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RACCONTO

1. Il tagliapietre scontento

Piero Ferrucci, La forza della gentilezza, Oscar Mondadori 2005

C'era una volta un uomo che odiava il suo lavoro. Era un tagliapietre, e doveva faticare tutto il giorno per una misera paga. «Che orrendo modo di vivere», pensava. «Come mi piacerebbe essere un riccone che può oziare tutto il giorno.» A un certo punto il suo desiderio divenne così intenso che si tramutò in realtà. Il tagliapietre sentì una voce che diceva: «Tu sei ciò che vuoi essere». Divenne ricco e poté avere da subito tutto ciò che aveva da sempre desiderato: una casa bellissima, cibo squisito, svaghi meravigliosi.

Era felice, ma dopo un po' vide passare il re in una processione e penso: «Lui è più potente di me, come vorrei essere io nei suoi panni!», di nuovo udì la voce e, come per magia, divenne il re. Era diventato l'uomo più potente del mondo. Ah, che ebbrezza il potere! Tutti gli obbedivano, tutti lo temevano, era felice, ma non completamente. A poco a poco si fece strada in lui una certa insoddisfazione che lo solleticava maligna. «Voglio ancora di più» pensò. Voglio voglio voglio. Vide il sole nel cielo, e pensò: «Il sole e ancora più potente di me, voglio essere il sole!».

Ed ecco che divenne il sole. Luminoso, grande, fortissimo. Dominava il cielo e la terra. Nulla e nessuno poteva esistere senza di lui. Che felicità! E che importanza! Però poi si accorse che sotto di lui le nuvole gli impedivano di vedere il paesaggio. Erano mobili e leggere. Invece di stare fisse nel cielo, potevano assumere infinite forme e al tramonto si coloravano di tinte stupende. Vivevano senza preoccupazioni ed erano libere. Che invidia.

Ma l'invidia durò poco. Sentì di nuovo la voce: «Tu sei ciò che vuoi essere». E fu subito nube. Era un piacere essere sospesa nell'aria, mobile, vaporosa. Si divertiva a prendere forme sempre diverse, ora spessa e opaca, ora bianca e ricca, ora sottile come un ricamo. Ma la nuvola d'un tratto dovette condensarsi in goccioloni di pioggia, che andarono a colpire una roccia di granito. Che impatto. La roccia era lì da millenni. Dura e solida. E invece le misere gocce di acqua si rompevano sul granito e scorrevano fino a essere assorbite dalla terra e comparire per sempre. Come sarebbe stato bello essere roccia, pensò.

Subito divenne roccia. Per un po' si godette la vita. Finalmente aveva trovato la stabilità. Ora si sentiva sicuro. «È la sicurezza che cercavo, dopo tutto, e di qui non mi muove più nessuno.» Le gocce di pioggia lo colpivano e scendevano lungo i suoi fianchi. Era un massaggio piacevole. Un omaggio. Il sole l'accarezzava con i suoi raggi. Com'era bello venire riscaldati! Il vento lo rinfrescava. Le stelle lo guardavano. Aveva raggiunto la completezza.

Un giorno, però, vide una figura che si stagliava all'orizzonte. Era un uomo un po' curvo con un grosso martello. Un tagliapietre. Incominciò a battere con il martello su di lui. Più che male sentì sgomento. Il tagliapietre era ancora più forte e poteva decidere del suo destino. «Come vorrei essere il tagliapietre» pensò.

E così il tagliapietre fu di nuovo tagliapietre. Dopo essere stato tutto ciò che avrebbe voluto essere, divenne di nuovo ciò che era sempre stato. Ma questa volta era felice, tagliare le pietre era diventato un'arte, il suono del martello era musica, la fatica alla fine della giornata era il benessere di chi aveva fatto bene il suo lavoro. E quella notte in sogno ebbe una meravigliosa visione della cattedrale che le sue pietre avrebbero contribuito a formare. Gli pareva che non ci fosse niente di meglio che essere ciò che era. Era rivelazione bellissima che, sapeva, non lo e mai abbandonato. Era la gratitudine.

Il tagliapietre in questa storia compie un passaggio essenziale. Dalla rivendicazione («Voglio questo, voglio quello») alla gratitudine («Sono contento di ciò che ho»). Nella prima c'è dualità, perché vogliamo ciò che non abbiamo. Ci presentiamo al mondo chiedendo, sentiamo di avere un diritto. Talora ciò che vogliamo lo chiediamo con passione, magari con prepotenza, e una volta che lo abbiamo ottenuto ci viene voglia di qualcos'altro. Gli altri sono nostri concorrenti e li guardiamo con sospetto. Nel secondo stato c'è unità, perché, invece di recriminare e protestare, diventiamo tutt'uno con ciò che ci è dato. Questo è il momento che ho sempre aspettato, pensiamo. Questo è ciò per cui vale la pena di vivere. Gli altri sono amici, non avversari. Sentiamo ogni cellula del nostro essere che dice grazie. «Gratefulness is heaven itself» diceva il poeta inglese William Blake: la gratitudine è il paradiso.

felicitàaccontentarsigratitudinelavoro

inviato da Qumran, inserito il 01/12/2017

RACCONTO

2. Hai dimenticato una cosa!

Vita di san Girolamo

Ben prima di diventare un sapiente e stimato esegeta, brillante consigliere di nobildonne dell'alta società romana, Girolamo aveva tentato un periodo di vita da eremita in una grotta del deserto di Giuda.

Con la presunzione tipica dell'età, il giovane Girolamo si era dedicato con ardore alle molteplici forme di ascesi allora in uso tra i monaci. Ma i risultati si facevano attendere: il tempo gli avrebbe fatto presto capire che la sua vera vocazione era altrove nella Chiesa e che il suo soggiorno tra i monaci della Palestina ne costituiva solo il preludio.

Tuttavia Girolamo doveva ancora imparare molte cose e intanto, da giovane novizio si trovava immerso nella disperazione: nonostante i suoi sforzi generosi, non riceveva alcuna risposta dal cielo.

Andava alla deriva, senza timone, in mezzo alle tempeste interiori, al punto che le vecchie tentazioni, già così familiari, non tardarono a rialzare la cresta. Girolamo era scoraggiato: cosa aveva fatto di male? Dov'era la causa di questo cortocircuito tra Dio e lui?

Come ristabilire il contatto con la grazia? Mentre Girolamo si arrovellava il cervello, notò all'improvviso un crocifisso che era comparso tra i rami secchi di un albero. Girolamo si gettò a terra e si percosse il petto con gesto solenne e vigoroso. E' in questa posizione umile e supplicante che lo raffigura la maggior parte dei pittori.

Subito Gesù rompe il silenzio e si rivolge a Girolamo dall'alto della croce: «Girolamo - gli dice - cos'hai da darmi? Cosa riceverò da te?». Girolamo non esita un attimo. Certo che aveva un sacco di cose da offrire a Gesù: «Naturalmente, Signore: i miei digiuni, la fame, la sete. Mangio solo al tramonto del sole!»

Di nuovo Gesù risponde: «Ottimo Girolamo, ti ringrazio. Lo so, hai fatto del tuo meglio. Ma hai ancora altro da darmi?» Girolamo ripensa a cosa potrebbe ancora offrire a Gesù. Ecco allora le veglie, la lunga recita dei salmi, lo studio assiduo giorno e notte della Bibbia, il celibato nel quale si impegnava con più o meno successo, la mancanza di comodità, la povertà, gli imprevisti che si sforzava di accogliere senza brontolare e infine il caldo di giorno e il freddo di notte. Ad ogni offerta, Gesù si complimenta e lo ringrazia.

Lo sapeva da tempo: Girolamo ci tiene così tanto a fare del suo meglio! Ma ad ogni offerta, Gesù, con un sorriso astuto sulle labbra, lo incalza ancora e gli chiede: «Girolamo, hai qualcos'altro da darmi?»

Alla fine, dopo che Girolamo ha enumerato tutte le cose buone che ricorda e siccome Gesù gli pone per l'ennesima volta la stessa domanda, un po' scoraggiato e non sapendo più a che santo votarsi, finisce per balbettare: «Signore, ti ho dato già tutto, non mi resta davvero più niente!».

Allora un grande silenzio piomba nella grotta e fino alle estremità del deserto di Giuda; Gesù replica un'ultima volta: «Eppure Girolamo hai dimenticato una cosa: dammi anche i tuoi peccati affinché possa perdonarteli...».

conversionepenitenzapeccatopeccatoregraziaperdono

5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 14/04/2011

RACCONTO

3. Il Cieco di Gerusalemme   1

Nardo Masetti

È disperato. Ha perduto la vista all'improvviso e a nulla sono valse le cure dei medici. Ora non ha più denaro; tutti lo hanno abbandonato. È ormai deciso: prima o poi la farà finita con una vita tanto misera. Un giorno sente parlare di un certo Gesù che guarisce tutti, che a Gerico ha persino ridato la vista a un cieco nato, che non chiede nessun compenso per le sue prestazioni: anzi, assieme alla salute del corpo, ridona la gioia di vivere. Si trascina giorno dopo giorno, Dio solo sa come, fino a Gerusalemme, poiché gli hanno detto che lui è là. Ora si aggira per le viuzze della città santa, mentre il sole è al tramonto. In Gerusalemme regna un silenzio profondo, troppo profondo, perché si azzardi a gridare quel nome nel quale ha riposto ogni sua speranza. Si accovaccia per terra e attende il mattino.

Si sveglia mentre attorno lui c'è già il brusio, che caratterizza l'inizio di giornata in una grande città. Raccoglie le idee, si alza in piedi e, porgendo le mani ai passanti, come se volesse chiedere l'elemosina, cerca di fermare qualcuno. Una donna ascolta la sua domanda e gli risponde: "Gesù non lo potrai più incontrare, il Sinedrio lo ha condannato; lo hanno crocifisso una decina di giorni fa. Il cieco si sente perduto. Poi gli balena un'idea improvvisa e supplica la donna: "Ti prego portami al Tempio o da uno dei componenti il Sinedrio". Ella lo accompagna e lo presenta a uno dei sacerdoti che incontrano nell'atrio della casa del Signore. Questi conferma al povero uomo la notizia che già sapeva: Gesù è stato condannato e ucciso. Il cieco implora: "Guariscimi tu dalla mia cecità, o fammi guarire da uno dei membri del Sinedrio, o da Ponzio Pilato!". Il sacerdote, sbalordito, a fatica riesce a fargli comprendere come lui non ha il potere di fare miracoli e come non possa pretenderlo dal Sinedrio e tanto meno dal Procuratore romano... Si fa un silenzio assoluto da parte della folla, che nel frattempo si era radunata, e tutti volgono uno sguardo interrogativo al sacerdote che, triste e vergognoso, guadagna frettolosamente l'interno del sontuoso edificio di culto. Il cieco continua ad interrogare la folla: Era tanto buono, ma perché l'hanno ucciso?!

Il cieco è seduto sul muricciolo che delimita la spianata del Tempio, con lo sguardo vuoto puntato alla pianura che non vede, ma che intuisce sotto di sé. È venuto il momento di portare a compimento il suo progetto: basta una salto oltre la balconata e tutto è fatto. All'improvviso sente un tocco sulla spalla; non vi fa caso. Poi sente insistente una voce che gli suggerisse di guardare la valle meravigliosa, il colle di ulivi, il sole che splende alto e illumina tutto di colori sgargianti. Un grido gli rimane strozzato in gola: sì, vede tutte quelle cose come un tempo. Vede tutto fuorché "Colui" che lo ha toccato: è scomparso. Entra nel Tempio e si mette a riflettere: allora è vero quello che molti vanno dicendo, cioè che Gesù è risorto e sta apparendo qua e là ai suoi discepoli; ed è apparso pure a lui. Una gioia sovrumana invade il suo essere; una sola nube l'offusca: non è riuscito a ringraziare il Signore. Ma subito si rasserena. Quell'"Uomo" lo avrebbe rivisto a suo tempo, e per ringraziarlo dell'immenso dono avrebbe avuto a disposizione tutta l'eternità.

speranzadisperazionefedelucerisortorisurrezioneGesù

5.0/5 (1 voto)

inviato da Don Nardo Masetti, inserito il 26/06/2010

RACCONTO

4. Il piccolo re solitario   1

Bruno Ferrero, Nuove Storie, Ed. Elle Di Ci

Lontano, lontano da qui, in un mare dal nome strano, c'era una piccola isola, con le spiagge bianche e le colline verdi. Sull'isola c'era un castello e nel castello viveva un piccolo re. Era un re abbastanza strano, perché non aveva sudditi. Nemmeno uno.

Ogni mattina il piccolo re, dopo aver sbadigliato ed essersi stiracchiato, si lavava le orecchie e si spazzolava i denti; poi si calcava in testa la corona e cominciava la sua giornata. Se splendeva il sole, il piccolo re correva sulla spiaggia a fare sport. Era un grande sportivo. Deteneva infatti tutti i record del regno: da quello dei cento metri di corsa sulla sabbia, al lancio della pietra, a tutte le specialità di nuoto, eccetto lo sci acquatico, perché non trovava nessuno che guidasse il reale motoscafo. E dopo ogni gara, il re si premiava con la medaglia d'oro. Ne aveva ormai tre stanze piene.

Ogni volta che si appuntava la medaglia sul petto, si rispondeva con garbo: "Grazie, maestà!".

Nel castello c'era una biblioteca, e gli scaffali erano pieni di libri. Al re piacevano molto i fumetti d'avventure. Un po' meno le fiabe, perché nelle fiabe tutti i re avevano dei sudditi. "E io neanche uno!" si diceva il re. "Ma come dice il proverbio: è meglio essere soli che male accompagnati".

E quando faceva i compiti, si dava sempre dei bellissimi voti. "Con i complimenti di sua maestà", si dichiarava.

Una sera, però, sentì un certo nonsoché che lo rendeva malinconico; camminò fino alla spiaggia, deciso a cercare qualche suddito, e pensava: "Se solo avessi cento sudditi".

Allora proseguì sulla spiaggia verso destra, ma la riva era completamente deserta.

"Se solo avessi cinquanta sudditi", disse il re; tornò indietro e camminò sulla spiaggia verso sinistra fino a che poté, ma la riva era ugualmente deserta. Il re si sedette su uno scoglio ed era un po' triste; e di conseguenza non si accorse nemmeno che quella sera c'era un magnifico tramonto.

"Se solo avessi dieci sudditi, probabilmente sarei più felice".

Notò lontano sul mare alcuni pescatori sulle loro barche e si rallegrò.

"Sudditi", gridò il re; "sudditi, da questa parte, ecco il re, urrà!".

Ma i pescatori non lo sentirono, e tutto quel gridare rese rauco il re. Tornò a casa e scivolò sotto la sua bella trapunta colorata; si addormentò e sognò un milione di sudditi che gridavano "urrà" nel momento in cui lo vedevano.

Non dormì a lungo. Un vociare forte e disordinato lo svegliò. Il piccolo re non aveva sudditi, ma aveva dei nemici accaniti. Erano i pirati del terribile Barbarossa.

Sembravano sbucare dall'orizzonte, con la loro nave irta di cannoni, con i loro baffi spioventi e il ghigno feroce, e i coltellacci fra i denti.

"All'arrembaggio!", gridava Barbarossa, il più feroce di tutti. E i trentotto pirati entravano urlando nel castello e facevano man bassa di tutto quello che trovavano. A forza di scorrerie, nel castello era rimasto ben poco di asportabile, così i pirati avevano preso l'abitudine di riportare qualcosa ogni volta per poterlo rubare nella scorreria successiva.

Il piccolo re aveva una paura tremenda dei pirati e soprattutto del crudele Barbarossa che ogni volta sbraitava: "Se prendo il re, lo appendo all'albero della nave!".

Così, quando sentiva arrivare i pirati, si nascondeva in uno dei tanti nascondigli segreti del castello. Dentro, rannicchiato nel buio, aspettava la partenza dei pirati. Era così da tanto tempo ormai, e il piccolo re non si sentiva affatto un fifone. "Se avessi un esercito", pensava, "Barbarossa e la sua ciurma non la passerebbero liscia".

Un mattino, il re si svegliò a un suono completamente nuovo. Lo ascoltò e si rese conto che non aveva mai udito un suono simile. "Forse sono arrivati i miei sudditi", pensò il re, e andò ad aprire la porta. Sul gradino della porta sedeva un enorme gatto arancione.

"Buongiorno", disse il re con grande dignità; "io sono il re, urrà".
"E io sono il gatto", disse il gatto.
"Tu sei mio suddito", disse il re.
"Lasciami entrare", ribatté il gatto; "ho fame e ho freddo".

Il re lasciò entrare il gatto nella sua casa, e il gatto fece un giro intorno e vide quanto era grande e confortevole.
"Che bellissima casa hai".

"Sì, non è male", disse il re; e improvvisamente si accorse di tutte le cose che non aveva mai visto in molti anni.

"E' perché io sono il re", disse il re; ed era molto soddisfatto.

"Io resterò qui", decise il gatto, e si sistemò nella casa per vivere con il re; e il re fu felice perché ora aveva finalmente un suddito.

"Dammi del cibo", disse il gatto, e il re corse via immediatamente per andare a prendere cibo per il gatto.

"Fammi un letto", disse il gatto; e il re corse alla ricerca di una trapunta e di un cuscino.

"Ho freddo", disse il gatto; e il re accese un fuoco affinché il gatto potesse scaldarsi.
"Ecco fatto, signor Suddito", disse il re al gatto.
E il gatto rispose: "Grazie, signor Re".

E il re non notò neppure che, sebbene fosse il re, serviva il gatto.

Il tempo passava e il re era felice in compagnia del gatto, e il gatto mostrava al re ogni cosa che il re nella sua solitudine era riuscito a dimenticare: il tramonto, la rugiada del mattino, le conchiglie colorate e la luna che scivolava attraverso il cielo come la barca dei pescatori sul mare.

Qualche volta accadeva al re di passare davanti a uno specchio, e quando vedeva la sua immagine diceva: "Il re, urrà". E si salutava. Non era più il campione assoluto dell'isola. Il gatto lo batteva nel salto in alto, in lungo e nell'arrampicata sugli alberi; ma il re continuava a eccellere nel nuoto e nel lancio della pietra.

Un mattino, il re sentì bussare alla porta del castello. Corse ad aprire, pensando: "Arrivano i sudditi". Si trovò davanti un piccoletto con la faccia allegra. Era un pinguino, con la camicia bianca e il frac di un bel nero lucente.

"Buongiorno", disse il re con grande dignità; "io sono il re, urrà".
"E io sono un pinguino", disse il pinguino.
"Tu sei mio suddito", disse il re.

"Lasciami entrare", ribatté il pinguino; "ho fame e ho i piedi congelati. Sono stufo di abitare su un iceberg".

Il re lasciò entrare il pinguino nella sua casa e gli presentò il gatto, che fu molto felice di fare conoscenza con il pinguino.
"Penso che mi fermerò qui con voi", disse il pinguino.

Il re ne fu felicissimo. Adesso aveva due sudditi. Corse a preparare una buona cenetta per il pinguino, mentre il gatto portava al nuovo ospite due soffici pantofole.

"Io farò il maggiordomo. Mi ci sento portato", dichiarò il pinguino. "Terrò in ordine il castello e servirò gli aperitivi in terrazza".

Così furono in tre a guardare i tramonti. Ed era ancora meglio che in due. Il re non vinceva più molte gare sportive, perché il pinguino lo batteva a nuoto e nei tuffi. Scoprì, sorprendentemente, che si può essere contenti anche se non si vince sempre.

Ma una sera, lontano all'orizzonte, apparve la nave del pirata Barbarossa.
"Presto scappiamo a nasconderci", gridò il re.

"Neanche per sogno", disse il gatto. "Siamo in tre e possiamo battere quei prepotenti".
"Certo", ribatté il pinguino. "Basta avere un piano".

"Nell'armeria del castello c'è l'armatura del gigante Latus", disse il re.

"Bene", disse il gatto. "Ci infileremo nell'armatura e affronteremo i pirati".

"Il gatto si metterà sulle mie spalle, e il re sul gatto, così potrà brandire la spada", continuò il pinguino.
"Approvo il piano", concluse il re.

Così fecero. Quando approdarono alla spiaggia, i pirati rimasero paralizzati dalla sorpresa. Verso di loro, a grandi passi ondeggianti, avanzava un gigante che brandiva un enorme e minaccioso spadone. "E' tornato il gigante Latus!", gridarono. "Si salvi chi può!". E si buttarono in acqua per raggiungere la nave. Da allora nessuno li vide mai più.

Sulla spiaggia dell'isola il piccolo re, il gatto e il pinguino si abbracciarono ridendo. Poi il gatto e il pinguino sollevarono il re e lo gettarono in aria gridando: "Re è il migliore amico che c'è, urrà!".

amiciziasolitudineservizio

inviato da Suor Lucia Brasca FMA, inserito il 27/07/2004

RACCONTO

5. Alla ricerca dell'amore perduto di mamma e papà

Mamma e papà di Paola non si amavano più. Paola buona e mite, capiva tutto. Papà e mamma erano pieni d'ira e si voltavano la schiena. Papà, una volta, aveva rotto un bicchiere dando un pugno sulla tavola e mamma aveva schiaffeggiato Paola, perché non osava ancora schiaffeggiare papà.

Paola andava dall'uno all'altra, e diceva delle parole piacevoli per farli ridere, raccontava tutte le cose buffe che le erano capitate e quello che era successo a scuola, tentava di riconciliarli.

Un giorno, che la cosa sembrava particolarmente grave, Paola aveva addirittura finto di essersi avvelenata con la benzina per smacchiare. Voleva che i genitori facessero la pace al suo capezzale.

Tre mesi dopo, tutto era ricominciato. Paola continuava il suo lavoro di formica. E non disperava. Di notte, nel suo lettino, stringeva forte forte al cuore il suo tigrotto di stoffa', che si chiama Titì, e che era spelacchiato e malconcio per i tanti abbracci, baci, Nutella e lacrime che in nove anni Paola gli aveva rovesciato addosso. Dalla camera di papà e mamma filtravano spesso strilli e imprecazioni soffocate, e il rumore degli attaccapanni sbattuti di malagrazia. Paola si premeva forte le mani sulle orecchie e pregava: «Signore, per piacere, falli smettere!».

Quando arrivava un estraneo e osservava gli occhi gonfi di mamma, e papà afono per aver troppo gridato, Paola preveniva le critiche e diceva: «Vedi, è colpa delle cipolle». Oppure: «Non conosce una medicina per papà? Ha il mal di gola e non può più parlare».

Una strana voce nella notte

Una notte, Paola fu svegliata dalla solita baruffa. Dormiva abbracciata a Titì e sentì chiaramente: «Basta! Non possiamo continuare così!», diceva mamma.
«Sei tu che vuoi sempre avere ragione!» ribatté papà.
«Che cosa suggerisci, sapientona?».

«Ci... dividiamo. Ognuno per conto suo e... non se ne parli più!».
La casa si riempì di silenzio.

Ma qualcuno con un buon udito avrebbe potuto sentire il piccolo cuore di Paola che batteva all'impazzata: «Tum... tum... tum...», mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime. «Non voglio! Non voglio!». Mormorava piano piano.
«E allora parti!», disse una voce.
Paola trattenne il fiato per la sorpresa.
«Chi ha parlato? Chi c'è qui?», domandò un tantino inquieta.
«Sono io. Titì», riprese fiera la vocina.

Paola accese la luce del comodino ed esaminò il tigrotto di stoffa.
«Tu, parli?».
Gli occhi di vetro di Titì brillarono come fossero veri.

«Quando ci vuole, ci vuole», bofonchiò. «Chi ama tanto, può far parlare anche le pietre, se è solo per questo. Ora ascoltami bene: posso parlare solo una volta nella vita, anche se la vita di un animale di stoffa è piuttosto lunga e non mi posso lamentare. E certo che la vita con te è piuttosto... umida».
«Scusami», sussurrò Paola.

«Non c'è di che. Quando avevi tre mesi mi inondavi con ben altro... Ecco quello che devi fare: vai a riprendere l'amore perduto di mamma e papà».
«Dove?».
«C'è un posto dove si trovano tutti gli amori perduti.

Non perdere tempo; bisogna riportarli finché sono ancora vivi, caldi e luminosi; altrimenti non c'è niente da fare... Puoi andare soltanto tu. Prenditi lo zainetto: l'amore di un papà e una mamma è pesante».

«Ma non conosco la strada». Protestò Paola mentre si vestiva e indossava il fedele zainetto scolastico.
«La troverai. Parti diritto avanti a te».
«Ma c'è il muro!».
«Fidati di me. Tira diritto!».

Paola chiuse gli occhi e... passò attraverso il muro.

La polvere luccicante

Si trovò in un giardino intersecato da molti sentieri. Ne imboccò uno. Dopo un po', scorse su una panchina qualcosa che brillava. Si avvicinò e vide che era un pezzettino dell'amore di mamma e papà. Naturalmente lo riconobbe subito, perché i figli sono fatti con l'amore di mamma e papà. Poco più in là, vicino a una grande quercia, vide un altro pezzettino, appena uno spolverio, dell'amore di mamma e papà. Si avvicinò e vide che, in un angolino del tronco rugoso, erano incise alcune parole: «Riccardo e Ornella, per sempre».

«Sono mamma e papà», mormorò Paola. Raccolse la polvere luccicante e la infilò nello zainetto con il pezzetto che aveva già trovato. «Di questo passo, ci metterò un sacco di tempo» si disse.

Proprio in quel momento alzò gli occhi e vide il cartello indicatore: «Deposito amori perduti. Di qua».

«Grazie», sussurrò e cominciò a camminare. Il paesaggio cominciò a cambiare e prese a soffiare un vento gelido e, tagliente. Paola si strinse rabbrividendo dentro il «pile». Solo la polvere d'amore che aveva trovato mandava un lieve tepore. La pista ghiaiosa finiva stroncata in una palude triste e minacciosa. Un cartello festonato di ragnatele polverose indicava: «Palude del Mio-mio».

«Sempre diritto!», fece Paola ad alta voce. Strinse i pugni e si incamminò nel fango.

Ogni passo le costò fatica e lacrime. Il fango della palude era vischioso e cercava di trattenerla. Ma Paola arrivò dall'altra parte. La strada riprendeva con una ripida salita e dopo alcuni tornanti si interrompeva bruscamente.

Paola era stanca e quando scorse che cosa l'attendeva, si accasciò avvilita.

«Oh, no!». Quello che aveva davanti era il peggiore dei precipizi che avesse mai visto. E per di più lei pativa le vertigini. Incastrato sull'orlo del dirupo faceva capolino il solito cartello scheggiato: «Salto della fiducia».

La parola «salto» non diceva niente di buono a Paola, ma la prospettiva di tornare ad affrontare la palude era altrettanto tremenda. Si affacciò sul ciglio del precipizio, chiuse gli occhi, strinse i pugni e saltò.

Il sentiero di rose

Atterrò sul soffice. Si trovò su uno strato di rose enormi, profumate, colorate, morbide come seta. Si rialzò e ricominciò a camminare con decisione. Troppa decisione. Le sue gambe affondarono e le spine, spine enormi come le rose, la ferirono.
«Ahi!», gridò Paola.

Un'ape che ronzava come un elicottero con il suo canestrino per raccogliere nettare, la rimbrottò severamente.

«Devi essere delicata, se vuoi camminare sulle rose. Non lo sai?».

«Grazie, signora ape. È che sto cercando l'amore perduto di mamma e papà».

«Sei quasi arrivata. Vai sempre diritto. E mi raccomando... Delicatezza e rispetto!».

Paola riprese a camminare, facendo molta attenzione a dove poggiava i piedi. Il sentiero di rose si fece sempre più solido e sicuro. Finalmente, dopo una collinetta color tramonto, Paola arrivò a una strana costruzione. Il cartello non lasciava dubbi: «Deposito degli amori perduti. Fare lo scontrino alla cassa».

La gioia di Paola si velò di preoccupazione. Aveva esattamente cinquecento e cinquanta lire in una tasca dello zainetto. Quanto poteva costare lo scontrino per ritirare un amore perduto?

C'erano altre persone che facevano la coda davanti a un burbero cassiere, che teneva in mano una bilancia a due piatti: su uno poneva l'amore perduto richiesto, sull'altro il prezzo che il richiedente era disposto a pagare.

A quanto pareva nessuno riusciva a pagare la somma richiesta. E il cassiere, inflessibile, li rimandava indietro.

Davanti a Paola c'era un uomo triste e grigio. Mise sul piatto della bilancia un miliardo. Mille milioni uno sull'altro. Ma il piatto della bilancia non si mosse neanche un po'. L'amore perduto pesava molto, molto di più. L'uomo se ne andò, più triste e più grigio di prima.

Paola era davvero preoccupata. Stringendo in pugno le sue due monete, guardò il cassiere e disse con la sua voce da passerotto: «Vorrei l'amore perduto di mamma e papà».

Il cassiere aprì un armadio e ne tirò fuori un grosso amore che sistemò sul piatto della bilancia.
«È ancora caldo e luminoso, meno male», pensò Paola.
«Come paghi?», chiese severo il cassiere.

Paola allungò esitante la mano con le monete, poi con un'improvvisa ispirazione, si sedette sull'altro piatto della bilancia. I due piatti scattarono e si fermarono in perfetta parità.
«O.K. Il prezzo è giusto!», disse il cassiere.

Paola lo abbracciò felice. Prese l'amore di mamma e papà e... si trovò a casa.

«Anche noi dobbiamo fare un viaggio»

Quando mamma e papà furono seduti a tavola per fare colazione, Paola arrivò in pigiama e senza parlare posò in mezzo al tavolo l'amore che aveva ritrovato. Un'ondata di calore e di felicità, di baci e di voglia di cantare, invase la casa. Mamma e papà guardarono la loro bambina con occhi che brillavano di una luce tenera. Paola aspettava.

Mamma e papà sorrisero. Per le sue misteriose vie, l'amore era tornato al suo posto.
«Grazie, Paoletta», disse mamma. «Abbiamo capito».

«E ora dobbiamo fare un viaggio. Anche noi...», continuò papà.

Paola li abbracciò tutti e due con un lungo e riconoscente sospiro di sollievo.

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inviato da Sergio B., inserito il 11/12/2002

RACCONTO

6. Un lampo

Piero Gribaudi, Bimbi del Vangelo

Quando vide che il tramonto stava dipingendo di viola le nubi, Eleazar si accorse, come ridestandosi da un sogno, di averla fatta grossa. Che cosa avrebbe detto a casa? Gli avrebbero creduto? Ma soprattutto che cosa avrebbero mangiato, quella sera, il babbo e la mamma?

Fu quest'ultimo pensiero a spingerlo di corsa verso i 12 canestri allineati accanto a un pozzo abbandonato. Vuoti! Vuoti anch'essi come la sua bisaccia, che sentiva rendergli sul fianco floscia come un pensiero inutile.

La sua bisaccia che poche ore prima conteneva un tesoro: cinque pani e due grandi pesci essiccati.

Che cosa era successo? Perché si era prestato con tanta spontaneità, lui - l'unico che avesse con sé un po' di cibo - a quell'incredibile gioco cui aveva assistito con stupore, gioia, emozione, sino a dimenticare il correre del tempo?

Stentava ancora a raccapezzarsi, in quel susseguirsi di eventi: la richiesta del suo prezioso cibo da parte dei discepoli di Gesù, il suo sì immediato, e poi il movimento continuo della mano del Rabbi nell'estrarre dalla sua bisaccia quel che non poteva contenere: migliaia di pani, migliaia di pesci, a saziare le migliaia di persone tra le quali si era infilato anche lui quasi per caso, per curiosità, per udire parole che solo in parte aveva capite ma che gli erano scese nel cuore come il più squisito dei cibi.

E poi, quell'allegro desinare in gruppi a forma di aiuole di cinquanta, cento persone, rese un po' ebbre dell'abbondanza del cibo spirituale e di quello materiale; al punto che il Rabbi, vedendo lo spreco dei rifiuti nell'erba, aveva ordinato di raccoglierli in dodici cesti.

Tutto straordinario, incredibile, quasi magico. Ma la conclusione? Lui, che pure si era saziato, aveva completamente dimenticato i suoi cinque pani e i suoi due pesci.

Ce n'erano talmente tanti! Ce n'erano, appunto... Ma adesso, che tutti se n'erano andati, pure i cesti degli avanzi erano stati svuotati. E lui che era costretto a tornare a casa a raccontare cose dell'altro mondo, però a mani vuote.

A Eleazar venne un groppo in gola, un grosso nodo di pianto e rabbia. E diede un gran calcio all'ultimo cesto. Vide così, acceso dall'ultimo raggio dell'ultimo sole, un piccolissimo lampo. Gli si avvicinò.

Era un pesciolino non più lungo del suo mignolo, rimasto incastrato fra le maglie del cesto. Lo raccolse, e fu allora che notò una formica trascinare una mollica di pane dieci volte più grande di lei.

Raccolse anche la mollica. Forse, mostrando a casa quei minuscoli avanzi, avrebbe potuto illustrare meglio tutte le meraviglie cui aveva assistito. Ne era assai poco convinto, Eleazar, ma tentar non nuoce.

Fu così che lo avrete già capito, Eleazar trasse quella sera a casa, sul povero tavolo disadorno, di fronte alle ghirlande di occhi dei fratellini e di mamma e papà, non uno ma diecimila pesciolini piccini e diecimila briciole di pane.

Sinché il tavolo fu colmo sino al soffitto, e i pesciolini scivolavano a terra e ai piedi del tavolo si moltiplicavano pure i gatti e le galline facendo un gran chiasso.

Alla fine, smise di affondare la mano nella bisaccia, perché le dita gli dolevano, il sole era ormai alto, i fratellini dormivano per la grande abbuffata. Mamma e papà continuavano a chiedergli di quell'uomo, Gesù, e di quale magia avesse fatto lui, il loro figliolo generoso e distratto. E lui non sapeva che rispondere, se non con un sorriso.

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inviato da Stefania Raspo, inserito il 07/05/2002