fratelli, che si fa donazione a fondo perduto. Piedi forati.
Appello esigente a quell'amore verso il Signore, che ci fa scorgere il senso ultimo delle cose attraverso le ferite della sua carne trasfigurata.
pasquaresurrezionerisortorisurrezioneserviziovolontariato
inviato da Qumran2, inserito il 07/04/2012
RACCONTO
(Sara, 12 anni, figlia di Giairo, capo della Sinagoga di Cafarnao, cfr. Mc. 5,21-43)
"...Gesù!"
Il tuo nome è l'ultima parola che ho afferrato prima di morire. "Vado a chiamare Gesù", così ripeteva mio papà, lasciandomi per venire a cercarti.
"È arrivato tardi", mormoravano a bocca stretta, i miei vicini di casa; ero già morta, infatti, quando sei arrivato. Avevo dodici anni. "La bambina dorme, ora la sveglio", ti sentirono dire, chiusi nel loro silenzio, ti disprezzarono.
Tenendomi la mano, tu hai detto: "Talità kum!". "Fanciulla, io te lo ordino, alzati!" Non so dove la tua voce mi ha raggiunto; non so come hai fatto a trovarmi. Come un gigante tu hai attraversato, vittorioso, il buio della mia morte. Ho dischiuso gli occhi e ho visto il tuo volto: forte e sorridente.
Ma una ruga ti si formò in mezzo alla fronte, all'improvviso, come una ferita! Tu hai detto: "Datele da mangiare"; contenti ti hanno obbedito; ma io non avrei mai distolto i miei occhi dai tuoi.
Così ho ricominciato a vivere: grazie a te. "E' grazie a Gesù - spiegavo a tutti - se sono di nuovo viva". Mio papà e io non ti abbiamo più lasciato: due anni incredibili vissuti vicino a te. Quanta strada abbiamo fatto insieme a te; quante parole, quanti silenzi, quanti malati guariti, quanti lebbrosi sanati, quanti peccatori perdonati, quanti afflitti consolati, quanti sorrisi restituiti: e ogni volta sul tuo bel volto, una ruga, una ferita in più.
Mi sono sentita perduta il giorno che ti hanno arrestato. Perché farti del male, a te che hai fatto sempre del bene? Perché far del male al mio Gesù? Perché ti hanno flagellato? Perché coprire di sputi il tuo volto così bello? Perché ti hanno preso a schiaffi? Ti hanno messo perfino una corona di spine: perché trattare così il mio Re?
Papà mi ha detto che ti hanno inchiodato a una croce; che ci hai perdonato; che tua mamma era presente; che, prima di morire, anche tu hai chiamato tuo Padre; che il tuo viso era tutto una ferita.
Li ho visti, quel venerdì sera, i tuoi discepoli; vergognosi, tornavano dal Calvario impauriti, sconvolti, disperati. "E' la fine", dicevano, "è la fine". Ma io non potevo rassegnarmi; non potevo dimenticare, io: la mia carne ricordava. Io sapevo, io, che il tuo amore è più forte della morte.
M'hanno detto che sei risuscitato, che ti hanno incontrato: prima alcune donne, poi Pietro, Giovanni e tanti altri. Sono felici! Sembrano rinati! Come li capisco!
Io non ti ho ancora visto; sei salito in cielo: forse non ti vedrò più; ma non importa: le mie notti e i miei giorni sono fatti di te. Eppure, quanta voglia di ascoltarti, di abbracciarti, di vederti.
E' curioso: a volte mi sorprendo a pensare a te, a parlare con te, tanto è grande il desiderio che ho di te; allora chiudo gli occhi per ritrovare il tuo volto; è così grande il desiderio che... vorrei morire... per essere sempre con te, mio Gesù.
pasquacalvariorisurrezioneresurrezionerisortomortevitavita eterna
inviato da Marcello Rosa, inserito il 04/03/2008
TESTO
Carissimi, cenere in testa e acqua sui piedi.
Una strada, apparentemente, poco meno di due metri. Ma, in verità, molto più lunga e faticosa. Perché si tratta di partire dalla propria testa per arrivare ai piedi degli altri. A percorrerla non bastano i quaranta giorni che vanno dal mercoledì delle ceneri al giovedì santo. Occorre tutta una vita, di cui il tempo quaresimale vuole essere la riduzione in scala.
Pentimento e servizio. Sono le due grandi prediche che la Chiesa affida alla cenere e all'acqua, più che alle parole. Non c'è credente che non venga sedotto dal fascino di queste due prediche. Le altre, quelle fatte dai pulpiti, forse si dimenticano subito. Queste, invece, no: perché espresse con i simboli, che parlano un "linguaggio a lunga conservazione".
È difficile, per esempio, sottrarsi all'urto di quella cenere. Benché leggerissima, scende sul capo con la violenza della grandine. E trasforma in un'autentica martellata quel richiamo all'unica cosa che conta: "Convertiti e credi al Vangelo". Peccato che non tutti conoscono la rubrica del messale, secondo cui le ceneri debbono essere ricavate dai rami d'ulivo benedetti nell'ultima domenica delle palme. Se no, le allusioni all'impegno per la pace, all'accoglienza del Cristo, al riconoscimento della sua unica signoria, alla speranza di ingressi definitivi nella Gerusalemme del cielo, diverrebbero itinerari ben più concreti di un cammino di conversione. Quello "shampoo alla cenere", comunque, rimane impresso per sempre: ben oltre il tempo in cui, tra i capelli soffici, ti ritrovi detriti terrosi che il mattino seguente, sparsi sul guanciale, fanno pensare per un attimo alle squame già cadute dalle croste del nostro peccato.
Così pure rimane indelebile per sempre quel tintinnare dell'acqua nel catino. È la predica più antica che ognuno di noi ricordi. Da bambini, l'abbiamo "udita con gli occhi", pieni di stupore, dopo aver sgomitato tra cento fianchi, per passare in prima fila e spiare da vicino le emozioni della gente. Una predica, quella del giovedì santo, costruita con dodici identiche frasi: ma senza monotonia. Ricca di tenerezze, benché articolata su un prevedibile copione. Priva di retorica, pur nel ripetersi di passaggi scontati: l'offertorio di un piede, il levarsi di una brocca, il frullare di un asciugatoio, il sigillo di un bacio.
Una predica strana. Perché a pronunciarla senza parole, genuflesso davanti a dodici simboli della povertà umana, è un uomo che la mente ricorda in ginocchio solo davanti alle ostie consacrate.
Miraggio o dissolvenza? Abbaglio provocato dal sonno, o simbolo per chi veglia nell'attesa di Cristo? "Una tantum" per la sera dei paradossi, o prontuario plastico per le nostre scelte quotidiane? Potenza evocatrice dei segni!
Intraprendiamo, allora, il viaggio quaresimale, sospeso tra cenere e acqua.
La cenere ci bruci sul capo, come fosse appena uscita dal cratere di un vulcano. Per spegnerne l'ardore, mettiamoci alla ricerca dell'acqua da versare... sui piedi degli altri.
Pentimento e servizio. Binari obbligati su cui deve scivolare il cammino del nostro ritorno a casa.
Cenere e acqua. Ingredienti primordiali del bucato di un tempo. Ma, soprattutto, simboli di una conversione completa, che vuole afferrarci finalmente dalla testa ai piedi.
Un grande augurio.
mercoledì delle ceneriquaresimapentimentoserviziopenitenzaGiovedì Santolavanda dei piedi
inviato da Sandra Aral, inserito il 05/02/2008
RACCONTO
Bruno Ferrero, Ma noi abbiamo le ali
C'era una volta un re molto triste che aveva un servo molto felice che circolava sempre con un grande sorriso sul volto. «Paggio», gli chiese un giorno il re, «qual è il segreto della tua allegria?».
«Non ho nessun segreto. Signore, non ho motivo di essere triste. Sono felice di servirvi. Con mia moglie e i miei figli vivo nella casa che ci è stata assegnata dalla corte. Ho cibo e vestiti e qualche moneta di mancia ogni tanto».
Il re chiamò il più saggio dei suoi consiglieri: «Voglio il segreto della felicità del paggio!».
«Non puoi capire il segreto della sua felicità. Ma se vuoi, puoi sottrargliela».
«Come?».
«Facendo entrare il tuo paggio nel giro del novantanove».
«Che cosa significa?».
«Fa' quello che ti dico...».
Seguendo le indicazioni del consigliere, il re preparò una borsa che conteneva novantanove monete d'oro e la fece dare al paggio con un messaggio che diceva: «Questo tesoro è tuo. Goditelo e non dire a nessuno come lo hai trovato».
Il paggio non aveva mai visto tanto denaro e pieno di eccitazione cominciò a contarle: dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta... novantanove! Deluso, indugiò con lo sguardo sopra il tavolo, alla ricerca della moneta mancante. «Sono stato derubato!» gridò. «Sono stato derubato! Maledetti!».
Cercò di nuovo sopra il tavolo, per terra, nella borsa, tra i vestiti, nelle tasche, sotto i mobili... Ma non trovò quello che cercava.
Sopra il tavolo, quasi a prendersi gioco di lui, un mucchietto di monete splendenti gli ricordava che aveva novantanove monete d'oro. Soltanto novantanove. «Novantanove monete. Sono tanti soldi», pensò. «Ma mi manca una moneta. Novantanove non è un numero completo» pensava. «Cento è un numero completo, novantanove no».
La faccia del paggio non era più la stessa. Aveva la fonte corrugata e i lineamenti irrigiditi. Stringeva gli occhi e la bocca gli si contraeva in una orribile smorfia, mostrando i denti.
Calcolò quanto tempo avrebbe dovuto lavorare per guadagnare la centesima moneta, avrebbe fatto lavorare sua moglie e i suoi figli. Dieci dodici anni, ma ce l'avrebbe fatta! Il paggio era entrato nel giro del novantanove...
Non passò molto tempo che il re lo licenziò. Non era piacevole avere un paggio sempre di cattivo umore.
E se ci rendessimo conto, così di colpo, che le nostre novantanove monete sono il cento per cento del tesoro. E che non ci manca nulla, nessuno ci ha portato via nulla, il numero cento non è più rotondo del novantanove. È soltanto un tranello, una carota che ci hanno messo davanti al naso per renderci stupidi, per farci tirare il carretto, stanchi, di malumore, infelici e rassegnati. Un tranello per non farci mai smettere di spingere.
Quante cose cambierebbero se potessimo goderci i nostri tesori così come sono.
tesorodenarocupidigiaavariziafelicitàinterioritàesterioritàgratitudinesoldibeni materiali
inserito il 25/11/2007
TESTO
A volte critichiamo la mancanza di fede degli altri. Non siamo capaci di comprendere le circostanze in cui essi hanno perduto la fede, e non cerchiamo neppure di alleviare la loro miseria che è il motivo che genera la ribellione e l'incredulità nel potere divino.
L'umanista Robert Owen (1771-1858) stava attraversando l'interno dell'Inghilterra, parlando di Dio. Nel XIX secolo era comune servirsi della mano d'opera infantile nei lavori pesanti e, un pomeriggio, Owen si fermò nei pressi di una miniera di carbone, dove un ragazzino di dodici anni, denutrito, trasportava un pesante sacco. "Sono qui per aiutarti a parlare con Dio", disse Owen. "Grazie tante, ma non lo conosco. Deve lavorare in un'altra miniera", fu la risposta del ragazzino.
fedeassenza di fedeateismopovertàingiustiziasfruttamentoincredulità
inviato da Qumran2, inserito il 10/09/2006
TESTO
San Luigi Orione, Nel nome della Divina Provvidenza, Ed.Piemme
L'Opera della Divina Provvidenza è cominciata sette anni fa in un giorno di quaresima, e propriamente con un po' di Catechismo ad un ragazzo che piangeva, fuggito d'in chiesa.
Quel figliolo divenne poi buono e più cristiano, ed ora, benché soldato, ricorda ancora con piacere quel giorno tempestoso e felice per li.
Ma e dopo lui quanti figliuoli col Catechismo e colla grazia del Signore divennero più buoni e più cristiani!
Ah l'efficacia del Catechismo! Sapete o figliuoli, che cosa sia e che cosa importi il Catechismo?
Gesù trasformò da capo a fondo la società: la trasformò nelle idee, nei costumi, nelle leggi, in tutto.
E con qual mezzo visibile? Con un mezzo semplicissimo. Udite. Chiamò intorno a sé dodici poveri pescatori e, dopo avere per tre anni scritto il Catechismo nella loro mente e nel loro cuore, disse: "Andate, ammaestrate tutti i popoli: insegnate loro ciò che io ho insegnato a voi, e i vostri successori proseguano l'opera vostra fino al termine de' tempi".
E così fecero, e il mondo divenne cristiano. (...)
Volete forse il segreto per guadagnarvi l'affetto e trascinarvi dietro le turbe dei ragazzi? Eccovelo, il grande segreto: vestite la carità di Gesù Cristo!
Per piantare e tenere viva l'opera del Catechismo una cosa sola basta: la carità viva di Gesù! Tutti gli ostacoli cadono, tutto si ottiene, quando chi fa il Catechismo ha la carità di Gesù Cristo.
Se sarete scelti dall'alto privilegio di aiutare il vostro parroco a fare il Catechismo, domandate al Signore che vi dia carità grande.
Quella carità paziente e benigna, umile, garbata, che tutto soffre, tutto spera, tutto sostiene, e non viene mai meno.
Ripieni di questa carità, andate in cerca dei fanciulli che la domenica specialmente vanno errando per le vie e per le piazze, guadagnateli con questa carità: non stancatevi mai, dissimulate i difetti, sappiate soffrire e compatire tanto.
Abbiate un sorriso, una parola soave, amabile per tutti, senza differenze, o figli miei, fatevi tutti a tutti per portare tutte le anime a Gesù. Siate pronti per un'anima a dare la vita e a dare mille vite per un'anima! Colla dolcezza di Gesù voi, o cari figliuoli, vincerete e guadagnerete tutti i fanciulli del vostro paese.
La carità del Signore Nostro Crocifisso, ecco il segreto, anime dei miei figli e de' miei fratelli, ecco l'arte di tirare a noi, di toccare i cuori, di convertire, di illuminare e di educare i fanciulli, speranza dell'avvenire e delizia del Cuore di Dio!
Carità viva! Carità grande! Carità sempre! E rinnoveremo la gioventù! Oh quanti poveri figliuoli ho conosciuto sviati, disonesti, arrabbiati contro noi preti... che ci odiavano senza conoscerci,... giovani creduti incorreggibili..., eppure non avevano bisogno che d'una buona parola, d'una parola santa di carità, di uno sguardo dolce per essere vinti!
Carità viva! Carità grande! Carità sempre! Colla carità faremo tutto, senza la carità faremo niente!
Oh vieni! O carità santa e ineffabile di Gesù e vinci e guadagna il cuore i tutti e vivi grande e affocata nella povera anima mia!
caritàcatechismoragazzigioventùeducareeducatori
inviato da Sabrina Murzi, inserito il 19/06/2005
RACCONTO
Bruno Ferrero, Nuove storie
Il paese di Dolceacqua era il più sereno e pacifico della terra. Come scrivono nei loro libri gli scrittori, era un paesino davvero "ridente". Tutto procedeva bene finché una notte blu, per le vie deserte, si sentì uno strano "toc toc, toc toc, toc toc...", accompagnato da un ansimare cupo e raschiante. Solo qualche coraggioso si affacciò alla finestra.
Un bisbigliare concitato cominciò a rincorrersi dietro le persiane.
"E' un forestiero".
"Un gigante...".
"Mamma mia, quant'è brutto!".
"Ha l'aria feroce...".
"E' un mostro! Divorerà i bambini".
Lo sconosciuto camminava curvo sotto il peso di un grosso sacco. Aveva gli occhi gialli, la barba irsuta e verde, le unghie lunghe e curve. Ogni tanto era costretto a fermarsi per soffiarsi il naso: doveva avere un terribile raffreddore. Ecco perché ansimava e tossiva come un vecchio mantice sforacchiato.
C'era, al fondo del paese, a due passi dal bosco, una profonda caverna nera. Il mostro, non trovando niente di meglio, ci si installò.
Nell'osteria del paese si riunirono il giorno dopo tutti, anche le nonne, le mamme e i bambini.
"Io l'ho visto bene e da vicino: è terribile".
"L'ho guardato negli occhi: fanno paura".
"Sputa fiamme dalle narici!".
"Io ho sentito il suo ruggito: tremo ancora tutta" gorgheggiò Maria Rosa, la più bella ragazza del paese. Tutti i giovanotti sospirarono.
"E' il diavolo" disse una nonna.
"Ma che diavolo! E' un orco mangia-uomini... poveri noi!", singhiozzò una vecchietta.
"Bhé, se mangia gli uomini, tu non dovresti preoccuparti!" sghignazzò Battista, il buffone del villaggio.
"Io l'ho visto da vicino vicino" disse Simone, un ragazzetto di dodici anni.
"Anch'io, ero con lui" gli fece eco la sorellina Liliana.
"Ecco, anche i bambini" brontolò Sebastiano, il sindaco. "E dite, ditelo voi, come era quel mostro. Faceva paura, non è vero?".
"No" disse Simone.
"Non faceva paura" disse Liliana. E aggiunse: "Era solo diverso da noi".
Se ne andarono tutti a casa e, mentre camminavano in fretta per le strade silenziose, avevano una gran paura di incontrarsi faccia a faccia con il mostro. Sbirciavano in su, verso il bosco. Dove si intravedeva la gran bocca nera della caverna in cui era andato ad abitare il mostro.
Proprio in quel momento, ingigantito dall'eco della caverna, si udì un tremendo, roboante starnuto.
"E' il mostro! Aiuto!", e strillando a più non posso tutti si rifugiarono in casa e chiusero a tripla mandata tutte le serrature che trovarono.
Le mamme rimboccarono le coperte ai bambini.
"Non abbiate paura, qui siamo al sicuro". I papà chiusero le finestre e misero un robusto randello dietro alla porta.
"Se osa venire da queste parti, dovrà vedersela con noi".
Nei giorni seguenti, a Dolceacqua, la vita riprese normalmente. I papà e le mamme al lavoro, i bambini a scuola, Maria Rosa davanti allo specchio a mettere i bigodini ai suoi bei capelli color del grano. I giovanotti la sbirciavano e sospiravano.
Quasi tutti si erano dimenticati del mostro, che, a onor del vero, non dava fastidio a nessuno. Solo, ogni tanto, si udiva un rumore terribile.
La gente diceva; "Tò, il mostro starnuta, S'è di nuovo raffreddato", e tornavano alle loro occupazioni.
Un giorno un camion carico di mattoni passò troppo velocemente su una buca della strada e perse due mattoni. Tommaso, un ragazzino che passava di là, si fermo e ne raccolse uno. Samuele, un suo amico che usciva dalla scuola, dove si era fermato a finire i compiti, lo vide. "Ehi, Tom! Che cosa vuoi fare con quel mattone?".
"Ho voglia di andare a tirarlo sulla testa del mostro che abita la caverna nera. Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese".
Samuele replicò ridendo: "Scommettiamo che non hai il coraggio?".
Ma Tommaso se ne andava tutto impettito con il suo mattone in mano.
Samuele raccolse l'altro mattone: "E' vero, non abbiamo bisogno di quel mostro, qui. Aspettami, Tom, vengo con te".
Tommaso disse: "D'accordo, ma l'idea è stata mia e sono io che tirerò il primo mattone!".
Un contadino appoggiato alla staccionata del suo prato li vide passare: "Dove andate?".
Tommaso spiegò: "Andiamo a buttare questi mattoni sulla testa del mostro che abita lassù, nella caverna nera".
Il contadino disse: "Per me non avrete il coraggio. E poi, come farete a far uscire il mostro dalla caverna? E' sempre rintanato dentro e lo si sente solo starnutire qualche volta".
"Griderò: 'Vieni fuori, mostro!'. Dovrà ben uscire", dichiarò Tommaso.
Il contadino borbottò: "Aspettate un attimo, ho un mattone che mi serve a tener aperta la porta; lo prendo e vengo con voi. Non abbiamo bisogno di mostri qui".
Tommaso, Samuele e il contadino se ne andarono insieme con un mattone sotto il braccio. Passarono accanto all'orto della signora Zucchini.
"Dove andate?" chiese la signora Zucchini quando li vide.
"Andiamo a gettare questi mattoni sulla testa del mostro che abita nella caverna nera" rispose Tommaso.
La signora Zucchini sogghignò: "Non ne avrete il coraggio. Dicono che sia orribile e peloso. E poi, dopotutto, non dà fastidio a nessuno".
Tommaso e Samuele protestarono: "Non importa, non abbiamo bisogno di un mostro qui".
"Scapperà come un coniglio e noi diventeremo gli eroi del paese" aggiunse il contadino.
"Vengo anch'io" decise la signora Zucchini. "Ho qualche mattone in un angolo; chiamerò anche i miei sette figli: voglio che anche loro siano degli eroi".
Quando i sette bambini arrivarono, il più grande domandò: "Non c'è nessuno che voglia abitare nella caverna nera: perché non la lasciamo al mostro?".
La madre gli rispose: "Perché è un mostro, tutto qui. Allora taci, prendi un mattone e seguici".
Piano piano si formò una lunga coda di gente con un mattone in mano. Chiudeva la fila il maestro con tutti i bambini della scuola. Il sindaco ordinò che tutti gli abitanti di Dolceacqua prendessero un mattone dal vicino cantiere e si mettessero in marcia per tirarlo sulla testa del mostro che abitava nella caverna nera.
"Lo faremo scappare nel paese vicino" gridò la signora Zucchini. "L'abbiamo tenuto abbastanza, noi! Che vada a disturbare gli altri, adesso!".
Tutti gridarono: "Urrà, bene! Non abbiamo bisogno di mostri in questo paese".
E si misero in marcia verso la caverna nera.
Proprio quel giorno, il mostro aveva deciso di pigrottare un po' di più a letto e di terminare il suo libro preferito, facendo colazione con succo d'arancia e due uova al tegamino.
Improvvisamente sentì un rumore di passi e il vociare di persone che si avvicinavano e pensò: "Finalmente una visita! E' tanto tempo che sono solo!".
Saltò giù dal letto, si mise una camicia pulita e la cravatta, si lavò ben bene anche dietro le orecchie e si pulì i denti con spazzolino e dentifricio. Poi aprì la porta e uscì, salutando tutti con un gran sorriso. Tutti gli abitanti di Dolceacqua si fermarono impietriti: Tommaso, Samuele, il contadino, la signora Zucchini e i suoi sette figli, i vicini, il sindaco, il maestro e i bambini della scuola. Sembravano delle belle statuine.
Il mostro sorrise ancora e li invitò: "Entrate, entrate. Ho appena fatto il caffè". Tutti i suoi denti brillavano, ne aveva tanti e molto appuntiti. Il mostro insisteva: "Entrate, per piacere, sono così contento di vedervi!".
Ma nessuno capiva la lingua del mostro. Sentivano solo dei terribili grugniti e dei suoni che facevano accapponare la pelle. Lasciarono cadere i mattoni e se la diedero a gambe, correndo a più non posso.
Nella confusione la piccola Liliana si prese una brutta storta alla caviglia, ma nessuno senti il suo "Ahia!". Erano tutti troppo occupati a fuggire.
Così il mostro si trovò, un po' imbarazzato, a contemplare un mucchio di mattoni e una bambina con i lacrimoni perché aveva male alla caviglia.
Il mostro corse in casa e prese la valigetta del pronto soccorso. In quattro e quattr'otto, spalmò sulla caviglia di Liliana la pomata "Baciodimamma" che fa guarire tutto, la fasciò con cura e asciugò le lacrime della bambina.
Intanto gli abitanti erano arrivati ansimanti nella piazza centrale. Non ebbero tempo di riprendere fiato. Una voce gridò: "Il mostro ha preso Liliana!".
"Se la mangerà" strillò la signora Zucchini.
"Corriamo a liberarla" disse un coraggioso. Ripresero tutti la strada della caverna nera. Ben decisi stavolta a liberare la piccola Liliana. Quando arrivarono trovarono il mostro e Liliana che giocavano a dama, ridendo, scherzando e bevendo una cioccolata calda dal profumo delizioso.
"Ooooh" dissero tutti insieme.
"Ah! Siete tornati, meno male", disse il mostro. "Non ero riuscito a ringraziarvi del vostro splendido regalo. La caverna è umida e malsana e perciò sono sempre raffreddato. Con i mattoni che mi avete portato mi costruirò una bella casetta. Grazie, davvero, di cuore".
Chissà come, questa volta la gente capì il discorso del mostro.
E lo aiutarono tutti a costruire una graziosa casetta in fondo al paese.
Il più felice era Tommaso, che alla fine disse: "Avete visto che ho fatto uscire il mostro dalla caverna nera?".
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inviato da Simone Ferretti, inserito il 02/04/2003
RACCONTO
Tutti, i giorni, finita la scuola, i bambini andavano a giocare nel giardino del gigante. Era un giardino grande e bello coperto di tenera erbetta verde. Qua e là sulla erbetta, spiccavano fiori simile a stelle; in primavera i dodici peschi si ricoprivano di fiori rosa perlacei e, in autunno, davano i frutti. Gli uccelli si posavano sugli alberi e cantavano con tanta dolcezza che i bambini sospendevano i loro giochi per ascoltarli.
- Quanto siamo felici qui! - si dicevano.
Un giorno il gigante ritornò. Era stato a far visita al suo amico, il mago di Cornovaglia, e la sua visita era durata sette anni. Alla fine del settimo anno, aveva esaurito quanto doveva dire perché la sua conversazione era assai limitata, e decise di far ritorno al castello. Al suo arrivo vide i bambini che giocavano nel giardino.
- Che fate voi qui? - esclamò con voce berbera, e i bambini scapparono.
- Il mio giardino è solo mio! - disse il gigante - lo sappiano tutti: nessuno, all'infuori di me, può giocare qui dentro.
Costruì un alto muro tutto intorno e vi affisse un avviso: GLI INTRUSI SARANNO PUNITI.
Era un gigante molto egoista.
I poveri bambini non sapevano più dove giocare. Cercarono di giocare sulla strada, ma la strada era polverosa e piena di sassi, e non piaceva a nessuno. Finita la scuola giravano attorno all'alto muro e parlavano del bel giardino.
- Com'eravamo felici! - dicevano tra di loro.
Poi venne la primavera, e dovunque, nella campagna, v'erano fiori e uccellini. Soltanto nel giardino del gigante regnava ancora l'inverno. Gli uccellini non si curavano di cantare perché non c'erano bambini e gli alberi dimenticarono di fiorire. Una volta un fiore mise la testina fuori dall'erba, ma alla vista dell'avviso provò tanta pietà per i bambini che si ritrasse e si riaddormentò. Solo la neve e il ghiaccio erano soddisfatti.
- La primavera ha dimenticato questo giardino - esclamarono - perciò noi abiteremo qui tutto l'anno.
La neve copriva l'erba con il suo grande manto bianco e il ghiaccio dipingeva d'argento tutti gli alberi. Poi invitarono il vento del nord. Esso venne avvolto in una pesante pelliccia e tutto il giorno fischiava per il giardino e abbatteva i camini.
- E' un posto delizioso - disse - dobbiamo invitare anche la grandine.
E la grandine venne. Tre ore al giorno essa picchiava sul tetto del castello finché ruppe le tegole; poi, quanto più veloce poteva, scorrazzava per il giardino. Era vestita di grigio, e il suo fiato era freddo come il ghiaccio.
- Non riesco a capire perché la primavera tardi tanto a venire - disse il gigante egoista mentre, seduto presso la finestra, guardava il suo giardino gelato e bianco: - Mi auguro che il tempo cambi.
Ma la primavera non venne mai e nemmeno l'estate. L'autunno diede frutti d'oro a tutti i giardini, ma nemmeno uno a quello del gigante. Era sempre inverno laggiù e il vento del Nord, la Grandine, il gelo e la Neve danzavano tra gli alberi.
Una mattina il gigante udì dal suo letto: una dolce musica, risuonava tanto dolce alle sue orecchie che pensò fossero di musicanti del re che passavano nelle vicinanze. Era solo un merlo che cantava fuori dalla sua finestra, ma da tanto tempo non udiva un uccellino cantare nel suo giardino, che gli parve la musica più bella del mondo. La Grandine cessò di danzare sulla sua testa, il Vento del Nord smise di fischiare e un profumo delizioso giunse attraverso la finestra aperta.
- Credo che finalmente la primavera sia venuta - disse il gigante; balzò dal letto e guardò fuori della finestra.
Che vide? Una visione meravigliosa. I fanciulli entrati attraverso un'apertura del muro e sedevano sui rami degli alberi. Su ogni albero che il gigante poteva vedere c'era un bambino. Gli alberi, felici di riavere i fanciulli, s'erano ricoperti di fiori e gentilmente dondolavano i rami sulle loro testoline. Gli uccellini svolazzavano intorno cinguettando felici e i fiori sollevavano il capo per guardare di sopra l'erba verde e ridevano. Era una bella scena.
Solo in un angolo regnava ancora l'inverno. Era l'angolo più remoto del giardino, e vi stava un bambinetto. Era tanto piccolo che non riuscire a raggiungere il ramo dell'albero e vi girava intorno piangendo disperato. Il povero albero era ancora coperto dal gelo e dalla neve e sopra di esso il vento del nord fischiava.
- Arrampicati piccolo - disse l'albero e piegò i suoi rami quanto più poté: ma il bimbetto era troppo piccino. A quella vista il cuore del gigante si intenerì.
- Come sono stato egoista! - disse. - Ora so perché la primavera non voleva venire. Metterò quel bambino in cima all'albero poi abbatterò il muro e il mio giardino sarà, per sempre, il campo di giochi dei bambini.
Era veramente addolorato per quanto aveva fatto. Scese adagio le scale e aprì la porta d'ingresso. Ma quando i bambini lo videro, si spaventarono tanto che scapparono, e nel giardino regnò di nuovo l'inverno. Soltanto il bambinetto non scappò; i suoi occhi erano così colmi di lacrime che non vide venire il gigante. E il Gigante giunse di soppiatto dietro a lui, lo prese delicatamente nella sua mano e lo mise sull'albero. E l'albero fiorì, gli uccellini vennero a cantare e il bambino allungò le braccine, si avvicinò al collo del gigante e lo baciò.
Non appena gli altri bambini videro che il gigante non era più cattivo, ritornarono di corsa e con essi venne la primavera. - Ora questo è il vostro giardino, bambini - disse il gigante e, presa una grande ascia, abbatté il muro.
A mezzogiorno la gente che andava al mercato vide il gigante giocare con i bambini nel giardino più bello che avessero mai veduto. Giocarono tutto il giorno e la sera i bambini salutarono il gigante.
- Dov'è il vostro piccolo amico? - disse: - Il bambino che io ho messo sull'albero?.
Il gigante l'amava più di tutti perché l'aveva baciato.
- Non lo sappiamo - risposero i bambini - se n'è andato.
- Dovete dirgli che domani deve assolutamente venire - disse il gigante.
Ma i bambini risposero che non sapevano dove abitasse e che prima non l'avevano mai veduto, e il gigante si sentì molto triste. Ogni pomeriggio, finita la scuola, i bambini venivano a giocare con il gigante. Ma il bambinetto che il gigante prediligeva non si vide più. Il gigante era molto buono con tutti, ma desiderava il suo piccolo amico e spesso parlava di lui.
- Quanto mi piacerebbe vederlo - diceva sovente.
Gli anni passarono, e il gigante divenne vecchio e debole. Non poteva più giocare; sedeva in una grande poltrona e osservava i bambini mentre giocavano e ammirava il suo giardino.
- Ho molti bei fiori - diceva - ma i bambini sono i fiori più belli.
Una mattina d'inverno, mentre si vestiva, guardò fuori dalla finestra. Ora non odiava più l'inverno perché sapeva che era soltanto la primavera addormentata e che i fiori si riposavano.
Ad un tratto si fregò gli occhi sorpreso e si mise a guardare intensamente. Era una cosa veramente meravigliosa. Nell'angolo più remoto del giardino v'era un albero interamente ricoperto di fiori bianchi. Dai rami d'oro pendevano frutti d'argento, e sotto di essi stava il bambinetto ch'egli aveva amato.
Il gigante scese di corsa e, tutto acceso di gioia, uscì nel giardino. Si affrettò sull'erba e s'avvicinò al bambino. Quando gli fu vicino si fece rosso di collera e disse:
- Chi ha osato ferirti? - perché il bambino aveva il segno di due chiodi sul palmo delle mani e sui piedi.
- Chi ha osato ferirti? - esclamò il gigante - dimmelo e io prenderò la mia grossa spada e l'ammazzerò.
- No - rispose il bambino - queste sono soltanto le ferite dell'amore.
- Chi sei? - chiese il gigante, e uno strano stupore s'impadronì di lui e s'inginocchiò dinanzi al bambino. Il bambino gli sorrise e disse:
- Un giorno mi lasciasti giocare nel tuo giardino, oggi verrai a giocare nel mio giardino, che è il Paradiso.
Quando nel pomeriggio i fanciulli entrarono di corsa nel giardino trovarono il gigante morto, ai piedi dell'albero tutto coperto di fiori candidi.
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inviato da Anna Lianza, inserito il 29/01/2003
ESPERIENZA
Giovanni Dutto, Eucarestia, cuore della missione
Venceslaa è ora un'anziana missionaria in Colombia. L'ho conosciuta quand'era una giovane suora e dirigeva alcune opere di una grande comunità. E' stato allora che mi ha insegnato una cosa bellissima sulla messa.
Io la osservavo con ammirazione: aveva molto da fare, ma si muoveva tutto il giorno con uno splendido sorriso e una fine disponibilità. Le cose non andavano sempre bene; anzi, si verificò nella comunità un tristissimo episodio, fortunatamente rimasto a conoscenza di pochi. Essa ne era al corrente, eppure continuava a sorridere e a servire come se nulla fosse. Gliene volli parlare: "Come fa a mantenersi sempre serena, anche nei momenti difficili?". Mi rispose: "E' la Messa, Padre!".
E mi raccontò: "Quando avevo dodici anni, in parrocchia si tenne un ritiro. Il predicatore parlò della messa, spiegò il rito delle gocce d'acqua nel calice, all'offertorio. Le gocce d'acqua sono così insignificanti che si perdono nel vino. Possiamo dire che diventano vino. Quando il sacerdote offre il calice non le menziona più: 'Benedetto sei tu, Signore, per questo vino'... Ora, l'evangelista Giovanni fa capire che il vino ricorda la natura divina e l'acqua la natura umana. Sulla scia di Giovanni, i Padri della Chiesa hanno ricalcato questo simbolismo: il vino ricorda il Verbo Eterno, l'acqua l'umanità assunta - il vino il Redentore, l'acqua l'umanità redenta; il vino Gesù capo, l'acqua gli uomini membra del suo corpo; il vino Gesù, l'acqua l'assemblea e ognuno dei partecipanti. Questa dottrina mi folgorò. Da quel giorno non ho più potuto perdere una sola messa. Abitavo a tre chilometri dalla chiesa, nella campagna. La strada non era asfaltata e a volte poteva essere fangosa. La celebrazione avveniva all'alba, perché contadini e operai potessero parteciparvi prima di andare al lavoro. Ma ogni mattino, col buio, sulla mia bicicletta, dovevo recarmi là: ero troppo interessata ad essere una delle piccole gocce d'acqua. Mi capitava a volte di essere distratta prima o dopo, ma mai durante quel momento. E tutto questo mi sostiene. Le gioie e le difficoltà non mi appartengono e vengono prese da Gesù".
inviato da Stefania Raspo, inserito il 11/06/2002
RACCONTO
dagli Apoftegmi dei Padri del deserto
C'era un monaco che viveva da parecchi anni in un monastero: giovane esuberante e facoltoso, aveva lasciato ogni cosa per diventare santo.
Prima aveva le mani come l'avorio, ora incallite come le squame dei coccodrilli; prima il suo volto era liscio e rasato, la sua capigliatura lucida di unguenti, la sua toga adorna di fermagli d'argento: ora, tosato come una pecora, portava sotto la tonaca un duro cilicio. Aveva sì domato la carne, ma una passione ancora resisteva tenace: la tendenza ad adirarsi.
Se un fratello nel mietere lasciava indietro una spiga, subito gli strappava di mano la falce con gesto iracondo. Se al vicino di stallo sfuggiva una nota falsa nel coro, arrotava i denti e gli allungava una gomitata.
Un giorno si presentò all'Abate: "Padre - gli disse - ben vedo che non sono fatto per vivere con i fratelli: trovo in loro continue occasioni di peccato. Io mi figuravo che i monaci fossero tutti perfetti, invece mi sono d'inciampo. Mi ritirerò nel deserto, al di là del fiume. Laggiù, solo con Dio, non avrò più occasione di adirarmi". E trascurando gli ammonimenti dell'Abate, prese con sé una brocca per attingere acqua dal fiume e se ne partì.
Sdraiato sulla tiepida arena, dormì il più bel sonno di vita sua. Poi cantò i suoi dodici salmi senza una nota stonata, e pregò con fervore. Com'era quieto e felice in quella solitudine, in quel silenzio!
Ora occorreva andare al fiume per attingere acqua. Andò e tornò, salmeggiando quasi come in estasi. Ma - che è che non è - la brocca si rovesciò, e giù tutta l'acqua a correre per l'arena. "Pazienza!" disse il monaco, e rifece la via andata e ritorno, quieto come l'olio, meditando sulla morte.
Posò a terra la brocca, e di nuovo quella gli sfuggì di mano. Vi rimase un po' di umidore, ma dentro neppure una goccia. "Maledizione! Cos'è mai questo? Il diavolo mi vuole tentare. Orsù, pazienza!". Trafelato, riprende la via, attinge e fa ritorno. E la brocca rotola a terra una terza volta. "Maledetta sii tu! Vattene al diavolo!". Una pedata furiosa e la brocca va in cento pezzi.
Sferra calci ai frantumi, e solleva un polverone di sabbia. Il povero giovane ha capito, e torna piangendo al monastero. "Padre mio, mea culpa!" dice all'Abate. "Ho rotto la brocca a furia di calci: ecco qua i cocci. La causa delle mie collere non è la compagnia dei fratelli: il nemico (e si picchiava il petto) è qui dentro".
inserito il 08/05/2002
RACCONTO
Piero Gribaudi, Bimbi del Vangelo
Quando vide che il tramonto stava dipingendo di viola le nubi, Eleazar si accorse, come ridestandosi da un sogno, di averla fatta grossa. Che cosa avrebbe detto a casa? Gli avrebbero creduto? Ma soprattutto che cosa avrebbero mangiato, quella sera, il babbo e la mamma?
Fu quest'ultimo pensiero a spingerlo di corsa verso i 12 canestri allineati accanto a un pozzo abbandonato. Vuoti! Vuoti anch'essi come la sua bisaccia, che sentiva rendergli sul fianco floscia come un pensiero inutile.
La sua bisaccia che poche ore prima conteneva un tesoro: cinque pani e due grandi pesci essiccati.
Che cosa era successo? Perché si era prestato con tanta spontaneità, lui - l'unico che avesse con sé un po' di cibo - a quell'incredibile gioco cui aveva assistito con stupore, gioia, emozione, sino a dimenticare il correre del tempo?
Stentava ancora a raccapezzarsi, in quel susseguirsi di eventi: la richiesta del suo prezioso cibo da parte dei discepoli di Gesù, il suo sì immediato, e poi il movimento continuo della mano del Rabbi nell'estrarre dalla sua bisaccia quel che non poteva contenere: migliaia di pani, migliaia di pesci, a saziare le migliaia di persone tra le quali si era infilato anche lui quasi per caso, per curiosità, per udire parole che solo in parte aveva capite ma che gli erano scese nel cuore come il più squisito dei cibi.
E poi, quell'allegro desinare in gruppi a forma di aiuole di cinquanta, cento persone, rese un po' ebbre dell'abbondanza del cibo spirituale e di quello materiale; al punto che il Rabbi, vedendo lo spreco dei rifiuti nell'erba, aveva ordinato di raccoglierli in dodici cesti.
Tutto straordinario, incredibile, quasi magico. Ma la conclusione? Lui, che pure si era saziato, aveva completamente dimenticato i suoi cinque pani e i suoi due pesci.
Ce n'erano talmente tanti! Ce n'erano, appunto... Ma adesso, che tutti se n'erano andati, pure i cesti degli avanzi erano stati svuotati. E lui che era costretto a tornare a casa a raccontare cose dell'altro mondo, però a mani vuote.
A Eleazar venne un groppo in gola, un grosso nodo di pianto e rabbia. E diede un gran calcio all'ultimo cesto. Vide così, acceso dall'ultimo raggio dell'ultimo sole, un piccolissimo lampo. Gli si avvicinò.
Era un pesciolino non più lungo del suo mignolo, rimasto incastrato fra le maglie del cesto. Lo raccolse, e fu allora che notò una formica trascinare una mollica di pane dieci volte più grande di lei.
Raccolse anche la mollica. Forse, mostrando a casa quei minuscoli avanzi, avrebbe potuto illustrare meglio tutte le meraviglie cui aveva assistito. Ne era assai poco convinto, Eleazar, ma tentar non nuoce.
Fu così che lo avrete già capito, Eleazar trasse quella sera a casa, sul povero tavolo disadorno, di fronte alle ghirlande di occhi dei fratellini e di mamma e papà, non uno ma diecimila pesciolini piccini e diecimila briciole di pane.
Sinché il tavolo fu colmo sino al soffitto, e i pesciolini scivolavano a terra e ai piedi del tavolo si moltiplicavano pure i gatti e le galline facendo un gran chiasso.
Alla fine, smise di affondare la mano nella bisaccia, perché le dita gli dolevano, il sole era ormai alto, i fratellini dormivano per la grande abbuffata. Mamma e papà continuavano a chiedergli di quell'uomo, Gesù, e di quale magia avesse fatto lui, il loro figliolo generoso e distratto. E lui non sapeva che rispondere, se non con un sorriso.
inviato da Stefania Raspo, inserito il 07/05/2002
TESTO
Esiste un solo problema filosofico veramente serio: il suicidio. Giudicare se la vita vale la spesa di essere vissuta o meno, è rispondere alla questione fondamentale della filosofia. Il resto, per esempio se il mondo ha tre dimensioni, se lo spirito ha nove categorie o dodici, sono questioni secondarie. Sono gioco. In compenso vedo molte persone che muoiono perché giudicano che la vita non è degna di essere vissuta. Il senso della vita è il problema più urgente.
senso della vitaricerca di sensosuicidiomortevitaprogetto
inviato da Emilio Centomo, inserito il 05/05/2002
TESTO
20. Decalogo della quotidianità 2
1. Solo per oggi cercherò di vivere alla giornata senza voler risolvere i problemi della mia vita tutti in una volta
2. Solo per oggi avrò la massima cura del mio aspetto, vestirò con sobrietà, non alzerò la voce, sarò cortese nei modi, non criticherò nessuno, non pretenderò di migliorare o disciplinare alcuno, tranne me stesso.
3. Solo per oggi sarò felice nella certezza che sono stato creato per essere felice non solo nell'altro mondo, ma anche in questo.
4. Solo per oggi mi adatterò alle circostanze, senza pretendere che le circostanze si adattino tutte ai miei desideri.
5. Solo per oggi dedicherò dieci minuti del mio tempo a qualche buona lettura, ricordando che, come il cibo è necessario alla vita del corpo, così la buona lettura è necessaria alla vita dell'anima.
6. Solo per oggi compirò una buona azione e non lo dirò a nessuno
7. Solo per oggi mi farò un programma che forse non riuscirà a puntino, ma lo farò e mi guarderò dai due malanni: la fretta e l'indecisione.
8. Solo per oggi crederò fermamente nonostante le apparenze che la Provvidenza di Dio si occupa di me come se nessun altro esistesse al mondo.
9. Solo per oggi farò almeno una cosa che non desidero fare, e se mi sentirò offeso nei miei sentimenti farò in modo che nessuno se ne accorga.
10. Solo per oggi non avrò timori, in modo particolare non avrò paura di godere di ciò che è bello e di credere alla bontà.
Posso ben fare per dodici ore ciò che mi sgomenterebbe se pensassi di doverlo fare per tutta la vita.
Basta a ciascun giorno il suo affanno.
inviato da Rossella Di Cosmo, inserito il 23/04/2002