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RACCONTO

21. Seti   1

Piero Gribaudi, Il Libro della Saggezza Interiore

Non appena Dio creò l'uomo, si mise subito in ascolto, da buon padre, dei bisogni e delle richieste di quella sua nuova, inconsueta creatura. "Ho fame e sete", disse subito l'uomo.

Dio gl'insegnò come cibarsi: gl'indicò le sorgenti, gli alberi da frutta e i favi delle api, i cespugli di bacche e mille altre leccornie prodotte dalla terra. Ma l'uomo, saziata fame e sete, fece altre richieste. "Ho sete di protezione e di riposo", disse.

Dio gl'insegnò come utilizzare le mani, cosa che non aveva mai fatto con nessun'altra delle sue creature. L'uomo si costruì una capanna ed un giaciglio, ed ebbe la soddisfazione di udire la pioggia tamburellare sul suo capo mentre lui, all'asciutto, lasciava vagabondare i suoi pensieri. "Ho sete di piaceri", disse poi, forse impigrito dal troppo dormire.

Dio lo accontentò. Gli aguzzò i sensi, come fa un arciere con le punte della sua freccia; e l'uomo poté assaporare, in maniera tutta speciale, gusti, suoni, profumi, panorami e carezze.

Poiché queste ultime gli piacquero immensamente, l'uomo disse: "Ho sete d'amore".

Dio fu contento di questa richiesta meno materiale delle altre e insufflò nell'anima dell'uomo un pizzico del suo soffio personale. L'uomo amò col cuore e con il corpo e fu tutt'uno con la persona amata, e comunicò con lei quasi nel modo in cui Dio, creandolo, aveva comunicato con lui.

Fu allora che Dio si sentì fare dall'uomo la richiesta a lui più cara. "Ho sete di bellezza, d'armonia e d'eternità", disse l'uomo. Dio fu felice. Cosparse l'anima dell'uomo di un suo polline specialissimo, che teneva in serbo dall'eternità per chi, seppure molto alla lontana, gli fosse simile. E, considerata terminata la sua opera, si allontanò.

L'uomo, però, aveva ancora una sete da saziare. Si trattava, benché non lo sapesse, di una sete impossibile da estinguere ma che, colmata anche solo in parte, gli avrebbe dato una soddisfazione tale da annullare tutte le altre. Essa però lo avrebbe divorato, a tal punto da trasformarlo in un'altra creatura, odiata ma temuta dai suoi simili più di tutte.

"Ho sete di potere", disse l'uomo. Poiché Dio era assente, gli si presentò un demone pronto ad esaudirlo. Ecco perché, di tutte le seti dell'uomo, quest'ultima sete rinascerà sempre insaziata nel suo cuore, ed avrà sempre, non la benedizione di Dio, ma la voracità del suo nemico.

amorearmoniaeternitàpotere

inviato da Lisa, inserito il 08/07/2011

RACCONTO

22. Onda e oceano   2

Una piccola onda se ne andava felice per il mare: era contenta, allegra, si sentiva frizzante e potente, si abbandonava al gioco della corrente, si lasciava increspare dal vento. Era proprio felice di essere un'onda. Ad un certo punto vide però, laggiù in lontananza, la scogliera e poi la spiaggia e si accorse che le altre onde, quelle che erano andate avanti, lì si infrangevano e di loro non rimaneva più nulla. Cominciò a sentirsi triste: se avesse potuto sarebbe tornata indietro, nel mare profondo, da dove non si vede terra; oppure avrebbe voluto fermarsi là dove si trovava, frenare pur di non andare avanti... Un'onda più grande le passò vicino e le chiese: "Che ti succede? Come mai sei tanto triste?", e la piccola onda le rispose: "Ma non vedi che fine faremo? Anche tu che sei un'onda così grossa sei destinata a romperti laggiù". Sorrise la grande onda e disse: "Tu non sei onda, sei oceano!".

Non ricordo più dove ho letto questa storia, ma la trovo profondamente vera anche per noi, quando pensiamo che la vita sia un fatto privato, quando crediamo che i nostri sentimenti siano solo affari "domestici", chiusi fra le mura delle nostre case o nei limiti del nostro cuore. Mi piace invece pensare che il mio amore è solo una piccola onda di un immenso oceano, che niente andrà perso e che ogni mio piccolissimo gesto d'amore è come una piccolissima goccia che contribuisce a formare l'oceano; perché il mio amore, come la mia vita, fa parte di un tutto cui appartengo, che mi appartiene. E mi sento più libera, non più costretta a soffocare in spazi angusti, o a pungermi tra le spine dei miei rovi: l'amore non sta dentro di me, non è una mia creatura, ma è tutto quel che sta "tra", che mi avvolge e circonda, nonostante io non lo riconosca. Tu non sei onda, sei oceano! Ricordiamocelo ogni giorno!
(Riflessione di Maria Teresa Abignente)

amorerischio

5.0/5 (1 voto)

inviato da Marcello Rosa, inserito il 06/06/2011

RACCONTO

23. Il principe felice   2

Oscar Wilde

Alta sopra la città, su una lunga, esile colonna sporgeva la statua del Principe Felice. Era tutto dorato di sottili foglie d'oro fino, i suoi occhi erano due lucenti zaffiri, e un grande rubino rosso luccicava sull'elsa della sua spada.

Tutti lo ammiravano. "E' bello come una banderuola" osservò un giorno uno degli assessori di città che ambiva farsi una reputazione d'uomo di gusto; "però è meno utile" si affrettò a soggiungere, per timore che la gente lo giudicasse privo di senso pratico, cosa che egli non era affatto.
"Perché non sai comportarti come il Principe Felice?" chiese una madre piena di buon senso al suo bambino che piangeva perché voleva la luna. "Il Principe Felice non si sogna mai di piangere per nulla".
"Sono contento che a questo mondo ci sia qualcuno veramente felice" borbottò un uomo disilluso ammirando la splendida statua.
"Assomiglia a un angelo" dissero i Trovatelli uscendo dalla cattedrale nei loro lucenti mantelli scarlatti e nei loro lindi grembiulini candidi.
"Come fate a dire questo?" osservò il professore di matematica, "se non ne avete mai veduti!"
"Oh, si, che ne abbiamo visti, nei nostri sogni!" risposero i bambini, e il professore di matematica aggrottò la fronte e fece la faccia scura, perché non trovava giusto che i bambini sognassero.

Una sera volò sulla città un Rondinotto. I suoi amici se n'erano andati in Egitto sei settimane innanzi, ma egli era rimasto indietro perché si era innamorato di una bellissima Canna. L'aveva conosciuta al principio di primavera mentre volava giù per il fiume in caccia di una grossa falena gialla, ed era stato talmente attratto dalla sua vita sottile che si era fermato a parlarle.
"Vuoi che m'innamori di te?" le aveva chiesto il Rondinotto, cui piaceva venir subito al sodo, e la Canna gli aveva fatto un profondo inchino. Così egli le volò più volte intorno, sfiorando l'acqua con le ali, e increspandola di cerchi argentei. Questa fu la sua corte, e durò tutta l'estate.
"Proprio un attaccamento ridicolo," garrivano le altre Rondini, "E' senza un soldo, ma in compenso ha un sacco di parenti," e a dire il vero il fiume era zeppo di Canne.
Poi, non appena venne l'autunno, le Rondini volarono via tutte. Quando se ne furono andate il Rondinotto si sentì solo, e incominciò a stancarsi della sua bella.
"Non sa conversare" si disse, "e temo sia una civetta poiché seguita a frascheggiare col vento." E infatti, ogni volta che il vento spirava, la Canna si piegava con inchini graziosissimi.
"Riconosco che sei casalinga," prosegui il Rondinotto, "ma a me piace viaggiare e di conseguenza anche a mia moglie dovrebbero piacere i viaggi".
"Vuoi venir via con me?" le chiese infine, ma la Canna scosse la testa, era troppo affezionata alla sua casa. "Tu mi hai preso in giro!" gridò il Rondinotto. "Me ne vado alle Piramidi. Addio!" e volò via.
Volò tutto il giorno, e a sera giunse alla città.
"Dove alloggerò?" si disse. "Spero mi abbiano preparato dei festeggiamenti."
Ma poi notò la statua sull'alta colonna. "Andrò ad abitare lì," esclamò. "La posizione è bellissima, e ci si deve respirare dell'ottima aria fresca."

Così si posò proprio tra i piedi del Principe Felice.
"Ho una camera da letto tutta d'oro" mormorò sottovoce tra sé e sé, guardandosi attorno e preparandosi per la notte, ma giusto mentre stava mettendo la testa sotto l'ala gli cadde addosso una grossa goccia d'acqua.
"Che cosa strana!" esclamò. "In cielo non c'è neanche la più piccola nuvola, le stelle sono chiare e luminose, eppure piove. Il clima del Nord Europa è semplicemente spaventoso. Alla Canna la pioggia piaceva, ma questo era dovuto unicamente al suo egoismo".
In quella cadde un'altra goccia.
"A che serve una statua se non riesce a riparare dalla pioggia?" brontolò; "bisogna che mi cerchi un buon comignolo," e fece per volarsene via. Ma proprio mentre stava per aprire le ali una terza goccia cadde, ed egli allora alzò gli occhi e vide... ah, che cosa vide? Gli occhi del Principe Felice erano gonfi di lagrime, e lagrime rigavano le sue guance dorate. Il suo viso era così bello sotto la luce della luna che il piccolo Rondinotto si senti invadere da una profonda pietà.
"Chi sei?" chiese.
"Sono il Principe Felice".
"Perché piangi, allora? Mi hai inzuppato tutto."
"Quando ero vivo e avevo un cuore umano," rispose la statua, "non sapevo che cosa fossero le lagrime, perché abitavo nel Palazzo di Sans-Souci, dove al dolore non è permesso di entrare. Durante il giorno giocavo coi miei compagni nel giardino, e la sera guidavo le danze nella Grande Sala. Intorno al giardino correva un muro altissimo, ma mai io mi curai di sapere che cosa si stendesse al di là di esso, ogni cosa intorno a me era così bella! I miei cortigiani mi chiamavano il Principe Felice, e se il piacere è felicità, io ero veramente felice. Così vissi, e così morii. E ora che sono morto mi hanno messo qui tanto in alto che adesso vedo tutta la bruttezza e tutta la miseria della mia città, e sebbene il mio cuore sia di piombo altro non mi resta che piangere".
"Come mai? Non è d'oro massiccio?" si chiese mentalmente il Rondinotto, perché era troppo educato per rivolgere ad alta voce domande di carattere personale.
"Lontano lontano," proseguì la statua con la sua dolce voce musicale, "lontano in una stradina c'è una povera casa. Una finestra di questa casa è aperta e attraverso vi vedo una donna seduta a un tavolo. Ha il viso magro e sciupato, e le sue mani sono rosse e ruvide e tutte bucherellate dall'ago, poiché fa la cucitrice. Sta ricamando passiflore su un abito di raso che la più bella tra le damigelle d'onore della Regina indosserà al prossimo ballo di Corte. In letto, in un angolo della stanza, il suo bambino giace ammalato. Ha la febbre e vorrebbe mangiare delle arance, ma sua madre non ha nulla da dargli, fuorché acqua di fiume, perciò il bambino piange. Rondinotto, piccolo Rondinotto, non gli porteresti il rubino che luccica sull'elsa della mia spada? I miei piedi sono attaccati a questo piedistallo e io non mi posso muovere".
"Sono aspettato in Egitto" rispose il Rondinotto. "I miei amici in questo momento volano sul Nilo, e discorrono con i grandi fiori di loto. Tra poco andranno a dormire nella tomba del gran Re, dove il Re stesso riposa nel suo sarcofago dipinto, avvolto in gialli lini e imbalsamato con aromi. Ha il collo adorno di una collana di giada verde pallida, e le sue mani assomigliano a foglie avvizzite".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me per una notte soltanto, ed essere il mio messaggero? Il bambino ha tanta sete, e la madre è così triste!"
"Non credo che mi piacciano i bambini" replicò il Rondinotto. "L'estate scorsa, quando stavo sul fiume, c'erano due ragazzi maleducati, i due figliuoli del mugnaio, che mi tiravano sempre sassi. Naturalmente non mi hanno mai preso, si capisce: noi rondini voliamo troppo bene per lasciarci colpire, e del resto io vengo da una famiglia famosa per la sua agilità; comunque però era una grave mancanza di rispetto".
Ma il Principe Felice aveva un viso così doloroso che il Rondinotto ne provò pena. "Qui fa molto freddo" disse, "ma per farti piacere resterò ancora una notte e sarò tuo messaggero".
"Grazie, piccolo Rondinotto" disse il Principe.

Così il Rondinotto colse il grande rubino che ornava la spada del Principe e volò sopra i tetti della città, tenendo stretto il gioiello nel becco appuntito. Passò accanto alla torre della cattedrale, su cui erano scolpiti i grandi angeli di marmo. Passò accanto al palazzo e udì un suono di danze.
Una fanciulla bellissima si affacciò al balcone col suo innamorato. "Guarda che stelle meravigliose" egli le disse, "e come è meraviglioso il potere dell'amore! "
"Spero che il mio vestito sarà pronto per quando ci sarà il ballo di Stato" rispose la fanciulla. "Ho ordinato che sia ricamato a passiflore, ma le cucitrici sono talmente pigre! "
Passò sopra il fiume, e vide le lanterne appese agli alberi delle navi. Passò sul Ghetto, e vide i vecchi Ebrei che contrattavano tra di loro, e pesavano il danaro su bilance di rame. E finalmente giunse alla povera casa e vi guardò dentro. Il bambino si agitava febbrilmente sul letto, mentre la madre si era addormentata: era tanto stanca! Saltellò nella stanza e posò il grosso rubino sul tavolo, accanto al ditale della donna. Poi volò piano attorno al letto, e accarezzò con le sue ali la fronte del piccolo, facendogli vento dolcemente.
"Come mi sento fresco!" disse il bambino. "Forse incomincio a star meglio" e si addormentò di un sonno tranquillo.
Allora il Rondinotto rivolò dal Principe Felice e gli raccontò quello che aveva fatto. "E' strano" osservò, "ma benché faccia un freddo cane adesso ho caldo."
"Perché hai compiuta una buona azione" gli disse il Principe.
Il piccolo Rondinotto incominciò a pensare, ma subito si addormentò: il pensare gli metteva sempre addosso un gran sonno.
Quando il giorno spuntò, volò giù al fiume e prese un bagno.
"Che fenomeno straordinario!" esclamò il Professore di Ornitologia che passava in quel momento sul ponte. "Una Rondine d'inverno!" E mandò al giornale locale una lunga lettera in proposito. Tutti la citarono: era costellata di un sacco di vocaboli che nessuno capiva.
"Questa sera parto per l'Egitto" disse il Rondinotto, e questa previsione lo mise di ottimo umore. Visitò tutti i monumenti pubblici, e rimase a lungo seduto in cima al campanile della chiesa. Dovunque andava i Passeri cinguettavano e bispigliavano tra di loro: "Che forestiero distinto!" Cosicché il Rondinotto si divertì un mondo.
Quando la luna sorse rivolò dal Principe Felice. "Hai qualche commissione da darmi per l'Egitto?" disse. Sono di partenza.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me ancora una notte?"
"In Egitto mi aspettano" rispose il Rondinotto. "Domani i miei amici voleranno fino alla Seconda Cateratta. Laggiù, tra i giunchi, se ne sta accovacciato l'ippopotamo, e su un grande trono di granito siede il Dio Memnone. Tutta la notte egli contempla le stelle, e quando risplende la stella del mattino proferisce un unico grido di gioia, e poi tace. A mezzogiorno i leoni fulvi scendono a bere all'orlo dell'acqua. Hanno occhi simili a verdi berilli, e il loro ruggito è più forte del ruggito della cateratta".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "lontano lontano, dall'altra parte della città, vedo un giovane in una soffitta, appoggiato a una scrivania ingombra di carte, e in un boccale accanto a lui c'è un mazzolino di viole appassite. Ha i capelli bruni e crespi, le sue labbra sono rosse come una melagrana, e i suoi occhi sono grandi e sognanti. Sta sforzandosi di terminare una commedia per il Direttore del Teatro, ma ha troppo freddo per poter seguitare a scrivere. Non c'è fuoco nel suo camino, e la fame lo ha fatto svenire".
"Va bene, aspetterò presso di te un'altra notte" disse il Rondinotto, che aveva proprio un cuore d'oro. "Devo portargli un altro rubino?"
"Ahimé, non ho più rubini, ormai" disse il Principe, "tutto ciò che mi è rimasto sono i miei occhi, ma sono fatti di zaffiri rari, e furono portati dall'India più di mille anni fa. Strappane uno e portaglielo. Lo venderà al gioielliere, e si comprerà legna da ardere, e finirà la sua commedia".
"Caro Principe" disse il Rondinotto, "io non posso fare questo"
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, piangendo, "ubbidiscimi, ti prego".
Così il Rondinotto strappò l'occhio del Principe e volò fino alla soffitta dello studente. Era facile entrarvi, perché nel tetto c'era un buco. Il Rondinotto vi sfrecciò attraverso, e penetrò nella stanza. Il giovane aveva il capo affondato tra le mani, perciò non avvertì il frullio d'ali dell'uccello, e quando alzò gli occhi vide il bellissimo zaffiro adagiato in mezzo alle viole appassite.
"Incominciano ad apprezzarmi!" gridò; "certo me lo manda qualche grande ammiratore. Adesso potrò finalmente terminare la mia commedia!" Ed era tutto felice.
Il giorno dopo il Rondinotto volò giù al porto. Si posò sull'albero di una grossa nave e stette a osservare i marinai che a forza di funi calavano su dalla stiva pesanti casse. "Issa-oh! " si gridavan l'un l'altro a mano a mano che le casse salivano.
"Io vado in Egitto!" garrì il Rondinotto, ma nessuno gli badò, e quando spuntò la luna volò ancora una volta dal Principe Felice.
"Sono venuto a salutarti" gli disse.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi rimanere con me ancora per questa notte?"

"E' inverno ormai" rispose il Rondinotto, "e fra poco arriverà la fredda neve. In Egitto il sole è caldo sulle verdi palme, e i coccodrilli riposano nel fango e si guardano attorno con occhi pigri. I miei compagni stanno costruendo un nido nel Tempio di Baalbec, e le colombe rosee e bianche li guardano, e tubano tra loro. Caro Principe, debbo lasciarti, ma non ti dimenticherò mai, e la prossima primavera ti porterò due gemme bellissime, al posto di quelle che tu hai regalate. Il rubino sarà più rosso di una rosa rossa, e lo zaffiro sarà azzurro come il vasto mare".
"Nella piazza qua sotto" disse il Principe Felice, "ci sta una piccola fiammiferaia. I fiammiferi le sono caduti nella cunetta del marciapiedi, e si sono tutti bagnati. Suo padre la picchierà se non porterà a casa un po' di danaro, e perciò la piccola piange. Non ha né calze né scarpe, e la sua testolina è nuda. Strappa l'altro mio occhio e portaglielo, così suo padre non la batterà".
"Resterò con te ancora per questa notte" disse il Rondinotto, "ma non posso strapparti l'altro occhio. Rimarresti completamente cieco".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "fa' come ti dico".
Così il Rondinotto strappò l'altro occhio del Principe e sfrecciò giù nella piazza. Passò roteando accanto alla piccola fiammiferaia e le fece scivolare il gioiello nel palmo della mano.
"Che bel pezzettino di vetro!" esclamò la bambina, e corse a casa ridendo.
Poi il Rondinotto ritornò dal Principe. "Adesso sei cieco" disse, "perciò io resterò con te per sempre".
"No, piccolo Rondinotto" mormorò il povero Principe, "tu devi andare in Egitto".
"Resterò con te per sempre" ripetè il Rondinotto, e dormì ai piedi del Principe. Poi tutto il giorno seguente se ne stette appollaiato sulla spalla del Principe, e gli raccontò quello che aveva veduto in paesi lontani. Gli parlò dei rossi ibis, che sostano in lunghe file sulle rive del Nilo e col becco acchiappano pesciolini dorati; gli parlò della Sfinge, che è vecchia quanto il mondo, e vive nel deserto, e conosce ogni cosa; gli parlò dei mercanti che viaggiano piano al fianco dei loro cammelli e recano tra le mani rosari d'ambra; gli parlò del Re della Montagna della Luna, che è nero come l'ebano, e adora un enorme cristallo; gli parlò del grande serpente verde che dorme in un palmizio ed è nutrito da venti sacerdoti con focacce di miele; gli parlò infine dei pigmei che veleggiano su un grande lago sopra larghe foglie piatte e sono sempre in guerra con le farfalle.
"Caro Rondinotto" disse il Principe, "tu mi parli di cose meravigliose, ma più meraviglioso di qualsiasi cosa è il dolore degli uomini e delle donne. Non vi è Mistero più grande della Miseria. Vola sulla mia città, piccolo Rondinotto, e raccontami quello che vedi".

Così il Rondinotto volò sopra la grande città, e vide i ricchi gozzovigliare nelle loro splendide dimore, mentre i poveri sedevano fuori, ai cancelli. Volò in bui vicoli, e vide i visi bianchi dei bambini affamati che fissavano con occhi assenti le strade oscure.
Sotto l'arcata di un ponte due ragazzini si stringevano l'uno all'altro cercando di riscaldarsi a vicenda.
"Che fame, abbiamo!" dicevano.
"Non potete dormire laggiù" gridò la guardia, e i due bambini si allontanarono sotto la pioggia.
Allora il Rondinotto tornò indietro e raccontò al Principe quello che aveva veduto.
"Sono tutto ricoperto d'oro fino" disse il Principe, "tu devi togliermelo di dosso, foglia per foglia, e darlo ai miei poveri: i vivi credono che l'oro possa renderli felici".
Il Rondinotto piluccò via foglia dopo foglia del fine oro, finché il Principe Felice divenne tutto opaco e grigio. Foglia per foglia del fine oro egli portò ai poveri, e le facce dei bambini si fecero più rosate, ed essi risero e giocarono giochi infantili nelle strade.
"Abbiamo pane, adesso! " gridavano.
Poi venne la neve, e dopo la neve venne il gelo. Le strade sembravano pavimentate d'argento, tanto erano lucide e scintillanti; lunghi ghiaccioli, simili a lame di cristallo, pendevano dalle gronde delle case; tutti giravano impellicciati e i ragazzini indossavano cappucci scarlatti e pattinavano sul ghiaccio.
Il povero piccolo Rondinotto aveva sempre più freddo, ma non voleva lasciare il Principe; gli voleva troppo bene. Raccoglieva briciole fuor dell'uscio del fornaio quando questi aveva la schiena voltata, e cercava di scaldarsi battendo le ali.
Ma alla fine capì che era prossimo a morire. Ebbe giusto la forza di volare un'ultima volta sulla spalla del Principe.
"Addio, caro Principe" mormorò, "mi permetti che ti baci la mano? "
"Sono contento che tu vada in Egitto, finalmente, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "sei rimasto qui anche troppo tempo, ma tu devi baciarmi sulle labbra, perché io ti amo".
"Non è in Egitto che io vado" disse il Rondinotto, "vado alla Casa della Morte. La Morte non è forse la sorella del Sonno?" E baciò il Principe Felice sulle labbra, e cadde morto ai suoi piedi.
In quel momento si udì nell'interno della statua uno strano crac, come se qualcosa si fosse rotto. Il fatto è che il cuore di piombo si era spaccato netto in due.

Certo faceva un freddo cane. Il mattino seguente per tempo il Sindaco andò a passeggiare nella piazza sottostante in compagnia degli Assessori. Nel passare dinnanzi alla colonna alzò gli occhi verso la statua:
"Dio mio! Com'è conciato il Principe Felice! " esclamò.
"Davvero! Com'è conciato! " esclamarono gli Assessori che ripetevano sempre quel che diceva il Sindaco, e andarono tutti su per vedere meglio.
"Gli è caduto il rubino dall'elsa della spada, gli occhi non ci sono più, e la doratura è scomparsa" disse il Sindaco, "insomma, sembra poco meno che un accattone!"
"Poco meno che un accattone" ripeterono in coro gli Assessori civici.
"E qui, ai piedi della statua, c'è persino un uccello morto! " proseguì il Sindaco. "Dobbiamo assolutamente emanare un'ordinanza che agli uccelli non sia permesso di morire qui!"
E lo Scrivano Pubblico prese appunti per la stesura del decreto.
Così tirarono giù la statua del Principe Felice.
"Dal momento che non è più bello non è nemmeno più utile" osservò il Professore di Belle Arti dell'Università.
Quindi fusero la statua in una fornace e il Sindaco indisse un'adunanza della Corporazione per decidere quel che si doveva fare del metallo.
"Dobbiamo costruire un'altra statua" disse, "e sarà la mia statua".
"La mia" ripeté ciascuno degli Assessori, e litigarono. L'ultima volta che ebbi loro notizie stavano ancora litigando.
"Che cosa curiosa! " disse il sorvegliante degli operai della fonderia. "Questo rotto cuore di piombo non vuole fondersi nella fornace. Bisogna che lo gettiamo via".
E lo gettarono infatti su un mucchio di spazzatura dove avevano buttato anche il Rondinotto morto.

"Portami le due cose più preziose che trovi nella città" disse Dio a uno dei Suoi Angeli; e l'Angelo gli portò il cuore di piombo e l'uccello morto.
"Hai scelto bene" gli disse Dio, "poiché nel mio giardino del Paradiso questo uccellino canterà in eterno, e nella mia città d'oro il Principe Felice mi loderà".

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5.0/5 (2 voti)

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 06/05/2011

RACCONTO

24. Cosa ti rende felice?   5

Nel corso di un seminario per coppie, chiesero a una delle mogli: "Tuo marito ti rende felice? Ti fa davvero felice?". In quel momento, il marito sollevò la testa, mostrando totale sicurezza. Sapeva che la moglie avrebbe detto sì, perché non si era mai lamentata di qualcosa durante il matrimonio. Tuttavia, la moglie rispose con un sonoro "No!".

"No, mio marito non mi rende felice!". A questo punto il marito stava cercando la porta di uscita più vicina. "Mio marito non mi ha reso felice e non mi rende felice! Sono felice!". E continuò:

"Il fatto che io sia felice o no, non dipende da lui, ma da me. Io sono la sola dalla quale dipende la mia felicità. Io decido di essere felice.In ogni situazione, ogni momento della mia vita, perché se la mia felicità dipendesse da qualche cosa, persona o circostanza sulla faccia della terra, sarei in guai seri.

Tutto ciò che esiste in questa vita è in continua evoluzione: l'essere umano, la ricchezza, il mio corpo, il tempo, la mia testa, i piaceri, gli amici, la mia salute fisica e mentale. E così potrei citare un elenco senza fine... Decido di essere felice! Se la mia casa è vuota o piena: sono felice! Se usciamo insieme o esco da sola: sono felice! Se il mio lavoro è ben pagato o no: sono felice! Sono sposata, ma ero felice quando ero single. Sono contenta per me stessa.

Le altre cose, persone, momenti o situazioni io le chiamo "esperienze che possono o non possono darmi momenti di gioia e di tristezza".

Quando muore qualcuno che amo, io sono una persona felice in un inevitabile momento di tristezza. Imparo dalle esperienze passeggere e vivo quelle che sono eterne come l'amare, perdonare, aiutare, capire, accettare, confortare...

Ci sono persone che dicono: oggi non posso essere felice perché sto male, perché non ho soldi, perché fa molto caldo, perché qualcuno mi ha insultato, perché qualcuno ha smesso di amarmi, perché non riesce a valorizzarmi, perché mio marito non è quello che mi aspettavo, perché i miei figli non mi rendono felice, perché i miei amici non mi rendono felice, perché il mio lavoro è mediocre e così via.

Io amo la vita ma non perché la mia vita è più facile di quella degli altri. E' che ho deciso di essere felice e io come persona sono responsabilità per la mia felicità. Quando prendo questo obbligo, lascio liberi mio marito e chiunque altro dal pesare sulle loro spalle. La vita di tutti è molto più leggera. Ed in questo modo ho un matrimonio felice da molti anni".

Non permettere mai a nessuno una così grande responsabilità come quella di determinare la tua felicità! Essere felici, anche se fa caldo, anche se sei malato, anche non hai soldi, anche se qualcuno ti ha fatto male, anche se qualcuno non ti ama o non ti da il giusto valore.

Basta chiedere a Dio di darci la serenità di accettare le cose che non possiamo cambiare, il coraggio di cambiare quelle che possono essere cambiate e la saggezza per riconoscere la differenza tra loro. Non riflettere solo... cambia e sii felice!

cambiamentofelicitàaccettazioneserenitàgioiamatrimoniosposiconvivere

5.0/5 (4 voti)

inviato da Anna Barbi, inserito il 08/03/2011

RACCONTO

25. Il Girasole   15

Bruno Ferrero, Tutte Storie, ed. Elledici

In un giardino ricco di fiori di ogni specie, cresceva, proprio nel centro, una pianta senza nome. Era robusta, ma sgraziata, con dei fiori stopposi e senza profumo. Per le altre piante nobili del giardino era né più né meno una erbaccia e non gli rivolgevano la parola. Ma la pianta senza nome aveva un cuore pieno di bontà e di ideali.

Quando i primi raggi del sole, al mattino, arrivavano a fare il solletico alla terra e a giocherellare con le gocce di rugiada, per farle sembrare iridescenti diamanti sulle camelie, rubini e zaffiri sulle rose, le altre piante si stiracchiavano pigre.

La pianta senza nome, invece, non si perdeva un salo raggio di sole. Se li beveva tutti uno dopo l'altro. Trasformava tutta la luce del sole in forza vitale, in zuccheri, in linfa. Tanto che, dopo un po', il suo fusto che prima era rachitico e debole, era diventato uno stupendo fusto robusto, diritto, alto più di due metri.

Le piante del giardino cominciarono a considerarlo con rispetto, e anche con un po' d'invidia. «Quello spilungone è un po' matto», bisbigliavano dalie e margherite.

La pianta senza nome non ci badava. Aveva un progetto. Se il sole si muoveva nel cielo, lei l'avrebbe seguito per non abbandonarlo un istante. Non poteva certo sradicarsi dalla terra, ma poteva costringere il suo fusto a girare all'unisono con il sole. Così non si sarebbero lasciati mai.

Le prime ad accorgersene furono le ortensie che, come tutti sanno, sono pettegole e comari. «Si è innamorato del sole», cominciarono a propagare ai quattro venti. «Lo spilungone è innamorato del sole», dicevano ridacchiando i tulipani. «Ooooh, com'è romantico!», sussurravano pudicamente le viole mammole.

La meraviglia toccò il culmine quando in cima al fusto della pianta senza nome sbocciò un magnifico fiore che assomigliava in modo straordinario proprio al sole. Era grande, tondo, con una raggiera di petali gialli, di un bel giallo dorato, caldo, bonario. E quel faccione, secondo la sua abitudine, continuava a seguire il sole, nella sua camminata per il cielo. Così i garofani gli misero nome «girasole». Glielo misero per prenderlo in giro, ma piacque a tutti, compreso il diretto interessato.

Da quel momento, quando qualcuno gli chiedeva il nome, rispondeva orgoglioso: «Mi chiamo Girasole». Rose, ortensie e dalie non cessavano però di bisbigliare su quella che, secondo loro, era una stranezza che nascondeva troppo orgoglio o, peggio, qualche sentimento molto disordinato. Furono le bocche di leone, i fiori più Coraggiosi del giardino, a rivolgere direttamente la parola al girasole.

«Perché guardi sempre in aria? Perché non ci degni di uno sguardo? Eppure siamo piante, come te», gridarono le bocche di leone per farsi sentire. «Amici», rispose il girasole, «sono felice di vivere con voi, ma io amo il sole. Esso è la mia vita e non posso staccare gli occhi da lui. Lo seguo nel suo cammino. Lo amo tanto che sento già di assomigliargli un po'. Che ci volete fare? il sole è la mia vita e io vivo per lui...».

Come tutti i buoni, il girasole parlava forte e l'udirono tutti i fiori del giardino. E in fondo al loro piccolo, profumato cuore, sentirono una grande ammirazione per «l'innamorato del sole».

cristianoseguire Gesùamare Diovivere per Diocontemplare Dio

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inviato da Anna Barbi, inserito il 12/09/2010

RACCONTO

26. La bicicletta di Dio   7

In una calda sera di fine estate, un giovane si recò da un vecchio saggio: "Maestro, come posso essere sicuro che sto spendendo bene la mia vita? Come posso essere sicuro che tutto ciò che faccio è quello che Dio mi chiede di fare?". Il vecchio saggio sorrise compiaciuto e disse: "Una notte mi addormentai con il cuore turbato, anch'io cercavo, inutilmente, una risposta a queste domande. Poi feci un sogno. Sognai una bicicletta a due posti. Vidi che la mia vita era come una corsa con una bicicletta a due posti: un tandem. E notai che Dio stava dietro e mi aiutava a pedalare. Ma poi avvenne che Dio mi suggerì di scambiarci i posti. Acconsentii e da quel momento la mia vita non fu più la stessa. Dio rendeva la mia vita più felice ed emozionante. Che cosa era successo da quando ci scambiammo i posti? Capii che quando guidavo io, conoscevo la strada. Era piuttosto noiosa e prevedibile. Era sempre la distanza più breve tra due punti. Ma quando cominciò a guidare lui, conosceva bellissime scorciatoie, su per le montagne, attraverso luoghi rocciosi a gran velocità a rotta di collo. Tutto quello che riuscivo a fare era tenermi in sella! Anche se sembrava una pazzia, lui continuava a dire: «Pedala, pedala!». Ogni tanto mi preoccupavo, diventavo ansioso e chiedevo: «Signore, ma dove mi stai portando?». Egli si limitava a sorridere e non rispondeva. Tuttavia, non so come, cominciai a fidarmi. Presto dimenticai la mia vita noiosa ed entrai nell'avventura, e quando dicevo: «Signore, ho paura...», lui si sporgeva indietro, mi toccava la mano e subito una immensa serenità si sostituiva alla paura. Mi portò da gente con doni di cui avevo bisogno; doni di guarigione, accettazione e gioia. Mi diedero i loro doni da portare con me lungo il viaggio. Il nostro viaggio, vale a dire, di Dio e mio. E ripartimmo. Mi disse: «Dai via i regali, sono bagagli in più, troppo peso». Così li regalai a persone che incontrammo, e trovai che nel regalare ero io a ricevere, e il nostro fardello era comunque leggero. Dapprima non mi fidavo di lui, al comando della mia vita. Pensavo che l'avrebbe condotta al disastro. Ma lui conosceva i segreti della bicicletta, sapeva come farla inclinare per affrontare gli angoli stretti, saltare per superare luoghi pieni di rocce, volare per abbreviare passaggi paurosi. E io sto imparando a star zitto e pedalare nei luoghi più strani, e comincio a godermi il panorama e la brezza fresca sul volto con il delizioso compagno di viaggio, la mia potenza superiore. E quando sono certo di non farcela più ad andare avanti, lui si limita a sorridere e dice: «Non ti preoccupare, guido io, tu pedala!»".

affidamentoaffidarsi a Diofiducia in Diofedeabbandonofiducia

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inviato da Anna Barbi, inserito il 26/06/2010

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27. La pietra azzurra   8

Bruno Ferrero, La vita è tutto quello che abbiamo

Il gioielliere era seduto alla scrivania e guardava distrattamente la strada attraverso la vetrina del suo elegante negozio.

Una bambina si avvicinò al negozio e schiacciò il naso contro la vetrina. I suoi occhi color del cielo si illuminarono quando videro uno di quegli oggetti esposti. Entrò decisa e puntò il dito verso uno splendido collier di turchesi azzurri. "E' per mia sorella. Può farmi un bel pacchetto regalo?".

Il padrone del negozio fissò incredulo la piccola cliente e le chiese: "Quanti soldi hai?".

Senza esitare, la bambina, alzandosi in punta di piedi, mise sul banco una scatola di latta, la aprì e la svuotò. Ne vennero fuori qualche biglietto di piccolo taglio, una manciata di monete, alcune conchiglie, qualche figurina.

"Bastano?" disse con orgoglio. "Voglio fare un regalo a mia sorella più grande. Da quando non c'è più la nostra mamma, è lei che ci fa da mamma e non ha mai un secondo di tempo per se stessa. Oggi è il suo compleanno e sono certa che con questo regalo la farò molto felice. Questa pietra ha lo stesso colore dei suoi occhi".

L'uomo entra nel retro e ne riemerge con una stupenda carta regalo rossa e oro con cui avvolge con cura l'astuccio. "Prendilo" disse alla bambina. "Portalo con attenzione". La bambina partì orgogliosa tenendo il pacchetto in mano come un trofeo.

Un'ora dopo entrò nella gioielleria una bella ragazza con la chioma color miele e due meravigliosi occhi azzurri. Posò con decisione sul banco il pacchetto che con tanta cura il gioielliere aveva confezionato e dichiarò: "Questa collana è stata comprata qui?".
"Si, signorina".
"E quanto è costata?".
"I prezzi praticati nel mio negozio sono confidenziali: riguardano solo il mio cliente e me".
"Ma mia sorella aveva solo pochi spiccioli. Non avrebbe mai potuto pagare un collier come questo!".

Il gioielliere prese l'astuccio, lo chiuse con il suo prezioso contenuto, rifece con cura il pacchetto regalo e lo consegnò alla ragazza. "Sua sorella ha pagato. Ha pagato il prezzo più alto che chiunque possa pagare: ha dato tutto quello che aveva".

gratuitàimportanza delle piccole cosegenerositàvalore delle cose

5.0/5 (3 voti)

inviato da Anna Trevisani, inserito il 26/06/2010

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28. Un piccolo gesto   4

Un giorno, ero un ragazzino delle superiori, vidi un ragazzo della mia classe che stava tornando a casa da scuola. Il suo nome era Kyle e sembrava stesse portando tutti i suoi libri. Dissi tra me e me: "Perché mai uno dovrebbe portarsi a casa tutti i libri di venerdì? Deve essere un ragazzo strano".

Io avevo il mio week-end pianificato (feste e una partita di football con i miei amici), così ho scrollato le spalle e mi sono incamminato.

Mentre stavo camminando vidi un gruppo di ragazzini che correvano incontro a Kyle. Gli corsero addosso facendo cadere tutti i suoi libri e lo spinsero facendolo cadere nel fango. I suoi occhiali volarono via, e li vidi cadere nell'erba un paio di metri più in là. Lui guardò in su e vidi una terribile tristezza nei suoi occhi. Mi rapì il cuore! Così mi incamminai verso di lui mentre stava cercando i suoi occhiali e vidi una lacrima nei suoi occhi. Raccolsi gli occhiali e glieli diedi dicendogli: "Quei ragazzi sono proprio dei selvaggi, dovrebbero imparare a vivere". Kyle mi guardò e disse: "Grazie!". C'era un grosso sorriso sul suo viso, era uno di quei sorrisi che mostrano vera gratitudine.

Lo aiutai a raccogliere i libri e gli chiesi dove viveva. Scoprii che viveva vicino a me così gli chiesi come mai non lo avessi mai visto prima. Lui mi spiegò che prima andava in una scuola privata. Prima di allora non sarei mai andato in giro con un ragazzo che frequentava le scuole private. Parlammo per tutta la strada e io lo aiutai a portare alcuni libri.

Mi sembrò un ragazzo molto carino ed educato così gli chiesi se gli andava di giocare a football con i miei amici e lui disse di sì. Stemmo in giro tutto il week end e più lo conoscevo più Kyle mi piaceva così come piaceva ai miei amici.

Arrivò il lunedì mattina ed ecco Kyle con tutta la pila dei libri ancora. Lo fermai e gli dissi: "Ragazzo finirà che ti costruirai dei muscoli incredibili con questa pila di libri ogni giorno!". Egli rise e mi passo la metà dei libri.

Nei successivi quattro anni io e Kyle diventammo amici per la pelle.

Una volta adolescenti cominciammo a pensare al college, Kyle decise per Georgetown e io per Duke. Sapevo che saremmo sempre stati amici e che la distanza non sarebbe stata un problema per noi. Kyle sarebbe diventato un dottore mentre io mi sarei occupato di scuole di football.

Kyle era il primo della nostra classe e io l'ho sempre preso in giro per essere un secchione. Kyle doveva preparare un discorso per il diploma. Io fui molto felice di non essere al suo posto sul podio a parlare. Il giorno dei diplomi vidi Kyle, aveva un ottimo aspetto. Lui era uno di quei ragazzi che aveva veramente trovato se stesso durante le scuole superiori. Si era un po' riempito nell'aspetto e stava molto bene con gli occhiali. Aveva qualcosa in più e tutte le ragazze lo amavano. Ragazzi qualche volta ero un po' geloso!

Oggi era uno di quei giorni, potevo vedere che era un po' nervoso per il discorso che doveva fare, così gli diedi una pacca sulla spalla e gli dissi: "Ehi ragazzo, te la caverai alla grande!". Mi guardò con uno di quegli sguardi (quelli pieni di gratitudine) e sorrise mentre mi disse: "Grazie".

Iniziò il suo discorso schiarendosi la voce: "Nel giorno del diploma si usa ringraziare coloro che ci hanno aiutato a farcela in questi anni duri. I genitori, gli insegnanti, gli allenatori ma più di tutti i tuoi amici. Sono qui per dire a tutti voi che essere amico di qualcuno è il più bel regalo che voi potete fare. Voglio raccontarvene una".

Guardai il mio amico Kyle incredulo non appena cominciò a raccontare il giorno del nostro incontro. Lui aveva pianificato di suicidarsi durante il week-end. Egli raccontò di come aveva pulito il suo armadietto a scuola, così che la madre non avesse dovuto farlo dopo, e di come si stava portando a casa tutte le sue cose.

Kyle mi guardò intensamente e fece un piccolo sorriso. "Ringraziando il cielo fui salvato, il mio amico mi salvò dal fare quel terribile gesto".

Udii un brusio tra la gente a queste rivelazioni. Il ragazzo più popolare ci aveva appena raccontato il suo momento più debole.

Vidi sua madre e suo padre che mi guardavano e mi sorridevano, lo stesso sorriso pieno di gratitudine.

Non avevo mai realizzato la profondità di quel sorriso fino a quel momento.

Non sottovalutate mai il potere delle vostre azioni.

Con un piccolo gesto potete cambiare la vita di una persona, in meglio o in peggio. Dio fa incrociare le nostre vite perché ne possiamo beneficiare in qualche modo. Cercate il buono negli altri.

"Gli amici sono angeli che ci sollevano in piedi quando le nostre ali hanno problemi nel ricordare come si vola".

amiciziagentilezzaimportanza delle piccole cosesemplicitàbontà

5.0/5 (4 voti)

inviato da Lisa, inserito il 26/06/2010

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29. Il cavallo nel pozzo   4

Un giorno, il cavallo di un contadino cadde in un pozzo. Non riportò alcuna ferita, ma non poteva uscire da lì con le sue proprie forze. Per molte ore l'animale nitrì fortemente, disperato, mentre il contadino pensava a cosa avrebbe potuto fare.

Finalmente, il contadino prese una decisione crudele: pensò che il cavallo era già molto vecchio e non serviva più a niente, e anche il pozzo ormai era secco ed aveva bisogno di essere chiuso in qualche maniera. Così non valeva la pena sprecare energie per tirar fuori il cavallo dal pozzo. Allora chiamò i suoi vicini perché lo aiutassero a interrare vivo il cavallo.

Ciascuno di essi prese una pala e cominciò a gettare della terra dentro il pozzo. Il cavallo non tardò a rendersi conto di quello che stavano facendo, e pianse disperatamente. Tuttavia, con sorpresa di tutti, dopo che ebbero gettato molte palate di terra, il cavallo si calmò.

Il contadino guardò in fondo al pozzo e con sorpresa vide che ad ogni palata di terra che cadeva sopra la schiena, il cavallo la scuoteva, salendo sopra la stessa terra che cadeva ai suoi piedi. Così, in poco tempo, tutti videro come il cavallo riuscì ad arrivare alla bocca del pozzo, passare sopra il bordo e uscire da lì, trottando felice.

La vita ti getta addosso molta terra, tutti i tipi di terra. Soprattutto se tu sei già dentro un pozzo. Il segreto per uscire dal pozzo è scrollarsi la terra che portiamo sulle spalle e salire sopra di essa. Ciascuno dei nostri problemi è un gradino che ci conduce alla cima. Possiamo uscire dai buchi più profondi se non ci daremo per vinti. Adoperiamo la terra che ci tirano per fare un passo verso l'alto!

Ricordati di queste cinque regole per essere felice:
1. Libera il cuore dall'odio.
2. Libera la mente dalle eccessive preoccupazioni.
3. Semplifica la tua vita.
4. Dà in misura maggiore e coltiva meno aspettative.
5. Ama di più e... accetta la terra che ti tirano, poiché essa può essere la soluzione e non il problema.

vitasperanzadisperazionedifficoltàreagireaccettazioneserenitàforza interiore

4.8/5 (4 voti)

inviato da Padre Giorgio Bontempi, inserito il 26/06/2010

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30. Un bicchiere di latte - Si raccoglie quello che si semina   2

Un giorno, un ragazzo povero che vendeva merci porta a porta per pagarsi gli studi all'università, si trovò in tasca soltanto una moneta da 10 centesimi, e aveva fame. Decise che avrebbe chiesto qualcosa da mangiare nella prossima casa, ma i suoi nervi lo tradirono quando gli aprì la porta una donna stupenda. Al posto di qualcosa da mangiare chiese un bicchiere d'acqua. Lei pensò che il giovane sembrava affamato, e dunque gli portò un bel bicchiere di latte. Lui lo bevve piano, e allora chiese: "Quanto devo?". "Non mi deve niente", rispose lei. "Mia madre ci ha insegnato che dobbiamo essere sempre caritatevoli con coloro che hanno bisogno di noi". E lui disse: "Allora la ringrazio di cuore!". Quando Howard Kelly andò via da quella casa, non soltanto si sentì più sollevato, ma anche la sua fede in Dio e negli uomini era diventata più forte. Era stato sul punto di arrendersi e di lasciare gli studi a causa della sua povertà.

Qualche anno dopo la donna si ammalò in modo grave. I medici del paese erano preoccupati. Alla fine la inviarono alla grande città. Chiamarono il Dott. Howard Kelly per un consulto. Quando lui sentì il nome del paese da dove proveniva la paziente, sentì negli occhi una luce particolare e una gradevole sensazione. Immediatamente il Dott. Kelly salì dalla hall dell'ospedale fino alla stanza di lei. Vestito con il suo grembiule da dottore entrò a vederla. Capricci del destino, era lei, la riconobbe subito. Ritornò alla stanza determinato a fare tutto il possibile per salvare la sua vita. Da quel giorno seguì quel caso con la maggiore attenzione, lei subì un'operazione a cuore aperto e si recuperò molto lentamente. Dopo una lunga lotta, lei vinse la battaglia! Era finalmente recuperata! Giacché la paziente era fuori pericolo, il Dott. Kelly chiese all'ufficio amministrativo dell'ospedale che gli inviassero la fattura con il totale delle spese, per approvarla. La ricontrollò e la firmò. Inoltre scrisse qualcosa sui margini della fattura e la inviò alla stanza della paziente.

La fattura arrivò alla stanza della paziente, ma lei aveva paura di aprirla, perché sapeva che avrebbe lavorato per il resto della sua vita per pagare il conto di un intervento così complicato. Finalmente la aprì, e qualcosa attirò la sua attenzione. Sui margini della fattura lesse queste parole: "Pagata completamente molti anni fa con un bicchiere di latte Firmato: Dott. Howard Kelly". I suoi occhi si riempirono di lacrime di gioia e il suo cuore fu felice e benedisse il dottore per averle ridato la vita.

speranzacaritàamoreseminarebenegratuitàgratitudine

4.5/5 (2 voti)

inviato da Marianna Mundo, inserito il 26/06/2010

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31. Cicatrici   1

In un caldo giorno d'estate nel sud della Florida, un bambino decise di andare a nuotare nella laguna dietro casa sua. Uscì dalla porta posteriore correndo e si gettò in acqua nuotando felice. Sua madre lo guardava dalla casa attraverso la finestra e vide con orrore quello che stava succedendo. Corse subito verso suo figlio gridando più forte che poteva. Sentendola il bambino si allarmò e nuotò verso sua madre ma era ormai troppo tardi.

La mamma afferrò il bambino per le braccia, proprio quando il caimano gli afferrava le gambe. La donna tirava determinata, con tutta la forza del suo cuore. Il coccodrillo era più forte, ma la mamma era molto più determinata e il suo amore non l'abbandonava. Un uomo sentì le grida, si precipitò sul posto con una pistola e uccise il coccodrillo. Il bimbo si salvò e, anche se le sue gambe erano ferite gravemente, poté di nuovo camminare.

Quando uscì dal trauma, un giornalista domandò al bambino se voleva mostrargli le cicatrici sulle sue gambe. Il bimbo sollevò la coperta e gliele fece vedere.

Poi, con grande orgoglio si rimboccò le maniche e disse: "Ma quelle che deve vedere sono queste". Erano i segni delle unghie di sua madre che l'avevano stretto con forza. "Le ho perché la mamma non mi ha lasciato e mi ha salvato la vita".

Anche noi abbiamo cicatrici di un passato doloroso. Alcune sono causate dai nostri peccati, ma alcune sono le impronte di Dio quando ci ha sostenuto con forza per non farci cadere fra gli artigli del male. Ricorda che se qualche volta la tua anima ha sofferto.... è perché Dio ti ha afferrato troppo forte affinché non cadessi!

sofferenzaamore di Diosalvezzaabbandono in Dio

4.3/5 (3 voti)

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 15/04/2010

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32. Il Natale di Martin   1

Leone Tolstoi

In una certa città viveva un ciabattino, di nome Martin Avdeic. Lavorava in una stanzetta in un seminterrato, con una finestra che guardava sulla strada. Da questa poteva vedere soltanto i piedi delle persone che passavano, ma ne riconosceva molte dalle scarpe, che aveva riparato lui stesso. Aveva sempre molto da fare, perché lavorava bene, usava materiali di buona qualità e per di più non si faceva pagare troppo.
Anni prima, gli erano morti la moglie e i figli e Martin si era disperato al punto di rimproverare Dio. Poi un giorno, un vecchio del suo villaggio natale, che era diventato un pellegrino e aveva fama di santo, andò a trovarlo. E Martin gli aprì il suo cuore.
- Non ho più desiderio di vivere - gli confessò. - Non ho più speranza.
Il vegliardo rispose: - La tua disperazione è dovuta al fatto che vuoi vivere solo per la tua felicità. Leggi il Vangelo e saprai come il Signore vorrebbe che tu vivessi.

Martin si comprò una Bibbia. In un primo tempo aveva deciso di leggerla soltanto nei giorni di festa ma, una volta cominciata la lettura, se ne sentì talmente rincuorato che la lesse ogni giorno.
E cosi accadde che una sera, nel Vangelo di Luca, Martin arrivò al brano in cui un ricco fariseo invitò il Signore in casa sua. Una donna, che pure era una peccatrice, venne a ungere i piedi del Signore e a lavarli con le sue lacrime. Il Signore disse al fariseo: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e non mi hai dato acqua per i piedi. Questa invece con le lacrime ha lavato i miei piedi e con i suoi capelli li ha asciugati... Non hai unto con olio il mio capo, questa invece, con unguento profumato ha unto i miei piedi».
Martin rifletté. Doveva essere come me quel fariseo. Se il Signore venisse da me, dovrei comportarmi cosi? Poi posò il capo sulle braccia e si addormentò.
All'improvviso udì una voce e si svegliò di soprassalto. Non c'era nessuno. Ma senti distintamente queste parole:
- Martin! Guarda fuori in strada domani, perché io verrò.

L'indomani mattina Martin si alzò prima dell'alba, accese il fuoco e preparò la zuppa di cavoli e la farinata di avena. Poi si mise il grembiule e si sedette a lavorare accanto alla finestra. Ma ripensava alla voce udita la notte precedente e così, più che lavorare, continuava a guardare in strada. Ogni volta che vedeva passare qualcuno con scarpe che non conosceva, sollevava lo sguardo per vedergli il viso.
Passò un facchino, poi un acquaiolo. E poi un vecchio di nome Stepanic, che lavorava per un commerciante del quartiere, cominciò a spalare la neve davanti alla finestra di Martin che lo vide e continuò il suo lavoro.
Dopo aver dato una dozzina di punti, guardò fuori di nuovo. Stepanic aveva appoggiato la pala al muro e stava o riposando o tentando di riscaldarsi. Martin usci sulla soglia e gli fece un cenno.
- Entra - disse - vieni a scaldarti. Devi avere un gran freddo.
- Che Dio ti benedica! - rispose Stepanic. Entrò, scuotendosi di dosso la neve e si strofinò ben bene le scarpe al punto che barcollò e per poco non cadde.
- Non è niente - gli disse Martin. - Siediti e prendi un po' di tè.
Riempi due boccali e ne porse uno all'ospite. Stepanic bevve d'un fiato. Era chiaro che ne avrebbe gradito un altro po'. Martin gli riempi di nuovo il bicchiere. Mentre bevevano, Martin continuava a guardar fuori della finestra.
- Stai aspettando qualcuno? - gli chiese il visitatore.
- Ieri sera - rispose Martin - stavo leggendo di quando Cristo andò in casa di un fariseo che non lo accolse coi dovuti onori. Supponi che mi succeda qualcosa di simile. Cosa non farei per accoglierlo! Poi, mentre sonnecchiavo, ho udito qualcuno mormorare: "Guarda in strada domani, perché io verrò".
Mentre Stepanic ascoltava, le lacrime gli rigavano le guance. - Grazie, Martin Avdeic. Mi hai dato conforto per l'anima e per il corpo.

Stepanic se ne andò e Martin si sedette a cucire uno stivale. Mentre guardava fuori della finestra, una donna con scarpe da contadina passò di lì e si fermò accanto al muro. Martin vide che era vestita miseramente e aveva un bambino fra le braccia. Volgendo la schiena al vento, tentava di riparare il piccolo coi propri indumenti, pur avendo indosso solo una logora veste estiva. Martin uscì e la invitò a entrare. Una volta in casa, le offrì un po' di pane e della zuppa.
- Mangia, mia cara, e riscaldati - le disse.
Mangiando, la donna gli disse chi era: - Sono la moglie di un soldato. Hanno mandato mio marito lontano otto mesi fa e non ne ho saputo più nulla. Non sono riuscita a trovare lavoro e ho dovuto vendere tutto quel che avevo per mangiare. Ieri ho portato al monte dei pegni il mio ultimo scialle.
Martin andò a prendere un vecchio mantello. - Ecco - disse. - È un po' liso ma basterà per avvolgere il piccolo.
La donna, prendendolo, scoppiò in lacrime. - Che il Signore ti benedica.
- Prendi - disse Martin porgendole del denaro per disimpegnare lo scialle. Poi l'accompagnò alla porta.

Martin tornò a sedersi e a lavorare. Ogni volta che un'ombra cadeva sulla finestra, sollevava lo sguardo per vedere chi passava.
Dopo un po', vide una donna che vendeva mele da un paniere. Sulla schiena portava un sacco pesante che voleva spostare da una spalla all'altra. Mentre posava il paniere su un paracarro, un ragazzo con un berretto sdrucito passò di corsa, prese una mela e cercò di svignarsela. Ma la vecchia lo afferrò per i capelli. Il ragazzo si mise a strillare e la donna a sgridarlo aspramente.
Martin corse fuori. La donna minacciava di portare il ragazzo alla polizia. - Lascialo andare, nonnina - disse Martin. - Perdonalo, per amor di Cristo.
La vecchia lasciò il ragazzo. - Chiedi perdono alla nonnina - gli ingiunse allora Martin.
Il ragazzo si mise a piangere e a scusarsi. Martin prese una mela dal paniere e la diede al ragazzo dicendo: - Te la pagherò io, nonnina.
- Questo mascalzoncello meriterebbe di essere frustato - disse la vecchia.
- Oh, nonnina - fece Martin - se lui dovesse essere frustato per aver rubato una mela, cosa si dovrebbe fare a noi per tutti i nostri peccati? Dio ci comanda di perdonare, altrimenti non saremo perdonati. E dobbiamo perdonare soprattutto a un giovane sconsiderato.
- Sarà anche vero - disse la vecchia - ma stanno diventando terribilmente viziati.
Mentre stava per rimettersi il sacco sulla schiena, il ragazzo sì fece avanti. - Lascia che te lo porti io, nonna. Faccio la tua stessa strada.
La donna allora mise il sacco sulle spalle del ragazzo e si allontanarono insieme.

Martin tornò a lavorare. Ma si era fatto buio e non riusciva più a infilare l'ago nei buchi del cuoio. Raccolse i suoi arnesi, spazzò via i ritagli di pelle dal pavimento e posò una lampada sul tavolo. Poi prese la Bibbia dallo scaffale.
Voleva aprire il libro alla pagina che aveva segnato, ma si apri invece in un altro punto. Poi, udendo dei passi, Martin si voltò. Una voce gli sussurrò all'orecchio:
- Martin, non mi riconosci?
- Chi sei? - chiese Martin.
- Sono io - disse la voce. E da un angolo buio della stanza uscì Stepanic, che sorrise e poi svanì come una nuvola.
- Sono io - disse di nuovo la voce. E apparve la donna col bambino in braccio. Sorrise. Anche il piccolo rise. Poi scomparvero.
- Sono io - ancora una volta la voce. La vecchia e il ragazzo con la mela apparvero a loro volta, sorrisero e poi svanirono.
Martin si sentiva leggero e felice. Prese a leggere il Vangelo là dove si era aperto il libro. In cima alla pagina lesse: «Ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi dissetaste, fui forestiero e mi accoglieste. In fondo alla pagina lesse: Quanto avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, l'avete fatto a me».
Così Martin comprese che il Salvatore era davvero venuto da lui quel giorno e che lui aveva saputo accoglierlo.

natalesolidarietàgratuitàriconoscere Dio

4.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 24/11/2009

RACCONTO

33. La saggezza in un cioccolato caldo   5

Un gruppo di laureati, affermati nelle loro carriere, discutevano sulle loro vite durante una riunione. Decisero di fare visita al loro vecchio professore universitario, ora in pensione, che era sempre stato un punto di riferimento per loro. Durante la visita, si lamentarono dello stress che dominava la loro vita, il loro lavoro e le relazioni sociali.

Volendo offrire ai suoi ospiti un cioccolato caldo, il professore andò in cucina e ritornò con una grande brocca e un assortimento di tazze. Alcune di porcellana, altre di vetro, di cristallo, alcune semplici, altre costose, altre di squisita fattura. Il professore li invitò a servirsi da soli il cioccolato.

Quando tutti ebbero in mano la tazza con il cioccolato caldo il professore espose le sue considerazioni:

- Noto che son state prese tutte le tazze più belle e costose, mentre son state lasciate sul tavolino quelle di poco valore. La causa dei vostri problemi e dello stress è che per voi è normale volere sempre il meglio. La tazza da cui state bevendo non aggiunge nulla alla qualità del cioccolato caldo. In alcuni casi la tazza è molto bella mentre alcune altre nascondono anche quello che bevete. Quello che ognuno di voi voleva in realtà era il cioccolato caldo. Voi non volevate la tazza... Ma voi consapevolmente avete scelto le tazze migliori. E subito, avete cominciato a guardare le tazze degli altri.

Ora amici vi prego di ascoltarmi. La vita è il cioccolato caldo... il vostro lavoro, il denaro, la posizione nella società sono le tazze. Le tazze sono solo contenitori per accogliere e contenere la vita. La tazza che avete non determina la vita, non cambia la qualità della vita che state vivendo. Qualche volta, concentrandovi solo sulla tazza, voi non riuscite ad apprezzare il cioccolato caldo che Dio vi ha dato. Ricordatevi sempre questo: Dio prepara il cioccolato caldo, egli non sceglie la tazza.
La gente più felice non ha il meglio di ogni cosa, ma apprezza il meglio di ogni cosa che ha!
Vivere semplicemente.
Amare generosamente.
Preoccuparsi profondamente.
Parlare gentilmente.
Lasciate il resto a Dio.
E ricordatevi: La persona più ricca non è quella che ha di più, ma quella che ha bisogno del minimo.
Godetevi il vostro caldo cioccolato!



vitaapprezzare la vitaricchezzafelicitàstressinterioritàesterioritàanimasenso della vita

4.0/5 (4 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 29/09/2009

RACCONTO

34. Il falco pigro   7

Bruno Ferrero, Ma noi abbiamo le ali

Un grande re ricevette in omaggio due pulcini di falco e si affrettò a consegnarli al Maestro di Falconeria perché li addestrasse. Dopo qualche mese, il maestro comunicò al re che uno dei due falchi era perfettamente addestrato. «E l'altro?» chiese il re.
«Mi dispiace, sire, ma l'altro falco si comporta stranamente; forse è stato colpito da una malattia rara, che non siamo in grado di curare. Nessuno riesce a smuoverlo dal ramo dell'albero su cui è stato posato il primo giorno. Un inserviente deve arrampicarsi ogni giorno per portargli cibo».
Il re convocò veterinari e guaritori ed esperti di ogni tipo, ma nessuno riuscì a far volare il falco. Incaricò del compito i membri della corte, i generali, i consiglieri più saggi, ma nessuno poté schiodare il falco dal suo ramo. Dalla finestra del suo appartamento, il monarca poteva vedere il falco immobile sull'albero, giorno e notte.
Un giorno fece proclamare un editto in cui chiedeva ai suoi sudditi un aiuto per il problema. Il mattino seguente, il re spalancò la finestra e, con grande stupore, vide il falco che volava superbamente tra gli alberi del giardino. «Portatemi l'autore di questo miracolo», ordinò.
Poco dopo gli presentarono un giovane contadino. «Tu hai fatto volare il falco? Come hai fatto? Sei un mago, per caso?», gli chiese il re.
Intimidito e felice, il giovane spiegò: «Non è stato difficile, maestà. Io ho semplicemente tagliato il ramo. Il falco si è reso conto di avere le ali ed ha incominciato a volare».

Talvolta, Dio permette a qualcuno di tagliare il ramo a cui siamo tenacemente attaccati, affinché ci rendiamo conto di avere le ali.

Altra Morale. Siamo tutti nati per volare, per sprigionare l'incredibile potenziale che possediamo come esseri umani. Ma a volte ci sediamo sui nostri comodi rami casalinghi, abbarbicati alle cose che per noi sono familiari. Le possibilità sono infinite, ma per molti di noi, rimangono inesplorate. Ci conformiamo alla familiarità, al comfort e all'ordinario. Così per molte persone le vite sono mediocri invece che eccitanti, emozionanti e elettrizzanti.
Quello che è successo al pennuto di questa bellissima storia è ciò che ci succede quando riusciamo ad allontanarsi dalla nosetra cosiddetta "zona di comfort", superando le paure e i limiti che spesso ci tengono bloccati.

vitasofferenzaconoscenza di sévita nuovaricononoscere i propri talenti

4.8/5 (4 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 18/07/2009

RACCONTO

35. Il pinguino colorato   5

Bruno Ferrero, Storie belle e buone

Quando mise fuori la testa dall'uovo, fu accolto dalla felicità di tutti.
La comunità dei pinguini dell'Isola Azzurra si strinse intorno a Priscilla e Dagoberto, i suoi genitori, che avevano gli occhi luccicanti e non stavano più nel frac per l'orgoglio.
Perché Filippo era davvero un bel neonato di pinguino.
Aprì il becco ed emise un robusto vagito. Tutti i pinguini presenti applaudirono.
"È un ottimo segno!" disse lo zio Fortebecco.
"È impaziente di affrontare la vita".
Filippo, in effetti, partì alla carica della vita con una gran dose di energia.
Appena le sue zampette furono abbastanza robuste, si allontanò dallo sguardo premuroso dei genitori per infilarsi fra i più discoli dei piccoli pinguini della comunità.
Erano tutti più anziani di lui, ma nessuno lo batteva in coraggio e temerarietà.

Fu Filippo il primo piccolo di pinguino che osò scivolare dalla punta del grande iceberg fino al mare, anche se poi non potè sedersi per due settimane a causa del bruciore sotto la coda.

Fu sempre Filippo, il coraggioso piccolo pinguino, che portò via la colazione all'enorme e spaventoso tricheco Baffodiferro.

Nella banda dei "pinguini irsuti", chiamati così perché si rifiutavano sistematicamente di lasciarsi pettinare le piume del capo dalle loro mamme, Filippo divenne l'incontrastato boss.

"Perché sei sempre così agitato, Filippo mio?", gli chiedeva la mamma, un po' in ansia per quel figlio che cresceva così scapestrato.

Con gli amici, Dagoberto era sinceramente preoccupato:
"Quel monello ha bisogno di una bella strigliata!"
Così spesso, alla sera, Dagoberto, Priscilla e Filippo rappresentavano, senza volerlo, la versione pinguinesca del processo di Norimberga.
"E' tutta colpa tua!".
"No, tua!".
"E' colpa di Filippo!".
La mamma piangeva, papà sbatteva la porta e Filippo gridava:
"Non ne posso più!".

I colori della vita
Un giorno il pinguino Filippo se ne stava sdraiato su una roccia a picco sul mare ed osservava annoiato il formicolio dei pinguini della comunità.
Sembravano tutti felici; lui, invece si sentiva pieno di amarezza.
"Che barba! Un posto tutto bianco, grigio e nero. Dove nessuno si fa i fatti suoi... Deve pur esserci un paese colorato. Pieno di gente colorata. Potrei diventare anch'io pieno di colori... Non ne posso più di questa camicia bianca e di questo ridicolo frac!"
E, impulsivo com'era, si lasciò scivolare giù dalla roccia, si tuffò tra le onde e nuotò via dall'Isola Azzurra.

Approdò alla Terraferma.
Gli avevano sempre raccomandato di evitare il litorale. I pinguini si tenevano prudentemente alla larga dagli anfratti in ombra degli scogli, dove le onde infrangevano con violenza rabbiosa, e foche, piccoli cetacei e altri predatori si acquattavano per far strage degli imprudenti.

"Adesso sono libero e faccio come mi pare", si disse Filippo.
Si arrampicò a fatica e si incamminò sulla spiaggia.
Un forte sbattere d'ali alle sue spalle lo mise in guardia. Un giovane cormorano aveva deciso di attaccarlo.
Ma Filippo era robusto e dotato di un becco forte e tagliente.
Lottarono per un po', facendo volare piume da tutte le parti.
Filippo ci mise tutta la sua rabbia. Il cormorano cominciò a perdere sangue da una ferita alla gola e si spaventò. Si ritirò dal combattimento e volo via lamentandosi e imprecando.
"Aah!", fece Filippo, gonfiando il petto con soddisfazione.
Alcune gocce di sangue del cormorano erano finite sulle sue piume bianche. Il pinguino guardò le macchie rosse e disse:
"Bene! Comincio ad essere colorato".
Ondeggiando, ma più che mai risoluto a continuare la sua esplorazione, Filippo si inoltrò tra le rocce.
"Ehi, amico!!", Una voce alle sue spalle lo fece voltare di scatto.
Era pronto di nuovo a combattere, ma di fronte si trovò solo un gabbiano giovane e inoffensivo.
"Ti ho visto sistemare il cormorano", disse il gabbiano. "Sei un duro, tu".
"Certo", rispose Filippo.
"Ti invito a pranzo", insinuò furbescamente il gabbiano.
"Che cosa vuoi dire?".
"Andiamo a rubare le uova dai nidi delle rondini di mare, che ne dici? In due non oseranno farci niente".
Fecero una scorpacciata di uova.
Le povere rondini di mare tentarono invano di difendere i loro nidi. I due briganti mulinavano ali e becchi.
Alla fine, Filippo si guardò il petto: era tutto macchiato dal giallo e arancione dei tuorli d'uovo.
"Altri colori!", si disse. "Questa è vita".
Dietro di lui, si sentiva solo il disperato pigolare delle rondini di mare, che piangevano i nidi e le uova distrutti.

Il grande salto
Si installò in una grotta di ghiaccio azzurra, e ne fece il suo covo.
Un gruppetto di gabbiani e perfino un'otaria con un occhio solo lo riconobbero come capo banda.
Le scorribande del gruppetto furono ben presto temute da tutti.
Filippo veniva chiamato semplicemente "Il pinguino colorato". Infatti la sua elegante livrea bianca e nera era sparita sotto i segni delle imprese che aveva affrontato.
Oltre il rosso del sangue e il giallo delle uova rubate, c'erano tracce verdi, azzurre e anche ciuffi di pelo argentato, che gli erano rimasti attaccati dopo un' epica lotta contro un Husky randagio.
Ma che serviva essere diventato davvero il primo pinguino a colori, se non poteva farsi ammirare dai suoi vecchi amici e dalla sua famiglia?
Il pensiero dell'Isola Azzurra prese a torturarlo.
Anche se non voleva ammettere, sentiva un bel po' di nostalgia dell'allegra comunità dei pinguini.
"Avere una vita colorata non è proprio come me la immaginavo", si diceva sempre più spesso.
Quella esistenza di fughe, attacchi, lotte e brigantaggio non gli piaceva più tanto.

Un mattino riprese la via del mare e tornò a casa
I primi pinguini dell'Isola Azzurra che incontrò erano dei piccoli che giocavano sulle lastre di ghiaccio galleggianti.
Appena lo videro si misero a strillare e scapparono gridando:
"Un mostro! Un mostro!".
Gli adulti fecero largo al suo passaggio, ma non per fargli onore. Lo guardavano tutti con una sorta di ribrezzo.
"Ma perché? Idioti, sono io, non mi riconoscete?", brontolava Filippo.
"Filippo, figliuolo, lo sapevo che saresti tornato". La mamma naturalmente lo riconobbe, ma non osò abbracciarlo.
"Ma in che stato sei...".
"Bentornato, Filippo", gli disse anche il papà. Ma non lo toccò.
Le comari tutt'intorno borbottavano: "Che disgrazia! Poveri genitori...".
Per la prima volta nella sua vita, a Filippo venne voglia di piangere.
Improvvisamente comprese che i suoi colori continuavano a tenerlo lontano; lo rendevano straniero alla comunità dell'Isola Azzurra.
Mentre lui, solo adesso, si accorgeva che soltanto lì poteva essere veramente felice.

Ma come si fa a tornare indietro?
"Papà", chiese.
"Vorrei cancellare questi colori e ricominciare, se è possibile".
Dragoberto esitò, poi guardò Filippo negli occhi e disse:
"C'è un mezzo solo: devi tuffarti dalla Grande Cascata. Laggiù l'acqua è così violenta e rapida che nessun colore può resistere. Ma è tremendamente rischioso. Ci vorrà il tuo coraggio. Te la senti di farlo?".
"Si, papà".
La voce si sparse in un attimo.
Nel giro di pochi minuti c'erano tutti, grandi e piccoli, intorno alla grande cascata.
Non riuscirono a trattenere un "Oh!" sincero quando in alto, dove il fiume precipitava in mare con un fragoroso boato, apparve Filippo. Sembrava così piccolo lassù.
Rimase un attimo fermo a concentrarsi, poi spiccò il salto.
Un salto stupendo, come se improvvisamente gli fossero spuntate le ali.
La corrente lo ghermì come un fuscello e lo scagliò violentemente nel mare ribollente e schiumante.
Il pinguino sparì nel vortice. Tutti trattennero il fiato.
Poi ad un tratto Filippo riemerse.
La forza stessa dell'acqua lo proiettò in alto e tutti videro che le sue piume erano diventate immacolate e che i colori erano scomparsi.
Allora esplosero in un festoso: "Urrà!", che coprì perfino il tuonare dell'acqua.



L'esperienza nascosta nel racconto:
Il pinguino Filippo è annoiato dalla vita di tutti i giorni che è soltanto "bianca, grigia e nera". Sono molti i ragazzi di oggi che considerano noioso ciò che è normale.
La cultura in cui sono immersi è sempre alla ricerca di eccitanti per i sensi, per la mente, per lo spirito.
Questa ricerca travolge limiti e regole. Filippo cerca i colori, li trova diventando ingiusto, ladro, cattivo.
Soltanto quando è davvero diventato colorato si accorge del prezzo da pagare: l'insoddisfazione personale e soprattutto l'allontanamento dalla sua famiglia e dalla comunità. È il prezzo del male, del peccato: essere tagliati fuori, perdere l'identità.
Ma nella comunità dell'Isola Azzurra c'è il modo di cancellare tutto, di ricominciare. E' quello che succede nella Chiesa: Dio ci dà la possibilità di cancellare tutti i colori sbagliati.
Bisogna solo avere il coraggio di buttarsi nella Grande Cascata dell'Amore infinito di Dio che è il Sacramento della Riconciliazione.

Per il dialogo:
L'educatore deve aiutare i ragazzi a percepire il significato simbolico della storia del pinguino Filippo e a riflettere contemporaneamente sulla realtà che anche loro stanno vivendo. Lo può fare con alcune domande:
- Perché il pinguino Filippo decide di partire dalla sua isola?
- Vi è mai venuta la voglia di "mollare tutto"? Quando? Perché?
- Secondo voi, che cosa sono i colori che Filippo cerca?
- Di che tipo sono i colori che Filippo trova? Vi ricordano qualcosa?
- Ci sono certe cose che i ragazzi di oggi desiderano ma che, secondo voi, sono un male? Ne sapete ricordare qualcuna?
- Perché Filippo non viene riconosciuto e accettato nella sua comunità?
- Nella nostra comunità parrocchiale c'è qualche modo particolare per riconoscere di aver sbagliato e per riaccettare quelli che riconoscono di aver commesso il male?

Per l'attività:
I ragazzi possono fare l'esame di coscienza con un cartellone sul quale si trovano i "colori sbagliati": (il rosso dell'ira, il giallo dell'invidia, il viola delle parolacce, il rosa della pigrizia, ecc...)

Anche la Bibbia racconta...
L'evangelista Giovanni (13, 21-30), racconta il tradimento di Giuda e lo conclude con queste parole: "Egli subito uscì. Ed era notte". Il peccato è uscire dalla luce della comunità degli amici di Gesù ed entrare nella notte.

riconciliazioneperdonoconfessionediversitàpeccato

3.8/5 (4 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 17/07/2009

RACCONTO

36. Storia di una goccia d'acqua

Allora disse il gran Padre, il Padre di tutte le cose: "Vai, vai e non ritornare da me prima di aver mostrato agli esseri la mia presenza!" E ne fu spaventata. Non era che una piccola goccia d'acqua. Come avrebbe potuto dimostrare la potenza di Dio? Voleva tornare indietro ma non poteva. Era stata mandata.

Quando cadde dal cielo altissimo l'avvolse l'aria e quasi la consumò. Poi fu impastata dalla terra. Si vergognava perché prima era stata un piccolo specchio del cielo, ora invece, era piena di polvere attaccaticcia. E sentì una radice vicina. E la radice l'afferrò. Divenne parte di una pianta. Fu una fibra, un velo verde, un goccio di frutto. Si sentì bere più volte. Spesso soffiata via nel vapore, si rapprese col freddo e ricadde giù. Una lunga storia. Imparò a sentirsi terra e vegetale. Visse molte volte pulsazioni nel sangue dei viventi. E fu fiume, lago, filo di perle quando cadeva nella rugiada del mattino. Le sembrò di perdersi, di sparire. Soffrì molto. Ora cercata con rabbia, ora pestata e dimenticata.

Poi un giorno, il sole la prese con più forza del solito, e la portò con sé in alto. Le disse: "Sono finite le tue stagioni, gocciolina, sali di nuovo. Ti aspetta il Gran Padre!". La goccia salì e le sembrò di essere felice. Ma quando vide protendersi in alto, verso di lei, rami, lingue vive, ebbe nostalgia.

Il Padre delle cose le sorrise: "Hai fatto bene, piccola mia - le disse - ora cosa vuoi?". "Ritornare giù, papà, ritornare giù! Qui vicino a te, sono un cristallo di gioia, ma laggiù, nel mondo pieno di sete, io sono molto di più: sono la tua presenza".

gioiapresenza di Diosegno di Dioamore

3.0/5 (2 voti)

inviato da Assunta Maglione, inserito il 11/06/2009

RACCONTO

37. Il sogno di Maria   2

Giuseppe, ho fatto un sogno che non riesco proprio a comprendere, ma credo che riguardava la nascita di nostro figlio.

La gente stava facendo i preparativi con sei settimane d'anticipo: decoravano le case, compravano vestiti nuovi, uscivano spesso a fare spese e compravano regali molto elaborati.

Era tutto molto strano, perché i regali non erano per nostro figlio: li avvolgevano in fogli vistosi, li legavano con dei nastri preziosi e poi li mettevano sotto un albero. Sì, Giuseppe, un albero dentro le case; quella gente aveva decorato un albero e i rami erano pieni di ciondoli brillanti e in cima all'albero c'era una figura – mi sembrò che fosse un angelo – veramente molto bella.

Dopo ho visto una tavola splendidamente imbandita con piatti deliziosi e tanti vini: tutto sembrava squisito e tutti erano contenti, ma noi non eravamo stati invitati.

Si vedeva che la gente era felice, sorridente e perfino emozionata quando si scambiavano i regali, ma...

Sai, Giuseppe? Non rimaneva alcun regalo per nostro figlio e mi dava l'impressione che nessuno lo conoscesse perché nessuno fece mai il suo nome. Non ti sembra strano che la gente si dia tanto da fare e spenda tanto nei preparativi per celebrare il compleanno di qualcuno che non nominano mai e che forse neppure conoscono? Ebbi la strana sensazione che se nostro figlio fosse entrato in quelle case si sarebbe sentito un intruso.

Tutto era così bello e la gente così contenta, ma io avevo una gran voglia di piangere perché nostro figlio era completamente ignorato.

Che tristezza per Gesù non essere desiderato nella sua festa di compleanno!

Sono contenta perché si è trattato solamente di un sogno, ma che terribile sarebbe se ciò divenisse realtà!...

natale

5.0/5 (2 voti)

inviato da Roberto Jori, inserito il 03/05/2009

RACCONTO

38. Il macigno e il seme   4

Luigi Guglielmoni - Fausto Negri

«Guarda come sono forte» disse un grosso macigno a un piccolo seme.
Ciò detto si lanciò da un'altura abbattendo tutto ciò che incontrava: non si fermava davanti a nessun ostacolo e finì la sua corsa facendo un grosso buco nel terreno.
«Vedi - continuò il macigno - i miei risultati sono rapidi ed eclatanti».
Il seme sorrideva calmo. Una mano lo prese e lo seminò nel terreno. Anche il macigno fu sepolto dal vento sotto un manto di foglie di terra.
Passarono i giorni e dal seme nacque una spiga. Passò un anno e nacquero tante spighe. Dopo pochi anni, il macigno era sempre più sprofondato nel terreno mentre il seme era diventato un biondo campo di grano.
«Povero me», gemette il masso, «cosa ci sto a fare al mondo? Se qualcuno si ricorda di me, è solo per maledirmi. Come hai fatto ad essere tu il più forte?».
«Siamo forti tutti e due, ma di una forza diversa», rispose il seme.
«Tu hai bisogno di "spinte" per salire in alto, io mi affido ad una mano amica per scendere in un solco.
Tu fai molto rumore per essere vincente, io mi nascondo per crescere e lasciarmi mangiare.
Tu puoi servire al massimo per costruire archi di trionfo e lapidi da cimitero, io tolgo la fame e divento carne e sangue vitali.
Tu ti imponi con la tua mole, io attraggo per la mia bellezza.
Io sono piccolo ma ho una grande energia di dentro. Tu non puoi trascorrere una vita felice per il semplice motivo che in te non c'è neppure vita!».

piccolezzaforzavitainterioritàesterioritàdebolezzafecondità

4.4/5 (5 voti)

inviato da Leonardo Salutati, inserito il 03/05/2009

RACCONTO

39. Il club del novantanove   6

Bruno Ferrero, Ma noi abbiamo le ali

C'era una volta un re molto triste che aveva un servo molto felice che circolava sempre con un grande sorriso sul volto. «Paggio», gli chiese un giorno il re, «qual è il segreto della tua allegria?».

«Non ho nessun segreto. Signore, non ho motivo di essere triste. Sono felice di servirvi. Con mia moglie e i miei figli vivo nella casa che ci è stata assegnata dalla corte. Ho cibo e vestiti e qualche moneta di mancia ogni tanto».

Il re chiamò il più saggio dei suoi consiglieri: «Voglio il segreto della felicità del paggio!».
«Non puoi capire il segreto della sua felicità. Ma se vuoi, puoi sottrargliela».
«Come?».
«Facendo entrare il tuo paggio nel giro del novantanove».
«Che cosa significa?».
«Fa' quello che ti dico...».

Seguendo le indicazioni del consigliere, il re preparò una borsa che conteneva novantanove monete d'oro e la fece dare al paggio con un messaggio che diceva: «Questo tesoro è tuo. Goditelo e non dire a nessuno come lo hai trovato».

Il paggio non aveva mai visto tanto denaro e pieno di eccitazione cominciò a contarle: dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta... novantanove! Deluso, indugiò con lo sguardo sopra il tavolo, alla ricerca della moneta mancante. «Sono stato derubato!» gridò. «Sono stato derubato! Maledetti!».

Cercò di nuovo sopra il tavolo, per terra, nella borsa, tra i vestiti, nelle tasche, sotto i mobili... Ma non trovò quello che cercava.

Sopra il tavolo, quasi a prendersi gioco di lui, un mucchietto di monete splendenti gli ricordava che aveva novantanove monete d'oro. Soltanto novantanove. «Novantanove monete. Sono tanti soldi», pensò. «Ma mi manca una moneta. Novantanove non è un numero completo» pensava. «Cento è un numero completo, novantanove no».

La faccia del paggio non era più la stessa. Aveva la fonte corrugata e i lineamenti irrigiditi. Stringeva gli occhi e la bocca gli si contraeva in una orribile smorfia, mostrando i denti.

Calcolò quanto tempo avrebbe dovuto lavorare per guadagnare la centesima moneta, avrebbe fatto lavorare sua moglie e i suoi figli. Dieci dodici anni, ma ce l'avrebbe fatta! Il paggio era entrato nel giro del novantanove...

Non passò molto tempo che il re lo licenziò. Non era piacevole avere un paggio sempre di cattivo umore.

E se ci rendessimo conto, così di colpo, che le nostre novantanove monete sono il cento per cento del tesoro. E che non ci manca nulla, nessuno ci ha portato via nulla, il numero cento non è più rotondo del novantanove. È soltanto un tranello, una carota che ci hanno messo davanti al naso per renderci stupidi, per farci tirare il carretto, stanchi, di malumore, infelici e rassegnati. Un tranello per non farci mai smettere di spingere.

Quante cose cambierebbero se potessimo goderci i nostri tesori così come sono.

tesorodenarocupidigiaavariziafelicitàinterioritàesterioritàgratitudinesoldibeni materiali

4.3/5 (3 voti)

inserito il 25/11/2007

RACCONTO

40. Un pezzo di umanità

A una cena di raccolta fondi per una scuola che serve i disabili mentali, il padre di uno degli studenti fece un discorso che nessuno di coloro che partecipavano avrebbe mai dimenticato.

Dopo aver lodato la scuola e il personale dedito, fece una domanda: "Quando influenze esterne non interferiscono dall'esterno, la natura di tutti è perfetta. Mio figlio Shay, tuttavia, non può imparare le cose che imparano gli altri. Non può capire le cose come gli altri. Dov'è l'ordine naturale delle cose, in mio figlio?". Il pubblico fu zittito dalla domanda.

Il padre continuò. "Io ritengo che, quando un bambino come Shay, fisicamente e mentalmente handicappato viene al mondo, si presenta un'opportunità di realizzare la vera natura umana, ed essa si presenta nel modo in cui le altre persone trattano quel bambino".

Poi raccontò la storia che segue: Shay e suo padre stavano camminando vicino a un parco, dove c'erano alcuni ragazzi che Shay conosceva che giocavano a baseball. Shay chiese: "Credi che mi lascerebbero giocare?". Il padre di Shay sapeva che la maggior parte dei ragazzi non volevano un ragazzo come lui nella squadra, ma comprendeva anche che se al figlio fosse stato permesso giocare, la cosa gli avrebbe dato un senso di appartenenza di cui aveva molto bisogno, e un po' di fiducia nell'essere accettato dagli altri, nonostante i suoi handicap.

Il padre di Shay si avvicinò a uno dei ragazzi sul campo e chiese se Shay poteva giocare, non aspettandosi un granché in riposta. Il ragazzo si guardò attorno, in cerca di consiglio e disse: "Siamo sotto di sei e il gioco è all'ottavo inning. Immagino che possa stare con noi e noi cercheremo di farlo battere all'ultimo inning".

Shay si avvicinò faticosamente alla panchina della squadra, indossò una maglietta della squadra con un ampio sorriso e suo padre si sentì le lacrime negli occhi e una sensazione di tepore al cuore. Il ragazzo vide la gioia di suo padre per essere stato accettato. In fondo all'ottavo inning, la squadra di Shay ottenne un paio di basi, ma era ancora indietro di tre. Al culmine del nono e ultimo inning, Shay si mise il guantone e giocò nel campo giusto. Anche se dalla sua parte non arrivarono dei lanci, era ovviamente in estasi solo per essere nel gioco e in campo, con un sorriso che gli arrivava da un orecchio all'altro, mentre suo padre lo salutava dalle gradinate.
Alla fine del nono inning, la squadra di Shay segnò ancora.

Ora, con due fuori e le basi occupate, avevano l'opportunità di segnare la battuta vincente e Shay era il prossimo, al turno di battuta.

A questo punto, avrebbero lasciato battere Shay e perso l'opportunità di far vincere la squadra? Sorprendentemente, a Shay fu assegnato il turno di battuta. Tutti sapevano che gli era impossibile colpire la palla, perché Shay non sapeva neppure tenere bene la mazza, per non dire cogliere la palla. Comunque, mentre Shay andava alla battuta, il lanciatore, capendo che l'altra squadra stava mettendo da parte la vincita per far sì che Shay avesse questo momento, nella sua vita, si spostò di alcuni passi per lanciare la palla morbidamente, così che Shay potesse almeno riuscire a toccarla con la mazza. Arrivò il primo lancio e Shay girò la mazza a vuoto. Il lanciatore fece ancora un paio di passi avanti e gettò di nuovo lentamente la palla verso Shay.

Mentre la palla era in arrivo, Shay girò goffamente la mazza, la colpì e la spedì lentamente sul terreno, dritta verso il lanciatore.

Il gioco avrebbe dovuto finire, a quel punto, ma il lanciatore raccolse la palla e avrebbe potuto facilmente lanciarla al primo che copriva la base e squalificare il battitore. Shay sarebbe stato fuori e questo avrebbe segnato la fine della partita. Invece, il lanciatore raccolse la palla e la lanciò proprio al di là della testa

del primo in base, fuori dalla portata dei compagni di squadra. Tutti quelli che si trovavano sugli spalti e i giocatori cominciarono a gridare: "Shay, corri in prima base! Corri in prima!" Shay non aveva mai corso in vita sua così lontano, ma riuscì ad arrivare in prima base. Corse lungo la linea, con gli occhi spalancati e pieno di meraviglia. Tutti gli gridarono: "Corri alla seconda, alla seconda, ora!" Trattenendo il fiato, Shay corse ancor più goffamente verso la seconda, ansimando e sforzandosi di raggiungerla. Quando Shay curvò verso la seconda base, la palla era fra le mani del giocatore giusto, un piccoletto, che ora aveva la possibilità per la prima volta di essere lui l'eroe della propria squadra. Avrebbe potuto lanciarla alla seconda base per squalificare il battitore, ma comprese le intenzioni del lanciatore e anche lui gettò intenzionalmente la palla in alto, ben oltre la portata della terza base. Shay corse verso la terza base in delirio, mentre gli altri si spostavano per andare alla casa base. Tutti gridavano: "Shay, Shay, Shay, vai Shay".

Shay raggiunse la terza base, quello opposto a lui corse per aiutarlo e voltarlo nella direzione giusta, e gridò: "Shay, corri in terza! Corri in terza!".

Mentre Shay girava per la terza base, i ragazzi di entrambe le squadre e quelli che guardavano erano tutti in piedi e strillavano: "Shay, corri alla base! Corri alla base, sali sul piatto!" Shay corse, salì sul piatto e fu acclamato come l'eroe che aveva segnato un 'grand slam' e fatto vincere la sua squadra.

Quel giorno, disse il padre a bassa voce e con le lacrime che ora gli rigavano la faccia, i ragazzi di entrambe le squadre aiutarono a portare in questo mondo un pezzo di vero amore e umanità.

Shay non superò l'estate e morì in inverno, senza mai scordare di essere stato l'eroe e di aver reso suo padre così felice, e di essere tornato a casa fra il tenero abbraccio di sua madre per il piccolo eroe del giorno!

accoglienzadiversitàhandicappregiudiziamoresolidarietàunità

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inviato da Stefania Calzavara, inserito il 29/10/2007

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