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PREGHIERA

1. Seguimi   1

Card. Anastasio Ballestrero

Signore, tu chi sei? Questo desiderio di conoscerti è la vera risposta alla tua venuta.
Sei venuto per essere cercato ogni giorno, là dove ti doni nell'inesauribilità del tuo Mistero.
Ogni giorno tu mi rivelerai "chi sei".
Gesù dammi questa fede e questa speranza.
La mia vita terrena non è più banale, gretta, meschina, da quando tu l'hai percorsa camminando per le mie stesse strade, godendo e soffrendo le mie stesse vicende, insegnandomi che la provvidenza del Padre vigila su tutti e soprattutto su coloro che seguono te.
Fammi fedele al tuo: "Vieni e seguimi".
Dicendo "vieni", non hai detto: andremo qui, andremo a far questo, a far quello...
Hai detto in modo assoluto: "Vieni e seguimi"; perciò il nostro andare è seguirti.
Seguirti con fedeltà, ma anche con umiltà.
Non ti dirò come Pietro: "Signore dove vai? Darò la mia vita per te".
Tu mi risponderesti: "Ci sarà chi ti cingerà i fianchi e ti condurrà dove non vorresti".
Signore, mi sia dato di seguirti e non di precederti.
Signore, mi sia dato di seguirti senza domandarti dove mi porti.
Ho tanta fiducia in te e mi basta; dove tu mi porterai, verrò.
Se ti seguirò, potrò diventare testimone di tutti i tuoi miracoli; se invece vorrò precederti, non conoscerò che la follia e il peccato.
Dove ti piacerà camminare, là io camminerò.
Gesù, per dove ti piacerà passare, là io passerò.
Mi basti tu, perché non soltanto cammini sulla mia strada, ma sei addirittura la "mia strada".
Se sarai per me via serena e pianeggiante, sii benedetto!
Se sarai sentiero affocato e polveroso, sii ugualmente benedetto!
Mi basta sapere, per la mia pace, che non sono chiamato a camminare per tante strade ma per una sola: te.
Tu sei la strada che mi conduce alla mèta: in Patria, alla Casa del Padre.
Sarò pellegrino fino a quel momento.
Allora finalmente nessuno mi comanderà di andare, né tu mi dirai più: "Vieni", ma la tua voce, fatta di amore, mi inviterà: "Rimani!".

vocazionesequelaseguire Gesùfedefiduciaaffidamentodiscepolato

1.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 15/01/2018

TESTO

2. Affrettiamoci ad amare   1

Roberto Benigni, I Dieci Comandamenti, Rai 1, 15 dicembre 2014

Il problema fondamentale dell'umanità da 2000 anni è rimasto lo stesso... amarsi. Solo che ora è diventato più urgente, molto più urgente, e quando oggi sentiamo ancora ripetere che dobbiamo amarci l'un l'altro, sappiamo che ormai non ci rimane molto tempo. Ci dobbiamo affrettare, affrettiamoci ad amare, noi amiamo sempre troppo poco e troppo tardi, affrettiamoci ad amare, perché al tramonto della vita saremo giudicati sull'amore, perché non esiste amore sprecato e perché non esiste un'emozione più grande di sentire quando siamo innamorati che la nostra vita dipende totalmente da un'altra persona, che non bastiamo a noi stessi, e che tutte le cose, ma anche quelle inanimate come le montagne, i mari, le strade, il cielo, il vento, le stelle, le città, i fiumi, le pietre, i palazzi... tutte queste cose, che di per sé sono vuote, indifferenti, improvvisamente quando le guardiamo si caricano di significato umano e ci affascinano, ci commuovono, perché? Perché contengono un presentimento d'amore, anche le cose inanimate, perché il fasciame di tutta la creazione è amore e perché l'amore combacia con il significato di tutte le cose: la felicità. Si, la felicità... e a proposito di felicità, cercatela, tutti i giorni, continuamente e anzi, chiunque mi ascolti ora, si metta in cerca della felicità ora, in questo momento stesso perché è lì, ce l'avete, ce l'abbiamo perché l'hanno data a tutti noi, ce l'hanno data in dono quando eravamo piccoli, ce l'hanno data in regalo, in dote, ed era un regalo così bello che l'abbiamo nascosto, come fanno i cani con l'osso, quando lo nascondono; e molti di noi l'hanno nascosto così bene che non si ricordano più dove l'hanno messo, ma ce l'avete, ce l'abbiamo. Guardate in tutti i ripostigli, gli scaffali, gli scomparti della vostra anima, buttate tutto all'aria: i cassetti, i comodini che avete dentro... vedrete che esce fuori, c'è la felicità. Provate a voltarvi di scatto, magari la pigliate di sorpresa ma è lì, dobbiamo pensarci sempre alla felicità, e anche se lei qualche volta si dimentica di noi, noi non ci dobbiamo mai dimenticare di lei, fino all'ultimo giorno della nostra vita.

E non dobbiamo avere paura nemmeno della morte, guardate che è più rischioso nascere che morire eh! Non bisogna avere paura di morire, ma di non cominciare mai a vivere davvero. Saltate dentro l'esistenza ora, qui, perché se non trovate niente ora, non troverete niente mai più, è qui l'eternità, e allora dobbiamo dire "SI” alla vita, dobbiamo dire un SI talmente pieno alla vita che sia capace di arginare tutti i no, perché alla fine di queste due serate insieme, abbiamo capito che non sappiamo niente e che non ci si capisce niente, e si capisce solo che c'è un gran mistero che bisogna prenderlo come è e lasciarlo stare, e che la cosa che fa più impressione al mondo è la vita che va avanti e non si capisce come faccia; "Ma come fa? Come fa a resistere? Ma come fa a durare così?"... è un altro mistero, e nessuno lo ha mai capito, perché la vita e molto più di quello che possiamo capire noi, per questo devi resistere. Se la vita fosse solo quello che capiamo noi, sarebbe finita da tanto, tanto tempo, e noi lo sentiamo, lo sentiamo che da un momento all'altro ci potrebbe capitare qualcosa di infinito, e allora ad ognuno di noi non rimane che una cosa da fare: inchinarsi.



amarsiamorefelicitàcomandamentibenignimortevitasenso della vitaviveremistero

5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran, inserito il 02/12/2017

RACCONTO

3. Il quarto dono

Gulli Morini

Gesù è nato a Betlemme e dal lontano oriente tre sapienti si sono messi in viaggio per venire a conoscere il re dei re. Li guida una stella, ma in realtà non sanno cosa troveranno. Il linguaggio degli astri ha detto loro che è nato un re: porterà la pace nel mondo, inizierà un regno che non avrà mai fine e unirà il cielo con la terra, ma non ha detto loro dove accadrà tutto questo e, soprattutto, come. Ecco allora che, seguendo la stella, arrivano in Palestina.
Dove andreste a cercare il futuro re? Nella città più grande, nei palazzi dove abitano i ricchi e i potenti, ed è proprio quello che fanno i tre magi a Gerusalemme.

«Dov'è il re dei Giudei che è nato?», vanno chiedendo a tutti, ma nessuno sa rispondere loro.
«Abbiamo visto sorgere la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» affermano con sicurezza i tre forestieri, e all'udire queste parole tutti, ma proprio tutti, si stupiscono, perché a un re normalmente si fa omaggio, ma non adorazione; per questo tutti comprendono bene che i Magi cercano un grande re, non uno dei tanti che regnano sulla terra.
Il loro abbigliamento, le loro domande insistenti non passano inosservate e vengono riferite a chi ha il potere in quel paese, e cioè al re Erode, ma anche ai soldati romani che da anni hanno conquistato la Palestina e sono di fatto i veri padroni del territorio.
Il comandante del presidio di Gerusalemme invia loro un soldato con la scusa di proteggerli, ma in realtà per sapere cosa c'è di vero nelle loro affermazioni.
Erode raduna i suoi consiglieri più fidati, gli studiosi della bibbia di quel tempo per conoscere dove avrebbe dovuto nascere il più grande di tutti i re, cioè il Messia d'Israele. La risposta, come potete leggere nel Vangelo di S. Matteo, è Betlemme, allora il re fa' chiamare segretamente i Magi perché ha in mente un piano. Invia i magi a Betlemme e chiede loro di tornare quando l'avranno trovato, così potrà andare anche lui ad ad «adorarlo». Di fatto pensa solo ad individuare il suo rivale per eliminarlo.

Ecco allora che i tre Magi riprendono il cammino assieme al soldato romano che li scorta sul suo cavallo, armato di lancia e di spada. I tre personaggi parlano tra di loro, sono emozionati perché sperano di arrivare presto alla fine del loro viaggio. Il soldato, che si chiama Longino, ascolta tutto con grande attenzione, così impara quali sono le caratteristiche di questo re nato da poco che i tre sapienti stanno cercando con impazienza.
Sarà un re più grande di ogni altro re; il suo regno si estenderà su tutti i popoli (e questo preoccupa molto il romano se pensa che l'impero della sua Roma possa essere in pericolo), ma nonostante tutto questo sarà un regno di pace, un regno buono, come non ce ne sono stati altri.
Alla sera, quando si accendono le prime stelle, i tre saggi scrutano con visibile apprensione il cielo e d'improvviso scoppiano in esclamazioni di gioia: la stella, ecco di nuovo la stella!
«Quale stella?» chiede Longino ai sapienti che lo guardano con occhi pieni di felicità.
«Guarda, quella è la stella che ci ha guidati», dice Melchiorre indicando un punto luminoso nel cielo.
«E' la stella del più grande dei re, come dicono tutti i libri che insegnano il linguaggio delle stelle», continua Gasparre.
«L'abbiamo vista per la prima volta nei territori d'oriente, da dove veniamo, alcuni mesi fa», aggiunge Baldassarre.
«Per settimane ci ha guidato, poi è sparita, così abbiamo proseguito il cammino solo sulla fiducia», riprende Melchiorre.
«Ma ora i nostri occhi la vedono di nuovo e la nostra gioia è talmente grande che tu non puoi nemmeno immaginare», conclude Gasparre.
«Voi saggi stranieri non lo sapete - dice Longino - ma la stella è proprio nella direzione di Betlemme, che dista da qui meno di un'ora di cammino».
I tre Magi sono eccitati come bambini.
«Cosa aspettiamo? Presto, prepariamo i doni. Partiamo subito», si dicono l'un l'altro.
Longino vorrebbe trattenerli, ma i tre sapienti insistono tanto che alla fine il romano è costretto a far loro da guida.

Il viaggio diventa sempre più disagiato, perché ormai il buio è totale e si intravede solo la via al bagliore delle stelle. L'aspettativa dell'evento ha contagiato anche il soldato, cosicché la comitiva procede in silenzio. Ognuno pensa a ciò che tra poco troverà: un sapiente, un re, un inviato dal cielo, un pericoloso concorrente.
Dopo più di un'ora di viaggio difficoltoso i quattro finalmente giungono in vista delle luci di Betlemme. A quel tempo non c'erano le strade illuminate come adesso. Solo chi era sveglio aveva un lume acceso che filtrava appena dalle finestre già chiuse. Nel buio totale della campagna bastava una luce o due per segnalare la presenza di un villaggio.
Eccolo il paesino tanto a lungo cercato. Una decina di case costruite sulla roccia, qualche muro che circonda cortili e piccoli orti, una luce accesa fuori di una porta dalla quale esce luce e un brusìo continuo. I quattro entrano e si trovano in una locanda. Tre soldati romani ad un tavolo, qualche altro cliente agli altri tavoli, ben lontani dai soldati. Longino si avvicina ai commilitoni, scambia qualche parola in latino, poi va dall'oste, parla animatamente per qualche minuto, poi torna dai Magi che aspettano in piedi vicino alla porta.
«Nessuno sa nulla, nessun personaggio importante è passato di qui ultimamente. Tanti ebrei sono passati di qui in occasione dell'ultimo censimento, ma si trattava quasi esclusivamente di povera gente, se non proprio di straccioni. In qualche momento c'è stata tanta gente che qualcuno ha dovuto alloggiare nelle grotte dei pastori che si trovano intorno al villaggio.»
I quattro escono delusi dalla locanda e si ritrovano in una specie di piazza, nello spazio lasciato libero da alcune casette tutt'intorno. I magi guardano il cielo e interrogano muti la stella che li ha guidati fin qui. Tutte le stelle brillano con qualche tremore della luce, ma questa brilla in un modo strano anche se non fa più luce delle altre.
«E' qui vicino, guardate la stella, sembra che danzi», dice Gasparre come in trance.
«Sembra che stia cantando e che ci chiami», risponde Melchiorre come in estasi.
«Andiamo», dice Gasparre come in sogno.
Longino non capisce bene, ma anche lui è affascinato da questa strana atmosfera che si è creata e senza parlare segue i tre sapienti che si sono incamminati per un sentiero che esce dal paese, nella stessa direzione della stella.

A meno di cinque minuti di cammino c'è una grotta, dentro una piccola luce. I piedi camminano da soli, i quattro procedono come automi e si fermano sulla soglia della grotta. Quello che vedono è molto diverso da quel che si aspettavano. Un giovane uomo che gioca con un bimbo in braccio mentre la moglie, giovanissima, sta cucinando in un angolo della grotta. Di fianco a loro un bue ed un asinello legati vicino ad una greppia. Il giovane uomo si accorge della presenza dei nuovi arrivati e senza nessuna esitazione li invita ad entrare.
«La notte è umida, lì fuori: entrate e dividete con noi la nostra cena.» Poi, rivolto alla moglie: «Maria, il Signore benedice la nostra dimora con quattro ospiti.»
«Siate i benvenuti, riposatevi qualche istante mentre io impasterò e cuocerò per voi delle focacce», risponde lei.
I quattro entrano, si siedono su alcune logore stuoie per terra ed osservano questa piccola famiglia cercando con gli occhi conferme ai loro pensieri più profondi. Si aspettavano tutto tranne la straordinaria normalità di ciò che vedono: una semplice famiglia che vive l'ancor più semplice felicità di tutti i giorni che è stata loro concessa dalla nascita di un figlio. La sicurezza che accompagnava i tre saggi durante la loro ricerca è svanita. Più che delusi sono sorpresi. Qui niente ha l'apparenza dell'abitazione di un re, nemmeno le persone che stanno davanti a loro hanno un comportamento di chi aspira a comandare, le parole che sentono non son quelle di chi ha studiato tanto sui libri o di chi ha grandi sogni ed ambizioni. Eppure tutt'intorno a quel bambino c'è una tale atmosfera d'amore che i tre saggi, ma anche il soldato, ne sono conquistati. Non sono sicuri di essere davvero arrivati perché qui non corrisponde nulla alle loro aspettative, per questo debbono cambiare completamente prospettiva per poter vedere con altri occhi ciò che sta loro innanzi.
Più tardi, mentre mangiano tutti insieme, decidono di fidarsi della loro intuizione e raccontano del loro viaggio, del messaggio delle stelle, dei presagi sul futuro di quel bimbo che ora dorme nella mangiatoia degli animali. Maria e Giuseppe, suo sposo, ascoltano stupiti il racconto dei Magi. Capiscono che possono fidarsi di loro e raccontano dei pastori che, la notte della nascita di Gesù, loro figlio, erano accorsi raccontando di visioni di angeli nel cielo.
Longino ascolta anche queste notizie senza ben capire se deve considerarle verità o frutto d'immaginazione. L'unica cosa che percepisce chiaramente è un'atmosfera di serenità che lo circonda. Per i Magi invece questo racconto è la conferma che cancella tutti i loro dubbi. Sicuramente quel bimbo che dorme tranquillamente nella paglia profumata sarà il grande re annunciato dalle stelle, ma sarà anche molto diverso da tutti gli altri. Il loro cuore e non solo la mente finalmente si è aperto, è ora di aprire anche le bisacce e offrire i doni che hanno portato dal loro paese per il Re dei re. A turno depongono ai piedi del bambino Gesù l'oro, segno di ricchezza della regalità, l'incenso, profumo che sale al cielo segno di unione Dio, e mirra, profumo raro e prezioso, segno di nobiltà e di pulizia terrena, ma anche di profonda umanità, visto che viene usato anche nei riti di sepoltura.
Longino è confuso da questa atmosfera che si è creata: percepisce che quel bambino avrà un futuro misterioso e decide di donare anche lui qualcosa, ma non ha nulla. Allora prende la lancia e la depone ai piedi di Gesù: un re deve avere potere anche se sarà un re di pace: se non vorrà fare guerre almeno potrà difendersi, e la lancia è l'arma più adatta a tener lontani i nemici. Giuseppe e Maria osservano tutto con grande attenzione mista a sorpresa: anche questi doni sono davvero inaspettati. Poi Giuseppe prende la lancia e la restituisce al soldato.
«Amico soldato, non ti offendere se non accetto il tuo dono. Capisco la tua buona intenzione e te ne sono profondamente grato. Non so cosa diventerà da grande mio figlio, ma prego il Signore che non tocchi mai un'arma e che il suo potere sia solo di amore.»
Longino si guarda intorno ma non vede ombra di rimprovero o di commiserazione, ma solo sguardi di comprensione e di stima, allora riprende la lancia e torna a sedersi sulla sua stuoia silenzioso. C'è qualcosa che gli sfugge, che non riesce a capire, che non riesce ad accettare. È tardi, per tutti c'è bisogno di dormire. Il sonno dei Magi è ricco di emozioni, di presagi, di calcoli astronomici. Quello di Longino è un sonno pesante, un po' disilluso, ma anche affascinato dalla serenità di un incontro inaspettato.

È Gesù che sveglia tutti poco prima dell'alba perché ha fame. Maria lo allatta cantando sottovoce per non disturbare gli ospiti, ma questi sono già svegli. I tre saggi discutono tra si loro sommessamente, mentre Longino accompagna Giuseppe a prendere del latte dai pastori che stanno in una grotta poco lontano. Il cielo è ormai chiaro, è l'ora di salutarsi, ma prima che Gesù si riaddormenti i tre sapienti lo prendono a turno in braccio e lo cullano guardandolo con grande affetto. Sembra che se lo mangino con gli occhi, che vogliano fissare per sempre nella mente l'immagine di quel fanciullo che per loro è così importante. Prima di riconsegnarlo alla madre lo sollevano e tenendolo più alto delle loro teste chinano il capo in segno di omaggio, di sottomissione e di adorazione. Anche il romano saluta con gentilezza e accarezza delicatamente il piccino.
I quattro s'incamminano silenziosamente verso Betlemme, ma dopo poco Baldassarre chiede a Longino: «Cambiamo strada, non torniamo a Gerusalemme, andiamo direttamente ad oriente, torniamo a casa.»
«Ma Erode vi aspetta.»
«E lascia che aspetti: secondo me considera il bambino come un rivale che intralcia i suoi progetti», risponde Gasparre.
«E poi non potrà certamente capire quali possano essere i piani di questo fanciullo: non sono chiari nemmeno per noi!», conclude Melchiorre.
Dopo qualche giorno i Magi salutano il soldato romano e lo rimandano alla sua guarnigione.
«Vai, riferisci al tuo comandante ciò che hai visto: Roma non deve aver paura di un bimbo che parlerà di pace e non di guerra. Il cielo ti benedica buon Longino.»

Passano più di trent'anni, Gesù è stato crocifisso da pochi giorni e a Gerusalemme si è sparsa la voce che è risorto. Alcuni discepoli dicono perfino di averlo visto, di aver mangiato con lui. Nel Cenacolo sono riuniti i suoi apostoli, hanno paura perché c'è chi li ha già minacciati di morte. Il sommo sacerdote e i capi religiosi vogliono chiudere per sempre l'avventura di un maestro, di un profeta troppo scomodo che ha avuto l'ardire di chiamarsi Figlio di Dio: chiunque osa affermare che Gesù è risorto viene imprigionato. Alla porta del Cenacolo qualcuno bussa: è un soldato romano, e subito il terrore si dipinge sul volto degli apostoli. Ma è un volto noto, è il vecchio Longino, il più anziano tra i soldati della guarnigione, rispettato da tutti perché non ha mai abusato del proprio potere.
Appena entrato depone la spada e la lancia per terra e chiede di parlare con Pietro. È qui a titolo personale, spiga subito, non in veste ufficiale. Vuole sapere se è vero quel che dicono di Gesù. Pietro si fida di lui e racconta di averlo visto più volte e di aver assistito alla sua ascensione al cielo in Galilea. Allora Longino si mette a piangere, sommessamente, ma incapace di smettere. Tutti gli apostoli gli sono intorno stupiti cercando di fargli coraggio, poi, finalmente, il vecchio soldato riesce a trattenersi. Viene fatto sedere e comincia il suo racconto.
«Sono io che sul Golgota ho trafitto il costato di Gesù con quella lancia», dice con fatica.
«Ti ho visto, c'ero anch'io - conferma Giovanni - ma non sei stato tu ad ucciderlo, non devi avere rimorsi».
«Lo so, ma non avevo ancora capito nulla, ero deluso per la seconda volta.»
«Non capisco per cosa tu sia rimasto deluso, e soprattutto perché la seconda volta», dice Pietro.
«E' una storia lunga», esordisce il vecchio soldato, quindi racconta il primo incontro con Gesù nella grotta di Betlemme. «Cercavo un re, il più grande dei re, ma ho trovato un bambino, una famiglia meravigliosamente normale, troppo normale per far crescere un re speciale. Ho provato nonostante la mia delusione ad offrirgli tutto ciò che avevo, cioè la mia lancia, ma mi è stata rifiutata, allora ho pensato, a differenza dei tre sapienti, di aver fallito la mia ricerca. È passato tanto tempo da quel giorno. Sono tornato a Roma e dopo parecchi anni son tornato qui e ho sentito parlare di Gesù. L'ho cercato, una volta l'ho persino ascoltato e ne sono rimasto turbato. Forse, pensavo, nonostante tutto poteva essere lui quello che doveva venire, anche se era così diverso da come l'aspettavo. Ma la mia speranza è morta con lui sul Golgota. Non sono io che l'ho ucciso, ma la mia incredulità lo ha trafitto, proprio con quella lancia che più di trent'anni fa lui mi aveva rifiutato. Ma adesso è risorto. Tanti lo dicevano e io non volevo crederci. Eppure questa notizia sconvolgente si è aggrappata al mio cuore e non ha più voluto staccarsi: ho cercato inutilmente di cancellarla, di pensare che era impossibile, che era una solo una voce messa in giro per confondere i più deboli e creduloni. Alla fine mi son deciso a venire da voi, i suoi amici per avere una parola definitiva, ed ora voi mi testimoniate che è vero: è risorto. Solo adesso, finalmente, i miei occhi cominciano a vedere, il mio cuore crede quel che la mia mente ha sempre rifiutato. Comincio adesso a capire che nulla è successo per caso, che tutto, proprio tutto è servito perché il suo disegno si compisse. Quando a Betlemme ho voluto donargli la mia lancia, Gesù non l'ha rifiutata, l'ha accettata ma me l'ha lasciata in custodia fin quando non è servita, sul Golgota. Sì, ha preso anche la mia lancia non per conquistare o comandare, ma solo per donarci il suo sangue fino all'ultima goccia.»
Maria, presente in mezzo al gruppo degli apostoli, non ha perso una sola parola del romano: il suo stupore e la sua commozione sono evidenti. Non apre bocca, come pure nessuno dei dodici, come se volesse ben imprimersi nella memoria quella testimonianza.
Dopo qualche istante di silenzio, Pietro propone di pregare tutti assieme e di ringraziare Dio per il dono di Gesù. Longino si ritira in un angolo della stanza per rispetto delle usanze degli Ebrei. È una preghiera semplice «Benedetto sei tu, Signore, che ci hai donato Gesù, tuo figlio, il quale ha versato il suo sangue per la nostra salvezza ed è risorto dai morti per confermare la nostra fede.»
Nel silenzio che segue alla preghiera si sente un fragore come di un vento che scuote le porte, le finestre si spalancano con frastuono e una luce, come una palla di fuoco entra nel cenacolo e si divide in tante piccole fiamme che scendono sulla testa degli apostoli e sulla Madonna. Ancora una volta Longino è testimone di un evento straordinario ed assiste alla prima predicazione pubblica fatta dagli apostoli per bocca di Pietro dopo la discesa dello Spirito Santo. Nei giorni successivi frequenta assiduamente i dodici, poi dà le dimissioni da soldato e si fa battezzare.

Il soldato romano che trafigge Gesù con la lancia compare anche nei Vangeli Apocrifi: è da queste fonti che abbiamo il suo nome. La tradizione vuole anche che la sua conversione sia stata talmente esemplare da farlo diventare uno dei primi vescovi della Cappadocia, e poi santo martire.

ricerca di Diore magiepifaniacrocifissione

inviato da Guglielmo Morini, inserito il 26/09/2017

RACCONTO

4. Dov'è finita la stella cometa?   2

Bruno Ferrero, L'iceberg e la duna

Quando i Re Magi lasciarono Betlemme, salutarono cortesemente Giuseppe e Maria, baciarono il piccolo Gesù, fecero una carezza al bue e all'asino. Poi, con un sospiro, salirono sulle loro magnifiche cavalcature e ripartirono.

«La nostra missione è compiuta!», disse Melchiorre, facendo tintinnare i finimenti del suo cammello. «Torniamo a casa!», esclamò Gaspare, tirando le briglie del suo cavallo bianco. «Guardate! La stella continua a guidarci», annunciò Baldassarre.

La stella cometa dal cielo sembrò ammiccare e si avviò verso Oriente. La corte dei Magi si avviò serpeggiando attraverso il deserto di Giudea. La stella li guidava e i Magi procedevano tranquilli e sicuri. Era una stella così grande e luminosa che anche di giorno era perfettamente visibile. Così, in pochi giorni, i Magi giunsero in vista del Monte delle Vittorie, dove si erano trovati e dove le loro strade si dividevano.

Ma proprio quella notte cercarono invano la stella in cielo. Era scomparsa. «La nostra stella non c'è più», si lamentò Melchiorre. «Non l'abbiamo nemmeno salutata». C'era una sfumatura di pianto nella sua voce. «Pazienza!», ribatte Gaspare, che aveva uno spirito pratico. «Adesso possiamo cavarcela da soli. Chiederemo indicazioni ai pastori e ai carovanieri di passaggio».

Baldassarre scrutava il cielo ansiosamente; sperava di rivedere la sua stella. Il profondo e immenso cielo di velluto blu era un trionfo di stelle grandi e piccole, ma la cometa dalla inconfondibile luce dorata non c'era proprio più. «Dove sarà andata?», domandò, deluso. Nessuno rispose. In silenzio, ripresero al marcia verso Oriente.

La silenziosa carovana si trovò presto ad un incrocio di piste. Qual era quella giusta? Videro un gregge sparso sul fianco della collina e cercarono il pastore. Era un giovane con gli occhi gentili nel volto coperto dalla barba nera. Il giovane pastore si avvicinò e senza esitare indicò ai Magi la pista da seguire, poi con semplicità offrì a tutti latte e formaggio. In quel momento, sulla sua fronte apparve una piccola inconfondibile luce dorata.

I Magi ripartirono pensierosi. Dopo un po', incontrarono un villaggio. Sulla soglia di una piccola casa una donna cullava teneramente il suo bambino. Baldassarre vide sulla sua fronte, sotto il velo, una luce dorata e sorrise. Cominciava a capire.

Più avanti, ai margini della strada, si imbatterono in un carovaniere che si affannava intorno ad uno dei suoi dromedari che era caduto e aveva disperso il carico all'intorno. Un passante si era fermato e lo aiutava a rimettere in piedi la povera bestia. Baldassarre vide chiaramente una piccola luce dorata brillare sulla fronte del compassionevole passante.

«Adesso so dov'è finita la nostra stella!», esclamò Baldassarre in tono acceso. «È esplosa e i frammenti si sono posati ovunque c'è un cuore buono e generoso!». Melchiorre approvò: «La nostra stella continua a segnare la strada di Betlemme e a portare il messaggio del Santo Bambino: ciò che conta è l'amore». «I gesti concreti dell'amore e della bontà insieme formano la nuova stella cometa», concluse Gaspare. E sorrise perché sulla fronte dei suoi compagni d'avventura era comparsa una piccola ma inconfondibile luce dorata.

Ci sono uomini e donne che conservano in sé un frammento di stella cometa. Si chiamano cristiani.

epifaniare Magistellabontàtestimonianza

4.5/5 (2 voti)

inviato da Don Antonello Pelisseri, inserito il 28/12/2016

TESTO

5. Testamento di Raoul Follereau

Raoul Follereau

Giovani di tutto il mondo, o la guerra o la pace sono per voi. Scrivevo, venticinque anni fa: "O gli uomini impareranno ad amarsi o, infine, l'uomo vivrà per l'uomo, o gli uomini moriranno". Tutti e tutti insieme.
Il nostro mondo non ha che questa alternativa: amarsi o scomparire. Bisogna scegliere. Subito. E per sempre. Ieri, l'allarme. Domani, l'inferno.
I Grandi - questi giganti che hanno cessato di essere uomini - possiedono, nelle loro turpi collezioni di morte, 20.000 bombe all'idrogeno, di cui una sola è sufficiente a trasformare un'intera Metropoli in un immenso cimitero. Ed essi continuano la loro mostruosa industria producendo tre bombe ogni 24 ore. L'Apocalisse è all'angolo della strada.
Ragazzi, Ragazze di tutto il mondo, sarete voi a dire "no" al suicidio dell'umanità.
"Signore, vorrei tanto aiutare gli altri a vivere". Questa fu la mia preghiera di adolescente.
Credo di esserne rimasto, per tutta la mia vita, fedele...
Ed eccomi al crepuscolo di una esistenza che ho condotto il meglio possibile, ma che rimane incompiuta.
Il tesoro che vi lascio, è il bene che io non ho fatto, che avrei voluto fare e che voi farete dopo di me. Possa solo questa testimonianza aiutarvi ad amare. Questa è l'ultima ambizione della mia vita, e l'oggetto di questo "testamento".

Proclamo erede universale tutta la gioventù del mondo. Tutta la gioventù del mondo: di destra, di sinistra, di centro, estremista: che mi importa!
Tutta la gioventù: quella che ha ricevuto il dono della fede, quella che si comporta come se credesse, quella che pensa di non credere. C'è un solo cielo per tutto il mondo.
Più sento avvicinarsi la fine della mia vita, più sento la necessità di ripetervi: è amando che noi salveremo l'umanità.
E di ripetervi: la più grande disgrazia che vi possa capitare è quella di non essere utili a nessuno, e che la vostra vita non serva a niente.
Amarsi o scomparire.
Ma non è sufficiente inneggiare a: "la pace, la pace", perché la Pace cessi di disertare la terra.
Occorre agire. A forza di amore. A colpi di amore.
I pacifisti con il manganello sono dei falsi combattenti. Tentando di conquistare, disertano. Il Cristo ha ripudiato la violenza, accettando la Croce.
Allontanatevi dai mascalzoni dell'intelligenza, come dai venditori di fumo: vi condurranno su strade senza fiori e che terminano nel nulla.
Diffidate di queste "tecniche divinizzate" che già San Paolo denunciava.
Sappiate distinguere ciò che serve da ciò che sottomette.
Rinunciate alle parole che sono tanto più vuote quanto sonore.
Non guarirete il mondo con dei punti esclamativi.
Ciò che occorre è liberarlo da certi "progressi" e dalle loro malattie, dal denaro e dalla sua maledizione.
Allontanatevi da coloro per i quali tutto si risolve, si spiega e si apprezza in rapporto ai biglietti di banca.
Anche se sono intelligenti essi sono i più stupidi di tutti gli uomini.
Non si fa un trampolino con una cassaforte.
Bisognerà che dominiate il potere del denaro, altrimenti quasi nulla di umano è possibile, ma con il quale tutto marcisce.
Esso, Corruttore, diventi Servitore.
Siate ricchi della felicità degli altri.
Rimanete voi stessi. E non un altro. Non importa chi. Fuggite le facili vigliaccherie dell'anonimato.
Ogni essere umano ha un suo destino. Realizzate il vostro, con gli occhi aperti, esigenti e leali.
Niente diminuisce mai la dimensione dell'uomo. Se vi manca qualcosa nella vita è perché non avete guardato abbastanza in alto.
Tutti simili? No.
Ma tutti uguali e tutti insieme!
Allora sarete degli uomini. Degli uomini liberi.
Ma attenzione! La libertà non è una cameriera tuttofare che si può sfruttare impunemente. Né un paravento sbalorditivo dietro il quale si gonfiano fetide ambizioni.
La libertà è il patrimonio comune di tutta l'Umanità. Chi è incapace di trasmetterla agli altri è indegno di possederla.
Non trasformate il vostro cuore in un ripostiglio; diventerebbe presto una pattumiera.
Lavorate. Una delle disgrazie del nostro tempo è che si considera il lavoro come una maledizione. Mentre è redenzione.
Meritate la felicità di amare il vostro dovere.
E poi, credete nella bontà, nell'umile e sublime bontà.
Nel cuore di ogni uomo ci sono tesori d'amore.
Spetta a voi, scoprirli.
La sola verità è amarsi.
Amarsi gli uni con gli altri, amarsi tutti. Non a orari fissi, ma per tutta la vita.
Amare la povera gente, amare le persone infelici (che molto spesso sono dei poveri esseri), amare lo sconosciuto, amare il prossimo che è ai margini della società, amare lo straniero che vive vicino a voi.
Amare.
Voi pacificherete gli uomini solamente arricchendo il loro cuore.

Testimoni troppo spesso legati al deterioramento di questo secolo (che fu per poco tempo così bello), spaventati da questa gigantesca corsa verso la morte di coloro che confiscano i nostri destini, asfissiati da un "progresso" folgorante, divoratore ma paralizzante, con il cuore frantumato da questo grido "ho fame!" che si alza incessante dai due terzi del mondo, rimane solo questo supremo e sublime rimedio: Essere veramente fratelli.
Allora... domani?
Domani, siete voi.

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inviato da Fra Roberto Brunelli, inserito il 28/12/2016

PREGHIERA

6. Resta con noi, Signore, perché si fa sera

Antonietta Milella, Commento al Vangelo

Quando le parole non bastano, specialmente quelle scritte dalla tua mano.
Quando non basta che sei venuto a spiegarcele con la tua vita e a testimoniarne la verità con la tua morte.
Quando non basta tutto questo per riconoscerti nel compagno di viaggio che parla con noi.
Quando siamo tristi e smarriti perché pensiamo che te ne sei andato per sempre, nella maniera più atroce, triste e dolorosa e ci hai lasciati irrimediabilmente soli, senza speranza...
Ti prego, fermati a mangiare con noi.
La sera, il buio fa più paura, se tu non ci sei.

Rimani con noi, riposati un po', prima di riprendere il viaggio attraverso le strade del mondo.
Signore, resta con noi che non ancora riusciamo a capirti, non ancora riusciamo a capacitarci che sei andato a morire.
Signore, resta con noi ancora un poco, forse il miracolo di vederti risorto anche noi potremo vederlo, se ci aprirai gli occhi al tuo folgorante mistero.
Torna a spezzare quel pane che la sera prima di morire distribuisti ai tuoi discepoli, invitandoli a fare altrettanto, in memoria di te, perché tutti ne avessimo sempre.
Fatti conoscere nella quotidianità di un gesto così tanto familiare, non capito, dimenticato, quando solennemente lo benedicesti, perché non rimanessimo mai senza di te, mai ci sentissimo soli, mai pensassimo che te ne eri andato per sempre.

Ti voglio incontrare, Signore nel pane spezzato, un gesto che non abbiamo capito abbastanza, ti vogliamo, Signore, riconoscere nella semplicità di ciò che tu hai trasformato in segno indelebile di te che sei il Cristo morto e risorto per noi.
Vogliamo, Signore, incontrarti e abbracciati per sempre, sicuri che non te ne andrai, convinti che quand'anche fosse, hai dato ai tuoi ministri il potere di renderti vivo e presente nell'Eucaristia.
A torto abbiamo pensato che ci avevi illusi, dicendo che saresti stato sempre con noi, sbagliavamo quando ti abbiamo visto morire e non abbiamo creduto che saresti risorto, invano ti stavamo cercando senza guardarti nel volto, senza ascoltare parole che ci avrebbero dato speranza.

Ma ora che il pane è stato spezzato, ora sì che ho capito e ho gioito, perché a tutto tu avevi pensato prima di tornare dal Padre, trasformandoti in cibo e bevanda perenne, per quelli che avevano fame e sete di te.
Grazie Signore perché ora so che tu sei risorto davvero e per sempre.
Grazie, perché ora so dove trovarti.

preghieraeucaristiadiscepoli di emmaus

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inviato da Antonietta Milella, inserito il 05/05/2015

RACCONTO

7. La strada che non andava da nessuna parte   5

Gianni Rodari

All'uscita del paese si dividevano tre strade: una andava verso il mare, la seconda verso la città e la terza non andava in nessun posto. Martino lo sapeva perché lo aveva chiesto un po' a tutti e da tutti aveva ricevuto la stessa risposta:
"Quella strada lì? Non va in nessun posto. E' inutile camminarci".
"E fin dove arriva?". "Non arriva da nessuna parte".
"Ma allora perché l'hanno fatta?". "Non l'ha fatta nessuno, è sempre stata lì".
"Ma nessuno è mai andato a vedere?". "Sei una bella testa dura: se ti diciamo che non c'è niente da vedere...".
"Non potete saperlo se non ci siete mai stati".

Era così ostinato che cominciarono a chiamarlo Martino-Testadura, ma lui non se la prendeva e continuava a pensare alla strada che non andava in nessun posto. Quando fu abbastanza grande, una mattina si alzò per tempo, uscì dal paese e senza esitare imboccò la strada misteriosa e andò sempre avanti. Il fondo era pieno di buche e di erbacce e ben presto cominciarono i boschi.

Cammina cammina la strada non finiva mai, a Martino dolevano i piedi e già cominciava a pensare che avrebbe fatto bene a tornarsene indietro quando vide un cane. Il cane gli corse incontro scodinzolando e gli leccò le mani, poi si avviò lungo la strada e ad ogni passo si voltava per controllare se Martino lo seguiva ancora. Finalmente il bosco cominciò a diradarsi e la strada terminò sulla soglia di un grande cancello di ferro. Attraverso le sbarre Martino vide un castello e a un balcone una bellissima signora che salutava con la mano.

Spinse il cancello, attraversò il parco e sulla porta trovò la bellissima signora. Era bella, vestita come una principessa e in più era allegra e rideva: "Allora non ci hai creduto".
"A che cosa?". "Alla storia della strada che non andava da nessuna parte".
"Era troppo stupida e secondo me ci sono più posti che strade". "Certo, basta aver voglia di muoversi. Ora vieni ti farò vedere il castello".

C'erano più di cento saloni zeppi di tesori. C'erano diamanti, pietre preziose, oro, argento e ad ogni momento la bella signora diceva: "Prendi, prendi quello che vuoi... Ti presterò un carretto per portare il peso". Martino non si fece pregare e ripartì col carretto pieno.

In paese, dove l'avevano già dato per morto, Martino fu accolto con grande sorpresa.

Scaricato il tesoro il carro ripartì. Martino fece tanti regali a tutti e dovette raccontare cento volte la sua storia. Ogni volta che finiva, qualcuno correva a casa a prendere cavallo e carretto e si precipitava giù per la strada che non andava da nessuna parte.

Ma quella sera stessa tornarono uno dopo l'altro, con la faccia lunga per il dispetto: la strada per loro finiva in mezzo al bosco in un mare di spine. Non c'era né cancello, né castello, né bella signora. Perché certi tesori esistono soltanto per chi batte per primo una strada nuova.

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inserito il 08/11/2012

TESTO

8. Intervista a Cleofa, uno dei due discepoli di Emmaus   1

Stuart Jackman, Il caso del Nazareno, Ed. Paoline 1985 (pag. 188-196)

Stavamo tornando a casa, continuando a confabulare sugli avvenimenti di questo fine settimana, riandandovi per la centesima volta. Ci sforzavamo di dare un qualche costrutto alle cose, ma senza molto successo. Ed ecco che, a circa un chilometro dalla città, ci si avvicina un uomo...

- Era il Nazareno?
Be', questa è la cosa buffa: Noi non l'abbiamo riconosciuto. Siamo stati suoi seguaci per quasi due anni. Non eravamo di quelli importanti, ma credevamo in lui, l'abbiamo ascoltato decine di volte mentre parlava... eppure quello che si è avvicinato a noi ieri pomeriggio, ci parve del tutto forestiero.
Inoltre, sembrava completamente all'oscuro di quanto era successo a Gerusalemme in questi ultimi giorni. Si unì alla nostra conversazione, ma ci toccò informarlo sulla crocifissione di venerdì scorso e sulle voci di ieri mattina sulla risurrezione.
Sembrava non fosse al corrente di nulla, ma poi, conversando con noi, si è rifatto ai tempi passati e, cominciando da Mosè e attraverso tutti i profeti, è giunto ai giorni nostri. Aveva tutto sulle punte delle dita, formidabile era! Ce ne stavamo lì, imbambolati a bocca aperta a guardarlo. Tutti quei passaggi e brani di profezie, i testi più difficili, egli li ha collegati tra loro... come tasselli di un puzzle. Ha reso chiaro tutto l'insieme e l'ha fatto apparire quasi - come dire? - inevitabile. Soprattutto la risurrezione!
E questo è il punto culminante, la conclusione prodigiosa che dà significato a tutto il resto! Il Messia viene, ma la gente non lo riconosce. Nessuno lo accoglie perché non corrisponde in nulla a quello che noi ci attendevamo ch'egli fosse. Invece di incoronarlo re, lo mettiamo a morte. Non sappiamo chi sia e così ci liberiamo di lui. Ma il Messia è il vincitore della morte. E il terzo giorno egli ritorna in vita per stabilire il suo regno.

- Se il Messia è il vincitore della morte, come può morire?
Ma se non incontra la morte faccia a faccia come può vincerla?
Questo è quanto il nostro misterioso compagno di viaggio ci spiegò chiaramente. Se il Messia vuole soccorrere gli uomini, deve condividere con loro l'esperienza della morte, deve morire come muoiono tutti gli uomini. Noi non possiamo essere partecipi della vita nel suo regno, se egli non ha prima condiviso con noi la morte.

- I suoi nemici del Sinedrio gli dicevano: "Se sei il Figlio di Dio, salva te stesso"
Eppure sembra un'idea piuttosto ragionevole!

Oh certamente avrebbe potuto farlo!... Ma allora non ci avrebbe aiutati: se egli avesse inventato per sé una scappatoia dell'ultimo minuto, allora non avrebbe fatto per noi alcuna differenza. Non si vince la morte evitandola. La si vince solo se la si accetta per poi superarla, ritornando in vita dall'altro lato. Siccome Gesù Nazareno ha fatto questo, noi non dobbiamo più aver paura della morte.

- E mentre egli vi spiegava tutte queste cose, voi continuaste a non riconoscerlo?
Non prima di aver raggiunto Emmaus. Ci disse che avrebbe proseguito, ma lo convincemmo a fermarsi da noi, come nostro ospite graditissimo. Fu così ch'egli venne a casa con noi e là avvenne il fatto: l'abbiamo riconosciuto durante la cena! Ce ne stavamo seduti attorno al tavolo, pronti a mangiare. Lo invitammo a dire la preghiera di ringraziamento, secondo il nostro costume. A quel punto egli prese il pane, pronunciò la benedizione, e lo spezzò. Lo stavamo guardando, e in quel momento l'abbiamo riconosciuto: Gesù, il Messia, che era morto ed è vivo di nuovo! Ch'egli sia benedetto!

- Lei è sicuro di questo?
Nel modo più assoluto! So perfettamente chi era, perché gli stavamo seduti a fianco e lo fissavamo mentre spezzava il pane. Ed era Gesù! Era proprio Gesù!

- E poi cosa accadde?
E' scomparso! Svanito! Un istante prima era là che ci porgeva il pane, e un attimo dopo era sparito!
Per nulla impauriti, ci siamo precipitati fuori, abbiamo piantato la cena lasciando di stucco le nostre famiglie e siamo ripartiti subito per Gerusalemme.

- Lei sa certamente che le autorità prendono molto sul serio tutta questa faccenda, avrà visto le pattuglie per le strade... Non ha un po' di paura per quanto le potrebbe capitare?
Be', un po' di paura ce l'ho. Ma, vede, il peggio che possano fare è uccidermi. Ma adesso la morte non è più una cosa importante. Gesù l'ha reso sufficientemente chiaro: la morte non è la fine, ma soltanto un inizio. Fino a ieri mattina noi fruivamo solo di una mezza vita... eravamo tutti vivi a metà. Questo è ciò che eravamo. Ma ora è tutto diverso: Lui è di nuovo vivo, e siccome lui è vivo, anche noi siamo vivi a nostra volta. Vivi per davvero, come non l'eravamo mai stati!

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inviato da Laura Baravelli, inserito il 18/04/2012

TESTO

9. Natale, si accende una grande luce   1

Giuseppe Impastato S.I.

"Ciascun credente è un Cristo iniziale e incompiuto." (Ermes Ronchi)
"Io non sono / ancora e mai / il Cristo / ma io sono questa / infinita possibilità." (Davide M. Turoldo).

La nascita di Dio fatto carne è una provocazione, è una sfida, è un invito, è un farsi vicino all'uomo, perché finalmente il sogno dell'uomo si possa realizzare: crescere smisuratamente, diventare come Dio!
Prima l'uomo non conosceva la strada: nella sua illusione ne aveva tentate (e ancora tenta di percorrerne) tante, per realizzare finalmente la grande scalata al vertice supremo, alla felicità assicurata, alla pienezza della autorealizzazione.
Con il Natale è Dio stesso a scendere sulla strada e a suggerire il percorso. E ha indicato proprio quel cammino che l'uomo aveva rifiutato e continua ad escludere.
Perché l'uomo ha sempre pensato che la strada fosse dal basso verso l'alto, dalla piccolezza alla grandezza, dalla povertà alla ricchezza, dalla sottomissione alla potenza, dal dover subire alla prepotenza, dall'oscurità alla notorietà, dalla miseria al lusso, dal non contare alla riconoscibilità e al prestigio, dall'essere inerme alla violenza, dal dover subire all'oppressione, dalla dipendenza all'autonomia, dallo schiacciamento alla potenza, dal nascondimento forzato alla fama e all'esibizionismo...
Ed ecco l'uomo proiettato verso le conquiste per evadere da quel le strettoie e da quei vicoletti in cui si è cacciato e dove è stato costretto a vivere. L'uomo si lancia nella ricerca spasmodica di conti in banca, record mondiali, oggetti che sono o si vogliono far diventare status symbol, premi Oscar, premi Nobel, recensioni, riconoscimenti negli articoli su riviste e giornali, citazioni nelle riviste scientifiche, entrare e raggiungere record mondiali, guinness dei primati,...

Finito il tempo delle illusioni, è tempo di guardare una grotta, a Betlehem. Sognavamo di uscire dalla morsa della massa, di passare dalla insignificanza all'indispensabilità, dal tran tran alla grande festa, dalla periferia alla metropoli.
La storia conosce una marea di illusioni e di delusioni. Appena si pensa di aver raggiunto il traguardo, si fa bruciante la consapevolezza di avere in mano un pugno di mosche. Ed ecco l'uomo costretto alla fatica di Sisifo. E si ricomincia individuando altre strade, costruendo altri progetti, imbarcandosi in altre avventure, afferrandosi ad altre illusioni.

E l'umanità ha pagato gli enormi e ripetuti errori. A Natale sentiamo parlare di Gesù. A chi l'ha accettato ha dato la possibilità di diventare figlio di Dio.
Figlio di Dio! Toh! Ma non volevamo la stessa cosa?
Ora sì che si apre uno spiraglio di cielo, e viene illuminato un traguardo, e appare concretamente alla nostra portata il sogno irraggiungibile...
L'Eterno si è immerso nel tempo,
l'Infinito si è chiuso nello spazio,
l'Onnisciente è diventato un bambino che apprende,
il Signore un suddito,
il Creatore dei mondi un bisognoso di cibo, di calore, di amore.

Accènditi, accogli, incamminati. Sii tu dono, regalo, albero, luce, famiglia, festa, cibo.

nataleincarnazioneumiltàpiccolezzapovertàorgoglio

5.0/5 (3 voti)

inviato da Giuseppe Impastato S.I., inserito il 09/04/2012

TESTO

10. La ricerca della verità

Amici della Zizzi, Commento al Vangelo di oggi

Molti di noi spesso si compiacciono più della domanda che rivolgono ad altri e che denota la propria intelligenza, piuttosto che guardare alla risposta.

Così spesso facciamo nei confronti non solo di Dio, ma della Verità che andiamo cercando.

Ci compiacciamo di ciò che cerchiamo senza guardare a ciò che troviamo.
E' qui una delle motivazioni di tanti fallimenti.

Pensiamo quando una coppia vuole prendere un bambino in adozione. Ha due strade: accogliere qualunque bambino, comunque sia ed allora è il vero modo di accogliere; oppure costruirsi l'idea, fin nei minimi particolari, di come debba essere quel bambino, ed allora colui che arriverà non sarà mai all'altezza delle loro aspettative.

Questo vale in qualunque cosa faremo, dal matrimonio, al lavoro, al proprio hobby.

Questo purtroppo molti di noi fanno quando cercano Dio. Abbiamo in testa l'idea di cosa Dio dovrebbe fare, dire, creare, distruggere e mai e poi mai le nostre aspettative si realizzeranno perché legate ad un pensiero tutto umano, ma Dio è spirito, Dio è Amore allo stato puro, Dio è svincolato dalle nostre logiche umane.

Se veramente ci mettessimo in cerca di Dio, dovremmo stare a guardare e ad accettare ciò che accade, cercando semmai di interpretarlo, provando a capirlo, ma non per questo avendo la pretesa di riuscirci.

Avete mai provato a litigare con il computer, oppure con un esercizio di matematica?

Alla fine, per quanto ci siamo scervellati ed abbiamo provato mille vie per arrivare alla soluzione, il risultato è totalmente diverso da come pensavamo, da come eravamo certi che sarebbe dovuto essere. Eppure tutto portava a pensare che fosse in un modo, invece era in un modo totalmente diverso.

Dio ci insegna ad amare, amare incondizionatamente, amare senza aspettative, amare al di là di ogni logica, amare abbandonandosi a Lui, amare ringraziando per quello che ci dona e ringraziando ancor più per quello che ci toglie perché l'essenza dell'Amore è la Fiducia, la Fede che tutto ciò che capita fa parte di un disegno, troppo grande perché noi possiamo capirlo, ma che ha una trama buona, un risultato finale che non potrà essere giudicato fin tanto che non sarà completato.

E' come se una formica, dal suo punto di osservazione, dal suo territorio fatto di pochi metri quadri potesse giudicare il mondo, la terra, l'universo, gli uomini.

veritàricerca di Dioricerca di sensoapertura

inviato da Riccardo Ripoli, inserito il 08/04/2012

TESTO

11. Padre mio, mi sono affezionato alla terra

Mario Luzi, Via Crucis al Colosseo 1999

Padre mio, mi sono affezionato alla terra
quanto non avrei creduto.
È bella e terribile la terra.
Io ci sono nato quasi di nascosto,
ci sono cresciuto e fatto adulto
in un suo angolo quieto
tra gente povera, amabile e esecrabile.
Mi sono affezionato alle sue strade,
mi sono divenuti cari i poggi e gli uliveti,
le vigne, perfino i deserti.
È solo una stazione per il figlio tuo la terra
ma ora mi addolora lasciarla
e perfino questi uomini e le loro occupazioni,
le loro case e i loro ricoveri
mi dà pena doverli abbandonare.
Il cuore umano è pieno di contraddizioni
ma neppure un istante mi sono allontanato da te.
Ti ho portato perfino dove sembrava che non fossi
o avessi dimenticato di essere stato.
La vita sulla terra è dolorosa,
ma è anche gioiosa: mi sovvengono
i piccoli dell'uomo, gli alberi e gli animali.
Mancano oggi qui su questo poggio che chiamano Calvario.
Congedarmi mi dà angoscia più del giusto.
Sono stato troppo uomo tra gli uomini o troppo poco?
Il terrestre l'ho fatto troppo mio o l'ho rifuggito?
La nostalgia di te è stata continua e forte,
tra non molto saremo ricongiunti nella sede eterna.
Padre, non giudicarlo
questo mio parlarti umano quasi delirante,
accoglilo come un desiderio d'amore,
non guardare alla sua insensatezza.
Sono venuto sulla terra per fare la tua volontà
eppure talvolta l'ho discussa.
Sii indulgente con la mia debolezza, te ne prego.
Quando saremo in cielo ricongiunti
sarà stata una prova grande
ed essa non si perde nella memoria dell'eternità.
Ma da questo stato umano d'abiezione
vengo ora a te, comprendimi, nella mia debolezza.
Mi afferrano, mi alzano alla croce piantata sulla collina,
ahi, Padre, mi inchiodano le mani e i piedi.
Qui termina veramente il cammino.
Il debito dell'iniquità è pagato all'iniquità.
Ma tu sai questo mistero. Tu solo.

Gesù Cristoumanitàvenerdì santo

5.0/5 (1 voto)

inviato da Anna Laura Carta, inserito il 25/01/2012

ESPERIENZA

12. Tre storie della vita di Steve Jobs   3

Steve Jobs, 12 giugno 2005

Nella vita le sconfitte sono le svolte migliori. Perché costringono a pensare in modo diverso e creativo.

Voglio raccontarvi tre storie della mia vita. Tutto qui, niente di eccezionale: solo tre storie.

La prima storia è su una cosa che io chiamo "unire i puntini" di una vita.

Quand'ero ragazzo, ho abbandonato l'università, il Reed College, dopo il primo semestre. Ho continuato a seguire alcuni corsi informalmente per un altro anno e mezzo, poi me ne sono andato del tutto. Perché l'ho fatto? E' iniziato tutto prima che nascessi. La mia mamma biologica era una giovane studentessa universitaria non sposata e quando rimase incinta decise di darmi in adozione. Voleva assolutamente che io fossi adottato da una coppia di laureati, e fece in modo che tutto fosse organizzato per farmi adottare sin dalla nascita da un avvocato e sua moglie. Però, quando arrivai io, questa coppia - all'ultimo minuto - disse che voleva adottare una femmina. Così, quelli che poi sarebbero diventati i miei genitori adottivi, e che erano al secondo posto nella lista d'attesa, ricevettero una chiamata nel bel mezzo della notte che gli diceva: "C'è un bambino, un maschietto, non previsto. Lo volete?". Loro risposero: "Certamente! ". Più tardi la mia mamma biologica scoprì che questa coppia non era laureata: la donna non aveva mai finito il college e l'uomo non si era nemmeno diplomato al liceo. Allora la mia mamma biologica si rifiutò di firmare le ultime carte per l'adozione. Poi accettò di farlo, mesi dopo, solo quando i miei genitori adottivi promisero formalmente che un giorno io sarei andato al college. Questo è stato l'inizio della mia vita.

Così, come stabilito, parecchi anni dopo, nel 1972, andai al college. Ma ingenuamente ne scelsi uno troppo costoso, e tutti i risparmi dei miei genitori finirono per pagarmi l'ammissione e i corsi. Dopo sei mesi non riuscivo a trovarci nessuna vera opportunità. Non avevo idea di quello che avrei voluto fare della mia vita e non vedevo come il college potesse aiutarmi a capirlo. Eppure ero là, che spendevo tutti quei soldi che i miei genitori avevano messo da parte lavorando per tutta una vita.

Così decisi di mollare e di avere fiducia, che tutto sarebbe andato bene lo stesso.

Era molto difficile all'epoca, ma guardandomi indietro ritengo che sia stata una delle migliori decisioni che abbia mai preso in vita mia.

Nel momento in cui abbandonai il college, smisi di seguire i corsi che non mi interessavano e cominciai invece a entrare nelle classi che trovavo più interessanti.

Non è stato tutto rose e fiori, però. Non avevo più una camera nel dormitorio, ed ero costretto a dormire sul pavimento delle camere dei miei amici. Guadagnavo soldi riportando al venditore le bottiglie di Coca-Cola vuote per avere i cinque centesimi di deposito e potermi comprare da mangiare. Una volta la settimana, alla domenica sera, camminavo per sette miglia attraverso la città per avere finalmente un buon pasto al tempio degli Hare Krishna: l'unico della settimana. Ma tutto quel che ho trovato seguendo la mia curiosità e la mia intuizione è risultato essere senza prezzo, dopo. Consentitemi di fare subito un esempio.

Il Reed College all'epoca offriva probabilmente i migliori corsi di calligrafia del Paese. In tutto il campus ogni poster, ogni etichetta, ogni cartello era scritto a mano con calligrafie meravigliose. Dato che avevo mollato i corsi ufficiali, decisi che avrei seguito la classe di calligrafia per imparare a scrivere così. Fu lì che imparai i caratteri con e senza le 'grazie', capii la differenza tra gli spazi che dividono le differenti combinazioni di lettere, compresi che cosa rende grande una stampa tipografica del testo. Fu meraviglioso, in un modo che la scienza non è in grado di offrire, perché era bello, ma anche artistico, storico, e io ne fui assolutamente affascinato.

Nessuna di queste cose, però, aveva alcuna speranza di trovare un'applicazione pratica nella mia vita. Ma poi, dieci anni dopo, quando ci trovammo a progettare il primo Macintosh, mi tornò tutto utile. E lo utilizzammo per il Mac. è stato il primo computer dotato di capacità tipografiche evolute. Se non avessi lasciato i corsi ufficiali e non avessi poi partecipato a quel singolo corso, il Mac non avrebbe probabilmente mai avuto la possibilità di gestire caratteri differenti o spaziati in maniera proporzionale. E dato che Windows ha copiato il Mac, è probabile che non ci sarebbe stato nessun personal computer con quelle capacità. Se non avessi mollato il college, non sarei mai riuscito a frequentare quel corso di calligrafia e i personal computer potrebbero non avere quelle stupende capacità di tipografia che invece hanno. Certamente, all'epoca in cui ero al college era impossibile per me 'unire i puntini' guardando il futuro. Ma è diventato molto, molto chiaro dieci anni dopo, quando ho potuto guardare all'indietro.

Insomma, non è possibile 'unire i puntini' guardando avanti; si può unirli solo dopo, guardandoci all'indietro. Così, bisogna aver sempre fiducia che in qualche modo, nel futuro, i puntini si potranno unire. Bisogna credere in qualcosa: il nostro ombelico, il destino, la vita, il karma, qualsiasi cosa. Perché credere che alla fine i puntini si uniranno ci darà la fiducia necessaria per seguire il nostro cuore anche quando questo ci porterà lontano dalle strade più sicure e scontate, e farà la differenza nella nostra vita. Questo approccio non mi ha mai lasciato a piedi e, invece, ha sempre fatto la differenza nella mia vita.

La mia seconda storia è a proposito dell'amore e della perdita.

Io sono stato fortunato: ho scoperto molto presto che cosa amo fare nella mia vita. Steve Wozniak e io abbiamo fondato Apple nel garage della casa dei miei genitori quando avevo appena 20 anni. Abbiamo lavorato duramente e in dieci anni Apple è diventata - da quell'aziendina con due ragazzi in un garage che era all'inizio - una compagnia da 2 miliardi di dollari con oltre 4 mila dipendenti.

Nel 1985 - io avevo appena compiuto 30 anni e da pochi mesi avevamo realizzato la nostra migliore creazione, il Macintosh - sono stato licenziato.

Come si fa a venir licenziati dall'azienda che hai creato? Beh, quando Apple era cresciuta, avevamo assunto qualcuno che ritenevo avesse molto talento e capacità per guidare l'azienda insieme a me, e per il primo anno le cose erano andate molto bene. Ma poi le nostre visioni del futuro hanno cominciato a divergere e alla fine abbiamo avuto uno scontro. Quando questo successe, il consiglio di amministrazione si schierò dalla sua parte. Quindi, a 30 anni io ero fuori. E in maniera plateale. Quello che era stato il principale scopo della mia vita adulta era saltato e io ero completamente devastato.

Per alcuni mesi non ho saputo davvero cosa fare. Mi sentivo come se avessi tradito la generazione di imprenditori prima di me; come se avessi lasciato cadere la fiaccola che mi era stata passata. Era stato un fallimento pubblico e io presi anche in considerazione l'ipotesi di scappare via dalla Silicon Valley.

Ma qualcosa lentamente cominciò a crescere in me: ancora amavo quello che avevo fatto. L'evolvere degli eventi con Apple non aveva cambiato di un bit questa cosa. Ero stato respinto, ma ero sempre innamorato. E per questo decisi di ricominciare da capo.

Non me ne accorsi allora, ma il fatto di essere stato licenziato da Apple era stata la miglior cosa che mi potesse succedere. La pesantezza del successo era stata rimpiazzata dalla leggerezza di essere di nuovo un debuttante, senza più certezze su niente. Mi liberò dagli impedimenti, consentendomi di entrare in uno dei periodi più creativi della mia vita.

Durante i cinque anni successivi fondai un'azienda chiamata NeXT e poi un'altra chiamata Pixar, e mi innamorai di una donna meravigliosa che sarebbe diventata mia moglie. Pixar si è rivelata in grado di creare il primo film in animazione digitale, 'Toy Story', e adesso è lo studio di animazione di maggior successo al mondo. In un significativo susseguirsi degli eventi, Apple ha comprato NeXT, io sono tornato ad Apple e la tecnologia sviluppata da NeXT è nel cuore dell'attuale rinascimento di Apple. Mia moglie Laurene e io abbiamo una splendida famiglia. Sono sicuro che niente di tutto questo sarebbe successo se non fossi stato licenziato da Apple. è stata una medicina molto amara, ma ritengo che fosse necessaria per il paziente.

Qualche volta la vita ti colpisce come un mattone in testa. Non bisogna perdere la fede, però. Sono convinto che l'unica cosa che mi ha trattenuto dal mollare tutto sia stato l'amore per quello che ho fatto. Bisogna trovare quel che amiamo. E questo vale sia per il nostro lavoro che per i nostri affetti. Il nostro lavoro riempirà una buona parte della nostra vita, e l'unico modo per essere realmente soddisfatti è di fare quello che riteniamo essere un buon lavoro. E l'unico modo per fare un buon lavoro è amare quello che facciamo. Chi ancora non l'ha trovato, deve continuare a cercare. Non accontentarsi. Con tutto il cuore, sono sicuro che capirete quando lo troverete. E, come in tutte le grandi storie d'amore, diventerà sempre migliore mano a mano che gli anni passano. Perciò, bisogna continuare a cercare sino a che non lo si è trovato. Senza accontentarsi.

La terza storia è a proposito della morte.

Quando avevo 17 anni lessi una citazione che suonava più o meno così: "Se vivrai ogni giorno come se fosse l'ultimo, un giorno avrai sicuramente ragione". Mi colpì molto e da allora, negli ultimi 33 anni, mi sono guardato ogni mattina allo specchio chiedendomi: "Se oggi fosse l'ultimo giorno della mia vita, vorrei fare quello che sto per fare oggi?". E ogni qualvolta la risposta è no per troppi giorni di fila, capisco che c'è qualcosa che deve essere cambiato.

Ricordarmi che morirò presto è il più importante strumento che io abbia mai incontrato per fare le grandi scelte della vita. Perché quasi tutte le cose - tutte le aspettative di eternità, tutto l'orgoglio, tutti i timori di essere imbarazzati o di fallire - semplicemente svaniscono di fronte all'idea della morte, lasciando solo quello che c'è di realmente importante. Ricordarsi che dobbiamo morire è il modo migliore che io conosca per evitare di cadere nella trappola di chi pensa che abbiamo sempre qualcosa da perdere. Siamo già nudi. Non c'è ragione, quindi, per non seguire il nostro cuore.

Più o meno un anno fa mi è stato diagnosticato un cancro. Ho fatto la Tac alle sette e mezzo del mattino e questa ha mostrato chiaramente un tumore nel mio pancreas. Prima non sapevo neanche che cosa fosse un pancreas. I dottori mi dissero che si trattava di un cancro che era quasi sicuramente di tipo incurabile, che sarei morto entro i prossimi tre, al massimo sei mesi. Quindi sarebbe stato meglio se avessi messo ordine nei miei affari (che è il codice dei dottori per dirti di prepararti a morire). Questo significa prepararsi a dire ai tuoi figli in pochi mesi tutto quello che pensavi di poter dire loro in dieci anni. Questo significa essere sicuri che tutto sia stato organizzato in modo tale che per la tua famiglia sia il più semplice possibile. Questo significa prepararsi a dire i tuoi addio.

Ho vissuto con il responso di quella diagnosi tutto il giorno. La sera tardi è arrivata la biopsia, cioè il risultato dell'analisi effettuata infilando un endoscopio giù per la mia gola, attraverso lo stomaco sino agli intestini, per inserire un ago nel mio pancreas e catturare poche cellule del mio tumore. Ero sotto anestesia ma mia moglie - che era là - mi ha detto che quando i medici hanno visto le cellule sotto il microscopio hanno cominciato a gridare, perché è saltato fuori che si trattava di un cancro al pancreas molto raro e curabile con un intervento chirurgico. Ho fatto l'intervento chirurgico e adesso, per fortuna, sto bene.

Questa è stata la volta in cui sono andato più vicino alla morte e spero che sia anche l'unica per qualche decennio. Essendoci passato attraverso, adesso posso parlarvi con un po' più di cognizione di causa di quando la morte per me era solo un concetto astratto.

Nessuno vuole morire. Anche le persone che vogliono andare in paradiso, in realtà non vogliono morire per andarci. Ma la morte è la destinazione ultima che tutti abbiamo in comune. Nessuno gli è mai sfuggito. Ed è così come deve essere, perché la morte è con tutta probabilità la più grande invenzione della vita. E' l'agente di cambiamento della vita. Spazza via il vecchio per far posto al nuovo.

Il nostro tempo è limitato, per cui non lo dobbiamo sprecare vivendo la vita di qualcun altro. Non facciamoci intrappolare dai dogmi, che vuol dire vivere seguendo i risultati del pensiero di altre persone. Non lasciamo che il rumore delle opinioni altrui offuschi la nostra voce interiore. E, cosa più importante di tutte, dobbiamo avere il coraggio di seguire il nostro cuore e la nostra intuizione. In qualche modo, essi sanno che cosa vogliamo realmente diventare. Tutto il resto è secondario.

Quando ero un ragazzo, c'era un giornale incredibile che si chiamava 'The Whole Earth Catalog', praticamente una delle bibbie della mia generazione. E' stata creata da Stewart Brand non molto lontano da qui, a Menlo Park, e Stewart ci aveva messo dentro tutto il suo tocco poetico. E' stato alla fine degli anni Sessanta, prima dei personal computer e del desktop publishing, quando tutto era fatto con macchine per scrivere, forbici e foto Polaroid. E' stata una specie di Google in formato cartaceo tascabile, 35 anni prima che ci fosse Google: era idealistica e sconvolgente, traboccante di concetti chiari e fantastiche nozioni.

Stewart e il suo gruppo pubblicarono vari numeri di 'The Whole Earth Catalog' e quando arrivarono alla fine del loro percorso, pubblicarono l'ultimo numero. Era più o meno la metà degli anni Settanta. Nell'ultima pagina di quel numero finale c'era la fotografia di una strada di campagna di prima mattina, il tipo di strada dove potreste trovarvi a fare l'autostop se siete dei tipi abbastanza avventurosi. Sotto la foto c'erano le parole: 'Stay Hungry. Stay Foolish', siate affamati, siate folli. Era il loro messaggio di addio. Stay Hungry. Stay Foolish: io me lo sono sempre augurato per me stesso.

E adesso lo auguro a voi. Stay Hungry. Stay Foolish.

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inviato da Lisa, inserito il 06/11/2011

RACCONTO

13. Il problema degli altri   3

Paolo Coelho

C'era una volta un saggio molto conosciuto, che viveva su una montagna dell'Himalaya. Stanco della convivenza con gli uomini, aveva scelto una vita semplice, e passava la maggior parte del tempo meditando.

La sua fama, però, era così grande che la gente era pronta pronta ad affrontare strade anguste, ad arrampicarsi su colline ripide, a oltrepassare fiumi copiosi solo per conoscere quel sant'uomo, che tutti credevano fosse capace di risolvere qualsiasi angoscia del cuore umano.

Il saggio, essendo un uomo molto compassionevole, elargiva un consiglio qui, un altro lì, ma cercava di liberarsi subito dei visitatori indesiderati. Essi, comunque, si presentavano a gruppi sempre più numerosi, e un giorno una folla bussò alla sua porta, dicendo che sul giornale locale erano state pubblicate delle storie bellissime su di lui, e tutti erano sicuri che lui sapesse come superare le difficoltà della vita.

Il saggio non fece commenti e chiese loro di sedersi e aspettare. Trascorsero tre giorni, e arrivò altra gente. Quando non ci fu più posto per nessun altro, egli si rivolse alla popolazione che si trovava davanti alla sua porta.

"Oggi vi darò la risposta che tutti desiderate. Ma voi dovete promettere che, non appena i vostri problemi saranno risolti, direte ai nuovi pellegrini che mi sono trasferito altrove, così che io possa continuare a vivere nella solitudine cui tanto anelo. Gli uomini e le donne fecero un giuramento solenne: se il saggio avesse compiuto quanto promesso, essi non avrebbero permesso a nessun altro pellegrino di salire sulla montagna. Raccontatemi i vostri problemi", disse il saggio.

Qualcuno cominciò a parlare, ma fu subito interrotto da altre persone - poiché tutti sapevano che quella era l'ultima udienza pubblica che il sant'uomo avrebbe concesso, temevano che non avrebbe avuto il tempo di ascoltarli. Qualche minuto dopo, si era creata una grande confusione, con tante voci che urlavano nello stesso tempo, gente che piangeva, uomini e donne che si strappavano i capelli per la disperazione, perché era impossibile farsi sentire.

Il saggio lasciò che la situazione si prolungasse per un po', finché urlò: "Silenzio!". La folla si azzittì immediatamente. "Scrivete i vostri problemi e posate i fogli di carta davanti a me".

Quando tutti ebbero terminato, il saggio mescolò tutti i fogli in una cesta, chiedendo poi: "Fate passare tra voi questa cesta, e che ciascuno prenda il foglio che si trova sopra e legga ciò che vi è scritto. Potrete scegliere se cominciare ad avere il problema che vi troverete scritto oppure potrete richiedere indietro il vostro problema a chi gli è capitato nel sorteggio".

Ciascuno dei presenti prese uno dei fogli, lesse e rimase terrificato. Ne conclusero che ciò che avevano scritto, per peggiore che fosse, non era tanto serio come il problema che affliggeva il vicino. Due ore dopo, si scambiarono i fogli e ciascuno si rimise in tasca il proprio problema personale, sollevato nel sapere che il proprio problema non era poi tanto grave quanto immaginava.

Tutti furono grati per la lezione, scesero giù dalla montagna con la certezza di essere più felici degli altri e, rispettando il giuramento fatto, non permisero più a nessuno di turbare la pace del sant'uomo.

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inviato da Lisa, inserito il 08/07/2011

RACCONTO

14. Il principe felice   2

Oscar Wilde

Alta sopra la città, su una lunga, esile colonna sporgeva la statua del Principe Felice. Era tutto dorato di sottili foglie d'oro fino, i suoi occhi erano due lucenti zaffiri, e un grande rubino rosso luccicava sull'elsa della sua spada.

Tutti lo ammiravano. "E' bello come una banderuola" osservò un giorno uno degli assessori di città che ambiva farsi una reputazione d'uomo di gusto; "però è meno utile" si affrettò a soggiungere, per timore che la gente lo giudicasse privo di senso pratico, cosa che egli non era affatto.
"Perché non sai comportarti come il Principe Felice?" chiese una madre piena di buon senso al suo bambino che piangeva perché voleva la luna. "Il Principe Felice non si sogna mai di piangere per nulla".
"Sono contento che a questo mondo ci sia qualcuno veramente felice" borbottò un uomo disilluso ammirando la splendida statua.
"Assomiglia a un angelo" dissero i Trovatelli uscendo dalla cattedrale nei loro lucenti mantelli scarlatti e nei loro lindi grembiulini candidi.
"Come fate a dire questo?" osservò il professore di matematica, "se non ne avete mai veduti!"
"Oh, si, che ne abbiamo visti, nei nostri sogni!" risposero i bambini, e il professore di matematica aggrottò la fronte e fece la faccia scura, perché non trovava giusto che i bambini sognassero.

Una sera volò sulla città un Rondinotto. I suoi amici se n'erano andati in Egitto sei settimane innanzi, ma egli era rimasto indietro perché si era innamorato di una bellissima Canna. L'aveva conosciuta al principio di primavera mentre volava giù per il fiume in caccia di una grossa falena gialla, ed era stato talmente attratto dalla sua vita sottile che si era fermato a parlarle.
"Vuoi che m'innamori di te?" le aveva chiesto il Rondinotto, cui piaceva venir subito al sodo, e la Canna gli aveva fatto un profondo inchino. Così egli le volò più volte intorno, sfiorando l'acqua con le ali, e increspandola di cerchi argentei. Questa fu la sua corte, e durò tutta l'estate.
"Proprio un attaccamento ridicolo," garrivano le altre Rondini, "E' senza un soldo, ma in compenso ha un sacco di parenti," e a dire il vero il fiume era zeppo di Canne.
Poi, non appena venne l'autunno, le Rondini volarono via tutte. Quando se ne furono andate il Rondinotto si sentì solo, e incominciò a stancarsi della sua bella.
"Non sa conversare" si disse, "e temo sia una civetta poiché seguita a frascheggiare col vento." E infatti, ogni volta che il vento spirava, la Canna si piegava con inchini graziosissimi.
"Riconosco che sei casalinga," prosegui il Rondinotto, "ma a me piace viaggiare e di conseguenza anche a mia moglie dovrebbero piacere i viaggi".
"Vuoi venir via con me?" le chiese infine, ma la Canna scosse la testa, era troppo affezionata alla sua casa. "Tu mi hai preso in giro!" gridò il Rondinotto. "Me ne vado alle Piramidi. Addio!" e volò via.
Volò tutto il giorno, e a sera giunse alla città.
"Dove alloggerò?" si disse. "Spero mi abbiano preparato dei festeggiamenti."
Ma poi notò la statua sull'alta colonna. "Andrò ad abitare lì," esclamò. "La posizione è bellissima, e ci si deve respirare dell'ottima aria fresca."

Così si posò proprio tra i piedi del Principe Felice.
"Ho una camera da letto tutta d'oro" mormorò sottovoce tra sé e sé, guardandosi attorno e preparandosi per la notte, ma giusto mentre stava mettendo la testa sotto l'ala gli cadde addosso una grossa goccia d'acqua.
"Che cosa strana!" esclamò. "In cielo non c'è neanche la più piccola nuvola, le stelle sono chiare e luminose, eppure piove. Il clima del Nord Europa è semplicemente spaventoso. Alla Canna la pioggia piaceva, ma questo era dovuto unicamente al suo egoismo".
In quella cadde un'altra goccia.
"A che serve una statua se non riesce a riparare dalla pioggia?" brontolò; "bisogna che mi cerchi un buon comignolo," e fece per volarsene via. Ma proprio mentre stava per aprire le ali una terza goccia cadde, ed egli allora alzò gli occhi e vide... ah, che cosa vide? Gli occhi del Principe Felice erano gonfi di lagrime, e lagrime rigavano le sue guance dorate. Il suo viso era così bello sotto la luce della luna che il piccolo Rondinotto si senti invadere da una profonda pietà.
"Chi sei?" chiese.
"Sono il Principe Felice".
"Perché piangi, allora? Mi hai inzuppato tutto."
"Quando ero vivo e avevo un cuore umano," rispose la statua, "non sapevo che cosa fossero le lagrime, perché abitavo nel Palazzo di Sans-Souci, dove al dolore non è permesso di entrare. Durante il giorno giocavo coi miei compagni nel giardino, e la sera guidavo le danze nella Grande Sala. Intorno al giardino correva un muro altissimo, ma mai io mi curai di sapere che cosa si stendesse al di là di esso, ogni cosa intorno a me era così bella! I miei cortigiani mi chiamavano il Principe Felice, e se il piacere è felicità, io ero veramente felice. Così vissi, e così morii. E ora che sono morto mi hanno messo qui tanto in alto che adesso vedo tutta la bruttezza e tutta la miseria della mia città, e sebbene il mio cuore sia di piombo altro non mi resta che piangere".
"Come mai? Non è d'oro massiccio?" si chiese mentalmente il Rondinotto, perché era troppo educato per rivolgere ad alta voce domande di carattere personale.
"Lontano lontano," proseguì la statua con la sua dolce voce musicale, "lontano in una stradina c'è una povera casa. Una finestra di questa casa è aperta e attraverso vi vedo una donna seduta a un tavolo. Ha il viso magro e sciupato, e le sue mani sono rosse e ruvide e tutte bucherellate dall'ago, poiché fa la cucitrice. Sta ricamando passiflore su un abito di raso che la più bella tra le damigelle d'onore della Regina indosserà al prossimo ballo di Corte. In letto, in un angolo della stanza, il suo bambino giace ammalato. Ha la febbre e vorrebbe mangiare delle arance, ma sua madre non ha nulla da dargli, fuorché acqua di fiume, perciò il bambino piange. Rondinotto, piccolo Rondinotto, non gli porteresti il rubino che luccica sull'elsa della mia spada? I miei piedi sono attaccati a questo piedistallo e io non mi posso muovere".
"Sono aspettato in Egitto" rispose il Rondinotto. "I miei amici in questo momento volano sul Nilo, e discorrono con i grandi fiori di loto. Tra poco andranno a dormire nella tomba del gran Re, dove il Re stesso riposa nel suo sarcofago dipinto, avvolto in gialli lini e imbalsamato con aromi. Ha il collo adorno di una collana di giada verde pallida, e le sue mani assomigliano a foglie avvizzite".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me per una notte soltanto, ed essere il mio messaggero? Il bambino ha tanta sete, e la madre è così triste!"
"Non credo che mi piacciano i bambini" replicò il Rondinotto. "L'estate scorsa, quando stavo sul fiume, c'erano due ragazzi maleducati, i due figliuoli del mugnaio, che mi tiravano sempre sassi. Naturalmente non mi hanno mai preso, si capisce: noi rondini voliamo troppo bene per lasciarci colpire, e del resto io vengo da una famiglia famosa per la sua agilità; comunque però era una grave mancanza di rispetto".
Ma il Principe Felice aveva un viso così doloroso che il Rondinotto ne provò pena. "Qui fa molto freddo" disse, "ma per farti piacere resterò ancora una notte e sarò tuo messaggero".
"Grazie, piccolo Rondinotto" disse il Principe.

Così il Rondinotto colse il grande rubino che ornava la spada del Principe e volò sopra i tetti della città, tenendo stretto il gioiello nel becco appuntito. Passò accanto alla torre della cattedrale, su cui erano scolpiti i grandi angeli di marmo. Passò accanto al palazzo e udì un suono di danze.
Una fanciulla bellissima si affacciò al balcone col suo innamorato. "Guarda che stelle meravigliose" egli le disse, "e come è meraviglioso il potere dell'amore! "
"Spero che il mio vestito sarà pronto per quando ci sarà il ballo di Stato" rispose la fanciulla. "Ho ordinato che sia ricamato a passiflore, ma le cucitrici sono talmente pigre! "
Passò sopra il fiume, e vide le lanterne appese agli alberi delle navi. Passò sul Ghetto, e vide i vecchi Ebrei che contrattavano tra di loro, e pesavano il danaro su bilance di rame. E finalmente giunse alla povera casa e vi guardò dentro. Il bambino si agitava febbrilmente sul letto, mentre la madre si era addormentata: era tanto stanca! Saltellò nella stanza e posò il grosso rubino sul tavolo, accanto al ditale della donna. Poi volò piano attorno al letto, e accarezzò con le sue ali la fronte del piccolo, facendogli vento dolcemente.
"Come mi sento fresco!" disse il bambino. "Forse incomincio a star meglio" e si addormentò di un sonno tranquillo.
Allora il Rondinotto rivolò dal Principe Felice e gli raccontò quello che aveva fatto. "E' strano" osservò, "ma benché faccia un freddo cane adesso ho caldo."
"Perché hai compiuta una buona azione" gli disse il Principe.
Il piccolo Rondinotto incominciò a pensare, ma subito si addormentò: il pensare gli metteva sempre addosso un gran sonno.
Quando il giorno spuntò, volò giù al fiume e prese un bagno.
"Che fenomeno straordinario!" esclamò il Professore di Ornitologia che passava in quel momento sul ponte. "Una Rondine d'inverno!" E mandò al giornale locale una lunga lettera in proposito. Tutti la citarono: era costellata di un sacco di vocaboli che nessuno capiva.
"Questa sera parto per l'Egitto" disse il Rondinotto, e questa previsione lo mise di ottimo umore. Visitò tutti i monumenti pubblici, e rimase a lungo seduto in cima al campanile della chiesa. Dovunque andava i Passeri cinguettavano e bispigliavano tra di loro: "Che forestiero distinto!" Cosicché il Rondinotto si divertì un mondo.
Quando la luna sorse rivolò dal Principe Felice. "Hai qualche commissione da darmi per l'Egitto?" disse. Sono di partenza.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me ancora una notte?"
"In Egitto mi aspettano" rispose il Rondinotto. "Domani i miei amici voleranno fino alla Seconda Cateratta. Laggiù, tra i giunchi, se ne sta accovacciato l'ippopotamo, e su un grande trono di granito siede il Dio Memnone. Tutta la notte egli contempla le stelle, e quando risplende la stella del mattino proferisce un unico grido di gioia, e poi tace. A mezzogiorno i leoni fulvi scendono a bere all'orlo dell'acqua. Hanno occhi simili a verdi berilli, e il loro ruggito è più forte del ruggito della cateratta".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "lontano lontano, dall'altra parte della città, vedo un giovane in una soffitta, appoggiato a una scrivania ingombra di carte, e in un boccale accanto a lui c'è un mazzolino di viole appassite. Ha i capelli bruni e crespi, le sue labbra sono rosse come una melagrana, e i suoi occhi sono grandi e sognanti. Sta sforzandosi di terminare una commedia per il Direttore del Teatro, ma ha troppo freddo per poter seguitare a scrivere. Non c'è fuoco nel suo camino, e la fame lo ha fatto svenire".
"Va bene, aspetterò presso di te un'altra notte" disse il Rondinotto, che aveva proprio un cuore d'oro. "Devo portargli un altro rubino?"
"Ahimé, non ho più rubini, ormai" disse il Principe, "tutto ciò che mi è rimasto sono i miei occhi, ma sono fatti di zaffiri rari, e furono portati dall'India più di mille anni fa. Strappane uno e portaglielo. Lo venderà al gioielliere, e si comprerà legna da ardere, e finirà la sua commedia".
"Caro Principe" disse il Rondinotto, "io non posso fare questo"
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, piangendo, "ubbidiscimi, ti prego".
Così il Rondinotto strappò l'occhio del Principe e volò fino alla soffitta dello studente. Era facile entrarvi, perché nel tetto c'era un buco. Il Rondinotto vi sfrecciò attraverso, e penetrò nella stanza. Il giovane aveva il capo affondato tra le mani, perciò non avvertì il frullio d'ali dell'uccello, e quando alzò gli occhi vide il bellissimo zaffiro adagiato in mezzo alle viole appassite.
"Incominciano ad apprezzarmi!" gridò; "certo me lo manda qualche grande ammiratore. Adesso potrò finalmente terminare la mia commedia!" Ed era tutto felice.
Il giorno dopo il Rondinotto volò giù al porto. Si posò sull'albero di una grossa nave e stette a osservare i marinai che a forza di funi calavano su dalla stiva pesanti casse. "Issa-oh! " si gridavan l'un l'altro a mano a mano che le casse salivano.
"Io vado in Egitto!" garrì il Rondinotto, ma nessuno gli badò, e quando spuntò la luna volò ancora una volta dal Principe Felice.
"Sono venuto a salutarti" gli disse.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi rimanere con me ancora per questa notte?"

"E' inverno ormai" rispose il Rondinotto, "e fra poco arriverà la fredda neve. In Egitto il sole è caldo sulle verdi palme, e i coccodrilli riposano nel fango e si guardano attorno con occhi pigri. I miei compagni stanno costruendo un nido nel Tempio di Baalbec, e le colombe rosee e bianche li guardano, e tubano tra loro. Caro Principe, debbo lasciarti, ma non ti dimenticherò mai, e la prossima primavera ti porterò due gemme bellissime, al posto di quelle che tu hai regalate. Il rubino sarà più rosso di una rosa rossa, e lo zaffiro sarà azzurro come il vasto mare".
"Nella piazza qua sotto" disse il Principe Felice, "ci sta una piccola fiammiferaia. I fiammiferi le sono caduti nella cunetta del marciapiedi, e si sono tutti bagnati. Suo padre la picchierà se non porterà a casa un po' di danaro, e perciò la piccola piange. Non ha né calze né scarpe, e la sua testolina è nuda. Strappa l'altro mio occhio e portaglielo, così suo padre non la batterà".
"Resterò con te ancora per questa notte" disse il Rondinotto, "ma non posso strapparti l'altro occhio. Rimarresti completamente cieco".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "fa' come ti dico".
Così il Rondinotto strappò l'altro occhio del Principe e sfrecciò giù nella piazza. Passò roteando accanto alla piccola fiammiferaia e le fece scivolare il gioiello nel palmo della mano.
"Che bel pezzettino di vetro!" esclamò la bambina, e corse a casa ridendo.
Poi il Rondinotto ritornò dal Principe. "Adesso sei cieco" disse, "perciò io resterò con te per sempre".
"No, piccolo Rondinotto" mormorò il povero Principe, "tu devi andare in Egitto".
"Resterò con te per sempre" ripetè il Rondinotto, e dormì ai piedi del Principe. Poi tutto il giorno seguente se ne stette appollaiato sulla spalla del Principe, e gli raccontò quello che aveva veduto in paesi lontani. Gli parlò dei rossi ibis, che sostano in lunghe file sulle rive del Nilo e col becco acchiappano pesciolini dorati; gli parlò della Sfinge, che è vecchia quanto il mondo, e vive nel deserto, e conosce ogni cosa; gli parlò dei mercanti che viaggiano piano al fianco dei loro cammelli e recano tra le mani rosari d'ambra; gli parlò del Re della Montagna della Luna, che è nero come l'ebano, e adora un enorme cristallo; gli parlò del grande serpente verde che dorme in un palmizio ed è nutrito da venti sacerdoti con focacce di miele; gli parlò infine dei pigmei che veleggiano su un grande lago sopra larghe foglie piatte e sono sempre in guerra con le farfalle.
"Caro Rondinotto" disse il Principe, "tu mi parli di cose meravigliose, ma più meraviglioso di qualsiasi cosa è il dolore degli uomini e delle donne. Non vi è Mistero più grande della Miseria. Vola sulla mia città, piccolo Rondinotto, e raccontami quello che vedi".

Così il Rondinotto volò sopra la grande città, e vide i ricchi gozzovigliare nelle loro splendide dimore, mentre i poveri sedevano fuori, ai cancelli. Volò in bui vicoli, e vide i visi bianchi dei bambini affamati che fissavano con occhi assenti le strade oscure.
Sotto l'arcata di un ponte due ragazzini si stringevano l'uno all'altro cercando di riscaldarsi a vicenda.
"Che fame, abbiamo!" dicevano.
"Non potete dormire laggiù" gridò la guardia, e i due bambini si allontanarono sotto la pioggia.
Allora il Rondinotto tornò indietro e raccontò al Principe quello che aveva veduto.
"Sono tutto ricoperto d'oro fino" disse il Principe, "tu devi togliermelo di dosso, foglia per foglia, e darlo ai miei poveri: i vivi credono che l'oro possa renderli felici".
Il Rondinotto piluccò via foglia dopo foglia del fine oro, finché il Principe Felice divenne tutto opaco e grigio. Foglia per foglia del fine oro egli portò ai poveri, e le facce dei bambini si fecero più rosate, ed essi risero e giocarono giochi infantili nelle strade.
"Abbiamo pane, adesso! " gridavano.
Poi venne la neve, e dopo la neve venne il gelo. Le strade sembravano pavimentate d'argento, tanto erano lucide e scintillanti; lunghi ghiaccioli, simili a lame di cristallo, pendevano dalle gronde delle case; tutti giravano impellicciati e i ragazzini indossavano cappucci scarlatti e pattinavano sul ghiaccio.
Il povero piccolo Rondinotto aveva sempre più freddo, ma non voleva lasciare il Principe; gli voleva troppo bene. Raccoglieva briciole fuor dell'uscio del fornaio quando questi aveva la schiena voltata, e cercava di scaldarsi battendo le ali.
Ma alla fine capì che era prossimo a morire. Ebbe giusto la forza di volare un'ultima volta sulla spalla del Principe.
"Addio, caro Principe" mormorò, "mi permetti che ti baci la mano? "
"Sono contento che tu vada in Egitto, finalmente, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "sei rimasto qui anche troppo tempo, ma tu devi baciarmi sulle labbra, perché io ti amo".
"Non è in Egitto che io vado" disse il Rondinotto, "vado alla Casa della Morte. La Morte non è forse la sorella del Sonno?" E baciò il Principe Felice sulle labbra, e cadde morto ai suoi piedi.
In quel momento si udì nell'interno della statua uno strano crac, come se qualcosa si fosse rotto. Il fatto è che il cuore di piombo si era spaccato netto in due.

Certo faceva un freddo cane. Il mattino seguente per tempo il Sindaco andò a passeggiare nella piazza sottostante in compagnia degli Assessori. Nel passare dinnanzi alla colonna alzò gli occhi verso la statua:
"Dio mio! Com'è conciato il Principe Felice! " esclamò.
"Davvero! Com'è conciato! " esclamarono gli Assessori che ripetevano sempre quel che diceva il Sindaco, e andarono tutti su per vedere meglio.
"Gli è caduto il rubino dall'elsa della spada, gli occhi non ci sono più, e la doratura è scomparsa" disse il Sindaco, "insomma, sembra poco meno che un accattone!"
"Poco meno che un accattone" ripeterono in coro gli Assessori civici.
"E qui, ai piedi della statua, c'è persino un uccello morto! " proseguì il Sindaco. "Dobbiamo assolutamente emanare un'ordinanza che agli uccelli non sia permesso di morire qui!"
E lo Scrivano Pubblico prese appunti per la stesura del decreto.
Così tirarono giù la statua del Principe Felice.
"Dal momento che non è più bello non è nemmeno più utile" osservò il Professore di Belle Arti dell'Università.
Quindi fusero la statua in una fornace e il Sindaco indisse un'adunanza della Corporazione per decidere quel che si doveva fare del metallo.
"Dobbiamo costruire un'altra statua" disse, "e sarà la mia statua".
"La mia" ripeté ciascuno degli Assessori, e litigarono. L'ultima volta che ebbi loro notizie stavano ancora litigando.
"Che cosa curiosa! " disse il sorvegliante degli operai della fonderia. "Questo rotto cuore di piombo non vuole fondersi nella fornace. Bisogna che lo gettiamo via".
E lo gettarono infatti su un mucchio di spazzatura dove avevano buttato anche il Rondinotto morto.

"Portami le due cose più preziose che trovi nella città" disse Dio a uno dei Suoi Angeli; e l'Angelo gli portò il cuore di piombo e l'uccello morto.
"Hai scelto bene" gli disse Dio, "poiché nel mio giardino del Paradiso questo uccellino canterà in eterno, e nella mia città d'oro il Principe Felice mi loderà".

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inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 06/05/2011

RACCONTO

15. Il barilotto (versione 2)   7

Bruno Ferrero, Parabole

Tempo fa, in una terra lontana, viveva un signore potente e famoso in ogni angolo del regno.

Sull'orlo di una nera scogliera aveva fatto costruire una roccaforte così solida e ben armata, da non temere né re, né conti, né duchi, né principi, né visconti.

E questo possente signore aveva un bell'aspetto, nobile e imponente.

Ma nel suo cuore era sleale, astuto e ipocrita, superbo e crudele.
Non aveva paura né di Dio né degli uomini.

Sorvegliava come un falco i sentieri e le strade che passavano nella regione e piombava sui pellegrini e mercanti per rapinarli.

Aveva da tempo calpestato tutte le promesse e le regole della cavalleria.
La sua crudeltà era divenuta proverbiale.
Disprezzava apertamente la gente e le leggi della Chiesa.

Ogni Venerdì santo invece di digiunare e rinunciare a mangiare carne organizzava grandi festini e lautii banchetti per i suoi cavalieri.
Si divertiva a tiranneggiare vassalli e servitù.

Ma un giorno, durante un combattimento, un colpo di balestra lo ferì gravemente ad un fianco.

Per la prima volta, il crudele signore provò la sofferenza e la paura.

Mentre giaceva ferito, i suoi cavalieri gli fecero balenare davanti agli occhi la gola spalancata e infuocata dell'inferno a cui era sicuramente destinato se non si fosse pentito dei suoi peccati e confessato in chiesa. 
"Pentirmi io? Mai! Non confesserò neppure un peccato!".

Tuttavia il pensiero dell'inferno gli provocò un po' di spavento salutare.

A malincuore gettò elmo, spada e armatura e si diresse a piedi verso la caverna di un santo eremita.

Con tono sprezzante, senza neppure inginocchiarsi, raccontò al santo frate tutti i suoi peccati: uno dietro l'altro, senza dimenticarne neppure uno.
Il povero eremita si mostrò ancora più afflitto:

"Sire, certamente hai detto tutto, ma non sei pentito. Dovresti almeno fare un po' di penitenza, per dimostrare che vuoi davvero cambiare vita".

"Farò qualunque penitenza. Non ho paura di niente, io! Purché sia finita questa storia".
"Digiunerai ogni Venerdì per sette anni...!".
"Ah, no! Questo puoi scordartelo!".
"Vai in pellegrinaggio fino a Roma...".
"Neanche per sogno!".
"Vestiti di sacco per un mese...".
"Mai!".

Il superbo cavaliere respinse tutte le proposte del buon frate, che alla fine propose: "Bene, figliolo. Fa' soltanto una cosa: vammi a riempire d'acqua questo barilotto e poi riportamelo".

"Scherzi? E' una penitenza da bambini o da donnette!". Sbraitò il cavaliere agitando il pugno minaccioso.
Ma la visione del diavolo sghignazzante lo ammorbidì subito.

Prese il barilotto sotto braccio e brontolando si diresse al fiume.

Immerse il barilotto nell'acqua, ma quello rifiutò di riempirsi.

"E' un sortilegio magico", ruggì il penitente, "ma ora vedremo".

Si diresse verso una sorgente: il barilotto rimase ostinatamente vuoto.
Furibondo, si precipitò al pozzo del villaggio.
Fatica sprecata!

Provò ad esplorare l'interno del barilotto con un bastone: era assolutamente vuoto.

"Cercherò tutte le acque del mondo", sbraitò il cavaliere. "Ma riporterò questo barilotto pieno!".

Si mise in viaggio, così com'era, pieno di rabbia e di rancore.
Prese ad errare sotto la pioggia e in mezzo alle bufere.

Ad ogni sorgente, pozza d'acqua, lago o fiume immergeva il suo barilotto e provava e riprovava, ma non riusciva a fare entrare una sola goccia d'acqua.

Anni dopo, il vecchio eremita vide arrivare un povero straccione dai piedi sanguinanti e con un barilotto vuoto sotto il braccio.
Le lacrime scorrevano sul suo volto scavato.

Una lacrima piccola piccola scivolando sulla folta barba finì nel barilotto.
Di colpo il barilotto si riempì fino all'orlo dell'acqua più pura, più fresca e buona che mai si fosse vista.

Una sola piccola lacrima di pentimento...

L'esperienza nascosta nel racconto:
Il cavaliere del racconto scopre, con fatica e sofferenza personale, la radice del vero pentimento essenziale per ottenere il perdono di Dio e la pace vera dell'anima.

Clicca qui per un'altra versione della stessa storia.

conversionepenitenzapentimentoconfessionericonciliazioneperdono di Dio

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inviato da Don Benito Giorgetta, inserito il 26/08/2010

PREGHIERA

16. Per la mamma   1

Liana Paciaroni

Signore,
con questa preghiera vogliamo ringraziarti per il regalo più bello che ci hai fatto.
Dopo le stelle nel cielo di notte, la luce e il calore del sole germe di vita, la profondità degli oceani,
l'armonia del canto degli uccelli, i mille colori del mondo, il profumo dei fiori più rari,
la vastità dell'orizzonte lontano...
dopo tutto questo, hai dato ad ognuno di noi un pezzetto del tuo cuore:
l'amore della mamma.
Lei ci tiene sotto al suo cuore per nove mesi già con tanto amore.
Mamma,
è la prima parola che ogni figlio del cielo pronuncia
e l'ultima che ogni figlio sussurra prima che al cielo torni.
Quando la pronunciamo per la prima volta ancora non ne conosciamo il senso,
ma sorridiamo quando lei si avvicina.
Mamma,
sei l'unica al mondo che dona tutto senza chiedere nulla
come Gesù, sai soltanto amare.
Sei la nostra ancora di salvezza, lo spiraglio di luce in mezzo a un cielo scuro,
un guerriero pieno d'amore che combatte per noi, una dolce melodia che consola il dolore,
la spinta giusta per scavalcare ogni barriera,
sei il riparo dal freddo e dalle tempeste, il camino che nelle notti gelide riscalda il cuore.
Sei l'angelo custode della nostra esistenza.
Un angelo al quale il Signore ha donato un corpo e un anima
e ti ha avvolta nel fuoco dello Spirito Santo per esserne sempre illuminata.
Ci accompagni per le ripide strade della vita,
schiarendoci il cammino col bagliore dei tuoi sorrisi carichi di un amore eterno ed immortale
e ci segui passo dopo passo col tuo cuore,
anche quando cominciamo a volare da soli.
Ci hai dato la luce, tu, che la luce sei.
Ci dai sicurezza con la tua dolcezza, serenità con la tua bontà,
stabilità con il tuo amore per il papà, l'unica che sa adorare i nostri difetti
e il tuo saper perdonare ci insegna ad amare.
Vivi in simbiosi con noi nei pensieri, ci vedi anche se ci nascondiamo,
ci senti anche se stiamo zitti, in segreto asciughi le nostre lacrime,
incoraggi i nostri passi, correggi i nostri errori,
e ci consoli quando siamo inconsolabili.
Sei l'arbitro indiscusso della difficile partita della vita di ogni figlio.
Ci insegni ad essere migliori, non i migliori.
In ogni tuo respiro, sguardo, sorriso, in ogni tuo gesto si legge sempre una grande felicità dell'essere mamma,
la mamma di figli come noi, forti o fragili, belli o brutti, bravi o stolti, sani o malati,
in ogni angolo di te si legge che siamo il tuo bene più prezioso,
pur sapendo che non siamo di tua proprietà.
Mamma,
non ci siamo scelti
ma Dio ti scelse per ognuno di noi perché voleva anticiparci il Paradiso.
Sei il filo sottile dell'immortalità, che lega lo spirito al corpo.
Come il Signore, anche tu operi il mistero della creazione.
Sei la serva fedele al progetto di Dio.
Nel suo progetto d'amore per te c'eravamo noi,
nel suo progetto di vita per noi
c'eri tu.
In questo momento della Santa Comunione vogliamo ringraziare il Signore,
per questo dono inestimabile,
e pregare lo Spirito Santo, che in te li ha risposti tutti i suoi sette doni,
perché ogni figlio sappia sempre curarlo e custodirlo come merita.
Amen

mammamadrematernità

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inviato da Liana Paciaroni, inserito il 21/11/2009

PREGHIERA

17. Preghiera a Maria per i sacerdoti   1

Vergine Madre, figlia del tuo Figlio, donna dell'Ascolto e del Servizio, a te ci rivolgiamo per preparare con la nostra preghiera l'anno dedicato alla santificazione dei sacerdoti.

Ti affidiamo ciascuno di loro, come Gesù sulla croce ti ha affidato il discepolo Giovanni. Ti chiediamo di accompagnarli con la tua bontà materna, perché ogni giorno ripetano il loro "sì" a Dio, come tu stessa hai fatto a Nazaret e in tutta la tua vita, fin sotto la croce e oltre.

Tu eri presente con gli apostoli nel cenacolo e con loro hai invocato e poi accolto il dono dello Spirito, che li ha resi coraggiosi testimoni del tuo Figlio, crocifisso e risorto, e li ha sostenuti nell'annunciare il Vangelo ad ogni creatura. Tu stessa li hai accompagnati con la tua preghiera, e la tenerezza di Madre.

Accompagna anche i nostri sacerdoti, soprattutto quando intraprendono strade nuove e non facili per annunciare anche nel nostro tempo la bellezza dell'amore del Padre. Aiutali ad essere autentici e fedeli, generosi e misericordiosi, puri di cuore e solleciti verso ogni persona.

Sostienili nelle giornate difficili, e aiutali a rialzarsi quando sperimentano la debolezza della loro risposta.

Fa' che siano attenti ascoltatori della Parola del tuo Figlio e annunciatori instancabili di questo tesoro che il Cristo ha affidato alla Chiesa perché sia seme gettato nei solchi dell'umanità.

Sostieni chi fatica ad essere fedele, e dona la consolazione che aiuta a superare i momenti difficili. Invoca con loro e per loro lo Spirito perché siano servitori della comunità sull'esempio e con la forza del Figlio tuo, che si è fatto servo per amore e ha indicato nel servizio uno dei modi per renderlo presente e vivo in mezzo ai suoi.

Aiutali a spezzare per tutti il Pane della Parola e dell'Eucaristia e ad essere compagni di viaggio per tutti coloro che cercano nel Vangelo la risposta alle tante domande della vita, il sollievo alle tante sofferenze che spesso ci rendono tristi.

Accompagnali tutti con il tuo amore di Madre; o clemente, o pia, o dolce Vergine Maria!

mariasacerdotisacerdoziopretipresbiteri

1.0/5 (1 voto)

inviato da Don Remigio Menegatti, inserito il 19/06/2009

PREGHIERA

18. Ed eccoti...

Paolino Iorio

Maria è il tuo nome,
tu una ragazza,
vergine di Nazareth,
ti immagino così:
una adolescente
dai capelli neri
e dagli occhi neri,
vivaci e penetranti,
e con un viso delicato.
Ma ancora più bella
la tua umiltà
e il tuo cuore semplice,
ecco perché un giorno
dicesti si
ad un Messaggero,
che forse mentre cucivi,
nel silenzio della tua casa,
ti sorprese
con quella notizia bella
ma sconvolgente:
essere la mamma di Gesù.
E ti sei fidata
dicendo: Eccomi,
e così hai cambiato tutto,
la mia vita,
la vita dell'umanità,
e ci hai donato la gioia,
quella che dura per sempre:
il Verbo si è fatto carne.
Ed eccoti in viaggio
per il censimento
e durante il viaggio
i dolori del parto,
nessuno ti accolse
forse perché
il Salvatore nostro
voleva nascere povero,
in una mangiatoia,
a Betlemme,
perché noi fossimo ricchi
ma solo di lui.
Ed eccoti lì,
con Gesù bambino
nelle tue braccia,
vicino a San Giuseppe,
tra un bue e un asinello,
che vi riscaldano
in quella notte gelida
del Natale,
mentre guardi stupita
i pastori che vengono
ad adorare il tuo Figlio.
Ed eccoti a Nazareth,
mentre allevi Gesù:
mentre giochi con lui
e poi ti occupi della casa:
pensi a cucinare,
a fare il bucato,
ad essere una buona
madre e moglie.
Ed eccoti a Gerusalemme
e mentre sei lì
non trovi Gesù,
che spavento ti sarai presa,
mentre lo cercavi,
e che sollievo
quando lo trovasti
nel tempio,
in mezzo ai dottori.
Ed eccoti a Cana,
con la tua sensibilità femminile,
capisci che manca il vino
e lo dici a Gesù,
e così che accade
il primo segno
del Regno di Dio tra noi:
l'acqua diventa vino.
Ed eccoti
ai piedi della croce,
piena di dolore,
insieme a Giovanni
e Gesù ti dice:
"Donna ecco tuo figlio,
figlio ecco tua Madre";
così sei diventata
la nostra Mamma
e noi ti abbiamo accolto
nella nostra vita.
Ed eccoti lì,
quando hai incontrato
il tuo Figlio Risorto
e gioiosa lo hai abbracciato,
mentre sapevi che noi figli
eravamo salvi ormai.
Ed eccoti in preghiera
con i discepoli
a Pentecoste,
mentre nasce la Chiesa
dal soffio dell'Amore.
Ed eccoti innalzata
accanto al tuo Figlio
che ti porta con se
nella Gloria,
e preghi per noi.
Ed eccoti qua,
mentre cammini con noi,
per le strade del mondo,
e ci prendi per mano
perché siamo figli deboli
che hanno bisogno
della loro Mamma.

mariamadonnapreghierapentecostefamiglia

inviato da Paola Pacchiano, inserito il 29/05/2009

TESTO

19. Maria donna in cammino

Tonino Bello, Nigrizia, novembre 1990, p. 53

Se i personaggi del vangelo avessero avuto una specie di contachilometri incorporato, penso che la classifica dei più infaticabili camminatori l'avrebbe vinta Maria. Gesù a parte, naturalmente. Ma si sa, egli si era identificato a tal punto con la strada, che un giorno ai discepoli invitati a mettersi alla sua sequela confidò addirittura: «Io sono la via». La via. Non un viandante!

Siccome allora Gesù è fuori concorso, a capeggiare la graduatoria delle peregrinazioni evangeliche è lei: Maria. La troviamo sempre in cammino, da un punto all'altro della Palestina, con uno sconfinamento anche all'estero. Viaggio di andata e ritorno da Nazaret verso i monti di Giuda, per trovare la cugina. Viaggio fino a Betlem. Di qui a Gerusalemme, per la presentazione al tempio.

Espatrio clandestino in Egitto. Ritorno guardingo in Giudea e poi di nuovo a Nazaret. Finalmente, sui sentieri del Calvario, ai piedi della Croce, dove la meraviglia espressa da Giovanni con la parola stabat, più che la pietrificazione del dolore per una corsa fallita, esprime l'immobilità statuaria di chi attende sul podio il premio della vittoria.

Icona del camminare, la troviamo seduta solo al banchetto del primo miracolo. Seduta, ma non ferma. Non sa rimanersene quieta. Non corre col corpo, ma precorre con l'anima. E se non va lei verso l'ora di Gesù, fa venire quell'ora verso di lei, spostandone indietro le lancette, finché la gioia pasquale non irrompe sulla mensa degli uomini.

Sempre in cammino. E per giunta in salita. Da quando si mise in viaggio verso la montagna, fino al giorno del Golgota, anzi fino al crepuscolo dell'Ascensione, quando salì anche lei con gli apostoli «al piano superiore» in attesa dello Spirito, i suoi passi sono sempre scanditi dall'affanno delle alture.

Avrà fatto anche discese, e Giovanni ne ricorda una quando dice che Gesù, dopo le nozze di Cana, discese a Cafarnao insieme con sua madre. Ma l'insistenza con cui il Vangelo accompagna con il verbo "salire" i suoi viaggi a Gerusalemme, più che alludere all'ansimare del petto o al gonfiore dei piedi, sta a dire che la peregrinazione terrena di Maria simbolizza tutta la fatica di un esigente itinerario spirituale.

Santa Maria, donna della strada, come vorremmo somigliarti nelle nostre corse trafelate, ma non abbiamo traguardi. Siamo pellegrini come te, ma senza santuari verso cui andare. Camminiamo sull'asfalto, e il bitume cancella le nostre orme. Forzati del camminare, ci manca nella bisaccia di viandanti la cartina stradale che dia senso alle nostre itinerante.

E con tutti i raccordi anulari che abbiamo a disposizione, la nostra vita non si raccorda con nessun svincolo costruttivo, le ruote girano a vuoto sugli anelli dell'assurdo, e ci ritroviamo inesorabilmente a contemplare gli stessi panorami.

Santa Maria, donna della strada, fa' che i nostri sentieri siano, come lo furono i tuoi, strumenti di comunicazione con la gente e non nastri isolanti entro cui assicuriamo la nostra aristocratica solitudine. Liberaci dall'ansia della metropoli e donaci l'impazienza di Dio. L'impazienza di Dio ci fa allungare il passo per raggiungere i compagni di strada. L'ansia della metropoli, invece, ci rende specialisti del sorpasso. Ci fa guadagnare tempo, ma ci fa perdere il fratello che cammina accanto a noi.

Santa Maria, donna della strada, segno di sicura speranza e di consolazione per il peregrinante popolo di Dio, facci capire come, più che sulle mappe della geografia, dobbiamo cercare sulle tavole della storia le carovaniere dei nostri pellegrinaggi.

È su questi itinerari che crescerà la nostra fede. Prendici per mano e facci scorgere la presenza sacramentale di Dio sotto il filo dei giorni, negli accadimenti del tempo, nel volgere delle stagioni umane, nei tramonti delle onnipotenze terrene, nei crepuscoli mattinali di popoli nuovi, nelle attese di solidarietà che si colgono nell'aria.

Verso questi santuari dirigi i nostri passi. Per scorgere sulle sabbie dell'effimero le orme dell'eterno. Restituisci sapori di ricerca interiore alla nostra inquietudine di turisti senza meta.

Se ci vedi allo sbando, sul ciglio della strada, fermati, Samaritana dolcissima, per versare sulle nostre ferite l'olio della consolazione e il vino della speranza. E poi rimettici in carreggiata. Dalle nebbie di questa valle di lacrime, in cui si consumano le nostre afflizioni, facci volgere gli occhi verso i monti da dove verrà l'aiuto. E allora sulle nostre strade fiorirà l'esultanza del magnificat.

Come avvenne in quella lontana primavera, sulle alture della Giudea, quando ci salisti tu.

stradacamminomariamadonnapellegrinaggio

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inserito il 11/01/2008

TESTO

20. Missione-vocazione

Madeleine Delbrel

Le due vie sono sempre esistite.
Sempre il Signore dirà agli uni: "A causa di me e del mio amore tu avrai una moglie, dei figli, una casa, dei beni da amministrare da parte mia nel mondo".
Sempre il Signore dirà agli altri:
"Tu non avrai che me e io sarò il tuo tutto".
Sempre il Signore dirà agli uni:
"Io so ciò che ti conviene, ti darò ogni giorno la tua pena il tuo pane quotidiano, perché dovunque tu sarai ci sia anche la mia croce".
Sempre il Signore dirà agli altri:
"Prendi la tua croce e seguimi".
Prendila con le tre braccia della povertà, dell'obbedienza e della castità.
Perché? Perché questo io voglio: che tu mi ami e che noi amiamo il mondo insieme.
La maggior parte di coloro ai quali Cristo tiene un tal discorso stanno sotto vesti scure, bianche o nere, discepoli d'un santo che fu attraverso il tempo compagno di strada del Signore.
Altri sono persone come voi e come me, persone affondate il più a fondo possibile nello spessore del mondo, separate da questo mondo da nessuna regola nessun voto nessun abito nessun convento.
Povere, ma simili alle persone d'ogni luogo. Pure, ma simili a persone di qualsiasi ambiente.
Obbedienti, ma simili a persone di qualsiasi paese.
Sono per tutto e per tutti: ne troverete che insegnano, che emanano leggi, che curano e consolano, che lavorano in officina.
Per essi un mondo vale l'altro e un'anima un'altra anima. Ma non tediateli con metodi e tecniche.
Non dite loro: "Qui è meglio aver l'aria un po' ricca: riuscirete meglio"; "Là è meglio sposarvi, sarete un apostolo migliore"; o ancora: "Sappiate ciò che volete, e mirateci".
Essi vi risponderanno:
"Non si possono seguire due strade. Ci date delle ricette che non fanno per noi".
Se noi siamo un po' malconci, se noi facciamo in questo mondo la figura degli accampati, è perché la nostra ricetta è di non possedere altro che il Signore. Se noi non abbiamo focolare, se a casa nostra né marito né moglie né figli ci attendono, è perché il Signore ci possiede e da Lui solo noi vogliamo essere posseduti.
Se noi non abbiamo programma è perché il nostro Padre del Cielo l'ha scritto prima per noi e ci basta ricevere i suoi ordini giorno per giorno.
Non dite loro che la croce è dannosa, un po' morbosa e un po' malsana, che il mondo ha bisogno di ritrovare il volto della gioia e non dei penitenti.
Vi risponderanno:
"Noi vi parleremo della gioia quando l'avremo imparata sulla croce dove ritroviamo il nostro amore.
La nostra gioia è d'un prezzo così esorbitante che è stato necessario per acquistarla vendere ciò che possedevamo e tutto noi stessi".
Quelli della prima chiamata, devono essere numerosi, perché il mondo è grande e il suo battesimo è lungo.
Ma quelli della seconda chiamata, bisogna che ve ne siano almeno alcuni per dare agli uomini, questi adulti fanciulli, l'edizione visiva della vita di Gesù:
Gesù, che è la "Missione" stessa.

missionevocazionelaicitàconsacrazionelaici

inviato da Cristina, inserito il 18/07/2006

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