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PREGHIERA

1. Supplica alla Beata Vergine Maria

Matteo Maria Zuppi

Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio.
Maria, Madre nostra e di ogni persona,
stella del mattino che quando la notte è più buia
orienti i nostri passi ed annunci il sole
che nasce per noi che siamo nelle tenebre e nell'ombra di morte,
volgi a noi i tuoi occhi misericordiosi.
Maria, Fonte della nostra gioia,
guarda con il tuo amore di Madre la città degli uomini
ridotta a deserto di vita, nell'ansia e nell'angoscia.
Ci sentivamo sicuri e forti e ci scopriamo incerti e fragili
perché esposti ad un pericolo invisibile e insidioso.

Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio.

Maria, salute degli infermi,
ti affidiamo coloro che, nel nostro Paese e nel mondo intero,
sono oppressi dalla malattia.
Guariscili, aiuta chi lotta tra la vita e la morte,
sostieni coloro che li assistono difendendo la vita con il loro servizio
negli ospedali e nei luoghi di cura.
Maria, consolatrice degli afflitti,
sostieni i più deboli, gli anziani soli e turbati,
che non possono essere visitati,
perché sentano la tenerezza della tua presenza
e non manchi loro la carezza che rassicura e fa sentire amati e difesi.
Ricordati di chi non è padrone di sé e sente tanta agitazione.
Guida chi vive per strada e non ha dove andare,
chi è straniero e si sente solo.
Aiuta tutti dolce Madre nostra.

Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio.

Madre del buon Consiglio
tutti possiamo colpire ed essere colpiti dal male.
Insegnaci ad essere responsabili di noi stessi e del prossimo,
in una ritrovata comunione di destino,
forti nella speranza e intelligenti nella carità,
perché terminata questa prova possiamo abbracciarci
ed amarci gli uni gli altri come il tuo figlio Gesù ci ha comandato
e per primo ci ha amato.
Maria, porta del cielo,
ti supplichiamo: versa nel nostro cuore l'azzurro del tuo amore,
che ci liberi dalla paura e ci fa incontrare Gesù, nostra salvezza,
perché Lui spezza le catene del male
e con il suo amore fino alla fine ci fa sentire forti perché amati per sempre.

Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio: non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta. Amen.

Supplica dell'arcivescovo Matteo Maria Zuppi alla Beata Vergine Maria durante la preghiera per l'Italia dal Santuario della Beata Vergine di San Luca di Bologna (22 aprile 2020)

pandemiaaffidamentocoronavirus

inviato da Qumran2, inserito il 23/06/2020

RACCONTO

2. Si raccoglie ciò che si semina!   1

Un giovane ingegnere decise di impiegare un piccolo capitale in agricoltura e comprò un piccolo campo in una pianura fertile. Dal momento che non era proprio esperto di coltivazioni, decise di chiedere informazioni a un vecchio contadino che abitava nei pressi.

«Hai visto, Battistin, il mio campicello?».
«Ma certo. Confina con i miei», rispose il vecchio.
«Vorrei chiederti una cosa, Battistin: credi che il mio campicello potrebbe darmi del buon orzo?».
«Orzo? No, signore mio, non credo che questo campo possa dare orzo. Da tanti anni vivo qui e non ho mai visto orzo in questo campo».
«E mais?», insistette il giovane. «Credi che il mio campicello possa darmi del mais?».
«Mais, figliolo? Non credo che possa dare mais. Per quanto ne so, potrebbe fornire radici, cicorie, erba cipollina e meline acerbe. Ma mais no, non credo proprio».

Benché sconcertato, il giovane ingegnere replicò: «E soia? Mi potrebbe dare soia il campicello?». «Soia, dice? Non voglio fare il menagramo, ma io non ho mai visto soia in questo campo. Al massimo, erba alta, un po' di rametti da bruciare, ombra per le mucche e qualche cespuglio di bacche, non di più».

Il giovane, stanco di ricevere sempre la stessa risposta, scrollò le spalle e disse: «Va bene, Battistin, ti ringrazio per tutto quello che mi hai detto, ma voglio fare una prova. Seminerò del buon orzo e vediamo che cosa succede!».
Il vecchio contadino alzò gli occhi e, con un sorriso malizioso, disse: «Ah, beh. Se lo semina... È tutta un'altra cosa, se lo semina!».

Oggi seminerò un sorriso, affinché la gioia cresca.
Oggi seminerò una parola di consolazione, per donare serenità.
Oggi seminerò un gesto di amore, perché l'amore domini.
Oggi seminerò una preghiera, affinché l'uomo sia più vicino a Dio.
Oggi seminerò parole e gesti di verità, per vincere la menzogna.
Oggi seminerò atti sereni, per collaborare con la pace.
Oggi seminerò un gesto pacifico, affinché i nervi saltino meno.
Oggi seminerò una buona lettura nel mio cuore, per la gioia del mio spirito.
Oggi seminerò giustizia nei miei gesti e nelle parole, affinché la verità trionfi.
Oggi seminerò un gesto di delicatezza, affinché la bontà si espanda.

seminareconseguenzeimpegnoresponsabilitàsemesperanzafiducia

inviato da Qumran2, inserito il 29/12/2018

TESTO

3. Il segreto del maestro

don Tonino Bello, Scrivo a voi... Lettere di un vescovo ai catechisti, EDB

Carissimi catechisti,

ogni volta che tornavo nel mio paese, andavo a trovarlo. Ultimamente si era incurvato e gli tremavano le mani. Ma per me è rimasto sempre il maestro di un tempo. Tornavo da lui per un dovere di gratitudine. Ma soprattutto condotto dalla speranza. Chi sa, mi dicevo, che non abbia, come nelle fiabe che ci raccontava in quarta elementare, una noce misteriosa da farmi schiacciare nei momenti difficili!

Di tutti gli insegnanti che ho avuto, lui era l'unico a provare soggezione di me. Me ne accorgevo dall'imbarazzo con cui, nel discorso con me, passava dal “lei” al “tu”. Mi hanno detto anche che era fiero di avermi avuto come discepolo. Forse però non ha mai saputo che se ancora tornavo da lui era perché avevo il presentimento che mi avrebbe aiutato a risolvere, come un tempo, qualche altro complicato problema, per il quale non mi bastavano più le quattro operazioni dell'aritmetica che lui mi aveva insegnato. Ogni volta che lo lasciavo, sentivo di avergli rubato spezzoni di mistero. Quegli spezzoni che a scuola ci sottraeva volutamente, senza che noi ce ne accorgessimo. Sì, perché lui aveva l'incredibile qualità di non spiegarci mai tutto e per ogni cosa ci lasciava un ampio margine d'arcano, non so se per stimolare la nostra ricerca o per alimentare il nostro stupore.

Perché l'arcobaleno dura così poco in cielo? E cosa fa Dio tutto il giorno? Perché le farfalle lasciano l'argento sulle dita? Perché Gesù ha fatto nascere così il povero Nico, che veniva a scuola sulla carrozzella spinta dalla nonna? Perché si muore anche a dieci anni, come la sua bambina, e noi scolari quel giorno andammo tutti in chiesa a pregare per lei?

Non aveva l'ansia di rivelarci tutto. Non era malato di onnipotenza culturale. E neppure ci imponeva le sue spiegazioni. Qualche volta sembrava fosse lui a chiederle a noi. Ma quando dopo gli acquazzoni di primavera spuntava l'arcobaleno, ci conduceva fuori per contemplarne la tenerezza dei colori. E, mostrandoci le rondini che garrivano in cielo, ci diceva che non dovevamo abbatterle con le nostre frecce di gomma perché Dio, la sera, le conta una ad una. E ci raccontava che le farfalle, l'argento, andavano a prenderlo tra le erbe profumate dei crepacci. E a Nico gli restituiva la gioia di esserci, perché gli scompigliava tutti i capelli, a lui solo, e, durante le passeggiate scolastiche, gli faceva tenere la sua borsa, con la merenda del maestro. E quando morì la sua bambina, lo vedemmo piangere di nascosto.

Forse la grandezza del mio maestro era tutta qui. In questa sua capacità di comunicare messaggi profondi più con il silenzio che con le parole, di lavorare su domande legittime, di non tirare mai conclusioni per tutti, di costruire occasioni di crescita reciproca, di accettare le differenze come un dono, di ritenere i suoi ragazzi titolari di una forte capacità progettuale, di dare più peso alla sfera relazionale che a quella dell'istruzione da trasmetterci, di interpretare la scuola come un gioco, anzi come una festa in cui il primo a divertirsi era lui.

Vorrei augurare a tutti voi che i vostri ragazzi provino per voi gli stessi sentimenti che ho provato io per il mio vecchio maestro delle elementari... statene certi: se restate saldi in Gesù e vi animerà una forte passione di trasmettere la sua Verità, essi, i vostri ragazzi di oggi, un giorno verranno a farvi visita. Sì, perché anche se saranno diventati professori dell'università gregoriana, torneranno da voi per recuperare quei frammenti di mistero, di cui non hanno ancora trovato spiegazione neppure sui libri di teologia.

Vi saluto, don Tonino Vescovo
3 marzo 1991

educareeducatoricatechistiinsegnaretestimoniaremaestridomandescuola

inviato da Anna Barbi, inserito il 29/12/2018

PREGHIERA

4. Litania interreligiosa per la pace

Remy Nahimana, Commissione Giustizia e Pace del Burundi, Bujumbura

Che la fede nasca e cresca in ogni uomo e donna di questa terra:
Dio della giustizia e della pace, riconcilia le nostre vite.

Che il pregiudizio e il sospetto che separano gli individui e le comunità umane siano rimossi:
Dio della giustizia e della pace, riconcilia le nostre vite.

Che le nostre differenze psicologiche e culturali servano a costruire positivamente la nostra personalità e il nostro paese:
Dio della giustizia e della pace, riconcilia le nostre vite.

Che i nostri cuori siano sensibili al dolore e alla sofferenza di coloro che sono indifesi ed emarginati nelle nostre società:
Dio della giustizia e della pace, riconcilia le nostre vite.

Che ogni uomo e ogni donna intorno a noi sperimenti la gioia di vivere liberamente e indipendentemente:
Dio della giustizia e della pace, riconcilia le nostre vite.

Che il baratro tra ricchi e poveri, oppressori e oppressi, leader politici, vincitori e vinti, scompaia:
Dio della giustizia e della pace, riconcilia le nostre vite.

Che le nostre divisioni etniche e sociali siano rimpiazzate dall'ascolto empatico e dall'accettazione degli altri:
Dio della giustizia e della pace, riconcilia le nostre vite.

Che tutte le nostre relazioni siano caratterizzate da verità, umiltà, onestà e apertura:
Dio della giustizia e della pace, riconcilia le nostre vite.

Che i nostri buoni rapporti con i paesi vicini siano rafforzati aiutandosi a vicenda e diventando un sigillo della nostra reciproca fiducia e sicurezza:
Dio della giustizia e della pace, riconcilia le nostre vite.

Che l'unione di giustizia, verità, perdono e riconciliazione diventi realtà nelle nostre vite:
Dio della giustizia e della pace, riconcilia le nostre vite.

Che le nostre famiglie, le nostre colline e i nostri villaggi siano spazi di gioia e condivisione tra indigeni e coloni e tutti coloro che condividono la terra:
Dio della speranza, dacci la tua pace.

pacegiustiziainterculturalità

inviato da Qumran2, inserito il 22/03/2018

PREGHIERA

5. Lettera a Gesù Bambino   1

Giuliano Guzzo, www.giulianoguzzo.com

Caro Gesù Bambino,

una manciata di giorni e sarà il Tuo, se ancora vorrai visitare quest'umanità distratta e sperduta, in tutt'altre faccende affaccendata. E' incredibile, infatti, eppure accade ogni anno: si avvicina il Natale e di tutto ci si occupa - di mercatini, di cibo, di idee regalo, di pandori con la farina di insetti - fuorché della Ragione di Tutto, del Regalo dei Regali, di un Dio che non solo non se la tira, ma si umilia fino a farsi neonato, minuto ospite del mondo che Egli stesso ha creato; un po' come se Messi chiedesse di iscriversi alla squadra dei pulcini; se Federer elemosinasse la racchetta più economica; se Armani si aggirasse, sognante, fra bancarelle di capi di terza mano.

Un meraviglioso ed abbagliante paradosso che solo a Te, caro Gesù, sarebbe potuto venire in mente. Tuttavia, dicevo, quaggiù si stenta a rendersene conto. Non chiedermene la ragione, ma è così. La prima richiesta che mi permetto di avanzare con questa lettera è, quindi, quella di donarci lo stupore per la Tua venuta, il desiderio di fiondarci tra pecore e pastori, di bramare un posto che - oggi come 2000 e passa anni fa, purtroppo - pare interessi a pochi: quello dinnanzi a una grotta senza viste panoramiche, Jacuzzi né pavimento riscaldato ma con, dentro, una Grande Luce. Anzi, la sola vera Luce, al cui confronto le stesse stelle più splendenti non sono che fiacche lampadine.

La seconda richiesta che Ti rivolgo, sono Giga spirituali illimitati. La voglia di tornare a pregare, di farlo con intensità, fermi e in ginocchio, cosa oggi non facile. Come difatti saprai, qui è un continuo invito alla corsa: corri per affermarti, corri per cogliere l'attimo, corri per vincere, corri per restare in forma. Lo stesso Avvento è stato da tempo rimpiazzato dalla «corsa per gli acquisti»; come se a Natale si festeggiassero dei centometristi giamaicani e non un Bambino che, pur non potendo ancora camminare, ha fatto fare - da subito - enormi balzi in avanti all'umanità. Regalaci, insomma, la capacità di tornare ad affidarci a Te, la sola Bussola di cui abbisogna quel povero migrante che è il nostro cuore.

Sperando di non esagerare, avrei un terzo e ultimo desiderio. Ti vorrei chiedere di salutarci tanto, prima di venirci a trovare, Charlie Gard e tutti i piccoli come lui, scartati da un mondo che, da tempo, non sa più dare un significato alla fragilità, un senso al dolore, una direzione alle lacrime. Già lo sapranno, ma è bene che a questi Angeli venga ricordato che alcuni, qui, non si sono dimenticati di loro e che in loro nome continueranno a sottolineare che, se non si è favorevoli ad accogliere sempre la Vita, si può ben festeggiare Halloween, il Black Friday e, che so, la giornata mondiale del peto, ma il Natale, ecco, meglio lasciarlo stare. Per un briciolo di coerenza, se non altro.

Detto questo, caro Gesù, concludo - oltre che con la speranza le Poste Celesti sappiano recapitare questo messaggio per tempo dato che con l'eternità, sai com'è, hanno già abbastanza pratica quelle Italiane - con un ringraziamento. Ti ringrazio, senza voler dare ciò per scontato, per essere in viaggio e per riposare già nel ventre di Maria, al sicuro, dove le unghie e i soldati degli Erode, inclusi gli odierni, non possono arrivare. Non saprei dire, adesso, quanti saremo ad accoglierTi come meriti, ma dico grazie fin d'ora per la gioia che vorrai condividere col Tuo gregge, anche se è quello che è. Siamo infatti solo poveri diavoli stanchi di credersi grandi. Ma è per questo, in fondo, che aspettiamo un Bambino.

nataleavventoaccoglienzaspiritualitàstuporevita

inviato da Qumran2, inserito il 19/02/2018

PREGHIERA

6. Vergine dell'attesa (versione lunga)

Tonino Bello

Santa Maria, vergine dell'attesa, donaci del tuo olio perché le nostre lampade si spengono. Vedi: le riserve si sono consumate. Non ci mandare ad altri venditori. Riaccendi nelle nostre anime gli antichi fervori che ci bruciavano dentro, quando bastava un nonnulla per farci trasalire di gioia: l'arrivo di un amico lontano, il rosso di sera dopo un temporale, il crepitare del ceppo che d'inverno sorvegliava i rientri in casa, le campane a stormo nei giorni di festa, il sopraggiungere delle rondini in primavera, l'acre odore che si sprigionava dalla stretta dei frantoi, le cantilene autunnali che giungevano dai palmenti, l'incurvarsi tenero e misterioso del grembo materno, il profumo di spigo che irrompeva quando si preparava una culla.

Se oggi non sappiamo attendere più è perché siamo a corto di speranza. Se ne sono disseccate le sorgenti. Soffriamo una profonda crisi di desiderio. E, ormai paghi dei mille surrogati che ci assediano, rischiamo di non aspettarci più nulla neppure da quelle promesse ultraterrene che sono state firmate col sangue dal Dio dell'alleanza.

Santa Maria, donna dell'attesa, conforta il dolore delle madri per i loro figli che, usciti un giorno di casa, non ci son tornati mai più, perché uccisi da un incidente stradale o perché sedotti dai richiami della giungla. Perché dispersi dalla furia della guerra o perché risucchiati dal turbine delle passioni. Perché travolti dalla tempesta del mare o perché travolti dalle tempeste della vita.

Riempi i silenzi di Antonella, che non sa che farsene dei suoi giovani anni, dopo che lui se n'è andato con un'altra. Colma di pace il vuoto interiore di Massimo, che nella vita le ha sbagliate tutte, e l'unica attesa che ora lo lusinga è quella della morte. Asciuga le lacrime di Patrizia, che ha coltivato tanti sogni a occhi aperti, e per la cattiveria della gente se li è visti così svanire a uno a uno, che ormai teme anche di sognare a occhi chiusi.

Santa Maria, vergine dell'attesa, donaci un'anima vigiliare. Giunti alle soglie del terzo millennio, ci sentiamo purtroppo più figli del crepuscolo che profeti dell'avvento. Sentinella del mattino, ridestaci nel cuore la passione di giovani annunci da portare al mondo, che si sente già vecchio. Portaci, finalmente, arpa e cetra, perché con te mattiniera possiamo svegliare l'aurora.

Di fronte ai cambi che scuotono la storia, donaci di sentire sulla pelle i brividi dei cominciamenti. Facci capire che non basta accogliere: bisogna attendere. Accogliere talvolta è segno di rassegnazione. Attendere è sempre segno di speranza. Rendici, perciò, ministri dell'attesa. E il Signore che viene, vergine dell'Avvento, ci sorprenda, anche per la tua materna complicità, con la lampada in mano.

Clicca qui per la versione breve.

attesaattendereavventomariasperanza

inviato da Qumran2, inserito il 15/01/2018

TESTO

7. Andiamo fino a Betlemme (versione completa)

Don Tonino Bello

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è lungo, lo so. Molto più lungo di quanto non sia stato per i pastori ai quali bastò abbassarsi sulle orecchie avvampate dalla brace il copricapo di lana, allacciarsi alle gambe i velli di pecora, impugnare il bastone, e scendere, lungo i sentieri profumati di menta, giù per le gole di Giudea. Per noi ci vuole molto di più che una mezzora di strada. Dobbiamo valicare il pendio di una civiltà che, pur qualificandosi cristiana, stenta a trovare l'antico tratturo che la congiunge alla sua ricchissima sorgente: la capanna povera di Gesù.

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è faticoso, lo so. Molto più faticoso di quanto sia stato per i pastori i quali, in fondo, non dovettero lasciare altro che le ceneri del bivacco, le pecore ruminanti tra i dirupi dei monti, e la sonnolenza delle nenie accordate sui rozzi flauti d'Oriente. Noi, invece, dobbiamo abbandonare i recinti di cento sicurezze, i calcoli smaliziati della nostra sufficienza, le lusinghe di raffinatissimi patrimoni culturali, la superbia delle nostre conquiste... per andare a trovare che? «Un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia».

Andiamo fino a Betlemme. Il viaggio è difficile, lo so. Molto più difficile di quanto sia stato per i pastori ai quali, perché si mettessero in cammino, bastarono il canto delle schiere celesti e la luce da cui furono avvolti. Per noi, disperatamente in cerca di pace, ma disorientati da sussurri e grida che annunziano salvatori da tutte le parti, e costretti ad avanzare a tentoni dentro infiniti egoismi, ogni passo verso Betlemme sembra un salto nel buio.

Andiamo fino a Betlemme. E' un viaggio lungo, faticoso, difficile, lo so. Ma questo, che dobbiamo compiere «all'indietro», è l'unico viaggio che può farci andare «avanti» sulla strada della felicità. Quella felicità che stiamo inseguendo da una vita, e che cerchiamo di tradurre col linguaggio dei presepi, in cui la limpidezza dei ruscelli, o il verde intenso del muschio, o i fiocchi di neve sugli abeti sono divenuti frammenti simbolici che imprigionano non si sa bene se le nostre nostalgie di trasparenze perdute, o i sogni di un futuro riscattato dall'ipoteca della morte.

Andiamo fino a Betlemme, come i pastori. L'importante è muoversi. Per Gesù Cristo vale la pena lasciare tutto: ve lo assicuro. E se, invece di un Dio glorioso, ci imbattiamo nella fragilità di un bambino, con tutte le connotazioni della miseria, non ci venga il dubbio di aver sbagliato percorso. Perché, da quella notte, le fasce della debolezza e la mangiatoia della povertà sono divenuti i simboli nuovi della onnipotenza di Dio. Anzi, da quel Natale, il volto spaurito degli oppressi, le membra dei sofferenti, la solitudine degli infelici, l'amarezza di tutti gli ultimi della terra, sono divenuti il luogo dove Egli continua a vivere in clandestinità. A noi il compito di cercarlo. E saremo beati se sapremo riconoscere il tempo della sua visita.

Mettiamoci in cammino, dunque, senza paura. Il Natale di quest'anno ci farà trovare Gesù e, con Lui, il bandolo della nostra esistenza redenta, la festa di vivere, il gusto dell'essenziale, il sapore delle cose semplici, la fontana della pace, la gioia del dialogo, il piacere della collaborazione, la voglia dell'impegno storico, lo stupore della vera libertà, la tenerezza della preghiera.

Allora, finalmente, non solo il cielo dei nostri presepi, ma anche quello della nostra anima sarà libero di smog, privo di segni di morte e illuminato di stelle.

E dal nostro cuore, non più pietrificato dalle delusioni, strariperà la speranza.

Clicca qui per la versione breve.

nataleincarnazionericerca di Diosperanza

inviato da Francesco De Luca, inserito il 15/01/2018

PREGHIERA

8. Esame di coscienza sui vizi capitali   1

Penitenziale per i giovani in preparazione alla XXII Giornata Mondiale della Gioventù in San Pietro alla presenza di Benedetto XVI, Libreria Editrice Vaticana, 2007

Perdona Signore i nostri peccati di superbia: le azioni che cercano solo la lode e l'approvazione della gente, l'ambizione, la ricerca di potere e di notorietà.
Perdonaci per quando parliamo, diamo consigli, studiamo, lavoriamo, facciamo il bene solo in funzione di ciò che ne penseranno gli altri e per catturare la stima altrui.
Perdonaci per quando esibiamo con vanità la bellezza fisica e le qualità dateci da Dio.
Perdonaci per l'arroganza che nasce dalla superbia, per il desiderio di non dipendere da nessuno, e nemmeno da Dio, per il vittimismo con cui sappiamo darci sempre una giustificazione.
Rendici umili. L'umiltà è la virtù che elimina tutte le passioni perché in essa noi ci rendiamo disponibili ad essere aiutati da Dio.

Perdona Signore i nostri peccati di invidia: l'ostilità, l'odio, l'idea che il male altrui possa essere bene per noi.
Perdona l'egocentrismo che ci impedisce di desiderare il bene per gli altri e ci rende incapaci di amare, il malcontento e i contrasti generati dall'invidia. Liberaci dal rancore, dal tormento interiore, dall'insoddisfazione.
Perdonaci quando vediamo tutto in funzione di noi stessi, quando non sappiamo mettere un freno ai desideri, quando chiamiamo l'invidia "sana competitività".
Perdona i cedimenti a una società che alimenta continuamente l'ambizione, l'avidità e la vuota curiosità.
Perdonaci quando desideriamo la roba d'altri e ci condanniamo all'infelicità.
Aiutaci a contrastare l'invidia con il dono quotidiano di noi stessi per i fratelli.

Perdona Signore i nostri peccati d'ira: i turbamenti del cuore, i sentimenti di avversione verso i fratelli quando sentiamo colpito il nostro io, l'animosità eccitata, l'aggressività del corpo, la sete di vendetta.
Perdonaci quando l'ira soffoca la libertà, ci rende schiavi di noi stessi, toglie la pace interiore ed esteriore.
Perdonaci la tentazione di "farla pagare" a chi ci ha umiliato, il piacere perverso del "far del male a qualcuno", i giudizi taglienti e la gratuita durezza verso gli altri, le mille giustificazioni dell'ira.
Aiutaci a seguire la via suggerita dai padri: “il silenzio delle labbra pur nel turbamento del cuore", dato che "La medicina perfetta... sarà quella di essere prima di tutto ben persuasi che non ci è consentito adirarci mai e in nessun modo".

Perdona Signore i nostri peccati di accidia: il torpore, la pigrizia, l'abbattimento, la tristezza, la dipendenza e le crisi di astinenza da stimoli e piaceri esteriori che ci lasciano sempre tristi e vuoti.
Perdonaci per la noia che a volte proviamo nel pregare e che ci spinge a cercare distrazioni, o ci lascia soli a parlare con noi stessi.
Perdonaci quando l'accidia genera disgusto e noia per ogni attività sana e spirituale, per quando la stessa vita quotidiana si tinge di tristezza, svogliatezza, vittimismo e lagnanza.
Perdonaci per la vita senza scopo, il tempo perso e la fuga dall'impegno quotidiano.
Donaci il desiderio di reagire. Facci trovare una guida spirituale e fa' che accettiamo la disciplina dell'obbedienza, unica via per non essere sballottati come un corpo inerte in balia delle passioni.

Perdonaci Signore per i peccati di avarizia: l'avidità, la brama di possedere, la fiducia smodata riposta nel denaro. Perdonaci se per avarizia lavoriamo di domenica, siamo disonesti, non diamo in elemosina, ci circondiamo di cose superflue.
Perdona le conseguenze terribili della fame di soldi: liti familiari, ansie e falsi timori, tradimenti, frodi, inganni, spergiuri, violenza e indurimento del cuore.
Perdonaci l'abitudine a essere insoddisfatti per ciò che abbiamo e bramosi di ciò che non ci è dato. Liberaci da lussi inutili, comodità e abitudini dispendiose.
Perdona le ingiustizie della società, le drammatiche disuguaglianze tra paesi ricchi e poveri, le guerre, i disumani sfruttamenti e l'inganno delle coscienze prodotto da un sistema di accumulo e consumo che fa di tutto per eccitare la brama di possesso.
Aiutaci a sottrarci all'influenza dei media e a fidarci di te, che rivesti i gigli del campo e non abbandoni gli uccelli del cielo.

Perdonaci Signore per i peccati di gola: il rapporto irrazionale con il cibo, i vizi del fumo, dell'alcool, delle droghe, la dipendenza che ci fa schiavi.
Perdonaci se scambiamo per la libera scelta ciò che è solo condizionamento dell'abitudine, delle mode, della pubblicità.
Perdonaci per la mente ottenebrata che si allontana anche dalla preghiera e dalle sane letture, per gli eccessi che ci rendono meno padroni di noi stessi e affievoliscono la capacità di autocontrollo.
Insegnaci la capacità dell'astinenza, che disintossica il corpo e la mente. Aiutaci a scoprire i piaceri sani della vita, per essere capaci di amare i fratelli con la libertà e la gioia con cui tu hai amato noi.

Perdonaci Signore per i peccati di lussuria, che ci fanno schiavi del sesso, e per il disordine morale che mette a rischio persone, famiglie e società.
Perdona il cedimento a immagini proposte ad arte, a voci allusive, alla pornografia in video e in rete. Perdonaci la debolezza di fronte a piaceri tanto intensi quanto effimeri.
Perdona la mentalità diffusa che si spaccia il disordine sessuale per conquista e fa credere che ogni istinto debba trovare immediata soddisfazione. Facci comprendere che non è libero chi non ha il controllo di se stesso, chi si riduce al doppio gioco e alla menzogna, chi perde l'integrità morale e la pace, chi si chiude in se stesso.
Perdona i danni gravi nella società: per il sesso si litiga, si minaccia, si uccide; la libidine alimenta uno stile di vita fatuo, degenera spesso nella prostituzione, nel ricatto, nella pedofilia...
Aiutaci a custodire la castità nel cuore e nella mente, e a non avere rapporti sessuali prima o fuori del matrimonio, a evitare deviazioni e stravaganze. Insegnaci modestia e dignità nel vestire, custodisci sguardi e fantasie.
Aiutaci a riscoprire la meraviglia della sessualità secondo Dio, nella cornice dell'amore coniugale, nell'atmosfera di famiglia e di tenerezza dove il sesso non è profanato e svenduto ma è sacra partecipazione al dono della vita.

esame di coscienzavizi capitalisuperbiainvidiairaaccidiaavariziagolalussuria

inviato da Qumran2, inserito il 02/12/2017

RACCONTO

9. Il quarto dono

Gulli Morini

Gesù è nato a Betlemme e dal lontano oriente tre sapienti si sono messi in viaggio per venire a conoscere il re dei re. Li guida una stella, ma in realtà non sanno cosa troveranno. Il linguaggio degli astri ha detto loro che è nato un re: porterà la pace nel mondo, inizierà un regno che non avrà mai fine e unirà il cielo con la terra, ma non ha detto loro dove accadrà tutto questo e, soprattutto, come. Ecco allora che, seguendo la stella, arrivano in Palestina.
Dove andreste a cercare il futuro re? Nella città più grande, nei palazzi dove abitano i ricchi e i potenti, ed è proprio quello che fanno i tre magi a Gerusalemme.

«Dov'è il re dei Giudei che è nato?», vanno chiedendo a tutti, ma nessuno sa rispondere loro.
«Abbiamo visto sorgere la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» affermano con sicurezza i tre forestieri, e all'udire queste parole tutti, ma proprio tutti, si stupiscono, perché a un re normalmente si fa omaggio, ma non adorazione; per questo tutti comprendono bene che i Magi cercano un grande re, non uno dei tanti che regnano sulla terra.
Il loro abbigliamento, le loro domande insistenti non passano inosservate e vengono riferite a chi ha il potere in quel paese, e cioè al re Erode, ma anche ai soldati romani che da anni hanno conquistato la Palestina e sono di fatto i veri padroni del territorio.
Il comandante del presidio di Gerusalemme invia loro un soldato con la scusa di proteggerli, ma in realtà per sapere cosa c'è di vero nelle loro affermazioni.
Erode raduna i suoi consiglieri più fidati, gli studiosi della bibbia di quel tempo per conoscere dove avrebbe dovuto nascere il più grande di tutti i re, cioè il Messia d'Israele. La risposta, come potete leggere nel Vangelo di S. Matteo, è Betlemme, allora il re fa' chiamare segretamente i Magi perché ha in mente un piano. Invia i magi a Betlemme e chiede loro di tornare quando l'avranno trovato, così potrà andare anche lui ad ad «adorarlo». Di fatto pensa solo ad individuare il suo rivale per eliminarlo.

Ecco allora che i tre Magi riprendono il cammino assieme al soldato romano che li scorta sul suo cavallo, armato di lancia e di spada. I tre personaggi parlano tra di loro, sono emozionati perché sperano di arrivare presto alla fine del loro viaggio. Il soldato, che si chiama Longino, ascolta tutto con grande attenzione, così impara quali sono le caratteristiche di questo re nato da poco che i tre sapienti stanno cercando con impazienza.
Sarà un re più grande di ogni altro re; il suo regno si estenderà su tutti i popoli (e questo preoccupa molto il romano se pensa che l'impero della sua Roma possa essere in pericolo), ma nonostante tutto questo sarà un regno di pace, un regno buono, come non ce ne sono stati altri.
Alla sera, quando si accendono le prime stelle, i tre saggi scrutano con visibile apprensione il cielo e d'improvviso scoppiano in esclamazioni di gioia: la stella, ecco di nuovo la stella!
«Quale stella?» chiede Longino ai sapienti che lo guardano con occhi pieni di felicità.
«Guarda, quella è la stella che ci ha guidati», dice Melchiorre indicando un punto luminoso nel cielo.
«E' la stella del più grande dei re, come dicono tutti i libri che insegnano il linguaggio delle stelle», continua Gasparre.
«L'abbiamo vista per la prima volta nei territori d'oriente, da dove veniamo, alcuni mesi fa», aggiunge Baldassarre.
«Per settimane ci ha guidato, poi è sparita, così abbiamo proseguito il cammino solo sulla fiducia», riprende Melchiorre.
«Ma ora i nostri occhi la vedono di nuovo e la nostra gioia è talmente grande che tu non puoi nemmeno immaginare», conclude Gasparre.
«Voi saggi stranieri non lo sapete - dice Longino - ma la stella è proprio nella direzione di Betlemme, che dista da qui meno di un'ora di cammino».
I tre Magi sono eccitati come bambini.
«Cosa aspettiamo? Presto, prepariamo i doni. Partiamo subito», si dicono l'un l'altro.
Longino vorrebbe trattenerli, ma i tre sapienti insistono tanto che alla fine il romano è costretto a far loro da guida.

Il viaggio diventa sempre più disagiato, perché ormai il buio è totale e si intravede solo la via al bagliore delle stelle. L'aspettativa dell'evento ha contagiato anche il soldato, cosicché la comitiva procede in silenzio. Ognuno pensa a ciò che tra poco troverà: un sapiente, un re, un inviato dal cielo, un pericoloso concorrente.
Dopo più di un'ora di viaggio difficoltoso i quattro finalmente giungono in vista delle luci di Betlemme. A quel tempo non c'erano le strade illuminate come adesso. Solo chi era sveglio aveva un lume acceso che filtrava appena dalle finestre già chiuse. Nel buio totale della campagna bastava una luce o due per segnalare la presenza di un villaggio.
Eccolo il paesino tanto a lungo cercato. Una decina di case costruite sulla roccia, qualche muro che circonda cortili e piccoli orti, una luce accesa fuori di una porta dalla quale esce luce e un brusìo continuo. I quattro entrano e si trovano in una locanda. Tre soldati romani ad un tavolo, qualche altro cliente agli altri tavoli, ben lontani dai soldati. Longino si avvicina ai commilitoni, scambia qualche parola in latino, poi va dall'oste, parla animatamente per qualche minuto, poi torna dai Magi che aspettano in piedi vicino alla porta.
«Nessuno sa nulla, nessun personaggio importante è passato di qui ultimamente. Tanti ebrei sono passati di qui in occasione dell'ultimo censimento, ma si trattava quasi esclusivamente di povera gente, se non proprio di straccioni. In qualche momento c'è stata tanta gente che qualcuno ha dovuto alloggiare nelle grotte dei pastori che si trovano intorno al villaggio.»
I quattro escono delusi dalla locanda e si ritrovano in una specie di piazza, nello spazio lasciato libero da alcune casette tutt'intorno. I magi guardano il cielo e interrogano muti la stella che li ha guidati fin qui. Tutte le stelle brillano con qualche tremore della luce, ma questa brilla in un modo strano anche se non fa più luce delle altre.
«E' qui vicino, guardate la stella, sembra che danzi», dice Gasparre come in trance.
«Sembra che stia cantando e che ci chiami», risponde Melchiorre come in estasi.
«Andiamo», dice Gasparre come in sogno.
Longino non capisce bene, ma anche lui è affascinato da questa strana atmosfera che si è creata e senza parlare segue i tre sapienti che si sono incamminati per un sentiero che esce dal paese, nella stessa direzione della stella.

A meno di cinque minuti di cammino c'è una grotta, dentro una piccola luce. I piedi camminano da soli, i quattro procedono come automi e si fermano sulla soglia della grotta. Quello che vedono è molto diverso da quel che si aspettavano. Un giovane uomo che gioca con un bimbo in braccio mentre la moglie, giovanissima, sta cucinando in un angolo della grotta. Di fianco a loro un bue ed un asinello legati vicino ad una greppia. Il giovane uomo si accorge della presenza dei nuovi arrivati e senza nessuna esitazione li invita ad entrare.
«La notte è umida, lì fuori: entrate e dividete con noi la nostra cena.» Poi, rivolto alla moglie: «Maria, il Signore benedice la nostra dimora con quattro ospiti.»
«Siate i benvenuti, riposatevi qualche istante mentre io impasterò e cuocerò per voi delle focacce», risponde lei.
I quattro entrano, si siedono su alcune logore stuoie per terra ed osservano questa piccola famiglia cercando con gli occhi conferme ai loro pensieri più profondi. Si aspettavano tutto tranne la straordinaria normalità di ciò che vedono: una semplice famiglia che vive l'ancor più semplice felicità di tutti i giorni che è stata loro concessa dalla nascita di un figlio. La sicurezza che accompagnava i tre saggi durante la loro ricerca è svanita. Più che delusi sono sorpresi. Qui niente ha l'apparenza dell'abitazione di un re, nemmeno le persone che stanno davanti a loro hanno un comportamento di chi aspira a comandare, le parole che sentono non son quelle di chi ha studiato tanto sui libri o di chi ha grandi sogni ed ambizioni. Eppure tutt'intorno a quel bambino c'è una tale atmosfera d'amore che i tre saggi, ma anche il soldato, ne sono conquistati. Non sono sicuri di essere davvero arrivati perché qui non corrisponde nulla alle loro aspettative, per questo debbono cambiare completamente prospettiva per poter vedere con altri occhi ciò che sta loro innanzi.
Più tardi, mentre mangiano tutti insieme, decidono di fidarsi della loro intuizione e raccontano del loro viaggio, del messaggio delle stelle, dei presagi sul futuro di quel bimbo che ora dorme nella mangiatoia degli animali. Maria e Giuseppe, suo sposo, ascoltano stupiti il racconto dei Magi. Capiscono che possono fidarsi di loro e raccontano dei pastori che, la notte della nascita di Gesù, loro figlio, erano accorsi raccontando di visioni di angeli nel cielo.
Longino ascolta anche queste notizie senza ben capire se deve considerarle verità o frutto d'immaginazione. L'unica cosa che percepisce chiaramente è un'atmosfera di serenità che lo circonda. Per i Magi invece questo racconto è la conferma che cancella tutti i loro dubbi. Sicuramente quel bimbo che dorme tranquillamente nella paglia profumata sarà il grande re annunciato dalle stelle, ma sarà anche molto diverso da tutti gli altri. Il loro cuore e non solo la mente finalmente si è aperto, è ora di aprire anche le bisacce e offrire i doni che hanno portato dal loro paese per il Re dei re. A turno depongono ai piedi del bambino Gesù l'oro, segno di ricchezza della regalità, l'incenso, profumo che sale al cielo segno di unione Dio, e mirra, profumo raro e prezioso, segno di nobiltà e di pulizia terrena, ma anche di profonda umanità, visto che viene usato anche nei riti di sepoltura.
Longino è confuso da questa atmosfera che si è creata: percepisce che quel bambino avrà un futuro misterioso e decide di donare anche lui qualcosa, ma non ha nulla. Allora prende la lancia e la depone ai piedi di Gesù: un re deve avere potere anche se sarà un re di pace: se non vorrà fare guerre almeno potrà difendersi, e la lancia è l'arma più adatta a tener lontani i nemici. Giuseppe e Maria osservano tutto con grande attenzione mista a sorpresa: anche questi doni sono davvero inaspettati. Poi Giuseppe prende la lancia e la restituisce al soldato.
«Amico soldato, non ti offendere se non accetto il tuo dono. Capisco la tua buona intenzione e te ne sono profondamente grato. Non so cosa diventerà da grande mio figlio, ma prego il Signore che non tocchi mai un'arma e che il suo potere sia solo di amore.»
Longino si guarda intorno ma non vede ombra di rimprovero o di commiserazione, ma solo sguardi di comprensione e di stima, allora riprende la lancia e torna a sedersi sulla sua stuoia silenzioso. C'è qualcosa che gli sfugge, che non riesce a capire, che non riesce ad accettare. È tardi, per tutti c'è bisogno di dormire. Il sonno dei Magi è ricco di emozioni, di presagi, di calcoli astronomici. Quello di Longino è un sonno pesante, un po' disilluso, ma anche affascinato dalla serenità di un incontro inaspettato.

È Gesù che sveglia tutti poco prima dell'alba perché ha fame. Maria lo allatta cantando sottovoce per non disturbare gli ospiti, ma questi sono già svegli. I tre saggi discutono tra si loro sommessamente, mentre Longino accompagna Giuseppe a prendere del latte dai pastori che stanno in una grotta poco lontano. Il cielo è ormai chiaro, è l'ora di salutarsi, ma prima che Gesù si riaddormenti i tre sapienti lo prendono a turno in braccio e lo cullano guardandolo con grande affetto. Sembra che se lo mangino con gli occhi, che vogliano fissare per sempre nella mente l'immagine di quel fanciullo che per loro è così importante. Prima di riconsegnarlo alla madre lo sollevano e tenendolo più alto delle loro teste chinano il capo in segno di omaggio, di sottomissione e di adorazione. Anche il romano saluta con gentilezza e accarezza delicatamente il piccino.
I quattro s'incamminano silenziosamente verso Betlemme, ma dopo poco Baldassarre chiede a Longino: «Cambiamo strada, non torniamo a Gerusalemme, andiamo direttamente ad oriente, torniamo a casa.»
«Ma Erode vi aspetta.»
«E lascia che aspetti: secondo me considera il bambino come un rivale che intralcia i suoi progetti», risponde Gasparre.
«E poi non potrà certamente capire quali possano essere i piani di questo fanciullo: non sono chiari nemmeno per noi!», conclude Melchiorre.
Dopo qualche giorno i Magi salutano il soldato romano e lo rimandano alla sua guarnigione.
«Vai, riferisci al tuo comandante ciò che hai visto: Roma non deve aver paura di un bimbo che parlerà di pace e non di guerra. Il cielo ti benedica buon Longino.»

Passano più di trent'anni, Gesù è stato crocifisso da pochi giorni e a Gerusalemme si è sparsa la voce che è risorto. Alcuni discepoli dicono perfino di averlo visto, di aver mangiato con lui. Nel Cenacolo sono riuniti i suoi apostoli, hanno paura perché c'è chi li ha già minacciati di morte. Il sommo sacerdote e i capi religiosi vogliono chiudere per sempre l'avventura di un maestro, di un profeta troppo scomodo che ha avuto l'ardire di chiamarsi Figlio di Dio: chiunque osa affermare che Gesù è risorto viene imprigionato. Alla porta del Cenacolo qualcuno bussa: è un soldato romano, e subito il terrore si dipinge sul volto degli apostoli. Ma è un volto noto, è il vecchio Longino, il più anziano tra i soldati della guarnigione, rispettato da tutti perché non ha mai abusato del proprio potere.
Appena entrato depone la spada e la lancia per terra e chiede di parlare con Pietro. È qui a titolo personale, spiga subito, non in veste ufficiale. Vuole sapere se è vero quel che dicono di Gesù. Pietro si fida di lui e racconta di averlo visto più volte e di aver assistito alla sua ascensione al cielo in Galilea. Allora Longino si mette a piangere, sommessamente, ma incapace di smettere. Tutti gli apostoli gli sono intorno stupiti cercando di fargli coraggio, poi, finalmente, il vecchio soldato riesce a trattenersi. Viene fatto sedere e comincia il suo racconto.
«Sono io che sul Golgota ho trafitto il costato di Gesù con quella lancia», dice con fatica.
«Ti ho visto, c'ero anch'io - conferma Giovanni - ma non sei stato tu ad ucciderlo, non devi avere rimorsi».
«Lo so, ma non avevo ancora capito nulla, ero deluso per la seconda volta.»
«Non capisco per cosa tu sia rimasto deluso, e soprattutto perché la seconda volta», dice Pietro.
«E' una storia lunga», esordisce il vecchio soldato, quindi racconta il primo incontro con Gesù nella grotta di Betlemme. «Cercavo un re, il più grande dei re, ma ho trovato un bambino, una famiglia meravigliosamente normale, troppo normale per far crescere un re speciale. Ho provato nonostante la mia delusione ad offrirgli tutto ciò che avevo, cioè la mia lancia, ma mi è stata rifiutata, allora ho pensato, a differenza dei tre sapienti, di aver fallito la mia ricerca. È passato tanto tempo da quel giorno. Sono tornato a Roma e dopo parecchi anni son tornato qui e ho sentito parlare di Gesù. L'ho cercato, una volta l'ho persino ascoltato e ne sono rimasto turbato. Forse, pensavo, nonostante tutto poteva essere lui quello che doveva venire, anche se era così diverso da come l'aspettavo. Ma la mia speranza è morta con lui sul Golgota. Non sono io che l'ho ucciso, ma la mia incredulità lo ha trafitto, proprio con quella lancia che più di trent'anni fa lui mi aveva rifiutato. Ma adesso è risorto. Tanti lo dicevano e io non volevo crederci. Eppure questa notizia sconvolgente si è aggrappata al mio cuore e non ha più voluto staccarsi: ho cercato inutilmente di cancellarla, di pensare che era impossibile, che era una solo una voce messa in giro per confondere i più deboli e creduloni. Alla fine mi son deciso a venire da voi, i suoi amici per avere una parola definitiva, ed ora voi mi testimoniate che è vero: è risorto. Solo adesso, finalmente, i miei occhi cominciano a vedere, il mio cuore crede quel che la mia mente ha sempre rifiutato. Comincio adesso a capire che nulla è successo per caso, che tutto, proprio tutto è servito perché il suo disegno si compisse. Quando a Betlemme ho voluto donargli la mia lancia, Gesù non l'ha rifiutata, l'ha accettata ma me l'ha lasciata in custodia fin quando non è servita, sul Golgota. Sì, ha preso anche la mia lancia non per conquistare o comandare, ma solo per donarci il suo sangue fino all'ultima goccia.»
Maria, presente in mezzo al gruppo degli apostoli, non ha perso una sola parola del romano: il suo stupore e la sua commozione sono evidenti. Non apre bocca, come pure nessuno dei dodici, come se volesse ben imprimersi nella memoria quella testimonianza.
Dopo qualche istante di silenzio, Pietro propone di pregare tutti assieme e di ringraziare Dio per il dono di Gesù. Longino si ritira in un angolo della stanza per rispetto delle usanze degli Ebrei. È una preghiera semplice «Benedetto sei tu, Signore, che ci hai donato Gesù, tuo figlio, il quale ha versato il suo sangue per la nostra salvezza ed è risorto dai morti per confermare la nostra fede.»
Nel silenzio che segue alla preghiera si sente un fragore come di un vento che scuote le porte, le finestre si spalancano con frastuono e una luce, come una palla di fuoco entra nel cenacolo e si divide in tante piccole fiamme che scendono sulla testa degli apostoli e sulla Madonna. Ancora una volta Longino è testimone di un evento straordinario ed assiste alla prima predicazione pubblica fatta dagli apostoli per bocca di Pietro dopo la discesa dello Spirito Santo. Nei giorni successivi frequenta assiduamente i dodici, poi dà le dimissioni da soldato e si fa battezzare.

Il soldato romano che trafigge Gesù con la lancia compare anche nei Vangeli Apocrifi: è da queste fonti che abbiamo il suo nome. La tradizione vuole anche che la sua conversione sia stata talmente esemplare da farlo diventare uno dei primi vescovi della Cappadocia, e poi santo martire.

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inviato da Guglielmo Morini, inserito il 26/09/2017

TESTO

10. Dio è più grande del nostro peccato

Papa Francesco, Udienza Generale del 30 marzo 2016

Dio è più grande del nostro peccato. Non dimentichiamo questo: Dio è più grande del nostro peccato! "Padre, io non lo so dire, ne ho fatte tante, grosse!". Dio è più grande di tutti i peccati che noi possiamo fare. Dio è più grande del nostro peccato. Lo diciamo insieme? Tutti insieme: "Dio è più grande del nostro peccato!". Un'altra volta: "Dio è più grande del nostro peccato!". Un'altra volta: "Dio è più grande del nostro peccato!". E il suo amore è un oceano in cui possiamo immergerci senza paura di essere sopraffatti: perdonare per Dio significa darci la certezza che lui non ci abbandona mai. Qualunque cosa possiamo rimproverarci, lui è ancora e sempre più grande di tutto (cfr 1 Gv 3,20), perché Dio è più grande del nostro peccato...

Dio non nasconde il peccato, ma lo distrugge e lo cancella; ma lo cancella proprio dalla radice, non come fanno in tintoria quando portiamo un abito e cancellano la macchia. No! Dio cancella il nostro peccato proprio dalla radice, tutto! Perciò il penitente ridiventa puro, ogni macchia è eliminata ed egli ora è più bianco della neve incontaminata. Tutti noi siamo peccatori. È vero questo? Se qualcuno di voi non si sente peccatore che alzi la mano... Nessuno! Tutti lo siamo.

Noi peccatori, con il perdono, diventiamo creature nuove, ricolmate dallo spirito e piene di gioia. Ora una nuova realtà comincia per noi: un nuovo cuore, un nuovo spirito, una nuova vita. Noi, peccatori perdonati, che abbiamo accolto la grazia divina, possiamo persino insegnare agli altri a non peccare più. "Ma Padre, io sono debole, io cado, cado". "Ma se cadi, alzati! Alzati!". Quando un bambino cade, cosa fa? Solleva la mano alla mamma, al papà perché lo faccia alzare. Facciamo lo stesso! Se tu cadi per debolezza nel peccato, alza la tua mano: il Signore la prende e ti aiuterà ad alzarti. Questa è la dignità del perdono di Dio! La dignità che ci dà il perdono di Dio è quella di alzarci, metterci sempre in piedi, perché Lui ha creato l'uomo e la donna perché stiano in piedi.

perdonopeccatopeccatoripentimentofiducia in Diofiduciamisericordia di Diomisericordia

inviato da Qumran2, inserito il 26/08/2016

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11. Sognare   1

Gianni Fanzolato, Da Loreto nell'anno della misericordia 2015-2016

Chiudo gli occhi e mi butto fra le braccia della fantasia: e sogno.
Sognare è l'unico tesoro che nessuno ti può rubare e non costa niente.
Il sogno è il volo dell'anima, è passare il limite, è sfiorare la mente di Dio;
ti prende, ti circonda, ti sprona, ti affascina, ti strega e ti proietta all'infinito.

Che meraviglioso sognare un mondo dove tutti si abbracciano, mano nella mano,
e l'amore di ognuno fa crollare i muri, rompe barriere, spezza le guerre e semina pace.
Ma il sogno si fa duro, perché devo entrare nel cuore di tutti per dare la buona notizia
di quel sognatore che ci ha detto: "amatevi gli uni e gli altri come io ho amato voi".

E' bello sognare che ci sono più abbracci che bombe, più mani tese che armi puntate,
più gente che accoglie che bambini smarriti e annegati nei mari di un mondo diviso.
Cosa costa chiudere gli occhi e vedere che tutti i bambini della terra, di ogni colore
stanno facendo un grande girotondo, un arcobaleno di luce, perché amati da Dio.

Chi mi può rubare il fascino del sogno di Dio di fare del mondo una unica famiglia
dove non si guarda il colore, non c'è passaporto, ma basta la dignità di figli di Dio.
Mi possono togliere la libertà, impedire di parlare, ma non la sfida di volare in alto.
Dio mi sussurra la gioia di essere missionario della sua misericordia e mi accarezza.

Gesù, il grande sognatore che ha cambiato il sogno in un nuovo stile di vita,
si è identificato col migrante, col prigioniero, con l'ammalato, con chi ha fame.
"Ma, Signore, quel che tu dici è sogno, è utopia, la vita è dura, ad ognuno la sua pena."
"Se hai amore, mi vedrai presente nel povero, migrante e il sogno si farà benedizione."

Solo adesso, Signore, ho capito che devo aprire gli occhi, perché il sogno è reale;
ho sognato perché ho volato vicino a Te che mi hai trasmesso la forza di osare.
Sono una goccia d'amore nell'oceano del mondo, sogno e son desto, immerso nell'utopia
di Te che ci vuoi abbraccio, perdono, ponte e famiglia in un mondo possibile.

misericordiagiustiziaaccoglienzamigranti

inviato da P. Gianni Fanzolato, inserito il 25/08/2016

TESTO

12. Un libro come fuoco - Papa Francesco ai giovani   4

Papa Francesco, Quaderno N°3972 del 2015/12/26 - Civiltà Cattolica IV 519-654

Miei cari giovani amici,

se voi vedeste la mia Bibbia, forse non ne sareste affatto colpiti. Direste: «Cosa? Questa è la Bibbia del Papa? Un libro così vecchio, così sciupato!». Potreste anche regalarmene una nuova, magari anche una da 1.000 euro: no, non la vorrei. Amo la mia vecchia Bibbia, quella che ha accompagnato metà della mia vita. Ha visto la mia gioia, è stata bagnata dalle mie lacrime: è il mio inestimabile tesoro. Vivo di lei e per niente al mondo la darei via.

La Bibbia per i giovani, che avete appena aperto, mi piace molto: è così vivace, così ricca di testimonianze di santi, di giovani, che fa venir voglia di leggerla d'un fiato, dall'inizio fino all'ultima pagina. E poi...? Poi la nascondete, sparisce sul ripiano di una libreria, magari dietro, in terza fila, finendo per riempirsi di polvere. Finché un giorno i vostri figli la venderanno al mercatino dell'usato. No: questo non può essere!

Voglio dirvi una cosa: oggi, ancor più che agli inizi della Chiesa, i cristiani sono perseguitati; qual è la ragione? Sono perseguitati perché portano una croce e danno testimonianza di Cristo; vengono condannati perché possiedono una Bibbia. Evidentemente la Bibbia è un libro estremamente pericoloso, così rischioso che in certi Paesi chi possiede una Bibbia viene trattato come se nascondesse nell'armadio bombe a mano!

Mahatma Gandhi, che non era cristiano, una volta disse: «A voi cristiani è affidato un testo che ha in sé una quantità di dinamite sufficiente per far esplodere in mille pezzi la civiltà tutta intera, per mettere sottosopra il mondo e portare la pace in un pianeta devastato dalla guerra. Lo trattate però come se fosse semplicemente un'opera letteraria, niente di più».

Che cosa tenete allora in mano? Un capolavoro letterario? Una raccolta di antiche e belle storie? In tal caso, bisognerebbe dire ai molti cristiani che si fanno incarcerare e torturare per la Bibbia: «Davvero stolti e poco avveduti siete stati: è solo un'opera letteraria!». No, con la Parola di Dio la luce è venuta nel mondo e mai più sarà spenta. Nella mia esortazione apostolica Evangelii gaudium ho scritto: «Noi non cerchiamo brancolando nel buio, né dobbiamo attendere che Dio ci rivolga la parola, perché realmente "Dio ha parlato, non è più il grande sconosciuto, ma ha mostrato se stesso". Accogliamo il sublime tesoro della Parola rivelata» (n. 175).

Avete dunque tra le mani qualcosa di divino: un libro come fuoco, un libro nel quale Dio parla. Perciò ricordatevi: la Bibbia non è fatta per essere messa su uno scaffale, piuttosto è fatta per essere tenuta in mano, per essere letta spesso, ogni giorno, sia da soli sia in compagnia. Del resto in compagnia fate sport, andate a fare shopping; perché allora non leggere insieme, in due, in tre o in quattro, la Bibbia? Magari all'aperto, immersi nella natura, nel bosco, in riva al mare, la sera al lume di una candela... farete un'esperienza potente e sconvolgente. O forse avete paura di apparire ridicoli di fronte agli altri?

Leggete con attenzione. Non rimanete in superficie, come si fa con un fumetto! La Parola di Dio non la si può semplicemente scorrere con lo sguardo! Domandatevi piuttosto: «Cosa dice questo al mio cuore? Attraverso queste parole, Dio mi sta parlando? Sta forse suscitando il mio anelito, la mia sete profonda? Cosa devo fare?». Solo così la Parola di Dio potrà dispiegare tutta la sua forza; solo così la nostra vita potrà trasformarsi, diventando piena e bella.

Voglio confidarvi come leggo la mia vecchia Bibbia: spesso la prendo, la leggo per un po', poi la metto in disparte e mi lascio guardare dal Signore. Non sono io a guardare Lui, ma Lui guarda me: Dio è davvero lì, presente. Così mi lascio osservare da Lui e sento - e non è certo sentimentalismo -, percepisco nel più profondo ciò che il Signore mi dice.

A volte non parla: e allora non sento niente, solo vuoto, vuoto, vuoto... Ma, paziente, rimango là e lo attendo così, leggendo e pregando. Prego seduto, perché mi fa male stare in ginocchio. Talvolta, pregando, persino mi addormento, ma non fa niente: sono come un figlio vicino a suo padre, e questo è ciò che conta.
Volete farmi felice? Leggete la Bibbia.

Vostro Papa Francesco

È la versione italiana della prefazione scritta dal Pontefice per una edizione della Bibbia destinata ai giovani, i quali hanno collaborato a discutere e scriverne i commenti (Bibel. Jugendbibel der Katholischen Kirche): vedi qui l'articolo su Civiltà Cattolica.

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5.0/5 (1 voto)

inviato da Centro Missionario Guanelliano, inserito il 25/08/2016

TESTO

13. Dieci leggi per essere felici

Augusto Cury, Diez leyes para ser feliz

Puoi aver difetti, essere ansioso e vivere qualche volta irritato, ma non dimenticate che la tua vita è la più grande azienda al mondo. Solo tu puoi impedirle che vada in declino. In molti ti apprezzano, ti ammirano e ti amano.
Mi piacerebbe che ricordessi che essere felice, non è avere un cielo senza tempeste, una strada senza incidenti stradali, lavoro senza fatica, relazioni senza delusioni.

Essere felici è trovare forza nel perdono, speranza nelle battaglie, sicurezza sul palcoscenico della paura, amore nei disaccordi.
Essere felici non è solo apprezzare il sorriso, ma anche riflettere sulla tristezza. Non è solo celebrare i successi, ma apprendere lezioni dai fallimenti. Non è solo sentirsi allegri con gli applausi, ma essere allegri nell'anonimato.
Essere felici è riconoscere che vale la pena vivere la vita, nonostante tutte le sfide, incomprensioni e periodi di crisi.
Essere felici non è una fatalità del destino, ma una conquista per coloro che sono in grado viaggiare dentro il proprio essere.
Essere felici è smettere di sentirsi vittima dei problemi e diventare attore della propria storia.
È attraversare deserti fuori di sé, ma essere in grado di trovare un'oasi nei recessi della nostra anima.
È ringraziare Dio ogni mattina per il miracolo della vita.
Essere felici non è avere paura dei propri sentimenti.
È saper parlare di sé.
È aver coraggio per ascoltare un "No".
È sentirsi sicuri nel ricevere una critica, anche se ingiusta.
È baciare i figli, coccolare i genitori, vivere momenti poetici con gli amici, anche se ci feriscono.
Essere felici è lasciar vivere la creatura che vive in ognuno di noi, libera, gioiosa e semplice.
È aver la maturità per poter dire: "Mi sono sbagliato".
È avere il coraggio di dire: "Perdonami".
È avere la sensibilità per esprimere: "Ho bisogno di te".
È avere la capacità di dire: "Ti amo".

Che la tua vita diventi un giardino di opportunità per essere felice...
Che nelle tue primavere sii amante della gioia.
Che nei tuoi inverni sii amico della saggezza.
E che quando sbagli strada, inizi tutto daccapo.
Poiché così sarai più appassionato per la vita.
E scoprirai che essere felice non è avere una vita perfetta.Ma usare le lacrime per irrigare la tolleranza.

Utilizzare le perdite per affinare la pazienza.
Utilizzare gli errori per scolpire la serenità.
Utilizzare il dolore per lapidare il piacere.
Utilizzare gli ostacoli per aprire le finestre dell'intelligenza.

Non mollare mai...
Non rinunciare mai alle persone che ami.
Non rinunciare mai alla felicità, poiché la vita è uno spettacolo incredibile!

Sul web viene attribuito a un discorso di Papa Francesco ad un Convegno Famiglie, ma in realtà il testo è tratto dal libro "Dez Leis Para Ser Feliz" di Augusto Cury, psichiatra brasiliano, come spiegato qui.

felicitàvitasperanzaserenitàforzaforza interiore

1.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 25/08/2016

PREGHIERA

14. Maria donna del cammino

Antonio Rungi

Vergine Santa, che hai percorso territori sconfinati, dalla Palestina all'Egitto, e seguendo le orme del Tuo Figlio non ti sei risparmiata nessun cammino, proteggi coloro che, per terra, cielo e mare sono in viaggio per qualsiasi motivo che li spinge a lasciare i loro luoghi d'origine e camminare senza mete e senza confini.

Tu che hai affrontato il primo viaggio della carità, da Nazareth a Ain-Karin, per andare incontro alla tua anziana cugina, insegnaci ad andare incontro, con generosità, alla vita nascente, agli anziani, agli ammalati e a tutti i sofferenti della Terra.

Tu che sei andata da Nazareth a Betlemme, per dare alla luce il Tuo Figlio Gesù, conforta le madri che soffrono per motivi attinenti la loro vita di nutrici e genitrici.

Tu che sei stata costretta a lasciare, per la violenza e il terrore di Erode, con Gesù e Giuseppe, la tua Nazareth, guarda con amore e proteggi coloro che sono immigrati storici o di questi giorni, che sono senza patria e senza un popolo, e che sono fuggiti via per motivi di fame, lavoro, guerre e violenze di ogni genere.

Tu che sei rientrata in Patria con la tua famiglia naturale, fa' che tutti coloro che desiderano ritornare alla loro casa, vicina o lontana, possono farlo senza alcuna difficoltà.

Tu che hai camminato insieme a Gesù, per celebrare la Pasqua nella Gerusalemme terrena, fa' che anche noi possiamo festeggiare la Pasqua eterna, senza perderci nel lungo o breve viaggio nel tempo e che, con il tuo santo aiuto, passiamo raggiungere per sempre Gesù.

Tu che hai seguito Cristo, nel suo peregrinare per portare la dolce parola del Vangelo alla gente del suo tempo, guidaci nel cammino della nuova evangelizzazione, ora e sempre.

Tu, Stella che conduci la Chiesa nel suo impegno apostolico e missionario in tutto il mondo, illumina gli annunciatori della parola del Signore ad essere veri testimoni di Gesù.

Tu che hai accompagnato il tuo Figlio Gesù lungo la via del Calvario, e ti sei incontrata con Lui, nel mezzo del cammino del suo patire, sii vicino alle tante sofferenze di questa umanità, che va in cerca della vera libertà.

Tu, infine, che hai partecipato alla Risurrezione del Tuo Figlio e sei stata la prima ed unica creatura ad essere elevata al cielo in anima e corpo, donaci la possibilità di sperimentare ogni giorno la gioia e la serenità di chi cammina con il cuore e la mente rivolti al Signore, che è Dio Amore e Padre di misericordia.

Tu Vergine e Donna del cammino, Tu Madre Immacolata e Purissima del Redentore, spingi i nostri cuori incontro al Signore della vita e della storia, perché nessuno dei tuoi figli vada perduto nel carcere eterno dell'inferno.
Amen.

mariamadonnacamminoimmigratimigranti

5.0/5 (1 voto)

inviato da Padre Antonio Rungi, inserito il 24/05/2016

TESTO

15. Ogni stagione della vita ha un suo paradiso   1

Enzo Bianchi, Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2015

Ogni cristiano che recita il "Credo", la professione di fede, dice: "Credo la resurrezione della carne, la vita eterna. Amen", e questo credere non è periferico, ma fondamentale nella fede cristiana. Il cristiano, dunque, crede che ci sia un dopo la morte, una vita piena per sempre, nella quale non vi saranno più pianto, né dolore, né malattia, né morte, ma la gioia eterna della comunione, attraverso Gesù Cristo, con Dio e con gli uomini e le donne da lui salvati. Anch'io, in quanto cristiano e monaco, aderisco a questa speranza, ma confesso che il mio immaginario è molto personale ed è mutato nelle diverse stagioni della mia vita. La domanda che mi viene posta: "Come immagini il paradiso?", mi spinge dunque a dare diverse risposte.

Innanzitutto, il paradiso è un'immagine che ci viene trasmessa quando siamo piccoli, e così è stato anche per me. Quando morì mia mamma avevo solo otto anni. Chiedevo dov'era andata, perché non riuscivo ancora a comprendere la morte, e mi veniva risposto: è in paradiso, in un bel giardino, e là passeggia tra gli asfodeli, fiori molto profumati. Così immaginavo dunque il paradiso e speravo di andarci presto, per ritrovare mia mamma e vedere questi fiori profumati che nessuno sapeva descrivermi, perché nel Monferrato nessuno li aveva mai visti.

Con la giovinezza e gli studi biblici, elaborai altre immagini, sovente in contrapposizione al possibile esito opposto: gli inferi, luogo di perdizione, lontano da Dio e da tutti gli altri. Il paradiso assumeva le immagini della Bibbia che leggevo e studiavo: un luogo pieno di luce, in cui non era mai notte; un luogo di pace, senza litigi, dispute, violenze, guerre; un banchetto con abbondanza di cibi squisiti e di vini raffinati; tanta musica e la possibilità di stare insieme, in una festa continua... Belle immagini, ma che svanivano velocemente, perché la ragionevole fede mi spingeva a comprendere che il paradiso non era un luogo, bensì una condizione di comunione con il Signore. Mi piaceva però l'immagine del pranzo con piatti sempre nuovi e dal gusto straordinario, dell'ascolto di musiche che rendevano l'eternità sopportabile...

Poi le immagini del paradiso sono cambiate ancora, tra dubbi, rinnovamenti della speranza, a volte anche stanchezza delle immagini stesse e desiderio di rinnovarle. Ora che sono vecchio, il paradiso o l'esito contrario dell'inferno sono sempre più prossimi: non nascondo una certa paura che mi abita al pensiero della morte, perché credo nel giudizio di Dio sulle mie responsabilità, sul mio operare che è stato buono o cattivo.

Spero soprattutto che nessuno vada all'inferno; ma se qualcuno ci va, allora - mi dico - rischio di andarci anch'io, che non mi sento tanto diverso dagli altri nell'acconsentire all'egoismo che mi abita.

E le immagini del paradiso, da vecchio? Sono svanite. Oggi non so dire, non so immaginare, non oso neppure pensare di dire qualcosa che lo descriva. Nella mia fede è solo una cosa: una grande comunione in Gesù Cristo, in cui regnerà l'amore. Sono convinto che chi ho amato qui sulla terra, lo ritroverò anche di là, e così continueranno il nostro amore e la nostra amicizia. Se pensassi di andare di là e di non trovare più i miei amici, preferirei allora non andarci!

Spero di ritrovare questa terra che tanto ho amato, certamente da Dio trasfigurata, ma ancora questa terra con le sue colline, le sue vigne, i suoi boschi... Sì, vorrei che continuassero le "storie d'amore" vissute qui; anzi, che riprendessero quelle che si sono interrotte e, senza gelosie né concorrenze, potessimo tutti insieme bere alle coppe del vino dell'amore.

Per farvi sorridere, cari lettori, vi confesso che ho un'altra paura: di finire sì in paradiso, ma vicino a persone che non mi piacevano, sebbene fratelli o sorelle nella fede e magari anche di rinomata santità. No, questo proprio no! Ma forse, se Dio mi salverà, sarò cambiato tanto da sopportare anche questo. Purché il Signore non mi faccia perdere gli amici, quelli che ho amato bene e quelli che ho amato male: li vorrei con me.

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inviato da Simone Pestelli, inserito il 07/02/2016

TESTO

16. Lettera dei genitori nel giorno di Battesimo

M. Houbaut, Pour prier avec les sept sacrements, Le Chalet, 1985

Figlio nostro, oggi abbiamo voluto battezzarti in Cristo Gesù,
immergerti nella morte e nella resurrezione del Dio in cui noi crediamo.
In questa lettera, che potrai leggere in seguito, vogliamo dirti perché l'abbiamo fatto.
Non è per importi una scelta che ti abbiamo fatto battezzare,
ma per aprire davanti a te un cammino di libertà
che domani potrai liberamente scegliere di fare tuo.
Abbiamo voluto darti ciò che avevamo di meglio.

Noi crediamo che questo piccolo seme di fede, seminato oggi nel giardino del tuo cuore,
nella luce del giorno e nelle tenebre della notte, germinerà nel segreto della tua vita.
Ti immergiamo oggi nell'oceano di amore di Gesù per darti una forza nuova più grande di te,
sarà il coraggio dei tuoi combattimenti, la chiarezza delle tue scelte, la luce dei tuoi passi.
Per vincere le forze del male essa sarà la tua speranza e la tua gioia.

Abbiamo voluto battezzarti in Cristo perché tu diventi un uomo libero e responsabile
in questo mondo a volte un po' folle.
E soprattutto perché tu diventi un fratello che costruisce,
con Dio, l'avvenire della nostra terra.
Sappi che un giorno potrai anche dimenticare questo dono immortale,
ma rimarrai segretamente segnato dal fuoco del suo appello.

Come la Vergine Maria che offre suo Figlio Gesù nel Tempio,
noi abbiamo voluto portarti sulla soglia della casa del Dio imprevedibile,
deporti tra le braccia della sua Chiesa
e farti entrare nel popolo dei credenti che diventano tuoi fratelli e sorelle.

E quando, domani, non potremo più accompagnarti nel cammino della vita, ti resterà almeno,
scolpita nella fronte e nel cuore, la croce di Cristo vincitore.

È lui infatti, lui solo, il tuo Salvatore e il tuo Signore che traccerà per te un cammino di pace e di libertà.
Al di là delle tue angosce e delle tue miserie, è lui che ti aprirà la casa del Padre e,
al momento della morte, ti darà la sua eternità di amore.

Mamma e Papà

battesimogenitorifigli

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inviato da Don Alessandro Nucci, inserito il 06/02/2016

PREGHIERA

17. Laudato si, Dio creatore e padre

padre Antonio Rungi

Laudato si, Signore mio,
perché ci ha creato e redento,
Tu Padre di immensa tenerezza e bontà.

Laudato si, Signore mio,
per il dono del creato
che hai affidato alla nostra custodia
e messo nelle nostre mani,
non sempre attente ed oculate
nel conservare i beni
che ci hai lasciato
a nostra gioia e felicità.

Laudato si, Signore mio
per ogni uomo e donna
di questa martoriata terra,
afflitta da tanti mali incurabili
del corpo e dello spirito.

Fa' che nessuno di questi nostri fratelli
possano assaporare la freddezza
del nostro cuore e l'indifferenza
della nostra mente
presa da tanti personali problemi,
incapace di leggere il dolore
e la sofferenza sul volto
di chi non conta in questo mondo.

Laudato si, Signore mio,
per tutte le croci che ci doni ogni giorno
e ci inviti a portare con dignità
senza scaricarle sulle spalle degli altri,
ma felici di salire con te sul calvario
e donare la nostra vita,
come vittime espiatrici
per la conversione e la santificazione
del genere umano.

Laudato si, Signore mio
per le tante umiliazioni
che ci hai fatto sperimentare
attraverso quanti non sanno
e non vogliono amare sinceramente gli altri
e si fanno giudici severi degli altri
e molto tolleranti con se stessi.

Laudato si, Signore mio
per ogni cosa e per tutto quello
che guardiamo con i nostri occhi,
gustiamo con il nostro palato,
tocchiamo con le nostre mani,
odoriamo con il nostro naso,
ascoltiamo con le nostre orecchie,
soprattutto se sei Tu Signore a parlare
direttamente al nostro cuore,
perché ci vuoi totalmente consacrati
al tuo amore e alla tua lode,
nella cristiana speranza di lodarti
per sempre nella gioia del tuo Regno,
dove ci attendi per donarci
la pace e la felicità che non ha fine,
insieme a Maria, la tua e la nostra Madre,
Regina del cielo e della terra. Amen.

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inviato da Paola Berrettini, inserito il 03/02/2016

TESTO

18. La Porta Santa

P. Gianni Fanzolato

La prima grande porta della storia si è aperta in cielo: la porta del cuore di Dio.
Si è spalancata sull'umanità e mille portenti son piovuti dall'alto, inondando il mondo;
è scesa la luce, i colori dell'arcobaleno, bellezza e grazia e l'uomo capolavoro di Dio
ma tanto Dio ha aperto la porta, quanto l'uomo ha fatto di tutto per chiuderla.

Per riaprire la porta del cuore di Dio c'è solo una chiave possibile, che diventa porta:
"Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvo" e il salmo centodiciotto:
"E' questa la porta del Signore, per essa entrano i giusti", e Sant'Ignazio di Antiochia:
"Egli è la porta del Padre, attraverso la quale entrano i profeti, gli apostoli e la Chiesa".

Ma Cristo si è fatto via e porta, perché Dio ha trovato in Maria un cancello aperto.
Il messaggio e la proposta di Dio sono caduti nell'umiltà della sua serva e dalla porta
del suo cuore è scaturito il Santo dei santi, il primogenito dei morti, Signore dei signori.
Io sono la via, la chiave, la porta, chi vuole essere felice deve passare attraverso di me.

La porta santa di Gesù ha scatenato una valanga di porte aperte a Dio e all'amore.
Sono i cuori che palpitano per Dio e aprono la loro casa all'accoglienza e al dono.
Mille portoni che lasciano passare lo Spirito del Cristo vivo e lo riversano nei fratelli
provocando quell'effetto domino di porte che si aprono verso la vera porta di Dio.

Mi sono accorto allora che la porta santa è lo stesso mio cuore spalancato da Gesù:
sarà porta santa se lascio entrare i bambini della strada, i barboni della stazione,
i fratelli emigranti nei quali Gesù si è identificato, i giovani che cercano estasi,
ma che hanno sete di valori e di speranza, gli anziani e le persone sole, se lascio entrare Gesù.

La mia porta santa è il sorriso e la gioia dipinti nei miei occhi, perché ho trovato la pace,
è ottimismo cristiano e abbandono all'amore di Dio che mi fa essere aperto all'altro,
focolare dove trovano riparo e calore chi ha sofferto il gelo e l'indifferenza,
il grazie perché Gesù buon pastore ha fasciato e guarito le mie piaghe, amandomi.

La porta santa di San Pietro e tutte le porte sante del mondo saranno Cristo.
Se passando ci sentiremo lavati, purificati e convertiti per essere pietre vive.
Se sentiremo l'abbraccio del Cristo, il suo calore, la sua pazzia d'amore per noi.
Saremo porta e via dove i fratelli troveranno la pace nell'unica porta del cuore di Dio.

porta santagiubileoaccoglienzaapertura

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inviato da P. Gianni Fanzolato, inserito il 02/01/2016

TESTO

19. Dio creò

Giuseppe Impastato S. I.

Dio creò la luce e disse: Che bello!
Dio creò il cielo e disse: Che bello!
E la luce vibrò e fece eco: Che bello!
Dio diede vita al mare e agli oceani ed esclamò: E' straordinario!
E la luce e il cielo ripeterono stupiti: E' veramente straordinario!

Dio forgiò il sole e le stelle ed urlò: Che splendore!
E il mare e gli oceani ondeggiarono per approvare: Che splendore!
Dio plasmò gli alberi e le foreste e disse: Che incanto!
E il sole e le stelle e le galassie luccicarono annunziando: Che incanto!
Dio diede esistenza agli animali, agli uccelli, ai pesci, ai rettili e respirò: Quanto son belli!
E gli alberi e le foreste fremettero di gioia: Quanto son belli!

Dio guardò gli esseri creati e chiese loro: c'è ancora qualcosa di bello da creare?
Ed essi risposero: Eh no! Con noi hai raggiunto il massimo!
Dio guardò il creato e guardò se stesso, si mise all'opera,
formò l'uomo e disse: Che splendore! Che meraviglia! Che realtà stupenda!
E gli animali saltellarono, gli uccelli danzarono, i pesci sgusciarono e i rettili saltarono
E si udì un immenso grido gioioso: Che splendore! Che meraviglia! Che realtà stupenda!

Dio pensò al suo capolavoro!
Un altro uomo. Anzi, l'UOMO!
E il Figlio venne sulla terra, e - per vivere con noi - si chiuse nel grembo di una donna.
Il Padre con lo Spirito esultò dicendo: E' stupendo e meraviglioso!
E gli angeli cantarono a squarciagola: Gloria, gloria, alleluya, alleluya!!!!!

E Dio venne sulla terra non sfolgorante come il sole,
non nello splendore di un palazzo imperiale,
non nello strepito delle armi di un generale,
non come maestoso baobab in un bosco,
non come leone forte e potente in una foresta,
ma come bambino, come vagito...
Non sarebbe diventato un gigante imponente, né un filosofo sapiente,
né un famoso scienziato, né un acclamato politico...
ma solo un sognatore, un innamorato, un appassionato,
una speranza, una grande gioia per l'umanità...

creazioneGesùnataleincarnazionecreature

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inviato da Giuseppe Impastato S. I., inserito il 24/12/2015

TESTO

20. Maria Immacolata, che attende e prepara Gesù a nome dell'umanità

Giuseppe Impastato S.I.

Oggi è festa per noi, e dovrebbe essere la vera festa della donna. Maria è la persona riuscita, il capolavoro di creatura. Non è solo il capolavoro riuscito a Dio, ma è anche il nostro capolavoro. Perché la donna che attende un figlio non è un puro contenitore, un "utero in affitto" a disposizione di Dio per il Figlio che invia sulla Terra. Ogni madre - e quindi anche Maria! - infatti dona. Quello che il bambino riceve dalla madre da un punto di vista organico ce lo descrivono i medici. Ma una madre in attesa trasmette anche sogni, speranze, progetti, canti, carezze, sicurezze, reazioni, sensibilità, sorrisi, fantasie, ecc. La madre in attesa infatti immagina pure le situazioni che il figlio affronterà, le relazioni che vivrà, i modi con cui si approccerà, gli ostacoli che affronterà, le capacità che dimostrerà (nei lavori, nei combattimenti, nella danza, nel canto,...). Che tutto questo rappresenti un vero patrimonio, e inoltre i modi e i limiti con cui esso si trasmetta, la scienza non lo ha affrontato e capito.

Quindi Maria non ha solo ricevuto quelli che i teologi del passato preferivano sottolineare, cioè i "privilegi" (esenzione dal peccato originale, verginità, assunzione in corpo e anima), ma ha collaborato perché Gesù ricevesse l'afflato e il calore umano e il patrimonio di cui dicevamo. Maria a questo punto la possiamo definire come rappresentante dell'Umanità intera incaricata di far vivere e gustare - al Figlio di Dio! - che significhi "carnalmente" appartenere a questa umanità che freme e sussulta, sorride e piange, scopre e inventa, combatte e soccombe, si dà da fare e spera, abbraccia e stringe, bacia e solleva, danza e canta, grida e urla, offre e stringe la mano, guarda e incoraggia dando una pacca sulle spalle, ecc. Gesù, prima ancora di nascere, viene atteso-accolto- avvolto-abbracciato-stretto da Maria e da noi tutti. E perché non pensare che Maria venga investita dalla gioia e soddisfazione di tutta l'umanità nell'incaricarla di rappresentarci durante i 9 mesi in cui prepara e consegna i nostri doni. Poiché Maria è l'unica creatura consapevole che si è instaurata una relazione umano-divina, praticamente si fa carico e interpreta i sentimenti della parte migliore di noi uomini (patriarchi, profeti, santi, giusti...); Maria interpreta e realizza in altre parole il desiderio e lo sforzo che l'umanità mette nel donare il nostro meglio a questo Dio che si fa l'Emmanuele. Proprio Maria spiega, fa sentire e capire al Nascituro quale bellezza e grandezza ha visto l'Umanità in Lui, quanti occhi sono puntati su di Lui, quali sogni e aspirazioni dovrà rappresentare e soddisfare, quali pesi dovrà sopportare, quali entusiasmi sarà capace di sollevare, quante braccia si tenderanno verso di Lui, quali invocazioni di aiuto ascolterà, quanti sguardi pieni di gioia incontrerà... E forse lo ha preparato ad affrontare incomprensioni, abbandoni, rifiuti, minacce, tradimenti, condanne...

Alle parole di Gabriele: "Concepirai un figlio, lo darai alla luce... Sarà grande... Il Signore gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre...", Maria risponde: "Ecco la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola". Perché non pensare che Maria abbia intuito e accettato - anche a nome di tutta l'Umanità - il progetto di Dio, cioè che Gesù fosse non solo Figlio dell'Altissimo, ma anche un figlio da concepire e nutrire e dare alla luce?

Davvero allora Maria Immacolata diventa la nostra rappresentante e collaboratrice.

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inviato da Giuseppe Impastato S.I., inserito il 08/12/2015

TESTO

21. Lettera di Dio per la custodia della donna   2

La donna che hai al fianco, emozionata, con l'abito da sposa, è mia. Io l'ho creata. Io le ho voluto bene da sempre; ancor prima di te e ancor più di te. Per lei non ho esitato a dare la mia vita. Ho dei grandi progetti per lei. Te l'affido. La prenderai dalle mie mani e ne diventerai responsabile.

Quando l'hai incontrata l'hai trovata bella e te ne sei innamorato. Sono le mie mani che hanno plasmato la sua bellezza, è il mio cuore che ha messo dentro di lei la tenerezza e l'amore, è la mia sapienza che ha formato la sua sensibilità e la sua intelligenza e tutte le qualità belle che hai trovato in lei.

Però non basta che tu goda del suo fascino. Dovrai impegnarti a rispondere ai suoi bisogni, ai suoi desideri. Ti renderai conto che ha bisogno di tante cose: ha bisogno di casa, di vestito, di serenità, di gioia, di equilibrio psichico, di rapporti umani, di affetto e tenerezza, di piacere e di divertimento, di presenza umana e di dialogo, di relazioni sociali e familiari, di soddisfazioni nel lavoro e di tante altre cose.

Ma dovrai renderti conto che ha bisogno soprattutto di me, e di tutto quello che aiuta e favorisce questo incontro con me: la pace del cuore, la purezza di spirito, la preghiera, la Parola, il perdono, la speranza e la fiducia in me, la mia vita. Sono Io e non tu il principio, il fine, il destino di tutta la sua vita.

Facciamo un patto tra noi: la ameremo insieme. Io la amo da sempre. Tu hai incominciato ad amarla da qualche anno, da quando te ne sei innamorato. Sono io che ho messo nel tuo cuore l'amore per lei. È stato il modo più bello perché ti accorgessi di lei. Volevo affidarla a qualcuno che se ne prendesse cura. Ma volevo anche che lei arricchisse con la sua bellezza e le sue qualità la vita di un uomo. E questo uomo sei tu.

Per questo ho fatto nascere nel tuo cuore l'amore per lei. Era il modo più bello per dirti: "ecco, te la affido", e perché tu potessi godere della sua bellezza e delle sue qualità. Quando le dirai "prometto di esserti fedele, di amarti e rispettarti per tutta la vita", sarà come se mi rispondessi che sei lieto di accoglierla nella tua vita e di prenderti cura di lei. Da quel momento saremo in due ad amarla.

Dobbiamo però metterci d'accordo: non è possibile che tu la ami in un modo e io in un altro. Devi avere per lei un amore simile al mio, e devi desiderare per lei le stesse cose che Io desidero. Non puoi pensare nulla di più bello e gioioso per lei.

Se la ami sul serio vedrai che ti troverai d'accordo con me nel progetto che ho concepito per lei. Ti farò capire poco alla volta quale sia il mio modo di amare, e ti svelerò quale vita ho sognato e voluto per questa mia creatura che diventerà tua sposa.

Mi rendo conto che ti sto chiedendo molto. Pensavi che questa donna fosse tutta e solo tua, e ora invece hai l'impressione che io ti chieda di spartirla con Me. Non è così. Io non sono il tuo rivale in amore. Al contrario, sono molui che ti aiuta ad amarla appassionatamente. Per questo desidero che nel tuo piccolo amore ci sia il mio grande amore.

Col tuo amore potrai fare molto per lei, ma è sempre troppo poco. Io ti rendo invece capace di amare da Dio. È questo il mio dono di nozze: un supplemento di amore che trasforma il tuo amore di creatura e lo rende capace di produrre le opere di Dio nella donna che ami.

Sono parole per te misteriose, ma le capirai un poco alla volta. Ti assicurò che non ti lascerò mai solo in questa impresa. Sarò sempre con te e farò di te lo strumento del mio amore, della mia tenerezza; continuerò ad amare la mia creatura, che è diventata tua sposa, attraverso i tuoi gesti d'amore, di attenzione di impegno, di perdono, di dedizione. In una parola: ti renderò capace di amare come io amo, perché ti darò una forza nuova di amare che è il mio stesso amore.

Se vi amerete in questo modo, la vostra coppia diventerà come una fortezza che le tempeste di vita non riusciranno mai ad abbattere. Un amore costruito sulla mia Parola è come una casa costruita sulla roccia: nessuna vicenda potrà distruggerla. Ricordatelo, perché molti si illudono di poter fare a meno di me: ma se io non sono con voi nell'edificare la casa della vostra vita e del vostro amore, vi affaticherete invano: come gli apostoli che faticarono tutta una notte e al mattino tornarono a riva con le reti vuote; bastò un semplice intervento Mio, e le reti pescarono tanto pesce che per l'abbondanza si rompevano. Di più. Se vi amerete in questo modo diventerete forza anche per gli altri.

Oggi si crede poco all'amore vero, quello che dura per sempre, e che offre la propria vita all'amato. Si cercano più le emozioni amorose che l'amore. Ma le emozioni nascono e muoiono presto, lasciando solo vuoto e nostalgia.

Per questo qualcuno ha detto che il matrimonio è solo una grande illusione che si dissolve presto. Se voi saprete amarvi come io amo, con una fedeltà che non viene mai meno, diventerete come la città sul monte. Sarete una speranza per tutti, perché tutti vedranno che l'amore è una cosa possibile.

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inviato da Paola Berrettini, inserito il 16/06/2015

TESTO

22. A coloro che non trovano pace

Tonino Bello

Carissimi,

l'idea di rivolgermi a voi mi è venuta stasera quando, recitando i vespri, ho trovato questa invocazione: «Metti, Signore, una salutare inquietudine in coloro che si sono allontanati da te, per colpa propria o per gli scandali altrui».

Per prima cosa mi son chiesto se, nel numero delle mie conoscenze, ci fosse qualcuno che poteva essere raggiunto da questa preghiera.

E mi sono ricordato dite, Giampiero, che, dopo essere passato per tutta la trafila dei gruppi giovanili della parrocchia, un giorno te ne sei andato e non ti sei fatto più vedere.

L'altra sera ti ho incontrato per caso. Pioveva. Eri fermo sul marciapiede e ti ho dato un passaggio. In macchina mi hai chiesto con sufficienza se durante la quaresima continuavo a predicare le «solite chiacchiere» ai giovani, riuniti in cattedrale. Ci son rimasto male, perché mi hai detto chiaro e tondo che tu ormai a quelle cose non ci credevi più da un pezzo, e che al politecnico stavi trovando risposte più utili di quelle che ti davano i preti.

Mi hai raccontato che a Torino hai conosciuto Gigi, ex seminarista e mio alunno di ginnasio, il quale ti parla spesso di me. Ho notato che avevi una punta d'ironia e sembrava che ti divertissi quando hai aggiunto che ora sta con una ragazza, bestemmia come un turco, e fuma lo spinello.

Quando all'improvviso ti ho chiesto se eri felice, mi hai risposto che ne avremmo parlato un'altra volta, perché dovevi scendere e poi era troppo tardi.

Addio, Giampiero! L'invocazione del breviario stasera la rivolgo al Signore per te. E per Gigi. E la rivolgo anche per te, Maria, che ti sei allontanata senza una plausibile ragione. Facevi parte del coro. Ora a messa non ci vai nemmeno a Pasqua. Tu dici che hai visto troppe cose storte anche in chiesa, e che non ti aspettavi certe pugnalate alle spalle proprio da coloro che credono in Dio. Non so che cosa ti sia successo di preciso. Ma l'altro giorno, quando sei venuta da me per implorare un ricovero urgente al Gemelli a favore del tuo bambino che sta male, e io ti ho esortata ad aver fiducia in Dio, e tu sei scoppiata a piangere dicendomi che in Dio non ci credi più... mi è parso di leggere in quelle lacrime, oltre alla paura di poter perdere il figlio, anche l'amarezza di aver perduto il Padre.

Non temere, Maria. Pregherò io per il tuo bambino, perché guarisca presto. Ma anche per te, perché il Signore ti metta nel cuore una salutare inquietudine.

Vedo che non afferri il senso di una preghiera del genere. Di inquietudini nei hai già tante e non è proprio il caso che mi metta anch'io ad aumentartene la dose. Tu sai bene, però, che in fondo io imploro la tua pace. Ecco, infatti, come il breviario prolunga l'invocazione su coloro che si sono allontanati da Dio: «Fa' che ritornino a te e rimangano sempre nel tuo amore».

E ora, visto che mi sono messo ad assicurare preghiere un po' per tutti, vorrei rivolgermi anche a voi che, pur non essendovi mai allontanati da Dio, non riuscite ugualmente a trovar riposo nella vostra vita.

Per sè parrebbe un controsenso. Perché Dio è la fontana della pace, e chi si lascia da lui possedere non può soffrire i morsi dell'inquietudine. Però sta di fatto che, o per difetto di affido alla sua volontà, o per eccesso di calcolo sulle proprie forze, o per uno squilibrio di rapporti tra debolezza e speranza, o chi sa per quale misterioso disegno, è tutt'altro che rara la coesistenza di Dio con l'insoddisfazione cronica dello spirito.

Mi rivolgo perciò a voi, icone sacre dell'irrequietezza, per dirvi che un piccolo segreto di pace ce l'avrei anch'io da confidarvelo.

A voi, per i quali il fardello più pesante che dovete trascinare siete voi stessi. A voi, che non sapete accettarvi e vi crogiolate nelle fantasie di un vivere diverso. A voi, che fareste pazzie per tornare indietro nel tempo e dare un'altra piega all'esistenza. A voi, che ripercorrete il passato per riesaminare mille volte gli snodi fatali delle scelte che oggi rifiutate. A voi, che avete il corpo qui, ma l'anima ce l'avete altrove. A voi, che avete imparato tutte le astuzie del «bluff» perché sapete che anche gli altri si sono accorti della vostra perenne scontentezza, ma non volete farla pesare su nessuno e la mascherate con un sorriso quando, invece, dentro vi sentite morire. A voi, che trovate sempre da brontolare su tutto, e non ve ne va mai a genio una, e non c'è bicchiere d'acqua limpida che non abbia il suo fondiglio di detriti.

A tutti voi voglio ripetere: non abbiate paura. La sorgente di quella pace, che state inseguendo da una vita, mormora freschissima dietro la siepe delle rimembranze presso cui vi siete seduti.
Non importa che, a berne, non siate voi. Per adesso, almeno.

Ma se solo siete capaci di indicare agli altri la fontana, avrete dato alla vostra vita il contrassegno della riuscita più piena. Perché la vostra inquietudine interiore si trasfigurerà in «prezzo da pagare» per garantire la pace degli altri.

O, se volete, non sarà più sete di «cose altre», ma bisogno di quel «totalmente Altro» che, solo, può estinguere ogni ansia di felicità.

Vi auguro che stasera, prima di andare a dormire, abbiate la forza di ripetere con gioia le parole di Agostino, vostro caposcuola: «O Signore, tu ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te».

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inviato da Francesco De Luca, inserito il 16/06/2015

PREGHIERA

23. Beati gli occhi che vedono ciò che voi vedete   1

Anna Maria Cànopi, Sergio Stevan, Oggi vengo a casa tua, Milano, Paoline, 2000, pagg.8-10

Che io sappia
di essere piccolo come Zaccheo,
Signore Gesù,
- piccolo di statura morale -
ma dammi un po' di fantasia
per trovare il modo
di alzarmi un poco da terra
spinto dal desiderio di vederti passare,
di conoscerti e di sapere chi sei tu per me.

Signore Gesù,
fa' che io mi riconosca
nel primo dei pubblicani, dei peccatori,
quanto al disonesto accumulare
tante cose di mio gusto,
tante false sicurezze;
fa' che io mi riconosca fra i pubblicani,
ma mettimi in cuore una sana inquietudine,
almeno un po' di curiosità
per cercare te!

Signore Gesù,
so che devi passare dalle mie parti,
dove sono io,
tu devi passare di qui: sei venuto apposta!
Ti prego, fammi trovare un albero,
fammi trovare qualcuno
che io ritenga più alto,
migliore di me,
per valermi della sua statura
e cercare di vedere te,
soprattutto per farmi vedere da te,
e sentirmi da te chiamare per nome.

Che stupore!
Come mi conosci? Chi ti ha parlato di me?
Signore Gesù, ti prego, dimmi che oggi
ti vuoi fermare da me in casa mia,
come ospite, come amico che non parte più.

Vieni, Signore Gesù,
a riempire di gioia la mia vita
liberandomi dal peso ingombrante
di ciò che sono
e di ciò che possiedo da solo.
Sì, soprattutto liberandomi
dal peso ingombrante
di ciò che sono - o che ritengo di essere -
e di ciò che egoisticamente possiedo.

Vieni a darmi l'entusiasmo di essere povero
nel cuore e ricco soltanto di te.
Io sono sicuro che mi ascolti,
perché sei già venuto a cercarmi,
e mi hai trovato come tesoro che era perduto;
mi hai riacquistato a prezzo di te stesso...
Tu per me hai fatto questo,
per me che nemmeno ti conoscevo.
Sono piccolo, meschino.

Signore Gesù, pastore grande, pastore buono,
sollevami sulle tue spalle per farmi vedere
anche il volto del Padre.
Che io sappia innalzarmi
soltanto facendomi sollevare da te
che per questo sei venuto:
per i piccoli che ti desiderano
e che ti protendono le braccia
per farsi sollevare da te
fino al cuore dell'eterno Padre
da cui sei venuto a rivelare l'infinito amore.

Allora ogni giorno vivrò con gioia
Il mio incontro con te
- la mia Pasqua - e sarò un continuo grazie,
un "amen-alleluia" senza fine.

GesùZaccheorapporto con Dio

5.0/5 (1 voto)

inviato da Giuseppe Impastato S.I., inserito il 14/04/2014

RACCONTO

24. I due sassi   10

C'erano una volta due sassi di montagna, due fratelli che si erano staccati dalla parrete rocciosa e si erano trovati a terra insieme, vicino ad un ruscello. Un giorno decisero di seguire il corso del ruscello per scendere a valle e vedere la grande città. Così si misero di buon sasso... cioè, di buon passo, e rotola oggi, rotola domani, pian piano si dirigevano verso la città. Uno dei due sassi (il più furbo dei due) di tanto in tanto si tuffava nelle acque del ruscello, si fermava un po' a farsi carezzare dall'acqua, e poi riprendeva il cammino.

"Sbrigati!" gli gridava l'altro, il più sciocco dei due, "Non vedi che resti indietro? E poi, cosa ti fermi a fare nell'acqua?"

"Mi levo un po' di polvere di dosso!", rispondeva quello. "Che stupido che sei! Quando esci di qui, e hai fatto due rotolate sulla terra, sei di nuovo sporco come prima! A che ti serve lavarti, se poi ti sporchi ancora?".

Ma il sasso furbo non gli dava retta. Rotolava un po', poi si fermava, entrava nel ruscello e si faceva lavare. Po tornava sul prato e ricominciava a rotolare. E la cosa bella è che non rimaneva mai indietro! Sì, perché mentre il sasso sciocco, tutto spigoloso e appuntito, faceva una gran fatica a rotolare, e faceva pochi metri per volta, il sasso furbo diventava più rotondo ogni volta che entrava in acqua! Sapete perché? Perché l'acqua, scorrendoli tutta intorno, lo levigava, cioè gli levava ogni volta un po' di pietra di dosso, e lo consumava, così da renderlo liscio e tondo. Così, quando usciva dall'acqua, con poca fatica raggiungeva l'amico sciocco.

Andarono avanti così per un bel pezzo. E ogni volta che il sasso furbo usciva dall'acqua, si accorgeva di essere diventato un po' più piccolo. Entra oggi, entra domani, il sasso furbo stava rimpicciolendo. Il sasso sciocco, che non capiva, lo scherzava ancora di più: "Ecco che cosa ci guadagni a fare il bagno ogni giorno! Se vai avanti di questo passo, fra un po' non ci sarai più! Quell'acqua ti sta uccidendo, ti toglie le forze, e non sei più tu! Ma guardati! Siamo fratelli, figli della stessa montagna! Eravamo uguali, e ora? Tu non sei che un piccolo ciottolo di fiume! Io sì che assomiglio alla grande montagna! Guarda come sono forte!"

Ma un bel giorno, uscendo dall'acqua, il sasso furbo si accorse che ora risplendeva su di lui una strana luce. Era un puntino piccolo piccolo, ma luminoso come il sole. E ogni volta che riemergeva dall'acqua, il puntino luminoso era sempre più grande. Finché, adagio adagio, tutto il suo corpo aveva perduto il colore grigio ed era diventato completamente luminoso e dorato.

Erano ormai giunti in città; il sasso sciocco era identico a quando era partito. Anzi, era ancora più incrostato di polvere e di terra. Il sasso furbo era molto più piccolo, ma tondo e luminoso. Il sasso sciocco si lamentava:" Non capisco proprio che cosa ti abbia ridotto così! Sei mio fratello e quasi non ti riconosco! Ma cosa sei diventato?" (Però era invidioso di quel luccichìo...).

In quell'istante passò accanto a loro un signore con una valigetta in mano. Quando vide i due sassi, si fermò di colpo, si inginocchiò a terra, prese il sasso luminoso, aprì la valigetta e ne estrasse una lente. Osservò attraverso la lente quel piccolo ciottolo, e poi esclamò pieno di gioia: "Ma è una pepita d'oro!". Subito lo avvolse con cura in un panno morbido, lo mise nella valigetta e si incamminò verso il suo negozio in città. Era infatti un gioielliere..
...E... l'altro sasso?...

Rimase solo, vicino al fiume, e finalmente capì: "Che sciocco, sono stato... Ma sono ancora in tempo: mi tufferò nel fiume e mi lascerò levigare fino a che tutto il sasso e le incrostazioni si saranno consumate, e sarò anch'io una pepita d'oro...".

Domande per la comprensione e la catechesi:
1. Anche il sasso sciocco era una pepita? (Sì)
2. Perché il gioielliere ha preso solo il piccolo ciottolo? (Perché era dorato)
3. Perché l'altra pepita era ancora ricoperta di incrostazioni? (Perché non si era mai lavata)
4. Come ha fatto il primo sasso a diventare pepita? (Era entrato tante volte nell'acqua)
5. Cosa rappresenta il fiume? (La misericordia di Dio e il sacramento della Riconciliazione)

confessionericonciliazionecrescitacambiamentomiglioramento

4.5/5 (4 voti)

inviato da Maria Cristina Cattaneo, inserito il 14/04/2014

PREGHIERA

25. Maria, donna innamorata   3

don Tonino Bello, Maria, donna dei nostri giorni

I love you. Je t'aime. Te quiero. Ich liebe Dich. Ti voglio bene, insomma.

Io non so se ai tempi di Maria si adoperassero gli stessi messaggi d'amore, teneri come giaculatorie e rapidi come graffiti, che le ragazze di oggi incidono furtivamente sul libro di storia o sugli zaini colorati dei loro compagni di scuola.

Penso, però, che, se non proprio con la penna a sfera sui jeans, o con i gessetti sui muri, le adolescenti di Palestina si comportassero come le loro coetanee di oggi.

Con «stilo di scriba veloce» su una corteccia di sicomòro, o con la punta del vincastro sulle sabbie dei pascoli, un codice dovevano pure averlo per trasmettere ad altri quel sentimento, antico e sempre nuovo, che scuote l'anima di ogni essere umano quando si apre al mistero della vita: ti voglio bene!

Anche Maria ha sperimentato quella stagione splendida dell'esistenza, fatta di stupori e di lacrime, di trasalimenti e di dubbi, di tenerezza e di trepidazione, in cui, come in una coppa di cristallo, sembrano distillarsi tutti i profumi dell'universo.

Ha assaporato pure lei la gioia degli incontri, l'attesa delle feste, gli slanci dell'amicizia, l'ebbrezza della danza, le innocenti lusinghe per un complimento, la felicità per un abito nuovo.

Cresceva come un'anfora sotto le mani del vasaio, e tutti si interrogavano sul mistero di quella trasparenza senza scorie e di quella freschezza senza ombre.

Una sera, un ragazzo di nome Giuseppe prese il coraggio a due mani e le dichiarò: «Maria, ti amo». Lei gli rispose, veloce come un brivido: «Anch'io». E nell'iride degli occhi le sfavillarono, riflesse, tutte le stelle del firmamento.

Le compagne, che sui prati sfogliavano con lei i petali di verbena, non riuscivano a spiegarsi come facesse a comporre i suoi rapimenti in Dio e la sua passione per una creatura. Il sabato la vedevano assorta nell'esperienza sovrumana dell'estasi, quando, nei cori della sinagoga, cantava: «O Dio, tu sei il mio Dio, dall'aurora ti cerco: di te ha sete l'anima mia come terra deserta, arida, senz' acqua». Poi la sera rimanevano stupite quando, raccontandosi a vicenda le loro pene d'amore sotto il plenilunio, la sentivano parlare del suo fidanzato, con le cadenze del Cantico dei Cantici: «Il mio diletto è riconoscibile tra mille... I suoi occhi, come colombe su ruscelli di acqua... Il suo aspetto è come quello del Libano, magnifico tra i cedri...».

Per loro, questa composizione era un'impresa disperata. Per Maria, invece, era come mettere insieme i due emistichi d'un versetto dei salmi.

Per loro, l'amore umano che sperimentavano era come l'acqua di una cisterna: limpidissima, sì, ma con tanti detriti sul fondo. Bastava un nonnulla perché i fondigli si rimescolassero e le acque divenissero torbide. Per lei, no.

Non potevano mai capire, le ragazze di Nazaret, che l'amore di Maria non aveva fondigli, perché il suo era un pozzo senza fondo.

Santa Maria, donna innamorata, roveto inestinguibile di amore, noi dobbiamo chiederti perdono per aver fatto un torto alla tua umanità. Ti abbiamo ritenuta capace solo di fiamme che si alzano verso il cielo, ma poi, forse per paura di contaminarti con le cose della terra, ti abbiamo esclusa dall'esperienza delle piccole scintille di quaggiù. Tu, invece, rogo di carità per il Creatore, ci sei maestra anche di come si amano le creature. Aiutaci, perciò, a ricomporre le assurde dissociazioni con cui, in tema di amore, portiamo avanti contabilità separate: una per il cielo (troppo povera in verità), e l'altra per la terra (ricca di voci, ma anemica di contenuti) .

Facci capire che l'amore è sempre santo, perché le sue vampe partono dall'unico incendio di Dio. Ma facci comprendere anche che, con lo stesso fuoco, oltre che accendere lampade di gioia, abbiamo la triste possibilità di fare terra bruciata delle cose più belle della vita.

Perciò, Santa Maria, donna innamorata, se è vero, come canta la liturgia, che tu sei la «Madre del bell'amore», accoglici alla tua scuola. lnsegnaci ad amare. È un'arte difficile che si impara lentamente. Perché si tratta di liberare la brace, senza spegnerla, da tante stratificazioni di cenere.

Amare, voce del verbo morire, significa decentrarsi. Uscire da sé. Dare senza chiedere. Essere discreti al limite del silenzio. Soffrire per far cadere le squame dell'egoismo. Togliersi di mezzo quando si rischia di compromettere la pace di una casa. Desiderare la felicità dell'altro. Rispettare il suo destino. E scomparire, quando ci si accorge di turbare la sua missione.

Santa Maria, donna innamorata, visto che il Signore ti ha detto: «Sono in te tutte le mie sorgenti», facci percepire che è sempre l'amore la rete sotterranea di quelle lame improvvise di felicità, che in alcuni momenti della vita ti trapassano lo spirito, ti riconciliano con le cose e ti danno la gioia di esistere.

Solo tu puoi farci cogliere la santità che soggiace a quegli arcani trasalimenti dello spirito, quando il cuore sembra fermarsi o battere più forte, dinanzi al miracolo delle cose: i pastelli del tramonto, il profumo dell'oceano, la pioggia nel pineto, l'ultima neve di primavera, gli accordi di mille violini suonati dal vento, tutti i colori dell'arcobaleno... Vaporano allora, dal sotto suolo delle memorie, aneliti religiosi di pace, che si congiungono con attese di approdi futuri, e ti fanno sentire la presenza di Dio.

Aiutaci, perché, in quegli attimi veloci di innamoramento con l'universo, possiamo intuire che le salmodie notturne delle claustrali e i balletti delle danzatrici del Bolscjoi hanno la medesima sorgente di carità. E che la fonte ispiratrice della melodia che al mattino risuona in una cattedrale è la stessa del ritornello che si sente giungere la sera... da una rotonda sul mare: «Parlami d'amore, Mariù».

Mariainnamoramentoamore

4.0/5 (4 voti)

inviato da Barbara Battilana, inserito il 13/03/2013

PREGHIERA

26. Signore mi hai afferrato

Michel Quoist

Signore, mi hai afferrato, e non ho potuto resisterti.
Sono corso a lungo, ma tu m'inseguivi.
Prendevo vie traverse, ma tu le conoscevi.
Mi hai raggiunto.
Mi sono dibattuto.
Hai vinto!
Eccomi, o Signore, ho detto sì, all'estremo del soffio e della lotta, quasi mio malgrado;
ed ero là, tremante come un vinto alla mercé del vincitore,
quando su di me ha posato il Tuo sguardo di Amore.

Ormai è fatto, Signore, non potrò più scordarti.
In un attimo mi hai conquistato,
in un attimo mi hai afferrato.
I mie dubbi furono spazzati,
i miei timori svanirono;
perché ti ho riconosciuto senza vederti,
Ti ho sentito senza toccarti,
Ti ho compreso senza udirti.
Segnato dal fuoco del tuo Amore,
ormai è fatto, Signore, non potrò più scordarti.
Ora, ti so presente, al mio fianco, ed in pace lavoro sotto il tuo sguardo di Amore.
Non conosco più lo sforzo di pregare:
mi basta alzare gli occhi dell'anima verso di te per incontrare il tuo sguardo.
E ci comprendiamo. Tutto è chiaro. Tutto è pace.
In certi momenti, grazie o Signore, tu m'invadi irresistibile, come il mare lentamente inonda la spiaggia;
oppure improvvisamente tu mi afferri, come l'innamorato stringe tra le braccia il suo amore.
E non posso più nulla, bisogna che mi fermi.
Sedotto, trattengo il respiro; svanisce il mondo, sospendi il tempo.
Vorrei che questi minuti durassero ore...
Quando ti ritrai, lasciandomi di fuoco e sconvolto da gioia profonda,
non ho un'idea di più, ma so che tu mi possiedi maggiormente.
Alcune mie fibre sono più profondamente toccate,
la ferita s'è allargata, e sono un po' più prigioniero del tuo Amore.

Signore, tu crei ancora il vuoto attorno a me, ma in un modo diverso questa volta.
Per il fatto che sei troppo grande ed eclissi ogni cosa.
Quello che amavo mi sembra inezia, e sotto il fuoco del tuo Amore si sciolgono i miei desideri umani come cera al sole.
Che m'importano le cose!
Che m'importa il mio benessere!
Che m'importa la mia vita!
Non desidero più altro che te,
non voglio più altro che te.

Lo so, gli altri lo dicono: "È pazzo!".
Ma, o Signore, lo sono loro.

vocazionecontemplazionerapporto con Diodesiderio di Diopreghiera

5.0/5 (3 voti)

inviato da Anna Barbi, inserito il 21/09/2012

TESTO

27. Lezione di vita   4

Francisco Candido Xavier

Che Dio non mi permetta di perdere il romanticismo,
anche sapendo che le rose non parlano...

Che Dio non mi permetta di perdere l'ottimismo,
anche sapendo che il futuro che ci aspetta non è tanto allegro...

Che io non perda la voglia di vivere,
anche sapendo che la vita è, in molti momenti, dolorosa...

Che io non perda la voglia di avere grandi amici,
anche sapendo che, con il giro del mondo, anche loro vanno via dalle nostre vite...

Che io non perda la voglia di aiutare le persone,
anche sapendo che molte di loro sono incapaci di vivere, di vedere, riconoscere e compensare questo aiuto...

Che io non perda la voglia di amare,
anche sapendo che la persona che io più amo può non provare lo stesso sentimento verso di me...

Che io non perda la luce e la lucentezza degli occhi,
anche sapendo che molte cose che vedrò nel mondo oscureranno i miei occhi...

Che io non perda la forza,
anche sapendo che la sconfitta e la perdita sono due avversari estremamente pericolosi...

Che io non perda la ragione,
anche sapendo che le tentazioni della vita sono molte e attraenti...

Che io non perda il sentimento di giustizia,
pur sapendo che il pregiudicato possa essere io stesso...

Che io non perda il mio abbraccio forte,
anche sapendo che un giorno le mie braccia saranno fiacche...

Che io non perda la bellezza e la gioia di vedere,
anche sapendo che molte lacrime scorreranno dai miei occhi e finiranno nella mia anima...

Che io non perda l'amore per la mia famiglia,
anche sapendo che molte volte essa mi chiederà degli sforzi incredibili per mantenere la sua armonia...

Che io non perda la voglia di essere grande,
anche sapendo che il mondo è piccolo...

E soprattutto...
Che io non dimentichi mai che Dio mi ama infinitamente,
che un piccolo grano di allegria e di speranza dentro ciascuno è capace di cambiare e trasformare qualsiasi cosa, poi...

La vita è costruita sui sogni
e realizzata nell'amore!

vitasenso della vitagratuitàgenerositàimpegnovitalitàsperanzaottimismoforzavoglia di vivere

4.3/5 (6 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 20/09/2012

PREGHIERA

28. Maria donna del piano superiore   3

Tonino Bello, Maria donna dei nostri giorni, ed. San Paolo

Santa Maria, donna del piano superiore, splendida icona della Chiesa, tu, la tua personale Pentecoste, l'avevi già vissuta all'annuncio dell'angelo, quando lo Spirito Santo scese su di te, e su di te stese la sua ombra la potenza dell'Altissimo. Se, perciò, ti fermasti nel cenacolo, fu solo per implorare su coloro che ti stavano attorno lo stesso dono che un giorno, a Nazareth, aveva arricchito la tua anima. Come deve fare la Chiesa, appunto. La quale, già posseduta dallo Spirito, ha il compito di implorare, fino alla fine dei secoli, l'irruzione di Dio su tutte le fibre del mondo.

Donale, pertanto, l'ebbrezza delle alture, la misura dei tempi lunghi, la logica dei giudizi complessivi. Prestale la tua lungimiranza. Non le permettere di soffocare nei cortili della cronaca. Preservala dalla tristezza di impantanarsi, senza vie d'uscita, negli angusti perimetri del quotidiano. Falle guardare la storia dalle postazioni prospettiche del Regno. Perché, solo se saprà mettere l'occhio nelle feritoie più alte della torre, da dove i panorami si allargano, potrà divenire complice dello Spirito e rinnovare, così, la faccia della terra.

Santa Maria, donna del piano superiore, aiuta i pastori della Chiesa a farsi inquilini di quelle regioni alte dello spirito da cui riesce più facile il perdono delle umane debolezze, più indulgente il giudizio sui capricci del cuore, più istintivo l'accredito sulle speranze di risurrezione. Sollevali dal pianterreno dei codici, perché solo da certe quote si può cogliere l'ansia di liberazione che permea gli articoli di legge. Fa' che non rimangano inflessibili guardiani delle rubriche, le quali sono sempre tristi quando non si scorge l'inchiostro rosso dell'amore con cui sono state scritte.

Intenerisci la loro mente, perché sappiano superare la freddezza di un diritto senza carità, di un sillogismo senza fantasia, di un progetto senza passione, di un rito senza estro, di una procedura senza genio, di un logos senza sophìa.

Invitali a salire in alto con te, perché solo da certe postazioni lo sguardo potrà davvero allargarsi fino agli estremi confini della terra, e misurare la vastità delle acque su cui lo Spirito Santo oggi torna a librarsi.

Santa Maria, donna del piano superiore, facci contemplare dagli stessi tuoi davanzali i misteri gaudiosi, dolorosi e gloriosi della vita: la gioia, la vittoria, la salute, la malattia, il dolore, la morte. Sembra strano: ma solo da quell'altezza il successo non farà venire le vertigini, e solo a quel livello le sconfitte impediranno di lasciarsi precipitare nel vuoto.

Affacciàti lassù alla tua stessa finestra, ci coglierà più facilmente il vento fresco dello Spirito con il tripudio dei suoi sette doni. I giorni si intrideranno di sapienza, e intuiremo dove portano i sentieri della vita, e prenderemo consiglio sui percorsi più praticabili, e decideremo di affrontarli con fortezza, e avremo coscienza delle insidie che la strada nasconde, e ci accorgeremo della vicinanza di Dio accanto a chi viaggia con pietà, e ci disporremo a camminare gioiosamente nel suo santo timore. E affretteremo così, come facesti tu, la Pentecoste sul mondo.

pentecosteSpirito Santochiesamariamadonna

5.0/5 (1 voto)

inviato da Anna Barbi, inserito il 12/08/2012

ESPERIENZA

29. Il pane buono   2

Tempo fa', sul far della sera di un sabato qualunque, in una bella e profumata giornata primaverile, stavo innaffiando l'erba e i fiori del piccolo giardino che adorna la nostra casa, assorto nei lieti pensieri del dolce far niente. Davanti al cancello, all'improvviso, appare la figura di una ragazzina. Chiaramente una Rom, una zingara: il suo volto ed il suo cencioso abbigliamento non lasciavano certo spazio a dubbi in tal senso.

Con un italiano piuttosto stentato mi chiama e mi dice: "Dio ti benedica te e tua famiglia, mi dai pane vecchio per mangiare?".
Le rispondo:
- "Dove abiti?" (curioso, vero? Quando Dio ci parla, capita spesso che di primo acchito cambiamo discorso).
- "Là, vicino fiume Mella".
- "E di cosa vivi?".
- "Quello che mi danno".
- "Non vai a scuola?".
- "No, mai andata".
- "E i tuoi genitori cosa dicono?".
- "Padre non so, non vedo da tanto, lui carcere; madre dice: andare prendere qualcosa da mangiare. Mi dai pane vecchio?".
- "Sì, certo, scusa, volevi del pane vecchio. Ho quello fresco, buono, di oggi, vado dentro a prenderti quello", le dico mentre mi giro e faccio per entrare in casa.
- "Buono hai già dato".

Sono rimasto impietrito, come fulminato. Mi sono rigirato lentamente e l'ho guardata: stava sorridendo. Non so, non ho mai voluto pensare che quella frase fosse stata solo il frutto di un malriuscito tentativo di traduzione dal rumeno all'italiano di chissà quale espressione.

Nemmeno che quel suo sorriso fosse solo un modo, forse l'unico che conosceva, per dirmi la sua gioia nel vedere che il pane glielo avrei dato davvero. No. Ho pensato che quel parlare con lei, ascoltarla, sorriderle, fosse per lei, davvero, come spezzare insieme del pane fresco, del pane buono. "Me l'hai già dato, il pane buono: mi hai accolto, mi hai parlato, mi hai sorriso. Non ti sei girato dall'altra parte, non mi hai ignorato, né schernito, né evitato, né maltrattato, né violentato. Mi hai parlato".

Pane che nutre, non denti che divorano. Basta davvero così poco per sentirsi amati? E per essere fratelli, per essere cristiani? Sì. Ed Egle, mia sposa, mentre - entrato in casa - le racconto la vicenda, dice serenamente, quasi fosse la cosa più semplice e scontata di questo mondo: "Pane dei gesti che accolgono, pane delle parole che accarezzano. Pane di Gesù: è questo".

Pane fresco e buono, che non diventa mai vecchio perché prodotto nel cuore di chi crede in Colui che dice: "Io sono il pane della vita", e ci lascia un comandamento nuovo: "Amatevi come io vi ho amato".

Amare quella ragazzina cenciosa, spezzare il pane con lei e con tutti i cenci del mondo. Vivendo una vita nella solidarietà e nella comunione con tutti.

Sforzandoci di vivere così, di spezzare il pane così, allora Dio parla in noi; allora Dio parla con noi. Allora Dio spezza il pane e la parola tra noi: nei panni di una cenciosa ragazzina.

condivisioneeucaristia

5.0/5 (6 voti)

inviato da Ornella Zito, inserito il 24/06/2012

TESTO

30. Il Risorto nella nostra storia

Monaci Benedettini Silvestrini, Auguri pasquali 2011

Quando senti i terremoti violenti scuotere la terra, quando in preda allo spavento vedi lo tsunami dare morte alle persone inermi e travolgere tutto nella distruzione, quando vedi il fuoco bruciare la tua casa, quando vedi infuriare i venti e scatenarsi la tempesta che schianta la foresta dì a te stesso: "Credo che la terra tornerà nella sua immobilità, le acque si calmeranno, la foresta si rifarà e io ricostruirò la mia casa e soprattutto la vita continuerà a vivere perché Cristo è risorto ed è lui l'autore dell'immortalità, lui l'autore della vita".

Quando vedi con terrore che una fonte di energia inventata dagli uomini, diventa contagio, terrore e morte per gli uomini dì a te stesso: "Da quella fonte Cristo era stato escluso e l'umana intelligenza inventa, ma non salva e talvolta diventa il suo sepolcro".

Quando il peccato ti stringe alla gola e ti senti soffocato e finito, dì a te stesso: "Cristo è risorto dai morti e io risorgerò dal mio peccato, per questo si è immolato sulla croce, per questo io spero il suo perdono".

Quando la vecchiaia o la malattia tenterà di amareggiare la tua esistenza, dì a te stesso: "Cristo è risorto dai morti e ha fatto cieli nuovi e terra nuova. È lui la mia eterna giovinezza, lui può fare nuova la mia anima".

Quando vedrai tuo figlio fuggire da casa in cerca di avventura e ti sentirai sconfitto nel tuo sogno di padre o di madre, dì a te stesso: "Mio figlio non sfuggirà a Dio e tornerà perché Dio lo ama, perché lo attende da sempre nella tua casa per abbracciarlo e fare festa con te e con lui per il suo ritorno".

Quando vedrai spegnersi la carità attorno a te e vedrai gli uomini come impazziti nel loro peccato e ubriacati dai loro tradimenti, dì a te stesso: "Toccheranno il fondo, ma torneranno indietro perché lontano da Dio non si può vivere e la nostalgia del Padre celeste è irrefrenabile per tutti i figli di Dio".

Quando il mondo ti apparirà come sconfitta di Dio e sentirai la nausea del disordine, della violenza, della litigiosità continua, del terrore, della guerra dominare sulle piazze e la terra ti sembrerà il caos, dì a te stesso: "Gesù è morto e risorto proprio per salvare e, se la imploriamo, la sua salvezza è già presente tra di noi".

Quando tuo padre o tua madre, tuo figlio o tua figlia, la tua sposa, il tuo amico più caro, ti saranno dinanzi sul letto di morte e tu li fisserai nell'angoscia mortale del distacco, dì a te stesso e a loro: "Ci rivedremo nel Regno eterno, ora io intraprendo la via del Risorto, coraggio!".

Questo significa credere nella Resurrezione. Questo significa superare la tentazione, assai frequente ai nostri giorni, di fissare lo sguardo sulla superficie torbida degli eventi e magari incolpare il buon Dio dei terremoti, degli tsunami, dei lutti, delle violenze e di tutto il male che ci circonda, ci umilia e ci affligge, ignari e impenitenti dei nostri peccati.

Significa invece accorgersi con motivata preoccupazione che noi uomini abbiamo abbassato con la colpevole dimenticanza dell'Eterno, con le nostre frivole umane stupidità le dighe e le barriere e ci siamo privati delle corazze personali che formano gli argini e le difese dal male, da quel terribile male che si oppone a Dio e a noi e vorrebbe tutto e tutti chiudere per sempre in un sepolcro di morte e di definitiva distruzione, quelli argini e quelle divine difese, che invece ci difendono, ci aprono alla luce del bene, ci rischiarano la notte dei tempi e ci orientano verso la Luce di quel radioso mattino che illumina tutti i nostri giorni e sempre ci indirizza verso la vita vera, verso la definitiva risurrezione.

Ecco il grande, immenso dono del Cristo risorto, ecco la pasqua di quest'anno e la pasqua di ogni giorno, quella che potremmo chiamare l'albore e la speranza della Vita, la nostra fede. i doni del Risorto, quelli che noi monaci imploriamo e auguriamo con gioia a tutti e a ciascuno di voi.

I Monaci Benedettini Silvestrini del Monastero san Vincenzo Bassano Romano

pasquaresurrezionerisurrezionesperanzafiducia

5.0/5 (2 voti)

inviato da Monaci Benedettini Silvestrini Di Bassano Romano, inserito il 07/04/2012

TESTO

31. Davanti al cielo stellato   3

Antonietta Milella, Meditazione sul Salmo 8

Quando ti senti solo, quando ti senti abbandonato, quando ti senti messo da parte, quando pensi che nessuno si ricordi di te, affacciati alla finestra, alza gli occhi e guarda il cielo stellato. Quante luci riesci a vedere? Quante ne immagini nello spazio ristretto del tuo limitato orizzonte?

Pensa... ciò che vedi ha una profondità infinita, le luci che distingui sono nulla, gocce d'acqua nell'oceano del cielo profondo e sconfinato.

Pensa... ogni stella si muove secondo una legge per lei fissata dalla notte dei tempi, intorno a lei girano i pianeti, intorno ai pianeti i satelliti, ognuno con una precisione millimetrica, secondo un tempo che è stato dato ad ogni più piccolo essere come sua misura.

Moltiplica quelle luci, moltiplica quei movimenti, moltiplica il tuo piccolo quadro di cielo all'infinito, e... sei infinitamente distante dalla verità.

Pensa... dietro ad ognuna di quelle luci, dietro ad ogni impercettibile movimento, dietro ad ogni realtà percepita dall'uomo con i suoi strumenti imperfetti c'è qualcuno che quella realtà, quel movimento, la legge che lo regola li ha creati. Tanta perfezione, per cosa?

Guarda te ora... guarda i tuoi occhi capaci di comprendere e abbracciare ciò che è così tanto più grande di loro, guarda il tuo cuore, quel cuore che ora senti piagato e pensa...

Il tuo cuore ha in sé un'ansia infinita di amore, un desiderio infinito di assoluto, di Dio... ha un'ansia infinita di infinito. Eppure il cuore per quanto grande è piccolo rispetto al corpo che lo contiene! Eppure il cuore soffre più di qualsiasi altro organo, più di qualsiasi altra parte del corpo!

Pensa... le cose piccole capaci di cose grandi! Gli occhi, il cuore capaci di accogliere la più grande pena, ma anche la più grande manifestazione di amore, quella di Dio!

"Chi è l'uomo perché te ne curi, chi è l'uomo perché te ne ricordi? Eppure l'hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e onore lo hai coronato. Tutto hai messo ai suoi piedi".
Così recita un salmo.

Di fronte a quel cielo stellato ci sei tu, di fronte alla più grande meraviglia del Creato ci sei tu, piccolo, fragile, smarrito, turbato, ma ci sei.

Tu sei prezioso di più della più luminosa stella che riesci a vedere ad occhio nudo dalla tua finestra, sei prezioso perché Dio ha fatto tutto quello che ti sta davanti per te, perché potessi percepire un frammento della sua potenza, della sua grandezza, un frammento del suo amore.

Se ad ogni stella, ad ogni pianeta, ad ogni molecola, ad ogni atomo che sono inerti e senza vita ha dato il compito così grande di celebrare la sua gloria, quanto più grande è il progetto su di te, sull'uomo che si eleva su tutte le cose create e le domina con il suo pensiero!
Guarda lontano, guarda in alto; guarda ora dentro di te.

Scoprirai che quell'universo che ti sembra così irraggiungibile, così perfetto e misterioso, davanti ai tuoi occhi è dentro di te. E' un universo da esplorare, è un universo in cui troverai le risposte che cerchi, è l'universo delle emozioni e dei sentimenti che arricchiscono e illuminano il cielo sconfinato della tua anima.

Guarda, ma ad occhi chiusi: E vedrai dentro di te accendersi tante stelle luminose. Vedrai che nel buio più profondo, proprio come in quel cielo da cui tu ora hai distolto lo sguardo, spuntano fiori stupendi, che tu non ti eri accorto di avere piantato.

Fratello, nel tuo cuore Dio ha seminato ciò che vuole tu impari a guardare: vuole che tu nel tuo cuore riscopra l'amore con cui lui ti guarda, vuole che tu almeno una volta ti fidi di lui.

E' ansioso di manifestarti il suo progetto meraviglioso che ha in serbo per te, desidera che almeno una volta tu gli permetta di entrare per farsi conoscere più da vicino.

Vuole incontrarti non nel cielo infinito, ma nella tua pena, nella tua sofferenza, nella tua difficoltà di ogni giorno, nel tuo bisogno di amore non soddisfatto, per trasformarli in canto di gioia, in inno di lode a lui, che non ha smesso neanche un momento di occuparsi di te.

gratitudinericerca di sensoricercasenso della vitagrandezzapiccolezzaumanitàfiduciasperanza

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inviato da Antonietta Milella, inserito il 21/01/2012

ESPERIENZA

32. Gli angeli sulla terra   2

Roxsana Chavez

Era stata una giornata molto faticosa, avevo finito il mio lavoro con i malati e mentre mi preparavo per tornare a casa, passando per l'UTIC (Unità di Terapia Intensiva Cardiovascolare) vidi una signora abbastanza giovane che piangeva sconsolatamente era da sola in quel momento, io non potevo passare indifferente, senza pensare due volte mi avvicinai e le chiesi se potevo fare qualcosa per aiutarla, mi disse di no: "Mio marito ha avuto un infarto, è stato sottoposto ad un intervento e adesso non mi lasciano entrare per vederlo, vorrei solo sapere come sta".

Mi offrii di entrare nel reparto e chiedere di lui, m'informarono che l'intervento era andato bene ma che era ancora addormentato, chiesi poi se potevo avvicinarmi e cosi feci, quando mi avvicinai, vidi che si trattava di un signore molto giovane che non passava i cinquanta, era pieno di tubi come si è di solito dopo un intervento al cuore; mentre lo guardavo lui aprì gli occhi e mi chiese "come sto?", io sorridendo gli risposi "bene", e lui dopo qualche secondo richiuse gli occhi.

Uscendo dal reparto riferii alla moglie quello che mi avevano detto e che per il momento non erano possibili le visite, la invitai ad avere pazienza e fiducia e me ne andai.

Passati alcuni giorni, io avevo dimenticato l'accaduto, mentre portavo la comunione nel reparto di cardiologia, ricordai quello che era successo e cosi entrai nella stanza e vide un signore giovane che parlava allegramente con un altro, era lui! lo trovavo abbastanza bene, mi avvicinai per salutarlo e lui sorpreso mi disse: sei tu! Allora era vero, pensavo che fosse stato un angelo, tutta di bianco e con un sorriso mi credevo in paradiso... ci facemmo una risata tutti tre.

Ho la certezza che gli angeli esistono, ma ricordando le parole di quell'uomo mi chiedevo se esistono gli angeli sulla terra.

La domanda di Javhé a Caino "Dove è tuo fratello?" ci mette di fronte ad una realtà molte volte non riconosciuta, anzi non accettata per gli esseri umani, ma che senza dubbio dovrà rispondere alla fine dei tempi, in conseguenza ognuno di noi è custode di un altro, cioè di chi è accanto a noi, e se questo è cosi gli angeli sulla terra sono coloro che si prendono questa responsabilità con coraggio e disinteressatamente, e nella misura in cui noi siamo consapevoli e percepiamo questa missione che ci è stata donata allora diventiamo angeli anche noi.

Gli angeli non possono essere persone qualsiasi, hanno un volto distinto, i gesti sono diversi, le loro parole parlano di cose che sempre lasciano un tocco speciale nel cuore dell'altro, trasmettono la pace, la gioia, ma non come quella del mondo, vedono il mondo diversamente da come la vediamo noi, non si fermano soltanto a contemplare il negativo, anzi lo trasformano e possono trovare anche nel brutto cose belle e positive che riempiono nostri cuori di speranza.
Gli angeli della terra sono come le api che stanno in ogni luogo ma quando si fermano su un'anima, lasciano il dolce miele.
Gli angeli vedono il volto di Cristo in qualsiasi persona senza dar peso a colore, razza, atteggiamento, carattere, simpatia o antipatia, ecc.
Gli angeli non sanno far altro che amare.
Gli angeli sono capaci d'intuire un pericolo e ti guidano con sani consigli perche tu non cada e ti faccia male, ti dicono tuoi errori in faccia e ti rimproverano quando è necessario.
Gli angeli sanno aspettare con pazienza, tolleranza e misericordia che tu possa cambiare per migliorare tua vita.
Gli angeli sulla terra non temono di perdere il tempo per offrirlo a qualcuno, perché considerano più importante il tempo donato che il tempo per loro stessi.
Gli angeli sono accanto a te, certe volte consolandoti, rianimandoti, spesso in silenzio pregando per te.
Angelo sulla terra sei anche tu quando non pensi a te stesso e piuttosto esci da te per andare incontro a qualcuno morendo a te stesso. Gli angeli sulla terra sono veri figli di Dio.

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inviato da Roxsana Chavez, inserito il 13/12/2011

TESTO

33. Natale: prezzi pieni e prezzi scontati   1

Giuseppe Impastato S.I.

Natale: prezzi pieni

Preparate la via del Signore,
raddrizzate i vostri sentieri!
Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio

Una voce grida nel deserto:
"Preparate la via al Signore.
Ogni valle sia colmata,
ogni monte e colle siano abbassati".

Non temere, io ti vengo in aiuto.
Il Signore è vicino a chi lo cerca.
Il Signore è vicino:
ascoltiamo oggi la sua voce.

Chi ha due tuniche,
ne dia una a chi non ne ha;
chi ha da mangiare,
faccia altrettanto.
Non esigete nulla di più.

Non maltrattate
e non estorcete niente a nessuno,
contentatevi delle vostre paghe.

Vieni, Signore,
a visitarci con la tua pace:
la tua presenza ci riempirà di gioia.

Egli dà forza allo stanco
e moltiplica il vigore allo spossato.
Quanti sperano nel Signore
riacquistano forza,
mettono ali come aquile,
corrono senza affannarsi,
camminano senza stancarsi.

Gioisci, esulta, rallegrati con tutto il cuore.
Il Signore ha revocato la tua condanna.
Il Signore è in mezzo a te.
Rallegratevi nel Signore sempre.


E prezzi scontati

Preparate i soldi, i bancomat per spendere.
Buttate i soldi in regalini inutili!
Viaggiate e divertitevi.

La TV ripete e la pubblicità consiglia:
preparate l'albero di Natale e luci.
Ogni posto vuoto sia riempito
di stelline, fiocchetti, candeline, ecc.

Contenti: è arrivata la tredicesima.
Cercate zampone spumante panettoni.
Natale si avvicina: per gli acquisti
guardate come fanno tutti gli altri.

Mangia e sbafa tranquillamente
e butta tanta roba nei cassonetti.
Chi non brinda e non spara
è un morto di fame.
Dimostra sicurezza e quanto vali.

Sii furbo e approfitta, quando puoi.
Incassa bustarelle mazzette e tangenti,
pretendi il pizzo e i fondi neri.

Venite a casa nostra, staremo insieme,
giochiamo a tombola e a poker.
Brindiamo e così tutto andrà bene.

Dimostrati in forma smagliante
e frequenta palestre e piscine,
usa vestiti firmati e pellicce
e dimostra lusso e ricchezza.
Chi ha appoggi e buone amicizie
può andare tranquillo.
I soldi aprono tutte le porte.

Pim pum pam allegria, allegria!
Via l'anno vecchio e tutto andrà bene.
Continuiamo a vivere come prima
e tutto cambierà in meglio.

nataleregaliconsumismointerioritàesteriorità

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inviato da Giuseppe Impastato S.I., inserito il 13/12/2011

TESTO

34. Ave Maria   3

Carlo Carretto, Beata te che hai creduto

Una sera tentai il discorso con Maria.
Mi era così facile!
Le volevo così bene!
Maria, dimmi come è andata? Raccontalo a me come l'hai raccontato a Luca l'evangelista.

Tu lo sai, mi disse, perché conosci il Vangelo.
È stato tutto molto bello!
lo vivevo a Nazaret in Galilea e la mia vita era la vita di tutte le ragazze del popolo: lavoro, preghiera, povertà, molta povertà, gioia di vivere e soprattutto speranza nelle sorti di Israele.
Abitavo con Anna, mia madre, in una casetta molto semplice che aveva un cortile davanti ed un gran muro di cinta fatto apposta perché noi donne ci sentissimo in libertà ed intimità.
Lì sostavo sovente per lavorare e pregare. In me l'una e l'altra cosa si mescolavano ed ero piena di pace e di gioia.
Quel giorno ero sola nel piccolo cortile e una gran luce mi avvolgeva.
Pregavo, seduta su uno sgabello. Tenevo gli occhi socchiusi e sentivo una gioia invadermi tutta.
La luce aumentava ed io incominciai a socchiudere le palpebre che avevo chiuso per non restare abbacinata.
Ero contenta di lasciarmi riempire di quella luce. Mi pareva il segno della presenza di Dio che mi avvolgeva come un manto. Ad un tratto quella luce prese l'aspetto di un angelo. Ho sempre pensato agli angeli così come lo vidi in quel momento.
Tu sai com'è la questione della fede. Non sai mai se la visione è dentro o fuori.
È certamente dentro perché se fosse solo fuori potresti dubitare come fosse un'illusione.
Ma dentro l'illusione non c'è, è così, sai che è così: ne è testimone Dio.
lo stavo molto ferma per paura che tutto scomparisse.
E invece l'Angelo parlò. Anche qui: non sai mai se la voce la senti nell'orecchio o più in profondo.
Certamente in profondo perché se fosse solo nell'orecchio potresti illuderti.
La voce la senti là dove lo stesso Dio è il testimone.
E che ti disse?
Mi disse: Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te.
E tu che provasti?
È evidente che ne fui turbata. Era come se fossi visitata da cose troppo grandi per me e per la mia dimensione così piccola.
Tu puoi pensare alle cose di Dio con immenso desiderio ma quando ti toccano non puoi non spaventarti.
Difatti mi disse subito.
«Non temere, Maria» (Luca 1,30).
Mi feci coraggio perché la stessa frase l'avevo sentita alla Sinagoga quando si leggeva la storia di Abramo.
«Non temere, Abramo. lo sono il tuo scudo» (Genesi 15, 1).
Poi l'Angelo mi diede l'annuncio della maternità con poche parole ma così chiare che avevo l'impressione mi stessero nascendo dentro. Non mi era mai capitato di sentire parole come fossero avvenimenti.
Dimmi, Maria, sei stata colta di sorpresa? Non avevi mai pensato prima che tu... proprio tu...
Oh sì! Ci avevo pensato. Noi ragazze ebree non pensavamo ad altro. Sentivamo che i tempi erano quelli e quando pregavamo nella Sinagoga, l'aria era satura di attesa del Messia.
Che hai capito quando l'angelo ti disse che eri tu la scelta e che il Messia sarebbe nato da te?
Capii esattamente cosa voleva dirmi, e rimasi soltanto stupita della straordinarietà della cosa. Com'era possibile se io ero vergine?
L'Angelo mi spiegò le cose e mi fu facile accettarle perché mi sentivo immersa in Dio come in quella luce vivissima del mezzogiorno.
Confusamente capii anche che pasticci ce ne sarebbero stati, che non sarei riuscita a spiegarmi con mia madre, specialmente col mio fidanzato Giuseppe, ma non avrei potuto fermarmi tanta era forte la presa di Dio su di me e tanta era la certezza che mi veniva dalle parole dell'Angelo.
«Nulla è impossibile a Dio
nulla è impossibile a Dio
nulla è impossibile a Dio» (Luca 1,37). Adagio, adagio la luce diminuì e non vidi più l'Angelo.
Vidi mia madre Anna attraversare il cortile e mi venne voglia di parlarle, ma non ne fui capace perché non trovai le parole adatte.
Capii subito che non c'erano parole con cui potevo spiegare le cose.
Così nei giorni che seguirono, anzi, più andavo avanti e più diventavo silenziosa.

Fu più difficile il discorso con Giuseppe, mio fidanzato.
Tu sai come avvenivano le cose nelle nostre tribù. La sposa veniva promessa molto presto. Era come un patto tra famiglie.
Ma essendo così giovane la futura sposa continuava a vivere in famiglia in attesa della maturità.
Allora con grande festa, di notte, si compiva lo sposalizio e lo sposo accompagnato dai suoi amici veniva con tante luci e canti e gioia a prendere la sua sposa ed a condurla a casa. Da quel momento si era veramente sposati.
Quando l'Angelo mi apparve per annunciarmi la maternità, io ero ancora in casa. Ero stata promessa a Giuseppe ma non ero ancora andata ad abitare con lui.
Bastarono pochi mesi perché tutto divenisse complicato agli occhi degli uomini. lo non potevo nascondere la mia maternità e il mio ventre mi denunciava.
Capii allora cos' era la fede oscura, dolorosa.
Come potevo spiegarmi con mia madre?
Come potevo discutere col mio fidanzato Giuseppe?
Vissi tempi veramente dolorosi e l'unico conforto mi veniva nel ripetere: «Tutto è possibile a Dio, tutto è possibile a Dio».
Toccava a Lui spiegarsi ed io avevo tanta confidenza. Ma ciò non toglieva la mia sofferenza che in certi momenti mi straziava l'anima.
Come potevo trovare le parole per dire che quel bimbo che portavo in seno era il figlio dell'Altissimo?
Intanto non osavo più uscire di casa ed una volta vidi una vicina guardarmi da sopra il muro del cortile con evidente attenzione puritana.
Ci furono dei momenti terribili ed io tremai al pensiero di essere denunziata come adultera.
Ci voleva così poco. Bastava che Giuseppe andasse alla Sinagoga a spiegare la cosa e non gli sarebbero mancati gli zelanti che l'avrebbero seguito con le pietre per lapidarmi. Non era la prima volta che a Nazaret veniva uccisa un'adultera.
Ma è vero: «Dio può tutto». E si spiegò lui.
Si spiegò con Giuseppe per primo che mi disse di avere avuto un sogno veramente straordinario e che non aveva perduto la confidenza in me e che mi avrebbe sposata lo stesso.
Che gioia quando me lo disse!
Ma che paura avevo provato! Che oscurità!
Sì, il fatto mi aveva spiegato che la fede è di quella natura e che dobbiamo abituarci a vivere nell'oscurità.

Ci fu anche un fatto straordinario che alleviò le mie pene in quei mesi.
Tu sai che l'Angelo mi aveva dato un segno per aiutare la mia debolezza. Mi aveva detto che mia cugina Elisabetta era al sesto mese di una maternità straordinaria perché tutti noi della famiglia sapevamo che era sterile.
Dovevo andare a trovarla in Giudea ad Ain-Karim dove abitava.
Non mi feci pregare a partire.
L'idea venne a mia madre perché era preoccupata che la gente del paese mi vedesse con quel ventre grosso e non voleva dicerie.
Partii di notte, ma così contenta di allontanarmi da Nazaret dove c'erano troppi occhi indiscreti e non potevo raccontare a tutti le mie faccende.
Trovai mia cugina già vicina al parto e così felice, poverina! Aveva aspettato tanto un figlio!
Il Signore si era spiegato anche perché quando giunsi fu come se sapesse
tutto!
tutto!
tutto!
Si mise a cantare per la gioia ed io cantavo con lei.
Sembravamo due pazze, ma pazze di amore.
E c'era un terzo che sembrava impazzito di gioia.
Era il piccolino, il futuro Giovanni che danzava nel ventre di Elisabetta come per fare festa a Gesù che era nel mio.
Furono giorni indimenticabili.
Ma Elisabetta, che se ne intendeva di fede e di fede oscura e che aveva tanto sofferto nella vita, mi disse una cosa che mi fece piacere e che fu come il premio a tutta la mia solitudine di quei mesi.
«Beata te che hai creduto» (Luca 1,44). E me lo ripeteva tutte le volte che mi incontrava e mi toccava il ventre, come per toccare Gesù, il nuovo Mosè che stava per venire al mondo.

Il fuoco con cui avevo cotto il pane si stava spegnendo. La notte era già alta e mi sentii solo.
La presenza di Maria ora era nel rosario che avevo in mano e che mi invitava a pregare.
Sentivo freddo e mi avvolsi nel «bournous» (Mantello arabo di lana di pecora) che avevo con me.
L'oscurità divenne totale ma non avevo nessuna voglia di addormentarmi.
Volevo gustare la meditazione che Maria mi aveva regalata.
Soprattutto volevo entrare con dolcezza e forza nel mistero della fede, la vera, quella dolorosa, oscura, arida.
Oh no! Non è facile credere, è più facile ragionare.
Non è facile accettare il mistero che ti supera sempre e che ti allarga sempre i limiti della tua povertà.
Povera Maria!
Dover credere che quel bimbo che portava in seno era figlio dell'Altissimo. Sì, è stato semplice concepirlo nella carne, estremamente più impegnativo concepirlo nella fede! Quale cammino!
Eppure non ne esiste un altro. Non c'è altra scelta.
Vuoi tu, Maria, spaventata dal credere, tornare indietro, pensare che non è vero, che è inutile tentare, che è una illusione quella di un Dio che si fa uomo, che non c'è Messia di salvezza, che tutto è un caos, che sul mondo domina l'irrazionale, che sarà la morte a vincere sul traguardo e non la vita?
No!
Se credere è difficile, non credere è morte certa.
Se sperare contro ogni speranza è eroico, il non sperare è angoscia mortale.
Se amare ti costa il sangue, non amare è inferno.
Credo, Signore!
Credo perché voglio vivere.
Credo perché voglio salvare qualcuno che affoga: il mio popolo.
Credo perché quella del credere è l'unica risposta degna di te che sei il Trascendente, l'Infinito, il Creatore, la Salvezza, la Vita, la Luce, l'Amore, il Tutto.
Che cosa strana per non dire meravigliosa: appena ho detto con tutte le viscere la parola «credo» ho visto la notte farsi chiara.
Ora chiudo gli occhi perché è proprio lei la notte che mi abbaglia con la sua luce al di là di ogni luce.
Sì, nulla è più chiaro di questa notte oscura, nulla è più visibile dell'invisibile Dio, nulla è più vicino di questo infinitamente lontano, nulla è più piccolo di questo infinito Iddio.
Difatti è riuscito a stare nel tuo piccolo seno di donna, Maria, e tu l'hai potuto scaldare col tuo corpicino bello.
Maria! Sorella mia!
Beata te che hai creduto, ti dico stasera con entusiasmo, come te lo disse tua cugina Elisabetta, in quel vespero caldo ad AinKarim.

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inviato da Qumran2, inserito il 09/12/2011

RACCONTO

35. Il principe felice   2

Oscar Wilde

Alta sopra la città, su una lunga, esile colonna sporgeva la statua del Principe Felice. Era tutto dorato di sottili foglie d'oro fino, i suoi occhi erano due lucenti zaffiri, e un grande rubino rosso luccicava sull'elsa della sua spada.

Tutti lo ammiravano. "E' bello come una banderuola" osservò un giorno uno degli assessori di città che ambiva farsi una reputazione d'uomo di gusto; "però è meno utile" si affrettò a soggiungere, per timore che la gente lo giudicasse privo di senso pratico, cosa che egli non era affatto.
"Perché non sai comportarti come il Principe Felice?" chiese una madre piena di buon senso al suo bambino che piangeva perché voleva la luna. "Il Principe Felice non si sogna mai di piangere per nulla".
"Sono contento che a questo mondo ci sia qualcuno veramente felice" borbottò un uomo disilluso ammirando la splendida statua.
"Assomiglia a un angelo" dissero i Trovatelli uscendo dalla cattedrale nei loro lucenti mantelli scarlatti e nei loro lindi grembiulini candidi.
"Come fate a dire questo?" osservò il professore di matematica, "se non ne avete mai veduti!"
"Oh, si, che ne abbiamo visti, nei nostri sogni!" risposero i bambini, e il professore di matematica aggrottò la fronte e fece la faccia scura, perché non trovava giusto che i bambini sognassero.

Una sera volò sulla città un Rondinotto. I suoi amici se n'erano andati in Egitto sei settimane innanzi, ma egli era rimasto indietro perché si era innamorato di una bellissima Canna. L'aveva conosciuta al principio di primavera mentre volava giù per il fiume in caccia di una grossa falena gialla, ed era stato talmente attratto dalla sua vita sottile che si era fermato a parlarle.
"Vuoi che m'innamori di te?" le aveva chiesto il Rondinotto, cui piaceva venir subito al sodo, e la Canna gli aveva fatto un profondo inchino. Così egli le volò più volte intorno, sfiorando l'acqua con le ali, e increspandola di cerchi argentei. Questa fu la sua corte, e durò tutta l'estate.
"Proprio un attaccamento ridicolo," garrivano le altre Rondini, "E' senza un soldo, ma in compenso ha un sacco di parenti," e a dire il vero il fiume era zeppo di Canne.
Poi, non appena venne l'autunno, le Rondini volarono via tutte. Quando se ne furono andate il Rondinotto si sentì solo, e incominciò a stancarsi della sua bella.
"Non sa conversare" si disse, "e temo sia una civetta poiché seguita a frascheggiare col vento." E infatti, ogni volta che il vento spirava, la Canna si piegava con inchini graziosissimi.
"Riconosco che sei casalinga," prosegui il Rondinotto, "ma a me piace viaggiare e di conseguenza anche a mia moglie dovrebbero piacere i viaggi".
"Vuoi venir via con me?" le chiese infine, ma la Canna scosse la testa, era troppo affezionata alla sua casa. "Tu mi hai preso in giro!" gridò il Rondinotto. "Me ne vado alle Piramidi. Addio!" e volò via.
Volò tutto il giorno, e a sera giunse alla città.
"Dove alloggerò?" si disse. "Spero mi abbiano preparato dei festeggiamenti."
Ma poi notò la statua sull'alta colonna. "Andrò ad abitare lì," esclamò. "La posizione è bellissima, e ci si deve respirare dell'ottima aria fresca."

Così si posò proprio tra i piedi del Principe Felice.
"Ho una camera da letto tutta d'oro" mormorò sottovoce tra sé e sé, guardandosi attorno e preparandosi per la notte, ma giusto mentre stava mettendo la testa sotto l'ala gli cadde addosso una grossa goccia d'acqua.
"Che cosa strana!" esclamò. "In cielo non c'è neanche la più piccola nuvola, le stelle sono chiare e luminose, eppure piove. Il clima del Nord Europa è semplicemente spaventoso. Alla Canna la pioggia piaceva, ma questo era dovuto unicamente al suo egoismo".
In quella cadde un'altra goccia.
"A che serve una statua se non riesce a riparare dalla pioggia?" brontolò; "bisogna che mi cerchi un buon comignolo," e fece per volarsene via. Ma proprio mentre stava per aprire le ali una terza goccia cadde, ed egli allora alzò gli occhi e vide... ah, che cosa vide? Gli occhi del Principe Felice erano gonfi di lagrime, e lagrime rigavano le sue guance dorate. Il suo viso era così bello sotto la luce della luna che il piccolo Rondinotto si senti invadere da una profonda pietà.
"Chi sei?" chiese.
"Sono il Principe Felice".
"Perché piangi, allora? Mi hai inzuppato tutto."
"Quando ero vivo e avevo un cuore umano," rispose la statua, "non sapevo che cosa fossero le lagrime, perché abitavo nel Palazzo di Sans-Souci, dove al dolore non è permesso di entrare. Durante il giorno giocavo coi miei compagni nel giardino, e la sera guidavo le danze nella Grande Sala. Intorno al giardino correva un muro altissimo, ma mai io mi curai di sapere che cosa si stendesse al di là di esso, ogni cosa intorno a me era così bella! I miei cortigiani mi chiamavano il Principe Felice, e se il piacere è felicità, io ero veramente felice. Così vissi, e così morii. E ora che sono morto mi hanno messo qui tanto in alto che adesso vedo tutta la bruttezza e tutta la miseria della mia città, e sebbene il mio cuore sia di piombo altro non mi resta che piangere".
"Come mai? Non è d'oro massiccio?" si chiese mentalmente il Rondinotto, perché era troppo educato per rivolgere ad alta voce domande di carattere personale.
"Lontano lontano," proseguì la statua con la sua dolce voce musicale, "lontano in una stradina c'è una povera casa. Una finestra di questa casa è aperta e attraverso vi vedo una donna seduta a un tavolo. Ha il viso magro e sciupato, e le sue mani sono rosse e ruvide e tutte bucherellate dall'ago, poiché fa la cucitrice. Sta ricamando passiflore su un abito di raso che la più bella tra le damigelle d'onore della Regina indosserà al prossimo ballo di Corte. In letto, in un angolo della stanza, il suo bambino giace ammalato. Ha la febbre e vorrebbe mangiare delle arance, ma sua madre non ha nulla da dargli, fuorché acqua di fiume, perciò il bambino piange. Rondinotto, piccolo Rondinotto, non gli porteresti il rubino che luccica sull'elsa della mia spada? I miei piedi sono attaccati a questo piedistallo e io non mi posso muovere".
"Sono aspettato in Egitto" rispose il Rondinotto. "I miei amici in questo momento volano sul Nilo, e discorrono con i grandi fiori di loto. Tra poco andranno a dormire nella tomba del gran Re, dove il Re stesso riposa nel suo sarcofago dipinto, avvolto in gialli lini e imbalsamato con aromi. Ha il collo adorno di una collana di giada verde pallida, e le sue mani assomigliano a foglie avvizzite".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me per una notte soltanto, ed essere il mio messaggero? Il bambino ha tanta sete, e la madre è così triste!"
"Non credo che mi piacciano i bambini" replicò il Rondinotto. "L'estate scorsa, quando stavo sul fiume, c'erano due ragazzi maleducati, i due figliuoli del mugnaio, che mi tiravano sempre sassi. Naturalmente non mi hanno mai preso, si capisce: noi rondini voliamo troppo bene per lasciarci colpire, e del resto io vengo da una famiglia famosa per la sua agilità; comunque però era una grave mancanza di rispetto".
Ma il Principe Felice aveva un viso così doloroso che il Rondinotto ne provò pena. "Qui fa molto freddo" disse, "ma per farti piacere resterò ancora una notte e sarò tuo messaggero".
"Grazie, piccolo Rondinotto" disse il Principe.

Così il Rondinotto colse il grande rubino che ornava la spada del Principe e volò sopra i tetti della città, tenendo stretto il gioiello nel becco appuntito. Passò accanto alla torre della cattedrale, su cui erano scolpiti i grandi angeli di marmo. Passò accanto al palazzo e udì un suono di danze.
Una fanciulla bellissima si affacciò al balcone col suo innamorato. "Guarda che stelle meravigliose" egli le disse, "e come è meraviglioso il potere dell'amore! "
"Spero che il mio vestito sarà pronto per quando ci sarà il ballo di Stato" rispose la fanciulla. "Ho ordinato che sia ricamato a passiflore, ma le cucitrici sono talmente pigre! "
Passò sopra il fiume, e vide le lanterne appese agli alberi delle navi. Passò sul Ghetto, e vide i vecchi Ebrei che contrattavano tra di loro, e pesavano il danaro su bilance di rame. E finalmente giunse alla povera casa e vi guardò dentro. Il bambino si agitava febbrilmente sul letto, mentre la madre si era addormentata: era tanto stanca! Saltellò nella stanza e posò il grosso rubino sul tavolo, accanto al ditale della donna. Poi volò piano attorno al letto, e accarezzò con le sue ali la fronte del piccolo, facendogli vento dolcemente.
"Come mi sento fresco!" disse il bambino. "Forse incomincio a star meglio" e si addormentò di un sonno tranquillo.
Allora il Rondinotto rivolò dal Principe Felice e gli raccontò quello che aveva fatto. "E' strano" osservò, "ma benché faccia un freddo cane adesso ho caldo."
"Perché hai compiuta una buona azione" gli disse il Principe.
Il piccolo Rondinotto incominciò a pensare, ma subito si addormentò: il pensare gli metteva sempre addosso un gran sonno.
Quando il giorno spuntò, volò giù al fiume e prese un bagno.
"Che fenomeno straordinario!" esclamò il Professore di Ornitologia che passava in quel momento sul ponte. "Una Rondine d'inverno!" E mandò al giornale locale una lunga lettera in proposito. Tutti la citarono: era costellata di un sacco di vocaboli che nessuno capiva.
"Questa sera parto per l'Egitto" disse il Rondinotto, e questa previsione lo mise di ottimo umore. Visitò tutti i monumenti pubblici, e rimase a lungo seduto in cima al campanile della chiesa. Dovunque andava i Passeri cinguettavano e bispigliavano tra di loro: "Che forestiero distinto!" Cosicché il Rondinotto si divertì un mondo.
Quando la luna sorse rivolò dal Principe Felice. "Hai qualche commissione da darmi per l'Egitto?" disse. Sono di partenza.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me ancora una notte?"
"In Egitto mi aspettano" rispose il Rondinotto. "Domani i miei amici voleranno fino alla Seconda Cateratta. Laggiù, tra i giunchi, se ne sta accovacciato l'ippopotamo, e su un grande trono di granito siede il Dio Memnone. Tutta la notte egli contempla le stelle, e quando risplende la stella del mattino proferisce un unico grido di gioia, e poi tace. A mezzogiorno i leoni fulvi scendono a bere all'orlo dell'acqua. Hanno occhi simili a verdi berilli, e il loro ruggito è più forte del ruggito della cateratta".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "lontano lontano, dall'altra parte della città, vedo un giovane in una soffitta, appoggiato a una scrivania ingombra di carte, e in un boccale accanto a lui c'è un mazzolino di viole appassite. Ha i capelli bruni e crespi, le sue labbra sono rosse come una melagrana, e i suoi occhi sono grandi e sognanti. Sta sforzandosi di terminare una commedia per il Direttore del Teatro, ma ha troppo freddo per poter seguitare a scrivere. Non c'è fuoco nel suo camino, e la fame lo ha fatto svenire".
"Va bene, aspetterò presso di te un'altra notte" disse il Rondinotto, che aveva proprio un cuore d'oro. "Devo portargli un altro rubino?"
"Ahimé, non ho più rubini, ormai" disse il Principe, "tutto ciò che mi è rimasto sono i miei occhi, ma sono fatti di zaffiri rari, e furono portati dall'India più di mille anni fa. Strappane uno e portaglielo. Lo venderà al gioielliere, e si comprerà legna da ardere, e finirà la sua commedia".
"Caro Principe" disse il Rondinotto, "io non posso fare questo"
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, piangendo, "ubbidiscimi, ti prego".
Così il Rondinotto strappò l'occhio del Principe e volò fino alla soffitta dello studente. Era facile entrarvi, perché nel tetto c'era un buco. Il Rondinotto vi sfrecciò attraverso, e penetrò nella stanza. Il giovane aveva il capo affondato tra le mani, perciò non avvertì il frullio d'ali dell'uccello, e quando alzò gli occhi vide il bellissimo zaffiro adagiato in mezzo alle viole appassite.
"Incominciano ad apprezzarmi!" gridò; "certo me lo manda qualche grande ammiratore. Adesso potrò finalmente terminare la mia commedia!" Ed era tutto felice.
Il giorno dopo il Rondinotto volò giù al porto. Si posò sull'albero di una grossa nave e stette a osservare i marinai che a forza di funi calavano su dalla stiva pesanti casse. "Issa-oh! " si gridavan l'un l'altro a mano a mano che le casse salivano.
"Io vado in Egitto!" garrì il Rondinotto, ma nessuno gli badò, e quando spuntò la luna volò ancora una volta dal Principe Felice.
"Sono venuto a salutarti" gli disse.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi rimanere con me ancora per questa notte?"

"E' inverno ormai" rispose il Rondinotto, "e fra poco arriverà la fredda neve. In Egitto il sole è caldo sulle verdi palme, e i coccodrilli riposano nel fango e si guardano attorno con occhi pigri. I miei compagni stanno costruendo un nido nel Tempio di Baalbec, e le colombe rosee e bianche li guardano, e tubano tra loro. Caro Principe, debbo lasciarti, ma non ti dimenticherò mai, e la prossima primavera ti porterò due gemme bellissime, al posto di quelle che tu hai regalate. Il rubino sarà più rosso di una rosa rossa, e lo zaffiro sarà azzurro come il vasto mare".
"Nella piazza qua sotto" disse il Principe Felice, "ci sta una piccola fiammiferaia. I fiammiferi le sono caduti nella cunetta del marciapiedi, e si sono tutti bagnati. Suo padre la picchierà se non porterà a casa un po' di danaro, e perciò la piccola piange. Non ha né calze né scarpe, e la sua testolina è nuda. Strappa l'altro mio occhio e portaglielo, così suo padre non la batterà".
"Resterò con te ancora per questa notte" disse il Rondinotto, "ma non posso strapparti l'altro occhio. Rimarresti completamente cieco".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "fa' come ti dico".
Così il Rondinotto strappò l'altro occhio del Principe e sfrecciò giù nella piazza. Passò roteando accanto alla piccola fiammiferaia e le fece scivolare il gioiello nel palmo della mano.
"Che bel pezzettino di vetro!" esclamò la bambina, e corse a casa ridendo.
Poi il Rondinotto ritornò dal Principe. "Adesso sei cieco" disse, "perciò io resterò con te per sempre".
"No, piccolo Rondinotto" mormorò il povero Principe, "tu devi andare in Egitto".
"Resterò con te per sempre" ripetè il Rondinotto, e dormì ai piedi del Principe. Poi tutto il giorno seguente se ne stette appollaiato sulla spalla del Principe, e gli raccontò quello che aveva veduto in paesi lontani. Gli parlò dei rossi ibis, che sostano in lunghe file sulle rive del Nilo e col becco acchiappano pesciolini dorati; gli parlò della Sfinge, che è vecchia quanto il mondo, e vive nel deserto, e conosce ogni cosa; gli parlò dei mercanti che viaggiano piano al fianco dei loro cammelli e recano tra le mani rosari d'ambra; gli parlò del Re della Montagna della Luna, che è nero come l'ebano, e adora un enorme cristallo; gli parlò del grande serpente verde che dorme in un palmizio ed è nutrito da venti sacerdoti con focacce di miele; gli parlò infine dei pigmei che veleggiano su un grande lago sopra larghe foglie piatte e sono sempre in guerra con le farfalle.
"Caro Rondinotto" disse il Principe, "tu mi parli di cose meravigliose, ma più meraviglioso di qualsiasi cosa è il dolore degli uomini e delle donne. Non vi è Mistero più grande della Miseria. Vola sulla mia città, piccolo Rondinotto, e raccontami quello che vedi".

Così il Rondinotto volò sopra la grande città, e vide i ricchi gozzovigliare nelle loro splendide dimore, mentre i poveri sedevano fuori, ai cancelli. Volò in bui vicoli, e vide i visi bianchi dei bambini affamati che fissavano con occhi assenti le strade oscure.
Sotto l'arcata di un ponte due ragazzini si stringevano l'uno all'altro cercando di riscaldarsi a vicenda.
"Che fame, abbiamo!" dicevano.
"Non potete dormire laggiù" gridò la guardia, e i due bambini si allontanarono sotto la pioggia.
Allora il Rondinotto tornò indietro e raccontò al Principe quello che aveva veduto.
"Sono tutto ricoperto d'oro fino" disse il Principe, "tu devi togliermelo di dosso, foglia per foglia, e darlo ai miei poveri: i vivi credono che l'oro possa renderli felici".
Il Rondinotto piluccò via foglia dopo foglia del fine oro, finché il Principe Felice divenne tutto opaco e grigio. Foglia per foglia del fine oro egli portò ai poveri, e le facce dei bambini si fecero più rosate, ed essi risero e giocarono giochi infantili nelle strade.
"Abbiamo pane, adesso! " gridavano.
Poi venne la neve, e dopo la neve venne il gelo. Le strade sembravano pavimentate d'argento, tanto erano lucide e scintillanti; lunghi ghiaccioli, simili a lame di cristallo, pendevano dalle gronde delle case; tutti giravano impellicciati e i ragazzini indossavano cappucci scarlatti e pattinavano sul ghiaccio.
Il povero piccolo Rondinotto aveva sempre più freddo, ma non voleva lasciare il Principe; gli voleva troppo bene. Raccoglieva briciole fuor dell'uscio del fornaio quando questi aveva la schiena voltata, e cercava di scaldarsi battendo le ali.
Ma alla fine capì che era prossimo a morire. Ebbe giusto la forza di volare un'ultima volta sulla spalla del Principe.
"Addio, caro Principe" mormorò, "mi permetti che ti baci la mano? "
"Sono contento che tu vada in Egitto, finalmente, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "sei rimasto qui anche troppo tempo, ma tu devi baciarmi sulle labbra, perché io ti amo".
"Non è in Egitto che io vado" disse il Rondinotto, "vado alla Casa della Morte. La Morte non è forse la sorella del Sonno?" E baciò il Principe Felice sulle labbra, e cadde morto ai suoi piedi.
In quel momento si udì nell'interno della statua uno strano crac, come se qualcosa si fosse rotto. Il fatto è che il cuore di piombo si era spaccato netto in due.

Certo faceva un freddo cane. Il mattino seguente per tempo il Sindaco andò a passeggiare nella piazza sottostante in compagnia degli Assessori. Nel passare dinnanzi alla colonna alzò gli occhi verso la statua:
"Dio mio! Com'è conciato il Principe Felice! " esclamò.
"Davvero! Com'è conciato! " esclamarono gli Assessori che ripetevano sempre quel che diceva il Sindaco, e andarono tutti su per vedere meglio.
"Gli è caduto il rubino dall'elsa della spada, gli occhi non ci sono più, e la doratura è scomparsa" disse il Sindaco, "insomma, sembra poco meno che un accattone!"
"Poco meno che un accattone" ripeterono in coro gli Assessori civici.
"E qui, ai piedi della statua, c'è persino un uccello morto! " proseguì il Sindaco. "Dobbiamo assolutamente emanare un'ordinanza che agli uccelli non sia permesso di morire qui!"
E lo Scrivano Pubblico prese appunti per la stesura del decreto.
Così tirarono giù la statua del Principe Felice.
"Dal momento che non è più bello non è nemmeno più utile" osservò il Professore di Belle Arti dell'Università.
Quindi fusero la statua in una fornace e il Sindaco indisse un'adunanza della Corporazione per decidere quel che si doveva fare del metallo.
"Dobbiamo costruire un'altra statua" disse, "e sarà la mia statua".
"La mia" ripeté ciascuno degli Assessori, e litigarono. L'ultima volta che ebbi loro notizie stavano ancora litigando.
"Che cosa curiosa! " disse il sorvegliante degli operai della fonderia. "Questo rotto cuore di piombo non vuole fondersi nella fornace. Bisogna che lo gettiamo via".
E lo gettarono infatti su un mucchio di spazzatura dove avevano buttato anche il Rondinotto morto.

"Portami le due cose più preziose che trovi nella città" disse Dio a uno dei Suoi Angeli; e l'Angelo gli portò il cuore di piombo e l'uccello morto.
"Hai scelto bene" gli disse Dio, "poiché nel mio giardino del Paradiso questo uccellino canterà in eterno, e nella mia città d'oro il Principe Felice mi loderà".

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inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 06/05/2011

RACCONTO

36. Cosa ti rende felice?   5

Nel corso di un seminario per coppie, chiesero a una delle mogli: "Tuo marito ti rende felice? Ti fa davvero felice?". In quel momento, il marito sollevò la testa, mostrando totale sicurezza. Sapeva che la moglie avrebbe detto sì, perché non si era mai lamentata di qualcosa durante il matrimonio. Tuttavia, la moglie rispose con un sonoro "No!".

"No, mio marito non mi rende felice!". A questo punto il marito stava cercando la porta di uscita più vicina. "Mio marito non mi ha reso felice e non mi rende felice! Sono felice!". E continuò:

"Il fatto che io sia felice o no, non dipende da lui, ma da me. Io sono la sola dalla quale dipende la mia felicità. Io decido di essere felice.In ogni situazione, ogni momento della mia vita, perché se la mia felicità dipendesse da qualche cosa, persona o circostanza sulla faccia della terra, sarei in guai seri.

Tutto ciò che esiste in questa vita è in continua evoluzione: l'essere umano, la ricchezza, il mio corpo, il tempo, la mia testa, i piaceri, gli amici, la mia salute fisica e mentale. E così potrei citare un elenco senza fine... Decido di essere felice! Se la mia casa è vuota o piena: sono felice! Se usciamo insieme o esco da sola: sono felice! Se il mio lavoro è ben pagato o no: sono felice! Sono sposata, ma ero felice quando ero single. Sono contenta per me stessa.

Le altre cose, persone, momenti o situazioni io le chiamo "esperienze che possono o non possono darmi momenti di gioia e di tristezza".

Quando muore qualcuno che amo, io sono una persona felice in un inevitabile momento di tristezza. Imparo dalle esperienze passeggere e vivo quelle che sono eterne come l'amare, perdonare, aiutare, capire, accettare, confortare...

Ci sono persone che dicono: oggi non posso essere felice perché sto male, perché non ho soldi, perché fa molto caldo, perché qualcuno mi ha insultato, perché qualcuno ha smesso di amarmi, perché non riesce a valorizzarmi, perché mio marito non è quello che mi aspettavo, perché i miei figli non mi rendono felice, perché i miei amici non mi rendono felice, perché il mio lavoro è mediocre e così via.

Io amo la vita ma non perché la mia vita è più facile di quella degli altri. E' che ho deciso di essere felice e io come persona sono responsabilità per la mia felicità. Quando prendo questo obbligo, lascio liberi mio marito e chiunque altro dal pesare sulle loro spalle. La vita di tutti è molto più leggera. Ed in questo modo ho un matrimonio felice da molti anni".

Non permettere mai a nessuno una così grande responsabilità come quella di determinare la tua felicità! Essere felici, anche se fa caldo, anche se sei malato, anche non hai soldi, anche se qualcuno ti ha fatto male, anche se qualcuno non ti ama o non ti da il giusto valore.

Basta chiedere a Dio di darci la serenità di accettare le cose che non possiamo cambiare, il coraggio di cambiare quelle che possono essere cambiate e la saggezza per riconoscere la differenza tra loro. Non riflettere solo... cambia e sii felice!

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inviato da Anna Barbi, inserito il 08/03/2011

PREGHIERA

37. Preghiera dell'infermiere   1

O Signore Dio, Padre e Madre di chi spera in te, in punta di piedi sono entrato in questa cappella ed ho rotto il tuo silenzio per affidare a te la mia missione di infermiere.

Il mio è un compito di grande responsabilità e per questo ti ringrazio! Ogni giorno il dono prezioso della vita passa per le mie mani, perché io lo custodisca e me ne prenda cura in ragione delle mie capacità, confidando nella tua carezza e nel tuo conforto, quando la sfida diventa cosa troppo ardua.

Fra le tue mani voglio deporre ognuna di quelle vite che mi sono affidate, ogni mio paziente, perché il tuo conforto tenga uniti me e loro in un solo unico abbraccio.

Lascia che sia il tuo sorriso a riempire le mie giornate, a fare così di me immagine lieta della tua grazia e della tua bontà!

Fa' che sia la forza della tua compassione a guidare le mie mani tutte quelle volte in cui l'impotenza davanti alla malattia rischia di bloccare le mie azioni; ogni volta che ho bisogno di sentire tutta la tenerezza di un Padre per prendermi cura delle piaghe di un figlio, del dolore di un fratello; per ciascuna di quelle circostanze in cui sarebbe cosa più facile abbandonarsi alle lacrime o voltare le spalle! Lascia che il mio cuore senta ogni giorno più forte la ricchezza dell'unico e vero amore...il tuo!

Concedimi quel vigore speciale che viene dalla mitezza e dalla serenità, perché con umiltà e pazienza, sia sempre pronto a rispondere ad ogni campanello che squilla... con solerzia, disponibilità e volto lieto! Rendi celere ogni mia azione, anche nelle più piccole mansioni, anche di fronte ad un paziente ansioso e petulante. Lascia che io possa comprendere la difficoltà e la paura di chi si affida alle mie mani, perché non dell'ansia o della petulanza io mi sappia preoccupare ma del disagio e della fragilità di una persona da cui spesso queste provengono!

Fa' di me il più docile strumento della tua tenerezza per chi, anziano, debole, povero e solo, incrocia i miei passi lungo la corsia.

Fa' che io sia un valido collaboratore per ognuno dei miei colleghi!

Lascia che i miei occhi sappiano scorgere, con gioia, i lineamenti del volto di Cristo sofferente in ogni ammalato che viene affidato alle mie cure!

Lascia che le mie braccia si confondano con le tue ogni volta che il dolore di chi soffre ha bisogno di trovare sul tuo petto un porto sicuro, un luogo di dolcezza nel quale rifugiarsi anche soltanto per piangere o per affidare al silenzio la tenerezza di una preghiera.

Anche nelle giornate più confuse, lascia che ognuno dei miei pazienti possa scorgere in me l'immagine di una mano tesa: sarà la tua mano che guiderà la mia a farsi consolazione per tutti coloro che si sentono abbandonati.

Allo stesso modo ti prego di rendermi capace di trovare sempre in te la forza per essere dolce e comprensivo verso tutti i parenti ansiosi e preoccupati per i loro cari! Le mie parole siano cariche, per ognuno, della tua bontà e della tua grazia! Fa' di me valido strumento della tua empatia, perché io non sia capace solo di "sentire", ma soprattutto di "ascoltare" tutti con attenzione e premura.

Voglio essere un infermiere che sappia farsi samaritano per tutti quelli che incontra nel suo reparto! Per questo vorrei possedere soltanto due armi: la luce del tuo sorriso e la forza della tua costante, silenziosa e discreta presenza al mio fianco.

E mi affido a Maria, donna di compassione e di amore! Che lei mi prenda per mano nel mio servizio e mi conduca nel sentiero della sofferenza con la gioia infinita nel cuore. Amen

saluteservizioinfermiere

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inviato da Don Gianni Mattia, inserito il 19/02/2011

TESTO

38. Testamento spirituale di frère Christian   1

Padre Christian de Chergé, Testamento spirituale

Se mi capitasse un giorno (e potrebbe essere oggi) di essere vittima del terrorismo che sembra voler coinvolgere ora tutti gli stranieri che vivono in Algeria, vorrei che la mia comunità, la mia chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese.

Che essi accettassero che l'unico Padrone di ogni vita non potrebbe essere estraneo a questa dipartita brutale. Che pregassero per me: come potrei essere trovato degno di una tale offerta? Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell'indifferenza dell'anonimato.

La mia vita non ha più valore di un'altra. Non ne ha neanche meno. In ogni caso non ha l'innocenza dell'infanzia. Ho vissuto abbastanza per sapermi complice del male che sembra, ahimé, prevalere nel mondo, e anche di quello che potrebbe colpirmi alla cieca.

Venuto il momento, vorrei avere quell'attimo di lucidità che mi permettesse di sollecitare il perdono di Dio e quello dei miei fratelli in umanità, e nel tempo stesso di perdonare con tutto il cuore chi mi avesse colpito.

Non potrei auspicare una tale morte. Mi sembra importante dichiararlo. Non vedo, infatti, come potrei rallegrarmi del fatto che questo popolo che amo sia indistintamente accusato del mio assassinio.

Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che, forse, chiameranno «grazia del martirio», il doverla a un algerino, chiunque egli sia, soprattutto se dice di agire in fedeltà a ciò che crede essere l'Islam.

So il disprezzo con il quale si è arrivati a circondare gli algerini globalmente presi. So anche le caricature dell'Islam che un certo islamismo incoraggia. E' troppo facile mettersi a posto la coscienza identificando questa via religiosa con gli integralismi dei suoi estremisti.

L'Algeria e l'Islam, per me, sono un'altra cosa: sono un corpo e un'anima. L'ho proclamato abbastanza, credo, in base a quanto ne ho concretamente ricevuto, ritrovandovi così spesso il filo conduttore del vangelo imparato sulle ginocchia di mia madre, la mia primissima chiesa, proprio in Algeria e, già allora, nel rispetto dei credenti musulmani.

Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno rapidamente trattato da ingenuo o da idealista: «Dica adesso quel che ne pensa!». Ma costoro devono sapere che sarà finalmente liberata la mia più lancinante curiosità.

Ecco che potrò, se piace a Dio, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell'Islam come lui li vede, completamente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua passione, investiti del dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione e il ristabilire la somiglianza, giocando con le differenze.

Di questa vita perduta, totalmente mia, e totalmente loro, io rendo grazie a Dio che sembra averla voluta tutta intera per quella gioia, attraverso e nonostante tutto.

In questo grazie in cui tutto è detto, ormai, della mia vita, includo certamente voi, amici di ieri e di oggi, e voi, amici di qui, accanto a mia madre e a mio padre, alle mie sorelle e ai miei fratelli, e ai loro, centuplo accordato come promesso!
E anche te, amico dell'ultimo minuto, che non avrai saputo quel che facevi. Sì, anche per te voglio questo grazie e questo ad-Dio profilatosi con te. E che ci sia dato di ritrovarci, ladroni beati, in paradiso, se piace a Dio, Padre nostro, di tutti e due. Amen!
Insc'Allah.

Algeri, 1º dicembre 1993
Tibhirine, 1º gennaio 1994

Testamento spirituale di Padre Christian de Chergé del Monastero di Tibhirine.

Nella notte tra il 26 e il 27 marzo del 1996, sette dei nove monaci che formavano la comunità del monastero di Tibhirine, fondato nel 1938 vicino alla città di Médéa 90 km a sud di Algeri, furono rapiti da un gruppo di terroristi. Il 21 maggio dello stesso anno, dopo inutili trattative, il sedicente «Gruppo Islamico Armato» ha annunciato la loro uccisione. Il 30 maggio furono ritrovate le loro teste, i corpi non furono mai ritrovati.

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inserito il 07/01/2011

ESPERIENZA

39. La gente chi dice che io sia?

Domenica. Giorno di festa, di riposo dallo stress. Mi allontano con fatica dal tepore del letto e mi incammino verso la chiesa, per la Messa. Fatica, certo, ma anche gioia trepidante nell'attesa di quel momento di sosta nel quale dire il mio grazie per la settimana passata e per quella che mi viene donata.

Sulle panche lucide, con una strana predilezione per il fondo della chiesa, siedono composte le signore impellicciate, le bambine con il vestitino nuovo, le mamme e i papà, le vecchiette ferventi. Comincia la Messa. Il Vangelo è quello in cui Gesù domanda: «La gente chi dice che io sia?».

Sono tanto assorta nell'omelia che non mi accorgo di un fermento crescente alle mie spalle, fino a che comincio a sentire chiaramente frasi del tipo: «E' una vergogna!», «Serena, non guardare, ascolta la Messa!», «Andrea, fai finta di niente!», «Qualcuno la faccia uscire!».

Mi volto, e mi accorgo che una delle tante sedie vuote è ora occupata da una vecchia vagabonda che ho già visto qualche volta. È una donna sola, alcoolizzata, che non ha una casa; vive in un mondo suo e si porta sempre dietro un borsone lurido come i suoi vestiti. Di solito in chiesa viene quando piove e non c'è nessuno: allora, chi entra viene accolto dal canto melanconico della sua voce stentata.

Le signore con la pelliccia sono scandalizzate e le mamme si tengono stretti i loro bambini, come se da un momento all'altro la donna potesse mangiarli in un boccone!

La Messa è interrotta, mentre il brusio aumenta. Alla fine due volontari della Croce Rossa intervengono e conducono fuori la donna. Tutti tirano un sospiro di sollievo: dopotutto i bambini sono salvi, no?!

Il prete riprende l'omelia scusandosi per lo spiacevole inconveniente.

«La gente chi dice che io sia?».

Assisto sgomenta al triste spettacolo dell'ipocrisia di sempre.

"La Messa è finita: andate in pace!". Ma quale pace?!

"Vedete, fratelli, duemila anni fa, gli apostoli risposero a Gesù dicendo: «La gente pensa che tu sia Geremia, altri che sei Elia, altri dicono che sei un profeta». Oggi credo che la risposta giusta sia: Gesù è una povera vecchia, che non ha nessuno e non ha una casa; senza qualcuno che si prenda cura di lei e con cui ridere; rifiutata dalla gente che incontra perché è diversa...e non ha la pelliccia".

Se il prete avesse detto queste parole, cosa sarebbe successo?

diversitàcaritàrapporto con Dioriconoscere Gesù

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inviato da Cristina Carmagnola, inserito il 10/11/2010

TESTO

40. Che cos'è un sacerdote? Meditazione dettata in occasione di una prima messa

Karl Rahner, Sul sacerdozio

Nella prima messa si compie un sacrificio tutto particolare dell'eterno rendimento di grazie. Celebriamo infatti il momento in cui un uomo, consacrato prete di Gesù Cristo, compie per la prima volta ciò che d'ora in poi, con sublime, divina monotonia, dovrà compiere tutti i giorni della sua vita...

Come popolo dei redenti in Gesù Cristo, noi presentiamo sugli altari della Chiesa il sacrificio della Nuova Alleanza. Anche in un giorno come questo, non possiamo far niente di più di quello che facciamo sempre. Si compie infatti qualcosa che è così alto da non essere suscettibile di reale accrescimento: si fa presente in mezzo a noi il Signore di tutti i secoli, il cuore del mondo e, insieme, l'azione del suo amore che muove le stelle e tutto accoglie nella gloria di Dio.

E tuttavia nella prima messa si compie un sacrificio tutto particolare dell'eterno rendimento di grazie. Celebriamo infatti il momento in cui un uomo, consacrato prete di Gesù Cristo, compie per la prima volta ciò che d'ora in poi, con sublime, divina monotonia, dovrà compiere tutti i giorni della sua vita, finché un giorno la sua vita intera sarà consumata in quel sacrificio, che egli celebra ogni giorno e nella cui accettazione soltanto tutta la realtà terrena trova la propria accettazione nell'infinita maestà di Dio. Perché celebriamo solennemente questo giorno? Forse che la Chiesa vuol indurre i suoi fedeli a concedere, per così dire, anticipati allori ad un giovane, il quale non ha fatto ancora niente altro che offrire a Dio il suo cuore e la sua vita, mentre sarebbe lecito glorificare solo il sacrificio interamente compiuto? No, noi non celebriamo un uomo: celebriamo solo il sacerdozio di Gesù Cristo. Celebriamo la Chiesa, tutta la Chiesa di tutti i redenti, i santificati, i chiamati alla vita eterna: quella di cui noi tutti facciamo parte, sia che siamo preti o 'soltanto' credenti e santificati. Poiché noi tutti apparteniamo all'unico Corpo del Cristo in modo tale che ciò che ad uno viene concesso di grazia, dignità e potenza è grazia ed elevazione per tutti, ed in maniera tale che nel servizio e nella vocazione di uno si manifesta la santa dignità di tutti.

Che cos'è un sacerdote?

Egli è un uomo
Quando Paolo, nella lettera agli Ebrei, parla del prete, la prima cosa che dice è che il prete è scelto fra gli uomini. A tal punto che perfino l'eterno sommo sacerdote Gesù Cristo, nato da donna, soggetto alla legge, pellegrino attraverso la valle di questa realtà peritura, volle essere il figlio dell'uomo, un uomo, trovato in tutto simile a noi. Il prete è un uomo. Non è fatto, dunque, di un legno diverso da quello di cui tutti siete fatti: è vostro fratello. Egli continua a condividere la sorte dell'uomo anche dopo che la destra di Dio, attraverso la mano del vescovo, si è posata su di lui: la sorte dei deboli, la sorte di quelli che sono stanchi, scoraggiati, inadeguati, peccatori. Gli uomini, però, se l'hanno a male, se uno si presenta nel nome di Dio, pur essendo soltanto un uomo: vogliono messaggeri più splendi, araldi più convincenti, cuori più ardenti. Accoglierebbero volentieri dei vittoriosi, di quegli uomini che hanno sempre una risposta a tutto e un rimedio per tutto. Terribile illusione! Quelli che vengono sono deboli, in timore e tremore, uomini che devono anch'essi continuamente pregare: Signore, io credo, aiuta la mia incredulità! che devono anch'essi continuamente battersi il petto: Signore, abbi pietà di me, povero peccatore! Eppure essi proclamano la fede che vince il mondo e portano la grazia, che trasforma i peccatori e i perduti in santi e redenti. Sono uomini quelli che vengono. Vengono e dicono, con la loro povera umanità: vedete, Dio ha misericordia di uomini come noi; vedete, per i poveri e per gli stolti, per i disperati e per i moribondi è sorta la stella della grazia. Dicono, come messaggeri umani dell'eterno Dio: non vi adirate contro di noi! Noi sappiamo di portare il tesoro di Dio in vasi di argilla; sappiamo che la nostra ombra offusca continuamente la divina luce che dobbiamo portarvi. Siate misericordiosi verso di noi, non giudicate, abbiate pietà della debolezza sulla quale Dio ha posato il fardello troppo pesante della sua grazia. Considerate come una promessa per voi stessi il fatto che noi siamo uomini: riconoscete da ciò che Dio non ha orrore degli uomini. Voi avrete un giorno paura e orrore di voi stessi, quando avrete sperimentato anche in voi che cosa è l'uomo, che cosa c'è nell'uomo. Beati voi, allora, che non vi siete scandalizzati dell'uomo che è nel prete. Egli è un uomo, affinché voi crediate che la grazia di Dio può essere concessa all'uomo, al pover'uomo, così com'è.

Il sacerdote è un messaggero della verità di Dio
Nella verità di Dio c'è qualcosa di inquietante e insieme di beato. Essa è del tutto semplice, e non fa progressi così rapidi come la verità degli uomini, che diventano tanto sapienti da arrivare, da ultimo, alla fabbricazione delle bombe atomiche. Spesso la verità di Dio penetra nei cuori degli uomini, senza che essi lo sappiano: solo in piccola parte la sua venuta si manifesta, per esempio nell'umiltà silenziosa del cuore, in un'oscura nostalgia dello spirito, nella rassegnazione con cui uno accetta le tacite e mai autogiustificantesi disposizioni del destino. Ma quando viene, per quanto piccola, con la forza dello Spirito Santo, essa è tutta presente, e vi è già in essa anche l'inizio dell'amore e della vita eterna. E tutta questa semplice, unica verità di Dio, per mezzo della quale Dio afferma se stesso nel più profondo del cuore dell'uomo, è la Verità, che è presente nel mondo, perché stillata dal cuore trafitto del Cristo Dio. Perciò questa verità vuole farsi carne nella parola umana; vuole penetrare in tutti i pensieri e le parole degli uomini; vuole divenire il tema permanente di una sinfonia infinita, che risuona attraverso tutti gli spazi del cosmo; vuole essere spiegata e proclamata; vuole entrare attraverso le porte dell'udito nel cuore degli uomini; vuole salire e sorgere dal cuore degli uomini, sua più intima dimora, per penetrare anche in tutti i settori della vita umana, per essere predicata da tutti i tetti, per congiungersi, infine, con ogni verità umana, correggendola e purificandola, salvandola e portandola a compimento. Perciò vi sono messaggeri di questa verità, messaggeri umani. Essi vengono con parole umane, ma queste sono ripiene di verità divina. E dicono una cosa antichissima e tuttavia non mai ancora compresa: dicono la verità, che sola non avvizzisce, sola non si logora, sola non si consuma. Dicono Dio: il Dio dell'eterna gloria, il Dio della vita eterna; dicono che Dio stesso è la nostra vita; proclamano che la morte non è la fine; che l'astuzia del mondo è stoltezza e miopia; che vi è un giudizio, una giustizia ed una vita eterna. Dicono sempre la stessa cosa, monotonamente, infinite volte. La dicono a se stessi ed agli altri, poiché gli uni e gli altri devono confessare di non aver ancora mai compreso ciò che viene predicato: Dio, il Dio vivente, il vero Dio, il Dio rivelato, Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo; Dio, che riversa prodigalmente la propria infinità nel nostro cuore, senza che noi ce ne accorgiamo; Dio, che fa della nostra spaventosa precarietà l'inizio della vita eterna - e noi non vogliamo crederlo. Questo dicono i messaggeri. Per questo hanno studiato e meditato; tutto questo si sono sforzati, spesso disperatamente, di far penetrare anche nella meschinità del proprio spirito e nell'angustia del proprio cuore. Eppure non ci sono ancora riusciti: sono ancora apprendisti di Dio. E tuttavia, Dio ordina loro di mettersi a parlare di ciò che essi stessi hanno compreso soltanto a metà. Ed essi cominciano. Balbettano, sono impacciati, sanno bene che tutto ciò che hanno da dire suona così strano, così inverosimile, sulla bocca di un uomo. Ma vanno e parlano. E, oh meraviglia! trovano perfino degli uomini che, attraverso il loro strano discorso, percepiscono la Parola di Dio; uomini nel cui cuore la Parola penetra, giudicando, salvando e portando la serenità, la consolazione e la forza nella debolezza, sebbene siano essi a dirla, e sebbene portino così male il messaggio. Ma Dio è con loro. Con loro, nonostante la loro miseria e il loro peccato. Essi non predicano se stessi, ma Gesù Cristo, predicano nel suo nome, e sono confusi fino in fondo al cuore per ciò che egli ha detto loro: «Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me». Ma egli ha detto proprio così. E dunque essi vanno e parlano. Sanno che si può essere un bronzo sonante e un cembalo tintinnante, e che ci si può perdere dopo aver predicato agli altri: ma non si sono scelti da sé. Sono stati chiamati e inviati, e così devono andare e predicare, opportunamente e importunamente. Vanno per i campi del mondo e spargono il seme di Dio: sono pieni di riconoscenza quando un poco ne germoglia, e implorano per sé la misericordia di Dio, affinché non ne rimanga sterile troppo per colpa loro. Seminano fra le lacrime, e per lo più un altro raccoglie ciò che essi hanno seminato. Ma essi lo sanno: la parola di Dio deve diffondersi dovunque e portar frutto, perché essa è la felice Verità di Dio, la luce dei cuori, la consolazione nella morte e la speranza della vita eterna.

Il sacerdote è il dispensatore dei divini misteri
La parola, che Dio ha posto sulla bocca del prete, non è una semplice parola generica, che viene pronunciata nel vago. È la parola di Dio, deve perciò riguardare anche i singoli, nella loro individualità originale e nella loro irrepetibile storicità. Deve essere detta a ciascun uomo in particolare: al mattino della vita, quando egli comincia a creare nel tempo una eternità; nei molti monotoni giorni del suo pellegrinaggio, in cui egli deve cercare faticosamente se stesso, attraverso tutte le vallate e gli errori di una vita umana; nella cupa disperazione della colpa; in quel sacro istante, in cui sembra che, dalla pienezza del tempo che muore, debba venir fuori per sempre il frutto dell'eternità nella morte. In tali istanti, il prete deve dire la parola di Dio, la parola potente e creatrice di Dio, la parola che non dice, bensì opera, la parola sacramentale: io ti battezzo; io ti assolvo dai tuoi peccati; questo è il mio Corpo. Tali parole, pronunziate nel nome del Cristo, il pret le dice applicandole alla concreta situazione dell'uomo. Ed esse apportano ciò che proclamano, operano quello che annunziano, perché sono parole di Dio. Grazie a queste parole sacramentali, il prete è, al tempo stesso, l'uomo più privo di potenza e il più potente, poiché esse non sono assolutamente più parole sue, ma parole interamente del Cristo: egli, però, ha il diritto di dirle, di ripeterle continuamente, di dirle con pazienza e con fede, instancabilmente. Tutte le altre parole, che egli deve pur dire, nella predica e nell'insegnamento, non sono altro che un'eco, una spiegazione, un commento, aggiunto alle eterne parole fondamentali della sua esistenza sacerdotale, che egli pronunzia nell'amministrare i sacramenti, accompagnandole col gesto santo, che utilizza i poveri elementi della terra per celarvi la beatitudine del cielo, fecondandoli con la parola del Cristo. Munito dunque della parola efficace del Cristo, egli dispensa i misteri del Cristo, i sacramenti. Gli uomini, per lo più, vogliono da lui qualcos'altro: il pane, la soluzione dei problemi sociali, ricette per poter essere felici su questa terra. Si irritano e si annoiano, se si continua a ripetere loro sempre soltanto parole, che si devono credere, che producono effetto solo nella divina eternità e il cui valore non si può negoziare sui mercati del mondo. Ma il prete continua a ripetere la sua parola, la parola dei sacramenti. Il loro effetto non si può provare nei laboratori degli uomini, che vogliono riconoscere come reale solo ciò che si manifesta concretamente. Ma l'effetto c'è. E così, da quella parola, ha inizio il destino dei figli di Dio, si compie il perdono dei peccatori, si celebra il banchetto della vita eterna, scaturisce dalle tenebrose profondità della morte la luce che non conosce tramonto. Col suo dono e con la sua offerta dei misteri di Dio, il prete se ne sta, come uno che sia estraneo al mondo, agli angoli delle vie, dinanzi ai quali passa in fretta il corteo interminabile degli uomini e della loro storia, precipitando non si sa bene se verso la morte o verso la vita. Chi si arresta, chi accetta l'offerta di questo viandante tra due mondi che è il prete, costui riceve i misteri di Dio, per lui si realizza nel tempo l'eternità, dalla morte la vita, dalle tenebre la luce, e si fa manifesta la presenza di Dio. E colui che ha il potere di penetrare nella situazione sempre unica del singolo queste parole della presenza e dell'efficacia sacramentale del Dio vivente nello spazio della santa Chiesa, noi lo chiamiamo il prete.

Al sacerdote è affidato il sacrificio
Abbiamo cominciato a parlare dell'opera del prete nel mondo; dobbiamo intraprendere la trattazione, più esplicita di quanto finora sia stata, del mistero che nel Corpo della Chiesa è paragonabile al cuore, in quanto apporta al regolare battito del polso dei singoli membri la forza nutritiva del sangue. Il prete è l'uomo a cui è affidata l'offerta sacrificale della Chiesa, la ripetizione liturgica della Cena del Cristo, e poiché proprio questo è l'aspetto più intimo e supremo dell'esistenza sacerdotale, noi celebriamo solennemente l'inizio di tale vita non già con un battesimo che egli celebri per la prima volta, o con la parola dell'assoluzione che pronunzi per la prima volta, bensì col sacrificio della messa che egli celebra per la prima volta e noi con lui. Qui, in questo momento, tutto si raccoglie: gli uomini, la Chiesa, Dio, il Cristo, il sacrificio della Croce, i vivi e i morti, l'angoscia terrena e la beatitudine celeste. Qui, infatti, il Signore glorioso è in mezzo alla sua comunità: la comunità dei santificati e redenti, che il prete, per mandato ricevuto dal Cristo, con pieni poteri che provengono dall'alto, e non dal basso, conduce dinanzi al trono della Grazia, affinché essa comunità offra il Signore, reso presente mediante la parola del prete, come offerta di tutta la Chiesa, all'eterno Padre, in lode del suo nome e per la salvezza di tutti quelli che celebrano il sacrificio e in esso sono ricordati con amore e fedeltà. Avendone ricevuto facoltà dal Cristo stesso, che ama la sua Chiesa e a lei ha fatto dono del proprio sacrificio, il prete può celebrare in nome di tutti, con tutti e per tutti, il sacrificio dell'eterna riconciliazione. E se è vero che in questa vocazione egli è stato da Dio sollevato più in alto di tutti gli altri, è anche vero che egli è divorato e consumato al massimo, in un puro servizio di Dio, per gli uomini. Egli acquista, in questo momento, il diritto di portare il Corpo del Signore e di prendere il calice della salvezza, riempito del prezzo del riscatto del mondo, non già per essere lui, il prete, innalzato, bensì perché ne venga salvezza per tutto il popolo di Dio. E ciò che, nel giorno della sua prima messa, egli fa', circondato dalla gioia degli altri, lo farà tutti i giorni. Tutti i giorni, nella giovinezza e nella vecchiaia, nelle grigie mattine di ogni giorno, e nelle ore terribili, che non sono risparmiate a nessuna vita. E sempre questa piccola, povera celebrazione racchiuderà in sé il contenuto, e al tempo stesso la soluzione, di tutti gli enigmi dell'esistenza: il Corpo, che venne immolato, e il Sangue, che fu versato per il perdono dei peccati. Sempre, tutto ciò sarà contenuto in questa piccola mezz'ora, perché in essa è presente, come il Sacrificato e il Vittorioso insieme, colui che è in sé l'unità reale dell'enigma e della sua soluzione, l'unità della terra e del cielo, l'unità dell'uomo e di Dio, nella celebrazione di quell'istante unico in cui, sulla Croce, l'estrema lontananza tra loro divenne inseparabile vicinanza.

Conclusione
È uomo, il prete, messaggero della Verità di Dio, dispensatore dei divini misteri, capace di rendere presente il sacrificio unico del Cristo. Sorte felice! Certo, ogni uomo ha da Dio la sua vocazione, la sorte a lui assegnata dalla eternità, il suo compito anche nel Corpo del Cristo, che è la Chiesa. Non vi è esistenza profana, per nessuno. Ma ciò che per la maggior parte è quasi soltanto la presenza della divina realtà nel profondo della loro più intima coscienza e nel silenzioso segreto della loro sfera privata, per il prete, chiamato da Dio, erompe da quella profondità per abbracciare tutta la estensione della vita. Tutto, in quella vita, Dio deve consumare e ridurre al servizio della sua signoria onnipotente. Questo è il destino del prete: vivere interamente nella manifesta vicinanza di Dio. Un destino beato e terribile a un tempo. Beato, perché Dio solo è la beatitudine; terribile, perché solo difficilmente l'uomo resiste in mezzo al tremendo splendore di Dio. Nessuna meraviglia, dunque, che il progetto più sublime rimanga sempre anche il più frammentario. Nessuna meraviglia, che l'alta vocazione nasconda in sé anche il pericolo delle cadute estreme: il pericolo che esser prete voglia dire non dovere esser più uomo; il pericolo della perdita della pietà per gli uomini, dell'inaridirsi della sostanza umana; il pericolo della fuga lontano da Dio, verso la più familiare vicinanza degli uomini; il pericolo del compromesso miserabile, del tentativo di soddisfare l'altissimo prezzo richiesto dall'esistenza sacerdotale con una mediocrità a buon mercato. Se si esamina attentamente questo destino beato e terribile del prete, si potrebbe rimanere colpiti, e quasi ammutolire per lo spavento, in questa festa, perché qui ha inizio ciò che nessun uomo, da solo, può portare a compimento. Ma noi confidiamo nella grazia di Dio: essa, non già noi, porterà a compimento ciò che ha iniziato. È fedele, infatti, colui che ha chiamato il prete, e non si pente dei doni di grazia che concede. E noi, in questa celebrazione del santo sacrificio, vogliamo pregare per la Chiesa sulla terra, che Dio mandi operai alla sua messe, perché gli operai sono pochi. Preghiamo per i nostri preti, che essi comincino nel timore e nella gioia del Signore e perseverino in fedele servizio sino alla beata fine, che noi tutti attendiamo, e in cui è il termine unico e beato di tutte le vocazioni, nell'infinita celebrazione del sacrificio eterno, in cui il Figlio, e noi in lui, tutto rimettiamo al Padre, affinché Dio sia tutto in tutti. Amen.

tratto da www.donboscoland.it

sacerdotepretepresbitericleroanno sacerdotale

inviato da Qumran2, inserito il 03/09/2010

RACCONTO

41. La bicicletta di Dio   7

In una calda sera di fine estate, un giovane si recò da un vecchio saggio: "Maestro, come posso essere sicuro che sto spendendo bene la mia vita? Come posso essere sicuro che tutto ciò che faccio è quello che Dio mi chiede di fare?". Il vecchio saggio sorrise compiaciuto e disse: "Una notte mi addormentai con il cuore turbato, anch'io cercavo, inutilmente, una risposta a queste domande. Poi feci un sogno. Sognai una bicicletta a due posti. Vidi che la mia vita era come una corsa con una bicicletta a due posti: un tandem. E notai che Dio stava dietro e mi aiutava a pedalare. Ma poi avvenne che Dio mi suggerì di scambiarci i posti. Acconsentii e da quel momento la mia vita non fu più la stessa. Dio rendeva la mia vita più felice ed emozionante. Che cosa era successo da quando ci scambiammo i posti? Capii che quando guidavo io, conoscevo la strada. Era piuttosto noiosa e prevedibile. Era sempre la distanza più breve tra due punti. Ma quando cominciò a guidare lui, conosceva bellissime scorciatoie, su per le montagne, attraverso luoghi rocciosi a gran velocità a rotta di collo. Tutto quello che riuscivo a fare era tenermi in sella! Anche se sembrava una pazzia, lui continuava a dire: «Pedala, pedala!». Ogni tanto mi preoccupavo, diventavo ansioso e chiedevo: «Signore, ma dove mi stai portando?». Egli si limitava a sorridere e non rispondeva. Tuttavia, non so come, cominciai a fidarmi. Presto dimenticai la mia vita noiosa ed entrai nell'avventura, e quando dicevo: «Signore, ho paura...», lui si sporgeva indietro, mi toccava la mano e subito una immensa serenità si sostituiva alla paura. Mi portò da gente con doni di cui avevo bisogno; doni di guarigione, accettazione e gioia. Mi diedero i loro doni da portare con me lungo il viaggio. Il nostro viaggio, vale a dire, di Dio e mio. E ripartimmo. Mi disse: «Dai via i regali, sono bagagli in più, troppo peso». Così li regalai a persone che incontrammo, e trovai che nel regalare ero io a ricevere, e il nostro fardello era comunque leggero. Dapprima non mi fidavo di lui, al comando della mia vita. Pensavo che l'avrebbe condotta al disastro. Ma lui conosceva i segreti della bicicletta, sapeva come farla inclinare per affrontare gli angoli stretti, saltare per superare luoghi pieni di rocce, volare per abbreviare passaggi paurosi. E io sto imparando a star zitto e pedalare nei luoghi più strani, e comincio a godermi il panorama e la brezza fresca sul volto con il delizioso compagno di viaggio, la mia potenza superiore. E quando sono certo di non farcela più ad andare avanti, lui si limita a sorridere e dice: «Non ti preoccupare, guido io, tu pedala!»".

affidamentoaffidarsi a Diofiducia in Diofedeabbandonofiducia

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inviato da Anna Barbi, inserito il 26/06/2010

RACCONTO

42. Un bicchiere di latte - Si raccoglie quello che si semina   2

Un giorno, un ragazzo povero che vendeva merci porta a porta per pagarsi gli studi all'università, si trovò in tasca soltanto una moneta da 10 centesimi, e aveva fame. Decise che avrebbe chiesto qualcosa da mangiare nella prossima casa, ma i suoi nervi lo tradirono quando gli aprì la porta una donna stupenda. Al posto di qualcosa da mangiare chiese un bicchiere d'acqua. Lei pensò che il giovane sembrava affamato, e dunque gli portò un bel bicchiere di latte. Lui lo bevve piano, e allora chiese: "Quanto devo?". "Non mi deve niente", rispose lei. "Mia madre ci ha insegnato che dobbiamo essere sempre caritatevoli con coloro che hanno bisogno di noi". E lui disse: "Allora la ringrazio di cuore!". Quando Howard Kelly andò via da quella casa, non soltanto si sentì più sollevato, ma anche la sua fede in Dio e negli uomini era diventata più forte. Era stato sul punto di arrendersi e di lasciare gli studi a causa della sua povertà.

Qualche anno dopo la donna si ammalò in modo grave. I medici del paese erano preoccupati. Alla fine la inviarono alla grande città. Chiamarono il Dott. Howard Kelly per un consulto. Quando lui sentì il nome del paese da dove proveniva la paziente, sentì negli occhi una luce particolare e una gradevole sensazione. Immediatamente il Dott. Kelly salì dalla hall dell'ospedale fino alla stanza di lei. Vestito con il suo grembiule da dottore entrò a vederla. Capricci del destino, era lei, la riconobbe subito. Ritornò alla stanza determinato a fare tutto il possibile per salvare la sua vita. Da quel giorno seguì quel caso con la maggiore attenzione, lei subì un'operazione a cuore aperto e si recuperò molto lentamente. Dopo una lunga lotta, lei vinse la battaglia! Era finalmente recuperata! Giacché la paziente era fuori pericolo, il Dott. Kelly chiese all'ufficio amministrativo dell'ospedale che gli inviassero la fattura con il totale delle spese, per approvarla. La ricontrollò e la firmò. Inoltre scrisse qualcosa sui margini della fattura e la inviò alla stanza della paziente.

La fattura arrivò alla stanza della paziente, ma lei aveva paura di aprirla, perché sapeva che avrebbe lavorato per il resto della sua vita per pagare il conto di un intervento così complicato. Finalmente la aprì, e qualcosa attirò la sua attenzione. Sui margini della fattura lesse queste parole: "Pagata completamente molti anni fa con un bicchiere di latte Firmato: Dott. Howard Kelly". I suoi occhi si riempirono di lacrime di gioia e il suo cuore fu felice e benedisse il dottore per averle ridato la vita.

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inviato da Marianna Mundo, inserito il 26/06/2010

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43. Il Cieco di Gerusalemme   1

Nardo Masetti

È disperato. Ha perduto la vista all'improvviso e a nulla sono valse le cure dei medici. Ora non ha più denaro; tutti lo hanno abbandonato. È ormai deciso: prima o poi la farà finita con una vita tanto misera. Un giorno sente parlare di un certo Gesù che guarisce tutti, che a Gerico ha persino ridato la vista a un cieco nato, che non chiede nessun compenso per le sue prestazioni: anzi, assieme alla salute del corpo, ridona la gioia di vivere. Si trascina giorno dopo giorno, Dio solo sa come, fino a Gerusalemme, poiché gli hanno detto che lui è là. Ora si aggira per le viuzze della città santa, mentre il sole è al tramonto. In Gerusalemme regna un silenzio profondo, troppo profondo, perché si azzardi a gridare quel nome nel quale ha riposto ogni sua speranza. Si accovaccia per terra e attende il mattino.

Si sveglia mentre attorno lui c'è già il brusio, che caratterizza l'inizio di giornata in una grande città. Raccoglie le idee, si alza in piedi e, porgendo le mani ai passanti, come se volesse chiedere l'elemosina, cerca di fermare qualcuno. Una donna ascolta la sua domanda e gli risponde: "Gesù non lo potrai più incontrare, il Sinedrio lo ha condannato; lo hanno crocifisso una decina di giorni fa. Il cieco si sente perduto. Poi gli balena un'idea improvvisa e supplica la donna: "Ti prego portami al Tempio o da uno dei componenti il Sinedrio". Ella lo accompagna e lo presenta a uno dei sacerdoti che incontrano nell'atrio della casa del Signore. Questi conferma al povero uomo la notizia che già sapeva: Gesù è stato condannato e ucciso. Il cieco implora: "Guariscimi tu dalla mia cecità, o fammi guarire da uno dei membri del Sinedrio, o da Ponzio Pilato!". Il sacerdote, sbalordito, a fatica riesce a fargli comprendere come lui non ha il potere di fare miracoli e come non possa pretenderlo dal Sinedrio e tanto meno dal Procuratore romano... Si fa un silenzio assoluto da parte della folla, che nel frattempo si era radunata, e tutti volgono uno sguardo interrogativo al sacerdote che, triste e vergognoso, guadagna frettolosamente l'interno del sontuoso edificio di culto. Il cieco continua ad interrogare la folla: Era tanto buono, ma perché l'hanno ucciso?!

Il cieco è seduto sul muricciolo che delimita la spianata del Tempio, con lo sguardo vuoto puntato alla pianura che non vede, ma che intuisce sotto di sé. È venuto il momento di portare a compimento il suo progetto: basta una salto oltre la balconata e tutto è fatto. All'improvviso sente un tocco sulla spalla; non vi fa caso. Poi sente insistente una voce che gli suggerisse di guardare la valle meravigliosa, il colle di ulivi, il sole che splende alto e illumina tutto di colori sgargianti. Un grido gli rimane strozzato in gola: sì, vede tutte quelle cose come un tempo. Vede tutto fuorché "Colui" che lo ha toccato: è scomparso. Entra nel Tempio e si mette a riflettere: allora è vero quello che molti vanno dicendo, cioè che Gesù è risorto e sta apparendo qua e là ai suoi discepoli; ed è apparso pure a lui. Una gioia sovrumana invade il suo essere; una sola nube l'offusca: non è riuscito a ringraziare il Signore. Ma subito si rasserena. Quell'"Uomo" lo avrebbe rivisto a suo tempo, e per ringraziarlo dell'immenso dono avrebbe avuto a disposizione tutta l'eternità.

speranzadisperazionefedelucerisortorisurrezioneGesù

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inviato da Don Nardo Masetti, inserito il 26/06/2010

RACCONTO

44. L'asinello che portò Gesù   3

Mariolina Puddu

In un campo pascolavano un'asina con il suo puledro. Era stato svezzato da poco e talvolta, quando si metteva nei guai, cercava ancora il conforto della sua mamma.

Il suo nome era Lollo e aveva grandi orecchie appuntite e occhioni scuri, intelligenti e furbi. Come tutti i cuccioli era birbaccione, chiassoso, prepotente. Appena poteva si allontanava verso i confini del campo cercando di sconfinare e, quando il padrone andava a riprenderlo, puntava le zampe sul terreno e non c'era modo di smuoverlo. Bisognava trascinarlo e quanto erano acuti i suoi ragli di protesta! Il padrone ancora non si decideva a metterlo al lavoro: era talmente giovane e testone!

Una bella mattina di primavera giungono nel campo degli uomini, parlottano un po' col padrone e poi cominciano a guardare verso Lollo. Erano venuti infatti a fare una richiesta curiosa che riguardava proprio lui. Questi uomini erano servi di un tale, un certo Nazareno e, mandati da questo, volevano in prestito proprio Lollo. Serviva al loro Maestro per entrare in Gerusalemme.

Il padrone era perplesso: "Macché Lollo! Per il vostro Maestro ci vuole un cavallo. Io non ce l'ho, ma il mio vicino è un soldato e certamente sarà contento di prestarvi il suo bel cavallo bianco".

Ma quelli insistevano, si erano proprio fissati! Volevano un asino che fosse giovane che non avesse mai lavorato. "E' il Maestro che lo chiede - dicevano - ma non temere te lo restituiremo".

Il padrone alzava gli occhi al cielo: "Ma allora proprio non capite, quest'asino non è adatto! E' prepotente, testone e farà fare a me e al vostro Maestro una brutta figura. E' capace di fermarsi in mezzo alla strada e di non voler più camminare, se gli gira, incomincia a ragliare così forte e non la finisce più, e poi, morde!".

E i servi a lui: "Così come è, lo vuole il Maestro, e Lui non sbaglia! Se ha chiesto quest'asino avrà i suoi buoni motivi!". Il padrone allora, avvilito, prende un pezzo di corda, lo butta intorno al collo di Lollo e lo consegna ai servi. Lollo è troppo interessato alla faccenda per pensare a fare i capricci, e docile si lascia legare e condurre fuori del campo.

Fatta poca strada arrivano a un bivio, poco fuori Gerusalemme. Ci sono uomini, donne e anche bambini che attorniano un giovane uomo. I servi dirigono proprio verso di Lui: "Ecco, Maestro, questo è l'asino che avevi chiesto". Il Maestro si volta, si avvicina a Lollo, allunga una mano, lo accarezza sulla testa e lo guarda. Anche Lollo alza gli occhi verso questo bizzarro Maestro che ha voluto a tutti i costi averlo come cavalcatura, e i suoi occhi si immergono nello sguardo del Maestro: "Mai nessuno mi aveva guardato così" - dirà poi Lollo - "neanche la mia mamma". E' come se con un solo sguardo il Maestro mi dicesse: "Non temere, va bene così. Sì sei un po' un brigante, ma ce la puoi fare. Io mi fido di te e ti voglio bene! Coraggio! Cominciamo questo viaggio, sarai tu a portarmi a Gerusalemme".

Lollo sente come un fuoco dentro il suo cuore, è contento e un po' ha voglia di piangere, senza motivo... Mansueto si lascia mettere un mantello rosso sulla groppa, si lascia montare dal Maestro e, lentamente, incominciano il loro viaggio verso Gerusalemme. Via via che si avvicinano alla città la gente diventa più numerosa. Stendono per terra dei mantelli rossi, hanno in mano dei rami di palma e di ulivo, li agitano e gridano: "Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nell'alto dei cieli!".

Lollo si sente davvero un asinello importante... Tutti fanno festa alla persona che lui sta portando in groppa, bardato con quel bel manto rosso! Anche i bambini fanno festa e alcune bambine portano dei fiori.

Ad un tratto una voce si leva dalla folla e chiede: "Chi è quest'uomo?".
Qualcuno risponde: "E' Gesù, da Nazareth di Galilea!".
"Che cosa ha fatto?".
"Io sono vedova, Gesù ha risuscitato il mio unico figlio. Eccolo!".
"Io ero muto per colpa di un demonio e Gesù mi ha liberato".
"Io avevo questa mano come morta e lui mi ha detto: Stendila! E la mia mano è tornata come nuova! Ha fatto bene ogni cosa!".

Lollo ascolta tutto quello che la gente dice sull'uomo che sta accompagnando a Gerusalemme. "Ora capisco perché alcuni chiamano Gesù il Signore!". La folla è al colmo della gioia e della festa. Gesù è pronto per entrare nel tempio. Prima di allontanarsi, con la mano sfiora lentamente il muso dell'asinello. Gesù e Lollo si guardano per un lungo istante.

Gesù capisce ciò che l'asinello gli vuol dire:
"Grazie Signore di avermi cercato.
Tu hai avuto bisogno di me e hai avuto fiducia in me!
D'ora in poi, anche se non credo che riuscirò ad essere sempre bravo, voglio provare ad essere come tu mi vedi.
Forse scalcerò ancora e certamente raglierò ogni tanto ma non potrò mai dimenticare che hai avuto fiducia in me.
Grazie Gesù, anche io ti voglio bene".

domenica delle palmefiduciasguardo di Dio

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inviato da Mariolina Puddu, inserito il 25/03/2010

TESTO

45. Gesù Risorto non smetterà mai di volerti bene   1

Paolo Spoladore, Tutti ti cercano

Gesù risorto non smetterà di darti amore e capacità di amare, anche quando non vorrai più amare e rispettare nessuno, nemmeno te stesso.
Gesù risorto non smetterà di sceglierti anche quando non sceglierai più niente di vitale e luminoso.
Gesù risorto non smetterà di darti vita anche quando non la saprai usare, né la saprai sfruttare per il bene e la luce.
Gesù risorto non smetterà di darti il "camminare" anche quando non avrai più voglia di muoverti.
Gesù risorto non smetterà di abbracciarti anche quando tu non avrai più voglia di abbracciare nessuno.
Gesù risorto non smetterà di darti le stelle anche quando non avrai più voglia di guardare il cielo e di orientarti.
Gesù risorto non smetterà di darti doni anche quando non farai altro che sprecarli tutti.
Gesù risorto non smetterà di darti occasioni e fortune, anche quando non ti accorgerai delle prime e non benedirai le seconde.
Gesù risorto non smetterà di usarti misericordia, anche quando tu farai da giudice ingiusto dei tuoi simili.
Gesù risorto non smetterà di far crescere i fiori, anche quando tu li comprerai di plastica.
Gesù risorto non smetterà di dar luce ai tuoi occhi, anche quando non vorrai vedere nulla con gioia e gratitudine.
Gesù risorto non smetterà di darti le mani, anche quando le userai solo per sfruttare i poveri e gli innocenti.
Gesù risorto non smetterà di darti la capacità di "prendere la mira" anche quando non la userai per cacciare e mangiare, ma solo per uccidere e devastare.
Gesù risorto non smetterà di darti intelligenza, anche quando la userai da sciocco e da superbo.
Gesù risorto non smetterà di darti fiducia, anche quando non l'avrai più nemmeno per te stesso.
Gesù risorto non smetterà di darti speranza, nemmeno quando tutto ti sembrerà più brutto.
Gesù risorto non smetterà, non smetterà mai di amarti e di chiederti se non puoi amare anche tu un po' di più con gioia e verità, per la tua felicità e la pace di tutti.
Gesù risorto non smetterà mai di volerti bene e non potrai impedirglielo. Tu proprio non potrai impedirglielo.

GesùCristorisurrezionesperanzarapporto con Diofiducia

inviato da Maria Teresa Osele, inserito il 08/12/2009

PREGHIERA

46. Il servo inutile   3

Adolfo Rebecchini

Dopo che avete fatto tutto quello che dovevate fare,
dite, "Siamo servi inutili", non prima...

Essere servo inutile, significa comprendere e accettare
che il Vangelo non è un'operazione di marketing aziendale
e i cui risultati non si misurano grazie ad una buona campagna promozionale.

Essere servo inutile, significa fidarmi di Dio,
credere che attraverso il mio piccolo contributo, lui,
potrà realizzare il suo regno nel mondo.

Essere servo inutile, significa dimenticare ciò che la gente pensa di me
e preoccuparmi di essere grande agli occhi di Dio.
Solo così potrò vivere nella pace e sperimentare la gioia
di camminare nella verità.

Essere servo inutile, significa diventare testimone di Gesù,
senza fanatismi e senza ansie,
vivendo sempre alla luce della resurrezione.

Essere servo inutile, significa non cercare le cose complicate,
ma essere fedele, sempre,
nelle piccole come nelle grandi cose.

Essere servo inutile, significa donare se stessi,
rinunciando per sempre di raccogliere
i frutti del proprio lavoro.

Essere servo inutile, significa "farsi" per amore,
saper sorridere, sempre,
essere pazienti, sempre,
perdonare, sempre.

Quello che mi stai chiedendo,
Signore,
è duro da capire e da accettare...

A me piace,
essere tenuto in considerazione,
essere cercato,
essere lodato dagli altri...

Io non amo sentirmi inutile,
anzi, a dire il vero,
mi sento molto utile,
a volte necessario,
quasi indispensabile.

Hai mai pensato,
Signore,
cosa farebbero gli altri
senza di me?

E la parrocchia?
Chi canterebbe e suonerebbe la chitarra?
Chi farebbe il catechismo?
Chi leggerebbe in chiesa?
Chi...?!?
Altro che servo inutile!

Aiutami, Signore,
a non avanzare mai pretese dinanzi a te
e a non occupare mai il tuo posto.

Non lasciare che mi vanti delle mie opere
e mi dimentichi di te.

Ricordami che se ho ricevuto dei doni e possiedo delle qualità
è grazie al tuo amore infinito.

donocamminogratuitàdisponibilitàservo inutileumiltànascondimento

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inviato da Adolfo Rebecchini, inserito il 08/12/2009

TESTO

47. Beatitudini degli sposi   5

Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,3).
Beati voi coniugi, quando siete capaci di fare grandi rinunzie per amore dell'altro; beati voi, quando, consapevoli della vostra inadeguatezza di fronte ai problemi della vita, li deponete insieme ai piedi del Signore.

Beati gli afflitti, perché saranno consolati (Mt 5,4).
Beati voi, quando la prova vi trova uniti, quando la preghiera comune diventa lo strumento per affrontarla, quando vi lasciate illuminare dallo Spirito per gioire e crescere nella conoscenza del progetto di Dio su di voi. La sua consolazione sarà la vostra forza.

Beati i miti, perché erediteranno la terra (Mt 5,5).
Beati voi, quando non date sfogo alla vostra aggressività, quando abbandonate il linguaggio prepotente dell'offesa e della rivendicazione dei meriti, del giudizio o della spartizione fredda dei compiti e assumete le vesti della mitezza inerme e generosa, della tenerezza ospitale e gratuita, del dono disarmato di voi stessi.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati (Mt 5,6).
Beati voi, quando vi lasciate guidare dalla Parola di Dio per distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è, quando lo insegnate ai vostri figli, quando desiderate che a tutto il mondo arrivi il messaggio di speranza contenuto nel Vangelo. Beati voi, quando la vostra vita diventa testimonianza viva della Parola che salva.

Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia (Mt 5,7).
Beati voi, quando avrete imparato a perdonarvi, ad accettarvi nella vostra debolezza e fragilità, beati voi, quando della crisi fate un momento di crescita personale e comune, quando la vostra riconciliazione diventa pedagogia d'amore per i vostri figli.

Beati i puri di cuore perché vedranno Dio (Mt 5,8).
Beati voi sposi, quando sgombrate gli occhi e la mente dalle lusinghe del mondo e guardate a ciò che è essenziale, cercandolo nella Parola di Dio. Beati voi, quando la Parola diventa stile di vita, quando vi riconosceranno discepoli di Cristo, pur restando in silenzio.

Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio (Mt 5,9).
Beati voi, uniti nel Sacro Vincolo del Matrimonio, quando coltivate la pace nelle relazioni all'interno della vostra famiglia, beati voi quando, usciti fuori dell'appartamento, sentite insopprimibile il desiderio di creare ponti, di collegare cuori con l'infinita misericordia di Dio.

Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,10).
Beati voi, quando decidete di andare contro corrente e rimanete sordi alle logiche del mondo. Beati voi, quando mostrate la bellezza del progetto di Dio sulla famiglia e lo sostenete con la tenacia e la forza che solo il Signore può dare. Beati voi quando, attaccati da ogni parte, continuate a mostrare la gioia del mattino di Pasqua.

matrimoniosposicoppiafamigliabeatitudini

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inviato da Antonietta, inserito il 08/12/2009

ESPERIENZA

48. Consigli per avvicinarsi all'ammalato

Questo non vuole essere un prontuario o delle istruzioni all'uso, ma dei semplici consigli che ognuno deve interiorizzare e portare nel cuore. Per capire gli ammalati bisogna mettersi al loro posto: cosa molto difficile. Se però non ti sforzerai di farlo, sarà inutile tentare di comunicare con loro. Dire che Dio ama gli ammalati è una cosa molto graziosa e anche vera. Non è l'amore di Dio che devi portare al malato ma il tuo e per questo non bastano solo le parole. Dio non è una persona che va o che viene, lui è fedele e resta. Sarà percepito più o meno dalle condizioni in cui si trova l'ammalato e non solo quelle fisiche. Sforzarti di aiutare l'ammalato su un piano umano e in modo umano: Dio si manifesterà a suo tempo, i tempi di Dio non sono i tempi dell'uomo. Riempiti di Dio e poi va' dagli ammalati come se esistessero solo loro, così senza che per te sia uno scopo primario, sarai strumento dell'amore di Dio.

Ama gli ammalati, ma non farlo solo in riferimento a Dio: amali per se stessi, in se stessi. Coloro che si occupano degli ammalati soltanto per amor di Dio e con una certa freddezza professionale nei loro comportamenti, fanno pensare che gli ammalati siano per loro solo dei modi per proseguire la propria santificazione. Il miglior aiuto che puoi dare ad un ammalato è di aiutarli a ritrovare se stessi. Il tuo deve essere un rapporto d'amore su una base reale, non menzognera o fittizia: sarebbe come costruire sulla sabbia. Anche se il malato ha perso molto, gli rimane sempre qualche cosa, su questo qualche cosa si tratta di costruire con la fede e l'esperienza sorretta dall'amore. Il dolore affina la sensibilità e, se loro vedranno in te, la semplicità, la delicatezza dell'amore di Dio, ti racconteranno la loro storia. Non fare domande, non limitarti a sentire, ascolta con il cuore: sarai sempre tu a ricevere qualcosa. Forse ti sentirai impotente a rimuovere il peso che portano, ma nel loro cuore l'avrai alleggerito sicuramente. Il malato. l'handicappato, non vogliono pietismo. Non chiederti: cosa posso dire, ma sorridi, sii sempre ottimista, allegro, non esiste un ponte più sicuro di una bocca sorridente e anche nei momenti di dolore più acuto e di disperazione più profonda ci sarà uno spiraglio per lasciar passare la speranza e un solco per seminare la gioia. Può essere che il dolore unisca a Dio più che la gioia: limitati a suggerirlo, non con le parole, immagini o sentimenti, ma con il tuo esempio. Qualche volta sarà necessario venire incontro alle loro necessità materiali, far loro qualche dono. E Cristo che ha bisogno di te, vuole che tu doni te stesso come lui si è donato a noi e si dona a noi tutti i giorni senza chiedere nulla in cambio: solo Amore.

amoremalattiamalatoassistenzagratuitàamore di Diosolidarietà

inviato da Forner Fortunato Babbo Lupo, inserito il 06/12/2009

RACCONTO

49. Dove finirono l'oro, l'incenso e la mirra?   2

Bruno Ferrero, Storie di Natale

Anche se non lo davano a vedere, i più eccitati erano l'asino e il bue. Non riuscivano ad addormentarsi. Quella notte e quella giornata erano state meravigliosamente caotiche: la nascita del bambino, gli angeli, i pastori, la stella e poi l'arrivo dei tre re con i manti di stoffe ricamate e le pellicce e i loro strani quadrupedi con la gobba. E soprattutto il luccichio degli scrigni che racchiudevano i doni portati dai tre re. Li avevano ammirati tutti e ora stavano là, abbandonati sulla paglia, mentre la donna cullava dolcemente il bambino e l'uomo dalle mani grandi e forti attizzava il fuoco e porgeva un po' di fieno alle due bestie.

Tra le fessure sconnesse della baracca, altri due occhi fissavano eccitati i doni dei re. Erano occhi pieni di ingenua astuzia. Non avevano perso un solo attimo della giornata e ora osservavano con interesse il primo sbadiglio di stanchezza fiorito sulla bocca dell'uomo. Erano gli occhi di Disma, il più bravo dei ladruncoli di Betlemme, agile e svelto come un furetto.

Il bambino si addormentò per primo, poi la madre si assopì sul mucchio di paglia che l'uomo aveva preparato e rassettato. L'uomo aspettò che il fuoco si spegnesse, poi si abbandonò anche lui sulla paglia con un sospiro di stanchezza e si addormentò. L'asino e il bue lo imitarono. Un silenzio profondo avvolse la baracca.

Un fagotto tintinnante

Disma scivolò nell'ombra e si avvicinò alla porta. Era sbarrata da un robusto paletto. Non poteva scardinarla: avrebbe svegliato tutti. Esaminò le pareti, sfiorandole con la mano. Un' assicella si mosse. Disma intuì che poteva allargare la fessura quel tanto che bastava per permettergli di infilarsi dentro la vecchia stalla. Con consumata abilità, il ragazzo spostò l'asse cercando di non farlo cigolare e si infilò nel varco con le movenze sinuose di un gatto.

Si mosse leggero, cercando di abituare gli occhi all'oscurità. I tre scrigni erano sotto la culla improvvisata del bambino, illuminati dall'ultimo bagliore delle braci del fuoco.

Il bue sbuffò nel sonno e l'asino scalciò nella paglia. Sognavano anche loro. Disma trattenne il fiato, immobile. Nella stalla i respiri ripresero regolari.

Il ragazzo si mosse rapidamente. Afferrò i tre scrigni e li infilò nella bisaccia di tela che portava a tracolla. Diede un'occhiata al bambino e gli parve di vedere sul suo piccolo viso un sorriso, scosse le spalle e uscì dalla fessura che aveva aperto. Quando fu fuori della stalla, sorridendo rimise a posto l'assicella che aveva spostato per entrare, poi si allontanò di corsa. Faceva grandi balzi di gioia, tenendo con le due mani il fagotto tintinnante della refurtiva. Ripassava a memoria il contenuto e pensava eccitato alla bella somma che ne avrebbe ricavato. Il più grosso degli scrigni conteneva monili, bracciali e monete d'oro, il secondo era pieno di purissimo incenso e il terzo conteneva una fiala di preziosissima mirra. Un colpo di fortuna incredibile. Doveva solo essere prudente e nascondere tutto bene. Il mondo era pieno di ladri.

La sorpresa

Entrò in casa dal tetto, come faceva di solito. Non aveva né padre né madre e il vecchio parente che lo teneva in casa non si curava di lui.

Nella sua stanzetta, sotto il pavimento ricoperto di paglia, Disma aveva scavato una nicchia in cui nascondeva le sue cose preziose.

«Terrò nascosti per qualche mese l'oro, l'incenso e la mirra. Poi li venderò un poco alla volta, a Gerusalemme o anche a Damasco, dove non desterà sospetti...» pensava.

Accese una lampada ad olio finemente incisa che proveniva dall'atrio della casa del centurione romano, che la stava ancora cercando, ed esaminò il bottino. Aprì con cautela il primo scrigno e non riuscì a trattenere un'imprecazione stizzita: «Ma che diavolo è successo?». Spalancò con furia gli altri due astucci, guardò, annusò e poi imprecò ancora più rabbiosamente. Qualcuno gli aveva giocato uno scherzo terribile. Forse quell'uomo era molto più furbo di quanto desse a vedere. Invece dell'oro, lo scrigno conteneva un grosso martello, al posto dell'incenso c'erano tre grossi chiodi e la bottiglietta, invece della mirra raffinata, conteneva volgare aceto.

«Accidenti, accidenti! Che me ne faccio di questa robaccia? La rifilerò ai soldati romani per qualche moneta...».

Tre croci

Passarono gli anni. Disma era diventato il più ricco e sfrontato predone del deserto. I suoi uomini compivano razzie nelle più ricche città d'Oriente e l'esercito di Roma era stato costretto più volte a scendere a patti con lui. Ma un giorno, arrivò da Roma un governatore ambizioso di nome Ponzio Pilato che, per fare carriera e ingraziarsi i notabili di Gerusalemme, decise di catturare Disma. Ci riuscì con un tranello e Disma fu condannato alla pena più terribile ed infamante: la morte mediante crocifissione.

Erano in tre a salire sul Golgota, il luogo delle condanne, poco fuori Gerusalemme, dove erano state preparate tre croci. Disma conosceva il vecchio brigante legato con lui, ma non riusciva a spiegarsi il terzo condannato. Aveva il volto nobile e pieno di bontà, anche sotto i segni della tortura. Dicevano che era un profeta di Galilea di nome Gesù, che faceva miracoli, che era stato condannato perché si era proclamato Figlio di Dio e Messia.

Gli occhi gelidi e feroci di Disma si incontrarono con quelli del terzo condannato. Per il bandito tutto divenne stranamente diverso: la sua rabbia feroce svanì e si sentì stranamente in pace.

Il boia cominciò il suo miserabile compito con il profeta galileo: impugnò un grosso martello e tre grossi chiodi, mentre un soldato inzuppava una spugna di aceto. Improvvisamente Disma capì: eccoli i doni dei re che lui aveva rubato tanti anni prima in una stalla di Betlemme, dove c'erano un uomo e una madre e un bambino. Quel bambino era il Messia! Quindi anche lui aveva contribuito a crocifiggere il Figlio di Dio... Con le lacrime agli occhi, Disma sentì che Gesù diceva: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno».

Con la solita insensibilità, i soldati si misero a litigare per dividersi le vesti dei condannati. Quando le tre croci furono innalzate con il loro carico di dolore, la gente cominciò a farsi beffe dei condannati. Si accanivano particolarmente contro Gesù. I capi del popolo lo schernivano: «Ha salvato tanti altri, ora salvi se stesso, se egli è veramente il Messia scelto da Dio». Anche i soldati lo schernivano: si avvicinavano a Gesù, gli davano da bere aceto e gli dicevano: «Se tu sei davvero il re dei Giudei salva te stesso!».

L'altro bandito crocifisso si era unito agli schernitori e insultava Gesù: «Non sei tu il Messia? Salva te stesso e noi!». Disma lo rimproverò con asprezza: «Tu che stai subendo la stessa condanna non hai proprio nessun timore di Dio? Per noi due è giusto scontare il castigo per ciò che abbiamo fatto, lui invece non ha fatto nulla di male».

Poi aggiunse: «Gesù, ricordati di me quando sarai nel tuo regno».

Gli occhi del Messia torturato e morente guardarono Disma con bontà infinita, poi il feroce bandito udì le parole più belle e amorevoli di tutta la sua vita disperata: «Ti assicuro che oggi sarai con me in paradiso».

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4.0/5 (2 voti)

inviato da Patrizia Traverso, inserito il 24/11/2009

TESTO

50. La famiglia   1

Chiara Lubich

Natale è la festa della famiglia.

Ma dov'è nata la più straordinaria famiglia se non nella grotta di Betlemme? E' lì, con la nascita del Bambino, che essa ha avuto origine. E' lì che si è sprigionato per la prima volta nel cuore di Maria e di Giuseppe l'amore per un terzo membro: il Dio fatto bambino.

La famiglia: ecco una parola che contiene un immenso significato, ricco, profondo, sublime e semplice, soprattutto reale. La famiglia o c'è o non c'è.

Atmosfera di famiglia è atmosfera di comprensione, di distensione serena; atmosfera di sicurezza, di unità, di amore reciproco, di pace che prende i suoi membri in tutto il loro essere.

Vorrei che questo Natale incidesse a caratteri di fuoco nei nostri animi questa parola: famiglia.

Una famiglia i cui membri, partendo dalla visione soprannaturale, e cioè vedendo Gesù gli uni negli altri, arrivano fino alle espressioni più concrete e semplici, caratteristiche di una famiglia. Una famiglia i cui fratelli non hanno un cuore di pietra ma di carne, come Gesù, come Maria, come Giuseppe.

Vi sono fra essi coloro che soffrono per prove spirituali? Occorre comprenderli come e più di una madre. Illuminarli con la parola o con l'esempio. Non lasciar mancare, anzi accrescere attorno a loro il calore della famiglia.

Vi sono tra essi coloro che soffrono fisicamente? Siano i fratelli prediletti. Bisogna patire con loro. Cercare di comprendere fino in fondo i loro dolori.

Vi sono coloro che muoiono? Immaginate di essere al loro posto e fate quanto desiderereste fosse fatto a voi fino all'ultimo istante.

C'è qualcuno che gode per una conquista o per un qualsiasi motivo? Godete con lui, perché la sua consolazione non sia contristata e l'animo non si chiuda, ma la gioia sia di tutti.

C'è qualcuno che parte? Non lasciarlo andare senza avergli riempito il cuore di una sola eredità: il senso della famiglia, perché lo porti con sé.

E dove si va per portare l'Ideale di Cristo, nulla si potrà fare di meglio che cercare di creare con discrezione, con prudenza, ma con decisione, lo spirito di famiglia.

Esso è uno spirito umile, vuole il bene degli altri, non si gonfia....è la carità vera, completa.

Insomma, se io dovessi partire da voi, lascerei che Gesù in me vi ripetesse: "Amatevi a vicenda... affinché tutti siano uno".

famiglianataleGesùMariaGiuseppegenitorifiglicondivisionesanta famiglia

5.0/5 (1 voto)

inviato da Franco Canzian, inserito il 24/11/2009

TESTO

51. Caro Gesù bambino, non ti chiedo...

Liana Paciaroni

Caro Gesù bambino,
il nostro sacerdote mi ha chiesto una preghiera speciale per questo giorno speciale...
Ma io non so dove cominciare perché sia davvero degna di te.
Caro Gesù bambino,
non ti chiedo che ogni bimbo possa avere un bacio dalla sua mamma,
ma che ogni mamma con un bacio possa trasmettere ad ogni bimbo il grande amore che nutre per lui.
Non ti chiedo che le coppie in rottura possano riappacificarsi,
ma che ognuno possa amare i difetti del compagno arrivando a fare della felicità dell'altro lo scopo di una vita insieme.
Non ti chiedo che i bambini non siano più vittime di pedofilia e le donne non più vittime di violenza,
ma che il sesso esista solo come massina espressione dell'amore fra due sposi.
Non ti chiedo che i giovani di oggi non siano più sballati dall'alcool e dalla polvere bianca,
ma che possano scoprire i valori essenziali della vita,
aiutandosi con amore fraterno nella scuola, nel lavoro e nel divertimento.
Non ti chiedo che i paesi più poveri possano avere cibo per sopravviere ,
ma che l'amore generoso dei popoli ricchi li aiutino a crescere in una vita accettabile e dignitosa.
Non ti chiedo che finiscano le guerre e le lotte fra gli stati,
ma che tutti i popoli imparino ad accettarsi nelle loro differenze politiche e sociali e ad amarsi proprio perché diversi, ma tutti speciali.
Non ti chiedo che gli anziani, guardandosi indietro, vedano una vita di capitali e di successo,
ma che scoprano di aver tanto amato il prossimo.
Non ti chiedo un mondo perfetto e bellissimo,
ma che ognuno di noi sappia renderlo tale
amando lo splendore della natura che ci hai donato, il bagliore del sole che hai creato, lo sguardo di chi ci hai messo nella tortuosa strada della nostra esistenza.
Non ti chiedo di non essere attaccati ai beni materiali,
tu stesso ti sei fatto materia per noi,
ma che ogni uomo possa comprendere e attendere
qualcosa di più importante e prezioso oltre il materiale
perché la nostra vita non sia nauseante e vuota
ma abbia mille motivi per essere pienamente vissuta.
Caro Gesù bambino,
non so se la mia preghiera ti piace
ma io riesco a chiederti solo amore.
Quell'amore perfetto e totale che proprio tu ci hai insegnato
ma che per noi è tanto difficile da capire.
Quel sentimento così importante da essere il perno di ogni esistenza,
da essere quel battito in più che muove ogni cuore.
L'amore per l'uomo, per la società, per la comunità della Chiesa, per la comunità degli uomini, l'amore per il Signore nostro Dio, il Creatore e il Redentore.
Caro Gesù bambino,
ti prego,
perché il mondo possa finalmente cambiare
insegnaci ad amare.
Ma di un amore che sia solo tanta gioia di donare,
incuranti di ricevere.

preghieraamore

inviato da Liana Paciaroni, inserito il 21/11/2009

RACCONTO

52. Se Gesù bussasse alla porta di casa...   5

Mariangela Forabosco

C'era una volta un paese qualunque, in un posto qualunque, abitato da gente qualunque, che viveva una vita qualunque. Vi accadevano cose belle e cose brutte, come in tutti i paesi qualunque; era un paese dove la vita scorreva apparentemente tranquilla, presa dalle cose di tutti i giorni.
La gente di quel paese qualunque, però, non era poi tanto "qualunque"; infatti era l'erede nientemeno che di un Regno, annunciato tanti secoli prima da un grande Re, il cui nome era Gesù Cristo, sceso dal suo Regno celeste per insegnare agli uomini il modo per entrarci e diventare, così, suoi coeredi. Egli, nel suo soggiorno terrestre, con i suoi discorsi ed il suo comportamento, aveva stravolto le idee umane di Regno, riferite per lo più alla potenza, alla forza, al dominio, spesso al terrore e alla dominazione; aveva invece parlato di pace, amore, fratellanza, uguaglianza, tolleranza, carità. Per aver parlato di ciò, fu crocifisso dagli uomini e furono perseguitati pure i suoi apostoli e i suoi seguaci, chiamati Cristiani. L'annuncio del suo Regno, però, non si interruppe mai, continuò fino ai giorni nostri, giungendo anche in quel paese qualunque, in cui viveva un apostolo qualunque, responsabile della continuazione dell'annuncio e della vita evangelica dei cristiani.

Da tempo, il pastore di quella comunità si era accorto che qualcosa non andava per il suo verso. I Cristiani che frequentavano la chiesa non erano molti, i bambini addirittura pochissimi, le cose di questo mondo stavano prendendo il posto dell'aspettativa del Regno, anche se, a onor del vero, la gente era buona, faceva i fatti suoi, non faceva parlare di sé. Quel pastore, invece, voleva qualcosa di più: voleva realizzare il Regno già quaggiù, facendo sì che nel suo paese qualunque, con la sua gente qualunque, con un apostolo qualunque si compisse quanto il Re Gesù Cristo aveva chiesto agli uomini per avere la sua eredità eterna:"amatevi l'un l'altro come io ho amato voi!"
Un giorno, nel corso di una funzione religiosa, il pastore iniziò il suo sermone così: "Cari fratelli, care sorelle, questa notte ho avuto una visione...".
Un bisbiglio serpeggiò tra i fedeli. "Ha avuto una visione! Che sarà mai?".
"Una visione bellissima", continuò l'apostolo, "ho visto Gesù in tutto il suo splendore!".
"Ha visto Gesù....ma, sarà vero?". "Il nostro apostolo ha visto Gesù!!!". Il brusio tra i fedeli era ormai incontrollabile, mentre tutti tenevano gli occhi incollati al volto dell'Uomo di Dio, in attesa del seguito del suo discorso.
"E' vero, pare impossibile anche a me, umile apostolo, che Gesù si sia degnato di apparirmi, ma è proprio così: Gesù è venuto da me e mi ha lasciato un messaggio per noi tutti, me compreso".
"Un messaggio, anche per noi? E che sarà mai"? si chiedeva la gente, ormai in preda ad una grande curiosità, mista ad un po' di ansia.
"Gesù mi ha detto che la prossima settimana visiterà tutte le case del nostro paese, compresa la mia naturalmente, senza preavviso, e si nasconderà nelle spoglie delle persone, di qualunque persona, può essere la nonna, il figlio, il marito, la moglie, un forestiero, insomma, può essere proprio qualunque sta intorno a noi, capito? Adesso andatevene, raccontate quanto vi ho detto anche a chi non viene in chiesa e sappiate comportarvi di conseguenza. Ricordatevi che Gesù guarda soprattutto se mettete in pratica il suo insegnamento:"Ama gli altri come te stesso".

Potete immaginare il chiacchiericcio e l'emozione della gente all'uscita dalla chiesa. La voce dell'arrivo di Gesù si sparse in un battibaleno in tutto il paese, ne varcò i confini e arrivò in città, e subito reporter dei più famosi giornali e delle stazioni televisive invasero il paese qualunque, insediandosi nei pochi hotel disponibili ed assediandolo con camper, antenne e quant'altro.
Venne il lunedì, e ogni persona del paese passò la giornata a guardarsi intorno, a fissare gli altri con occhi terribilmente fissi, quasi per scorgere, sotto le loro sembianze, la parvenza della presenza di Gesù. Fu una giornata di nervosismo, di scatti repentini, di risposte poco gentili, insomma, fu una giornata poco... "caritatevole". Durante la notte, però, le persone, in un dormiveglia ansioso, ebbero modo di riflettere sul loro comportamento e capirono che non avevano messo per niente in pratica l'insegnamento di Gesù. "Se per caso era in una delle persone che ho incontrato oggi, mamma mia, che figura ho fatto!!!! Domani starò più attento".
Intanto, i giornalisti, la sera del lunedì fecero sapere a mezzo mondo che la venuta di Gesù tra la gente del paese qualunque aveva fatto schizzare i nervi a tutti e le cose erano peggiorate rispetto a prima, ne sapeva qualcosa uno di loro, che era addirittura stato malmenato per aver calpestato le aiuole di un bel giardino, mentre tentava di riprendere una lite famigliare dietro una finestra.

Venne il martedì e il detto "la notte porta consiglio" fu quanto mai veritiero.
La signora Maria, uscita per fare la spesa di buon mattino, incrociò la signora Bice. Come sempre, le venne istintivo di tirare dritto voltando la faccia dall'altra parte (aveva sparlato di lei con la sua amica più cara, quella strega!), ma le balenò il pensiero: "E se è Gesù? Non posso non salutarlo!", e per la prima volta, dopo dieci mesi, le disse, se pur tra i denti: "Buona giornata, Bice!".
La Bice, che era ben peperina, stava per non rispondere al saluto, ma pensò: "E se è Gesù?". Mai avrebbe rinunciato a salutare Gesù, per cui disse sorridendo: "Cara Maria, buona giornata anche a te!!!". E sentirono tutte e due un gran peso che se ne andava e una gran gioia che le rallegrava.
L'infermiera Tina, raggiunto il suo reparto, ne trovò di tutti i colori: si innervosì, rispose alla caposala, stava per adirarsi con un malato difficile quando un pensiero le balenò improvviso: "E se Gesù si fosse nascosto in qualcuna di queste persone? Ma guarda, non ci avevo pensato!". Immediatamente cambiò il proprio atteggiamento, diventò gentile ed affabile con tutti e, di conseguenza, tutti diventarono gentili con lei.
"Mamma, guarda che disegno ho fatto!". "Piantala, che devo vedere la puntata di Demiful...!", rispose secca la donna. Pian piano, però, affiorò nella sua mente un dubbio: "E se Gesù si è nascosto in mio figlio"?. Immediatamente, spense la televisione, rinunciando per la prima volta alla sua telenovela preferita, e chiamò il figlio.
Di giorno in giorno, nel paese qualunque, tra quella gente qualunque, si diffuse in modo dirompente la consapevolezza che il Cristo Re poteva nascondersi nelle spoglie di qualunque persona, chiunque poteva essere Gesù e, di conseguenza, il comportamento di ognuno cambiò: le parole gentili sostituirono gli improperi, ogni persona fu guardata con occhi nuovi, con amore, con più rispetto, i mariti ebbero più riguardo per le mogli, le mogli si sforzarono di capire più profondamente i mariti, i genitori dedicarono più tempo ai figli, gli anziani furono apprezzati per la loro esperienza, i malati furono accuditi con amore e gentilezza, i forestieri furono accolti con disponibilità.
I giornalisti, come sempre pronti a cogliere le minime manifestazioni che facessero notizia, constatarono un crescendo di atteggiamenti positivi: l'armonia si poteva toccare con mano, gli sforzi per migliorare i rapporti con gli altri erano palpabili, insomma, sembrava un paese nuovo, Regno di pace, d'amore, il Regno in terra del Re Gesù Cristo. La notizia positiva si diffuse in mezzo mondo e ogni paese cercò di copiare la ricetta dell'Amore, con la consapevolezza, finalmente, che Gesù è in ogni uomo ed applicando quanto Egli ci disse: "Ciò che avrete fatto al più piccolo dei miei fratelli lo avrete fatto a me".

Ed è così che il pastore qualunque della gente qualunque del paese qualunque riuscì a realizzare sulla terra il Regno di Dio, obbedendo alla richiesta che recitiamo sempre nel Padre Nostro: "Venga il tuo regno!".
E nascendo la PACE in ogni cuore, nacque la pace in tutta la terra!

regno di DiopaceamorefratellanzaGesùCristo Recarità

3.0/5 (1 voto)

inviato da Mariangela Forabosco, inserito il 13/09/2009

TESTO

53. Le beatitudini oggi   1

Tonino Bello, Alle porte del regno

Ce l'hanno spiegata con mille sfumature, e vien quasi da pensare che ogni biblista abbia un suo modo di leggere questa pagina delle beatitudini: l'unica che vorremmo salvare, se di tutti i libri della terra si dovesse sottrarre all'incendio solo il Vangelo e di tutto il Vangelo si dovesse preservare dalle fiamme soltanto una sequenza di venti righe.

Si intuisce subito che queste parole pronunciate da Gesù nascondono promesse ultraterrene.

Alludono a quegli appagamenti di gioia completa che andiamo inseguendo da tutta una vita, senza essere riusciti mai ad afferrare per intero. Fanno riferimento a quel senso di benessere pieno di gioia totalizzante che esiste solo nei nostri sogni. Traducono, come nessun altro frasario umano, le nostre nostalgie di futuro, e ci proiettano verso quei cieli nuovi e terre nuove in cui la settimana si accorcia a tal punto da conoscere solo il sabato eterno.

Imprigionano il "non ancora" - sempre abbozzato e mai esploso pienamente - di quel "risus paschalis" che ora sperimentiamo solo nella smorfia delle nostre troppo rapide convulsioni di letizia per cedere subito il posto all'amarezza del pianto.

Non ci vuol molto a capire, insomma, che sotto queste sentenze veloci del discorso della montagna c'è qualcosa di grande. E che, di quel misterioso "regno dei cieli", la cosa più ovvia che si possa dire è che rappresenta il vertice della felicità. Sì, Gesù vuol dare una risposta all'istanza primordiale che ci assedia l'anima da sempre. Noi siamo fatti per essere felici. La gioia è la nostra vocazione. E' l'unico progetto, dai nettissimi contorni, che Dio ha disegnato per l'uomo. Una gioia raggiungibile, vera, non frutto di fabulazioni fantastiche, e neppure proiezione utopica del nostro decadentismo spirituale.

Beati: provocazione all'impegno

Che cosa significhi il termine "beati" è difficile spiegarlo.

C'è chi ha voluto specularci sopra, capovolgendo addirittura il senso delle parole del Signore per utilizzarle a scopi di imbonimento sociale. Quasi Gesù avesse inteso dire: state buoni, poveri, perché la misura della vostra felicità futura sarà inversamente proporzionale alla misura della vostra felicità presente. Anzi, quante più sofferenze potete collezionare in questa vita, tanto più vi garantite il successo nell'altra.

E' questo un modo blasfemo di leggere le beatitudini, perché spinge i poveri all'inerzia, narcotizza i diseredati della terra con le lusinghe dei beni del cielo, contribuisce a mantenere in vigore un ordine sociale ingiusto e, in un certo senso, legittima la violenza di chi provoca il pianto degli oppressi dal momento che a costoro, proprio per mezzo delle lacrime, viene offerto il prezzo per potersi pagare, in contanti, il regno di Dio. C'è invece, chi ha visto nella formulazione delle beatitudini un incoraggiamento rivolto ai poveri, agli afflitti, agli umili, ai piangenti, ai perseguitati... per sostenerli con la speranza dei beni del cielo. Quasi Gesù avesse inteso dire: se a un certo punto vi sentite sfiniti per le ingiustizie che patite, tirate avanti lo stesso e consolatevi con le promesse della felicità futura. Guardate a quel che vi toccherà un giorno, e questo miraggio di beatitudine vi spronerà a camminare, così come il desiderio del riposo accelera e sostiene i passi di chi, stanchissimo, sta tornando verso casa.

Anche questo è un modo stravolto di leggere le beatitudini. Meno delittuoso del primo, ma pur sempre alienante e banale. Perché punta sull'idea della compensazione. Perché con la lusinga della meta, non spinge la gente a mutare le condizioni della strada. Perché se non proprio a rassegnarsi, induce a relativizzare la lotta, ad arrendersi senza troppa resistenza, a vedere i segni della ineluttabilità perfino dove sono evidenti le prove della cattiveria umana e a leggere i soprusi dell'uomo come causa di forza maggiore.

E c'è finalmente, il modo legittimo di leggere le beatitudini. Che consiste, essenzialmente, nel felicitarsi con i senzatetto e i senza pane, come per dire: complimenti, c'è una buona notizia! Se tutti si son dimenticati di voi, Dio ha scritto il vostro nome sulla palma della sua mano, tant'è che i primi assegnatari delle case del regno siete voi che dormite sui marciapiedi, e i primi a cui verrà distribuito il pane caldo di forno siete voi che ora avete fame.

Felicitazioni a voi che, a causa della vostra mitezza, vi vedete sistematicamente scavalcati dai più forti o dai più furbi: il Signore non solo non vi scavalca nelle sue graduatorie ma vi assicura i primi posti nella classifica generale dei meriti.

Auguri a tutti voi che state sperimentando l'amarezza del pianto e la solitudine dei giorni neri: c'è qualcuno che non rimane insensibile al gemito nascosto degli afflitti, prende le vostre difese, parteggia decisamente per voi, e addirittura si costituisce parte lesa ogni volta che siete perseguitati a causa della giustizia.

Rallegratevi voi che, in un mondo sporco di doppi sensi e sovraccarico di ambiguità camminate con cuore incontaminato, seguendo una logica che appare spesso in ribasso nella borsa valori della vita terrena ma che sarà un giorno la logica vincente.

Su con la vita voi che, sfidando le logiche della prudenza carnale, vi battete con vigore per dare alla pace un domicilio stabile anche sulla terra: non lasciatevi scoraggiare dal sorriso dei benpensanti, perché Dio stesso avalla la vostra testardaggine.

Gioia a voi che prendete batoste da tutte le parti a causa della giustizia: le vostre cicatrici splenderanno un giorno come le stimmate del Risorto!

Perché di essi sarà...

Il significato preciso della parola "beati", comunque, lasciamolo spiegare agli studiosi. Così pure lasciamo agli studiosi la fatica di spiegarci il significato dei destinatari delle beatitudini.

Se i miti, i misericordiosi, i puri di cuore, gli oppressi, gli operatori di pace... siano categorie distinte di persone o variabili dell'unica categoria dei "poveri", ci interessa fino a un certo punto.

E neppure ci interessa molto sapere se i poveri "in spirito" siano una sottospecie aristocratica di miserabili o coincidano con quei poveri banalissimi che ci troviamo ogni giorno tra i piedi.
Tre cose, comunque, ci sembra di poter dire con sicurezza.

Anzitutto, che il discorso delle beatitudini ha a che fare col discorso della felicità. Non solo perché sembra quasi che ci presenti le uniche porte attraverso le quali è possibile accedere nello stadio del regno.

Sicché chi vuole entrare nella "gioia" per realizzare l'anelito più profondo che ha sepolto nel cuore, deve necessariamente passare per una di quelle nove porte: non ci sono altri ingressi consentiti nella dimora della felicità Ma anche perché la croce, la sofferenza umana, la sconfitta... vengono presentate come partecipazione all'esperienza pasquale di Cristo che, attraverso la morte, è entrato nella gloria.

E allora; se il primo titolare delle beatitudini è lui, se è il Cristo l'archetipo sul quale si modellano tutti i suoi seguaci, è chiaro che il dolore dei discepoli, come quello del maestro, è già contagiato di gaudio, il limite racchiude in germe i sapori della pienezza, e la morte profuma di risurrezione!

La seconda cosa che ci sembra di poter affermare è che, in fondo, queste porte, pur differenti per forma, sono strutturate sul medesimo telaio architettonico, che è il telaio della povertà biblica. A coloro che fanno affidamento nel Signore, e investono sulla sua volontà tutte le "chances" della loro realizzazione umana, viene garantita la felicità da una cerniera espressiva che non lascia dubbi interpretativi: "...perché di essi sarà..."

Quel "...perché di essi sarà..." rappresenta il titolo giuridico di possesso incontestabile, che garantisce tutti i poveri nel diritto nativo di avere non solo la "legittima" ma l'intero asse patrimoniale del regno. E' un passaggio indicatore di una disposizione testamentaria così chiara che nessuno può avere il coraggio di impugnare. E', insomma, il timbro a secco che autentica in modo indiscutibile il contenuto di uno straordinario rogito notarile.

La terza cosa che possiamo dire è che, se vogliamo avere parte all'eredità del regno, o dobbiamo diventare poveri, o, almeno, i poveri dobbiamo tenerceli buoni, perché un giorno si ricordino di noi.

Insomma, o ci meritiamo l'appellativo di "beati" facendoci poveri, o ci conquistiamo sul campo quello di "benedetti", amando e servendo i poveri.

Ce lo suggerisce il capitolo venticinque di Matteo, con quel "Venite, benedetti dal Padre mio: ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo".

E' la scena del giudizio finale, pilastro simmetrico a quello delle beatitudini, che sorregge quell'arcata di impegno che ha la chiave di volta nell'opzione dei poveri.

Beati o benedetti

Veniamo a sapere, dunque, che, come titolo valido per l'usufrutto del regno, esiste un'alternativa al titolo di "povertà": quello della "solidarietà" con i poveri. Diventare, cioè, così solidali con loro da esserne il prolungamento. Fare tutt'uno con loro, così da esserne considerati quasi la protesi.

Se si vuole entrare nel regno della felicità perciò occorre vistare il passaporto o col titolo di "beati" o col titolo di "benedetti".

E' splendida l'esortazione che al termine della messa nuziale viene pronunciata sugli sposi: "Sappiate riconoscere Dio nei poveri e nei sofferenti, perché essi vi accolgano un giorno nella casa del Padre".
"Beati... perché di essi sarà...".
"Venite, benedetti, nel regno preparato per voi..."

Non potrà mai dimenticare lo stupore di Mons. Gasparini, vescovo missionario nel Sidamo, quando un giorno, indicandomi un gruppo di bambini etiopi, dagli occhi sgranati per fame, dalle gambe filiformi, devastati dalle mosche sul corpo scheletrito, mi disse quasi sottovoce: "Vedi: che questi bambini siano figli di Dio non mi sorprende più di tanto. E neppure che siano fratelli di Gesù Cristo. Ma ciò che mi sconcerta e mi esalta è che questi poveri siano eredi del paradiso! Sembra un assurdo. Ma è proprio per annunciare quest'assurdo, che sono felice di aver speso tutta la mia vita in mezzo a questa gente". "Beati... perché di essi..."
"Venite, benedetti, nel regno preparato per voi...".

Il Signore ci conceda che, nel mazzo delle carte d'identità racchiuse da quei due pronomi personali, un giorno, col visto d'ingresso, poco importa se con la sigla "beati" o con la sigla "benedetti", egli possa trovare anche la nostra.
E ci riconosca. Alle porte del regno.

beatitudiniregno di Diobeatipovertàsolidarietà

inviato da Qumran2, inserito il 06/08/2009

PREGHIERA

54. Santa Maria donna del riposo   1

Tonino Bello, Maria donna dei nostri giorni

Santa Maria, donna del riposo, accorcia le nostre notti quando non riusciamo a dormire. Come è dura la notte senza sonno! È una pista senza luce, su cui atterrano tenebrosi convogli di ricordi, e da cui decollano stormi di incubi che stringono il cuore.

Mettiti accanto a noi quando, nonostante i sedativi, non ce la facciamo a chiudere occhio, e il letto più morbido diventa una tortura, e dalla strada i latrati del cane sembrano dar voce ai gemiti dell'universo, e dalla torre dell'orologio i rintocchi scendono sull'anima come colpi di maglio, e i secondi scanditi dal pendolo del corridoio non si sa bene se vogliano farti compagnia, o ricordarti l'inarrestabile corsa del tempo, o dilatare il supplizio delle ore che non passano mai.

Sorveglia il riposo di chi vive solo. Allunga nei vecchi i sipari del sonno, corti e leggeri come veli di melagrana. Tonifica il dormiveglia di chi sta in ospedale sotto un pianto di flebo. Rasserena l'inquietudine notturna di chi si rigira nel letto sotto un pianto di rimorsi. Acquieta l'ansia di chi non riposa perché teme il sopraggiungere del giorno. Rimbocca gli stracci di chi dorme sotto i ponti. E riscalda i cartoni con cui la notte i miserabili si riparano dal freddo dei marciapiedi.

Santa Maria, donna del riposo, vogliamo pregarti per coloro che annunciano il Vangelo. Qualche volta li vediamo stanchi e sfiduciati, e sembrano dire come san Pietro: «Abbiamo faticato tutta la notte, ma non abbiamo preso nulla». Ebbene, fermali quando la generosità pastorale li porta a trascurare la loro stessa persona. Richiamali al dovere del riposo. Allontanali dalla frenesia dell'azione. Aiutali a dormire tranquilli. Non indurli nella tentazione di ridurre le quote minime di sonno, neppure per la causa del Regno. Perché lo stress apostolico non è un incenso gradito al cospetto di Dio.

Pertanto, quando nel breviario recitano il Salmo 126, mettiti a cantarlo con loro, e calca la voce sui versetti in cui si dice che è inutile alzarsi di buon mattino o andare tardi a riposare la sera, perché «ai suoi amici il Signore dà il pane nel sonno». Capiranno bene, allora, che tu non li esorti al disimpegno, ma a rimettere tutto nelle mani di colui che dà fecondità al lavoro degli uomini.

Santa Maria, donna del riposo, donaci il gusto della domenica. Facci riscoprire la gioia antica di fermarci sul sagrato della chiesa, e conversare con gli amici senza guardare l'orologio. Frena le nostre sfibranti tabelle di marcia. Tienici lontani dall'agitazione di chi è in lotta perenne col tempo. Liberaci dall'affanno delle cose. Persuadici che fermarsi sotto la tenda, per ripensare la rotta, vale molto di più che coprire logoranti percorsi senza traguardo. Ma, soprattutto, facci capire che se il segreto del riposo fisico sta nelle pause settimanali o nelle ferie annuali che ci concediamo, il segreto della pace interiore sta nel saper perdere tempo con Dio. Lui ne perde tanto con noi. E anche tu ne perdi tanto.

Perciò, anche se facciamo tardi, attendici sempre la sera, sull'uscio di casa, al termine del nostro andare dissennato. E se non troviamo altri guanciali per poggiare il capo, offrici la tua spalla su cui placare la nostra stanchezza, e dormire finalmente tranquilli.

ripososolitudineammalatisofferenzaannuncioevangelizzatorievangelizzazioneconsacratireligiosiparrocidomenicafare la propria parte

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inviato da Qumran2, inserito il 24/07/2009

ESPERIENZA

55. Nonostante tutto ci credo

Ilenia Greco

Mia madre è morta il 6 aprile di quest'anno e sinceramente con lei ha cessato di vivere anche parte di me! Il vuoto immenso che si era incarnato nel mio corpo, nella mia mente e soprattutto all'interno del mio cuore, era tanto grande da togliermi ogni emozione, ogni sensazione bella e brutta... perché per me lei era tutto ciò che apparentemente mi rendeva felice.

Era giovane, bella, di umore per lo più allegro, ma non aveva dentro di sè la luce, la sintonia col suo prossimo, lo spirito feroce che deve avere una giovane donna: non conosceva bene Dio!

Quando se n'è andata da questa terra mia madre ha smesso di soffrire, di rincorrere qualche cosa che la tormentava, si, una pace che in lei non era mai esistita: la pace e l'armonia che io trovo nella mia fede in Cristo!

L'ho conosciuto proprio quel giorno, il 6 aprile del 1999, o meglio, lo conoscevo già ma non mi rendevo conto che era solo per sentito dire, che non ero mai stata veramente in grado di accettarlo dentro di me con tutta la sua importanza, la sua bontà e tutta la sua fiducia che, ora, solo grazie a lui, mi aiutano a vivere.

Quando ho fatto i conti con la realtà e ho capito che la mamma non era più presente in questo mondo, ho provato a chiedermi perché proprio io dovevo soffrire così, sentirmi straziata dal dolore per un'altra simile mancanza, visto che il papà l'avevo già perso... ma ho capito che il perché non c'era, perché in realtà la sofferenza non doveva esistere, ed è impossibile, come sappiamo tutti, trovare una risposta a qualche cosa che non c'è.

Giuro che non mi sono mai sentita sola nemmeno per un attimo, anzi, mi sono sentita profondamente capita, stretta fra le braccia del Signore, e ho capito lì, in quel momento, in quell'ospedale che mia madre era malata ed aveva ormai spento la fiammella della sua anima e la sua sofferenza senza Dio era tanto più grande della mia senza di lei.

Dio l'ha capita e l'ha chiamata a sè, rendendo me certa e più fiduciosa che mai della sua presenza, del suo grande amore...

Per le mie convinzioni mi sono sentita dare dell'esaurita, della pazzerella, della superficiale, ma io non sento queste parole perché sono dettate da menti e cuori che parlano così perché non hanno conosciuto Dio... altrimenti capirebbero che io non sono inconsapevole di quel che mi è successo, anzi ancora a volte piango per la mancanza della mamma; ma ho capito, riesco a darmi una ragione, a vivere ancora perché mi sento protetta e perché mi è stato concesso il dono della vita che è una cosa grandissima, infinita, inspiegabile.

Vorrei che tante altre persone la pensassero come me, vorrei che abbandonassero il Dio denaro, il Dio successo, il Dio spreco e si affidassero al Dio molto più semplice, umile ed indubbiamente molto più ricco di qualsiasi altra invenzione umana.

Le persone che si ritengono felici e atee, sono le persone che mi fanno più pena, perché non riescono a guardare oltre loro stesse!

Chi non crede, non professa alcuna opera che il Nostro Signore ci insegna, vive per se stesso e se fa qualcosa per il prossimo con consapevolezza eccessiva, lo fa con lo scopo anche a volte implicito di sentirsi gratificato dagli altri. Chi agisce spinto dalla fede vede come unico scopo il bene altrui, l'atto buono destinato ad aiutare un figlio di Dio come lui. Sì, figlio di Dio.

Questa espressione è stupenda, perché lega tutti gli uomini del mondo sotto uno stesso Cielo, nel cuore grande di uno stesso Padre e tu sai che chiunque incontri lungo il tuo cammino è figlio del tuo unico Padre e puoi solo sperare che come te se ne renda conto e non si senta abbandonato e ferito.

Scrivendo queste righe cresce in me il bisogno di trasmettere la mia gioia, il mio messaggio pulito a chiunque legga... provo il desiderio e forse anche la presunzione di far capire che si può trovare Dio in qualunque momento e in qualsiasi luogo.

L'uomo non può vivere solo per se stesso, non può vivere giorno per giorno con la concezione che con la fine di questa vita ci sarà la fine di tutto; perché se grande è questo nostro mondo terreno, ancora più grande è il "Regno dei Cieli".

Sarebbe stupido vivere questi quattro giorni consapevoli che poi non ci sarà più nulla, perché io personalmente sentirei di avere vissuto per nulla, di essere nata per caso, e mi sentirei inutile se la mia anima morisse con il mio corpo, poiché di me tutto scomparirebbe.

Trovare Dio significa anche andare verso l'eternità, l'immensità, la profondità... e ognuno di noi può farlo, in qualunque momento, anche fuori dalla Chiesa, perché non è solo lì che si vive il Signore. In Chiesa si riuniscono i fedeli la domenica e durante tutte le principali festività, ma quanti dei presenti, durante la Messa, si mettono realmente davanti a Dio? Quanti sentono fra quei muri freddi il calore dell'amore del Padre?

Io ho iniziato a farlo, la domenica seguo la Messa perché sento il bisogno di conoscere, di venire a contatto in modo particolare con gli insegnamenti e i dettami di Gesù, di tutti coloro che prima di me gli hanno voluto bene...

Fra il profumo dell'incenso e di cera, immersa nelle note dei canti che io stessa intono, trovo uno strano modo di star bene con me stessa e con gli altri, mi sento pulita, svuotata dal peso che a volte la vita ci carica in spalla; sento tutti quanti vicini, uniti per uno stesso scopo: imparare Dio.

Questo è un compito della Chiesa, del Giubileo del 2000: far sentire le persone tutte uguali, sotto uno stesso Padre, accettando comunque le indiscutibili differenze fra uno e l'altro.

speranzaaccoglienzafiducia in Dio

inviato da Romina Bernardinis, inserito il 19/07/2009

ESPERIENZA

56. Il sacerdote è il giovane di Dio

Enrico Medi

Sacerdoti, io non sono prete e non sono stato mai degno di poterlo diventare. Come fate a vivere dopo aver celebrato la Messa?

Ogni giorno avete il Figlio di Dio nelle vostre mani! Ogni giorno avete una potenza che Michele Arcangelo non ha. Con la vostra bocca voi trasformate la sostanza del pane in quella del Corpo di Cristo; voi obbligate il Figlio di Dio a scendere sull'altare. Siete grandi, siete creature immense, le più potenti che possano esistere!!!

Sacerdoti, ve ne scongiuriamo, siate santi. Se siete santi voi, noi saremo salvi, se non siete santi voi, noi saremo perduti. Sì, noi vogliamo il sacerdote santo, il sacerdote saggio, il sacerdote semplice, il sacerdote crocifisso ogni giorno per amore delle anime e per l'ardore dei cuori.

Tu sei la nostra fede, tu sei la nostra luce e guai se la fiaccola si spegne o se il sale della terra perde il suo sapore. Perché il sacerdote è il giovane di Dio, è l'astronauta di Dio.

Ricordati, o servo del Signore, che tu non sei un uomo come gli altri. Il giorno in cui lo Spirito Santo ha inciso sopra di te un carattere eterno, hai cessato di essere un uomo comune! Come quando Amstrong o Collins o White entrano nella capsula e il Saturno 5 li lancia verso la luna, non sono più uomini come gli altri, a loro non è lecito perdere un milionesimo di secondo, sbagliare una manovra, tornare indietro, stancarsi o arrabbiarsi: sono uomini del Cielo.

E tu, o sacerdote di Dio che devi portare il satellite della salvezza, non sulla luna, ma travalicando gli infiniti spazi fin nel cuore del Creatore, pensa alle tue immense e infinite responsabilità.

Se tu, o sacerdote, sei santo, sei grande, sei umile, sacrificato, moribondo di giorno in giorno, consumato dall'amore del Divino Spirito e dall'incanto di Maria, la giovinezza sarà salva, avremo vocazioni, avremo amore di sacrificio e il mondo troverà la strada della luce.

A voi che siete gli atleti di Dio, i difensori di Dio, gli appassionati di Dio, di Colui che è il dolce Padrone dell'essere e il Fremito di tutte le cose, di Colui che non dimentica il volo di una rondine, la lacrima di un uomo, il sorriso di un bimbo, il palpito d'amore di un cuore, a voi è riservato il compito sublime e stupendo di annunciarlo con forza e coraggio perché lui, che è tutto e solo Amore, ha bisogno di voi, ministri prediletti, per donare la sua infinita gioia a tutti e in tutti rinascere ogni giorno, grazie al vostro sì.

sacerdotepreteserviziosantità

5.0/5 (1 voto)

inviato da Cosimo Di Lella, inserito il 19/07/2009

TESTO

57. Il Dio in cui non credo   1

Arias Juan

Sì, io non crederò mai in:
Il Dio che «sorprenda» l'uomo in un peccato di debolezza.
Il Dio che condanni la materia.
Il Dio incapace di dare una risposta ai problemi gravi di un uomo sincero e onesto che dice piangendo: «non posso».
Il Dio che ami il dolore.
Il Dio che metta la luce rossa alle gioie umane. Il Dio che sterilizza la ragione dell'uomo.
Il Dio che benedica i nuovi Caini dell'umanità.
Il Dio mago e stregone.
Il Dio che si faccia temere.
Il Dio che non si lasci dare del tu.
Il Dio nonno di cui si possa abusare.
Il Dio che si faccia monopolio di una Chiesa, di una razza, di una cultura, di una casta.
Il Dio che non abbia bisogno dell'uomo.
Il Dio lotteria con cui si vinca solo a sorte.
Il Dio arbitro che giudichi sempre col regolamento alla mano.
Il Dio solitario.
Il Dio incapace di sorridere di fronte a molte monellerie degli uomini.
Il Dio che «giochi» a condannare.
Il Dio che «mandi» all'inferno.
Il Dio che non sappia aspettare.
Il Dio che esiga sempre dieci agli esami.
Il Dio capace di essere spiegato da una filosofia.
Il Dio che adorano quelli che sono capaci di condannare un uomo.
Il Dio incapace di amare quello che molti disprezzano.
Il Dio incapace di perdonare tante cose che gli uomini condannano.
Il Dio incapace di redimere la miseria.
Il Dio incapace di capire che i «bambini» debbono insudiciarsi e sono smemorati.
Il Dio che impedisca all'uomo di crescere, di conquistare, di trasformarsi, di superarsi fino a farsi «quasi un Dio».
Il Dio che esiga dall'uomo, perché creda, di rinunciare a essere uomo.
Il Dio che non accetti una sedia nelle nostre feste umane.
Il Dio che è capito soltanto dai maturi, i sapienti, i sistemati.
Il Dio che non è temuto dai ricchi alla cui porta sta la fame e la miseria.
Il Dio capace di essere accettato e compreso dagli egoisti.
Il Dio onorato da quelli che vanno a messa e continuano a rubare e a calunniare.
Il Dio asettico, elaborato in un gabinetto scientifico da tanti teologi e canonisti.
Il Dio che non sappia scoprire qualcosa della sua bontà, della sua essenza là dove vibra un amore per quanto sbagliato.
Il Dio a cui piaccia la beneficenza di chi non pratica la giustizia.
Il Dio per cui è il medesimo peccato compiacersi alla vista di due belle gambe, distrarsi nelle preghiere, calunniare il prossimo, frodare del salario gli operai o abusare del potere.
Il Dio che condanni la sessualità.
Il Dio del «me la pagherai».
Il Dio che si penta, qualche volta di aver regalato la libertà all'uomo.
Il Dio che preferisca l'ingiustizia al disordine.
Il Dio che si accontenti che l'uomo si metta in ginocchio anche se non lavora,
il Dio muto e insensibile nella storia di fronte ai problemi angosciosi della umanità che soffre.
Il Dio a cui interessino le anime e non gli uomini.
Il Dio morfina per il rinnovamento della terra e speranza soltanto per la vita futura.
Il Dio che crei discepoli che disertano i compiti del mondo e sono indifferenti alla storia dei loro fratelli.
Il Dio di quelli che credono di amare Dio, perché non amano nessuno.
Il Dio che è difeso da quanti non si macchiano mai le mani, non si affacciano mai alla finestra, non si gettano mai nell'acqua.
Il Dio a cui piacciano quelli che dicono sempre: «tutto va bene».
Il Dio di quelli che pretendono che il sacerdote cosparga di acqua benedetta i sepolcri imbiancati delle loro sporche manovre.
Il Dio che predicano i preti che credono che l'inferno è pieno e il cielo quasi vuoto.
Il Dio dei preti che pretendono che si possa criticare tutto e tutti all'infuori di loro.
Il Dio che giustifichi la guerra.
Il Dio che ponga la legge al di sopra della coscienza.
Il Dio che sostenga una chiesa statica, immobile, incapace di purificarsi, di perfezionarsi e di evolversi.
Il Dio dei preti che hanno risposte prefabbricate per tutto.
Il Dio che neghi all'uomo la libertà di peccare.
Il Dio che non continui a scomunicare i nuovi farisei della storia.
Il Dio che non sappia perdonare qualche peccato.
Il Dio che preferisca i ricchi.
Il Dio che «causi» il cancro, che «invii» la leucemia, che «renda sterile» la donna o che «si porti via» il padre di famiglia che lascia cinque creature nella miseria.
Il Dio che possa essere pregato solo in ginocchio, che si possa incontrare solo in chiesa.
Il Dio che accetti e dia per buono tutto ciò che i teologi dicono di lui.
Il Dio che non salvi quanti non lo hanno conosciuto ma lo hanno desiderato e cercato.
Il Dio che «mandi» all'inferno il bambino dopo il suo primo peccato.
Il Dio che non dia all'uomo la possibilità di potersi condannare.
Il Dio per cui l'uomo non sia la misura di tutto il creato.
Il Dio che non vada incontro a chi lo ha abbandonato.
Il Dio incapace di far nuove tutte le cose.
Il Dio che non abbia una parola diversa, personale, propria per ciascun individuo.
Il Dio che non abbia mai pianto per gli uomini.
Il Dio che non sia la luce.
Il Dio che preferisca la purezza all'amore.
Il Dio insensibile di fronte a una rosa.
Il Dio che non possa scoprirsi negli occhi di un bambino o di una bella donna o di una madre che piange.
Il Dio che non sia presente dove vibra l'amore umano.
Il Dio che si sposi con una politica.
Il Dio di quanti pregano perché gli altri lavorino.
Il Dio che non possa essere pregato sulle spiagge.
Il Dio che non si riveli qualche volta a colui che lo desidera onestamente.
Il Dio che distrugga la terra e le cose che l'uomo ama di più invece di trasformarle.
Il Dio che non abbia misteri, che non fosse più grande di noi.
Il Dio che per renderci felici ci offra una felicità separata dalla nostra natura umana.
Il Dio che annichilisca per sempre la nostra carne invece di risuscitarla.
Il Dio per cui gli uomini valgono non per ciò che sono ma per ciò che hanno o che rappresentano.
Il Dio che accetti come amico chi passa per la terra senza far felice nessuno.
Il Dio che non poserà la generosità del sole che bacia quanto tocca, i fiori e il concime.
Il Dio incapace di divinizzare l'uomo facendolo sedere alla sua tavola e dandogli la sua eredità.
Il Dio che non sappia offrire un paradiso in cui noi ci sentiamo fratelli e in cui la luce non venga solo dal sole e dalle stelle ma soprattutto dagli uomini che amano.
Il Dio che non sia l'amore e che non sappia trasformare in amore quanto tocca.
Il Dio che abbracciando l'uomo già qui sulla terra non sappia comunicargli il gusto, la gioia, il piacere, la dolce sensazione di tutti gli amori umani messi insieme.
Il Dio incapace di innamorare l'uomo.
Il Dio che non si sia fatto vero uomo con tutte le sue conseguenze.
Il Dio che non sia nato dal ventre di una donna.
Il Dio che non abbia regalato agli uomini la sua stessa madre.
Il Dio nel quale io non possa sperare contro ogni speranza.
Sì, il mio Dio è l'altro Dio.

Diocrederefede

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inviato da Busato Don Paolo, inserito il 19/07/2009

TESTO

58. Uno per uno fa sempre uno. Verso la Pasqua, casa della Trinità   1

Tonino Bello, Omelie e scritti quaresimali, vol.II, Ediz. Archivio Diocesano Molfetta-Ruvo-Giovinazzo-Terlizzi e Luce e vita, Molfetta, 1994, pagg.336-338

Carissimi fratelli,

l'espressione me l'ha suggerita don Vincenzo, un prete mio amico che lavora tra gli zingari, e mi è parsa tutt'altro che banale.

Venne a trovarmi una sera nel mio studio e mi chiese che cosa stessi scrivendo. Gli dissi che ero in difficoltà perché volevo spiegare alla gente (ma in modo semplice, così che tutti capissero) un particolare del mistero della Santissima Trinità: e cioè che le tre Persone divine sono, come dicono i teologi con una frase difficile, tre relazioni sussistenti.

Don Vincenzo sorrise, come per compatire la mia pretesa e comunque, per dirmi che mi cacciavo in una foresta inestricabile di problemi teologici. Io, però, aggiunsi che mi sembrava molto importante far capire queste cose ai poveri, perché, se il Signore ci insegnato che, stringi stringi, il nucleo di ogni Persona divina consiste in una relazione, qualcosa ci deve essere sotto.

E questo qualcosa è che anche ognuno di noi, in quanto persona, stringi stringi, deve essere essenzialmente una relazione. Un io che si rapporta con un tu. Un incontro con l'altro. Al punto che, se dovesse venir meno questa apertura verso l'altro, non ci sarebbe neppure la persona. Un volto, cioè, che non sia rivolto verso qualcuno non è disegnabile...

Colsi l'occasione per leggere al mio amico la paginetta che avevo scritto. Quando terminai, mi disse che con tutte quelle parole, la gente forse non avrebbe capito nulla. Poi aggiunse: "Io ai miei zingari sai come spiego il mistero di un solo Dio in tre Persone? Non parlo di uno più uno più uno: perché così fanno tre. Parlo di uno per uno per uno: e così fa sempre uno. In Dio, cioè, non c'è una Persona che si aggiunge all'altra e poi all'altra ancora. In Dio ogni Persona vive per l'altra.

E sai come concludo? Dicendo che questo è uno specie di marchio di famiglia. Una forma di ‘carattere ereditario' così dominante in ‘casa Trinità' che, anche quando è sceso sulla terra, il Figlio si è manifestato come l'uomo per gli altri".

Quando don Vincenzo ebbe finito di parlare, di fronte a così disarmante semplicità, ho lacerato i miei appunti.

Peccato: perché, tra l'altro, avevo scritto delle cose interessanti. Per esempio: che l'uomo è icona della Trinità ("facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza") e che pertanto, per quel che riguarda l'amore, è chiamato a riprodurre la sorgività pura del Padre, l'accoglienza radicale del Figlio, la libertà diffusiva dello Spirito.

Ero ricorso anche a ingegnose immagini, come quella del pozzo di campagna la cui acqua sorgiva viene accolta in una grande vasca di pietra e di qui, in mille rigagnoli, va a irrigare le zolle.

Ma forse don Vincenzo aveva ragione: avrei dovuto spiegare molte cose. Sicché ho preferito trattenere questa sola idea: che, come le tre Persone divine, anche ogni persona umana è un essere per, un rapporto o, se è più chiaro, una realtà dialogica. Più che interessante, cioè, deve essere inter-essente.

* * *

Cari fratelli, lo so che la Trinità è molto più che una formula esemplare per noi, e che non è lecito comprimerne la ricchezza alla semplice funzione di analogia. Ma se oggi c'è un insegnamento che dobbiamo apprendere con urgenza da questo mistero, è proprio quello della revisione dei nostri rapporti interpersonali.

Altro che "relazioni". L'acidità ci inquina. Stiamo diventando corazze. Più che luoghi d'incontro, siamo spesso piccoli centri di scomunica reciproca. Tendiamo a chiuderci. La trincea ci affascina più del crocicchio. L'isola sperduta, più dell'arcipelago. Il ripiegamento nel guscio, più della esposizione al sole della comunione e al vento della solidarietà. Sperimentiamo la persona più come solitario auto-possesso, che come momento di apertura al prossimo. E l'altro, lo vediamo più come limite del nostro essere, che come soglia dove cominciamo a esistere veramente.

Coraggio.

Irrompe la Pasqua!

E' il giorno dei macigni che rotolano via dall'imboccatura dei sepolcri. E' l'intreccio di annunci di liberazione, portati da donne ansimanti dopo lunghe corse sull'erba. E' l'incontro di compagni trafelati sulla strada polverosa. E' il tripudio di una notizia che si temeva non potesse giungere più e che corre di bocca in bocca ricreando rapporti nuovi tra vecchi amici. E' la gioia delle apparizioni del Risorto che scatena abbracci nel cenacolo. E' la festa degli ex-delusi della vita, nel cui cuore all'improvviso dilaga la speranza.

Che sia anche la festa in cui il traboccamento della comunione venga a lambire le sponde della nostra isola solitaria.

Vostro

+ don Tonino, Vescovo

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inviato da Qumran2, inserito il 18/07/2009

TESTO

59. Il cuore cherubico   2

Pavel Aleksandrovič Florenskij, Il cuore cherubico, Piemme 1999

In ciascuno di noi c'è qualcosa di simile ad un cherubino, qualcosa di somigliante all'angelo divino dai molti occhi, come una coscienza.

Ma questa somiglianza non è esteriore, né apparente. La somiglianza con il cherubino è interiore, misteriosa e nascosta nel profondo dell'anima.

E' una somiglianza spirituale. C'è un grande cuore cherubico nella nostra anima, un nucleo angelico dell'anima, ma esso è nascosto nel mistero ed è invisibile agli occhi della carne.

Dio ha messo nell'uomo il suo dono più grande: l'immagine di Dio. Ma questo dono, questa perla preziosa, si nasconde negli strati più profondi dell'anima: chiuso in una rozza conchiglia, fangosa, giace sepolto nel limo, negli strati più profondi dell'anima.

Tutti noi siamo come dei vasi di argilla colmi d'oro scintillante. Di fuori siamo anneriti e macchiati, dentro invece siamo risplendenti di una luce radiosa.

Il tesoro di ognuno di noi è sepolto nel campo della nostra anima. E se qualcuno trova il proprio tesoro, allora trattiene il respiro, abbandona tutti i suoi affari per poterlo portare alla luce. In questo sta la più grande felicità, il bene supremo dell'uomo. In questo consiste la sua gioia eterna.

Il regno dei cieli è la parte divina dell'anima umana. Trovarla in se stessi e negli altri, convincersi con i propri occhi della santità della creatura di Dio, della bontà e dell'amore delle persone, in questo sta l'eterna beatitudine e la vita eterna.

Chi l'ha gustata una volta è pronto a scambiare con essa tutti i beni personali. La perla che il mercante cercava non è lontana, l'uomo la porta con sé ovunque, solo che non lo sa.

E ognuno di noi va angosciato per il mondo, pur avendo un tesoro dentro di sé molto spesso crede che una simile perla sia in qualche posto lontano. Beato colui che vede il suo tesoro! Ma chi è in grado di vederlo? Chi vede la sua perla?

Le cose terrene le vede solo colui che ha un occhio corporeo puro; le cose celesti le vede solo colui che ha puro l'occhio celeste, il cuore. Beati i puri di cuore perché vedranno Dio, lo vedranno nel proprio cuore e in quello altrui; lo vedranno non solo in futuro, ma anche in questa vita, lo vedranno adesso.
Basta solo che purifichino il loro cuore!

vitafelicitàcuoreimmagine di Diosomiglianza con Diotesororicerca di sensoricerca di Diointerioritàesteriorità

inviato da Suor Maria Roberta Tiberio O.S.B., inserito il 16/07/2009

TESTO

60. Confessio Fidei - Narratio amoris   1

Bruno Forte, Confessare la fede narrando l'Amore

Una confessione di fede cristiana non è altro che la «sanctae Trinitatis relata narratio» (Concilio XI di Toledo: DS 528): il racconto dell'amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, cui abbiamo creduto sulla parola dei testimoni delle nostre origini, trasmessa nella vivente tradizione ecclesiale («relata narratio»). Chi confessa la fede, parla di Dio raccontando l'Amore, così come si è rivelato nell'evento trinitario di Pasqua:

Credo in te, Padre,
Dio di Gesù Cristo,
Dio dei nostri Padri e nostro Dio:
tu, che tanto hai amato il mondo
da non risparmiare
il tuo Figlio Unigenito
e da consegnarlo per i peccatori,
sei il Dio, che è Amore.
Tu sei il Principio senza principio dell'Amore,
tu che ami nella pura gratuità,
per la gioia irradiante di amare.
Tu sei l'Amore che eternamente inizia,
la sorgente eterna da cui scaturisce
ogni dono perfetto.
Ti ci hai fatti per te,
imprimendo in noi la nostalgia del tuo Amore,
e contagiandoci la tua carità
per dare pace al nostro cuore inquieto.

Credo in te, Signore Gesù Cristo,
Figlio eternamente amato,
mandato nel mondo per riconciliare
i peccatori col Padre.
Tu sei la pura accoglienza dell'Amore,
Tu che ami nella gratitudine infinita,
e ci insegni che anche il ricevere è divino,
e il lasciarsi amare non meno divino
che l'amare.
Tu sei la Parola eterna uscita dal Silenzio
nel dialogo senza fine dell'Amore,
l'Amato che tutto riceve e tutto dona.
I giorni della tua carne,
totalmente vissuti in obbedienza al Padre,
il silenzio di Nazareth, la primavera di Galilea,
il viaggio a Gerusalemme,
la storia della passione,
la vita nuova della Pasqua di Resurrezione,
ci contagiano il grazie dell'amore,
e fanno di noi, nella sequela di te,
coloro che hanno creduto all'Amore,
e vivono nell'attesa della Tua venuta.

Credo in te, Spirito Santo,
Signore e datore di vita,
che ti libravi sulle acque
della prima creazione,
e scendesti sulla Vergine accogliente
e sulle acque della nuova creazione.
Tu sei il vincolo della carità eterna,
l'unità e la pace
dell'Amato e dell'Amante,
nel dialogo eterno dell'Amore.
Tu sei l'estasi e il dono di Dio,
Colui in cui l'amore infinito
si apre nella libertà
per suscitare e contagiare
amore.
La tua presenza ci fa Chiesa,
popolo della carità,
unità che è segno e profezia
per l'unità del mondo.
Tu ci fai Chiesa della libertà,
aperti al nuovo
e attenti alla meravigliosa varietà
da te suscitata nell'amore.
Tu sei in noi ardente speranza,
tu che unisci il tempo e l'eterno,
la Chiesa pellegrina e la Chiesa celeste,
tu che apri il cuore di Dio
all'accoglienza dei senza Dio,
e il cuore di noi, poveri e peccatori,
al dono dell'Amore, che non conosce tramonto.
In te ci è data l'acqua della vita,
in te il pane del cielo,
in te il perdono dei peccati
in te ci è anticipata e promessa
la gioia del secolo a venire.

Credo in te, unico Dio d'Amore,
eterno Amante, eterno Amato,
eterna unità e libertà dell'Amore.
In te vivo e riposo,
donandoti il mio cuore,
e chiedendoti di nascondermi in te
e di abitare in me.
Amen!

credoDioamore di DiofedePadreFiglioSpirito Santo

4.5/5 (2 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 15/07/2009

TESTO

61. Vegliare

John Henry Newman

E' necessario studiare da vicino la parola "vegliare"; bisogna studiarla perché il suo significato non è così evidente come si potrebbe credere a prima vista e perché la Scrittura la adopera con insistenza. Dobbiamo non soltanto credere, ma vegliare; non soltanto amare, ma vegliare; non soltanto obbedire, ma vegliare.

Vegliare perché? Per questo grande evento: la venuta di Cristo.

Cos'è dunque vegliare? Credo lo si possa spiegare così. Voi sapete cosa significa attendere un amico, attendere che arrivi e vederlo tardare? Sapete cosa significa essere in compagnia di gente che trovate sgradevole e desiderare che il tempo passi e scocchi l'ora in cui potrete riprendere la vostra libertà? Sapete cosa significa essere nell'ansia per una cosa che potrebbe accadere e non accade; o di essere nell'attesa di qualche evento importante che vi fa battere il cuore quando ve lo ricordano e al quale pensate fin dal momento in cui aprite gli occhi?

Sapete cosa significa avere un amico lontano, attendere sue notizie e domandarvi giorno dopo giorno cosa stia facendo in quel momento e se stia bene?

Sapete cosa significa vivere per qualcuno che è vicino a voi a tal punto che i vostri occhi seguono i suoi, che leggete nella sua anima, che vedete tutti i mutamenti della sua fisionomia, che prevedete i suoi desideri, che sorridete del suo sorriso e vi rattristate della sua tristezza, che siete abbattuti quando egli è preoccupato e che vi rallegrate per i suoi successi?

Vegliare nell'attesa di Cristo è un sentimento di rassomiglianza a questo, per quel tanto che i sentimenti di questo mondo sono in grado di raffigurare quelli dell'altro mondo.

Veglia con Cristo chi non perde di vista il passato mentre sta guardando all'avvenire, e completando ciò che il suo Salvatore gli ha acquistato, non dimentica ciò che egli ha sofferto per lui.

Veglia con Cristo chi fa memoria e rinnova ancora nella sua persona la croce e l'agonia di Cristo, e riveste con gioia questo mantello di afflizione che il Cristo ha portato quaggiù e ha lasciato dietro a sé quando è salito al cielo.

avventoattesavegliavegliamorterapporto con Dio

5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 22/06/2009

TESTO

62. Mia madre

card. Joseph Mindszenty, Memorie

Un decennio prima della mia terza prigionia avevo scritto queste parole sull'amore materno: «Sarai dimenticato dai tuoi superiori dopo averli serviti; dai tuoi dipendenti, allorché essi non percepiranno più il tuo potere; i tuoi amici, quando verrai a trovarti in difficoltà... Solo tua madre ti attende davanti al portone della prigione. Nella profondità del carcere possiedi soltanto l'amore della madre. Solo lei scende con te laggiù. E se sarai precipitato ancor più in basso del carcere, nell'abisso del penitenziario, della casa dei condannati a morte, solo lei non avrà paura di varcare quella soglia...».

Quando scrivevo quelle parole non pensavo che la mia vecchia madre sarebbe stata l'unica stella nel cielo oscuro della mia prigionia e che lei sola mi avrebbe visitato e abbracciato durante gli otto anni di segregazione in carcere.

Chi è mia madre? Una donna di ottantacinque anni, madre di sei figli, che viveva nella sua casa di Mindszent circondata dal rispetto e dall'amore di quattordici nipoti e altrettanti pronipoti. Al tempo del mio arresto e quando io finii trascinato nel fango, ella aveva settantaquattro anni ed era rimasta vedova da due anni. Anche se proveniva da un ambiente semplice e paesano, si precipitò per aiutarmi e mi stette a fianco fino alla sua morte con intelligenza e con tatto. Fu capace di rintracciarmi nel mondo disumano delle prigioni comuniste. Prima d'allora non aveva mai varcato la soglia di un ministero. Ora invece abbordava i dirigenti del partito che erano giunti al potere in maniera illegale. Ciò fu per lei una croce pesante. Ma dovunque compariva, nei ministeri, in prigione, nel penitenziario, il suo atteggiamento testimoniava la sua forza d'animo.

Mia madre mi visitò ventidue volte durante la mia prigionia. Dei sette diversi posti in cui fui detenuto ella ne vide solo tre: l'ospedale della prigione, Püspökszentlàsló e Felső; Petény. Non potè vedere gli altri quattro.

Per compiere quei viaggi ella aveva coperto una distanza di dodicimila chilometri. E quando Dio la chiamò da questa vita terrena, suo figlio prigioniero non poté prender parte neppure alla sua sepoltura per ripagarla un po' di tante fatiche e di tanti sacrifici.

Era molto triste per l'imminente nuova collettivizzazione delle vigne, dei campi, dei prati e dei boschi della nostra famiglia. Quello che la faceva soffrire non erano in primo luogo le perdite materiali ma l'attaccamento al proprio pezzo di terra che aveva coltivato per tutta una vita. Ciò rappresentava la fine dell'indipendenza delle famiglie; l'educazione dei figli e la santificazione delle domeniche e dei giorni festivi ne avrebbero sofferto.

Il 5 febbraio 1960 ruppi le lenti degli occhiali e non fui in grado di sostituirle subito in quella clausura. Così mi limitai a recitare il rosario e a leggere il messale con l'aiuto di una lente. Come al solito, al memento dei vivi la ricordai, ma avrei già dovuto includerla nel memento dei morti. Verso le undici dello stesso giorno il segretario dell'ambasciata venne a trovarmi con in mano un telegramma. Non lo aveva ancora deposto sul tavolo che io già lo sapevo: mia madre era morta.

In quel giorno oscuro non toccai cibo e non aprii libro; la sua morte mi aveva sconvolto. Recitai la sua preghiera preferita, il rosario. Piansi la sua perdita e poi mi calmai. La gratitudine per averla avuta durante la vita doveva essere più grande del dolore per la sua dipartita verso la patria.

In quelle ore ripensai ai giorni passati a Ostia e alle lacrime versate su sua madre dall'Agostino ormai convertito al cristianesimo.

Durante la notte mia sorella notò un cambiamento e mandò subito a chiamare il parroco. Mia mamma sapeva che era venuta la sua ora. Nella sua mano teneva accesa la candela dei moribondi.

Negli ultimi quarti d'ora aveva pregato con devozione assieme ai famigliari e si era addormentata nell'eternità senza agonia.

Tutti gli anni mia madre soleva passare in preghiera la notte della vigilia di Pasqua al cimitero, in compagnia delle donne del villaggio sue amiche. Solo quando cominciava ad albeggiare ritornavano a casa per preparare i cibi pasquali per la benedizione. La fede nella risurrezione dei morti era profondamente radicata nel suo cuore. Per lei la risurrezione di Cristo e la risurrezione della carne erano due proposizioni di fede strettamente unite, conforme all'insegnamento dell'apostolo Paolo. Sapeva in chi aveva creduto e perciò non sarà delusa; questa è la mia ferma convinzione.

Quanto spesso ho pensato: "...Solo quando giacerà sotto terra capirò veramente il suo valore e la grazia inestimabile che ho avuto in lei". Oggi mi sento non solo povero ma anche profondamente in colpa di fronte a quella tomba, che non ho mai potuto visitare e che verosimilmente non vedrò mai.

Mia madre è stata una santa. In lei e attorno a lei non ho mai visto alcunché di disdicevole, ma solo cose buone e belle. Sono fermamente convinto che ella è felice nell'eternità e sospiro in questa valle di lacrime di poterla un giorno rivedere nella gioia.

affetto filialematernità

5.0/5 (1 voto)

inviato da Cristiano Ballan, inserito il 02/06/2009

TESTO

63. Farmaco d'immortalità   2

Suor M. Gioia Agnetta

Farmaco d'immortalità: l'Eucaristia

Composizione JHS non è una formula chimica, ma sigla che marca il Pane Eucaristico, Pane di frumento, consacrato nella Messa, dallo Spirito Santo di Dio, nelle mani del sacerdote e divenuto Corpo e Sangue vivo di Cristo Gesù; destinato ad essere mangiato dai battezzati convocati in Assemblea alla Celebrazione e conservato per gli invitati assenti.

JHS tre lettere dell'alfabeto latino, iniziali di tre parole:
Jesus = Gesù;
Hominum = degli uomini;
Salvator = Salvatore.
Gesù Salvatore degli uomini.

Come si presenta: allo sguardo appare un dischetto bianco di pane e nel calice un po' di vino. In effetti è il corpo e il sangue del Signore Gesù, vivo e presente per noi. Apparenza umile, silenziosa. Solo chi possiede la parola del Signore può capire il silenzio dell'Eucaristia.

Indicazioni: Anemia spirituale, perdita del gusto delle cose di Dio, disorientamento nella guida della propria vita e della propria famiglia, indifferenza, idolatria. Facilità di giudizio di condanna su tutto e su tutti, irascibilità, indebolimento della decisionalità a partire dal Vangelo. Disidratazione, sterilità di opere, causate dal poco bere linfa della Vite di cui si è tralci. Farmaco indicato non appena le conoscenze e le informazioni del proprio credo appaiono dei fantasmi, come numerose piante di un bosco nel quale si esita ad addentrarsi; difficoltà di dialogo, senso di emarginazione, di orfanezza, percezione di isolamento. Nausea per il sacro.

Controindicazioni: Nessuna, per nessuno al mondo, nonostante una Bimillennaria sperimentazione del suo Principio Attivo; l'JHS è risultato l'unico farmaco omopato-compatibile

Posologia: Bambini: ½ ora / 45 minuti alla settimana sotto vigile osservazione e gustosa scorta dei genitori a Messa.

Adulti: la cura va da 1 ora alla settimana (Messa-Domenicale), a un'aggiunta di ½ ora al giorno. Il dosaggio si intensifica con 1 ora al giorno, quando l'attrazione di Gesù interessa le pulsazioni del cuore, si rende sintomatico l'invaghimento per Dio e si sta bene con lui. La frequenza battiti in consonanza a quelli del cuore di Cristo, i pensieri a quelli di lui, e così i sogni e progetti, sono test di dosaggio equo. N.B. Il farmaco agisce solamente se si combina alla volontà di volere guarire.

Effetti indesiderati - Reazioni negative possono apparire non in chi assume il farmaco ma in parenti e amici che possono definire l'assenza (del paziente, di mezz'ora o di un'ora) un danno per la famiglia. Derisioni e insulti, attribuzione di bigottismo e di debolezza. Altri effetti indesiderati da JHS: Assuefazione, indifferenza o nei casi più gravi, acquisizione del magico.

Precauzioni - Non agitarsi prima dell'uso, prima di decidersi a fare questo passo. La notizia che l'assunzione del farmaco fa cambiar vita e può attivare la guarigione della memoria, della volontà, della capacità di giudicare e di progettare, di fraternizzare,... farla circolare nell'ambiente con cautela, ma senza prorogarla. La fede si rafforza donandola. Nel caso di un convincimento debole, frequentare opportune catechesi parrocchiali o gruppi e movimenti ecclesiali. Esporsi al rischio di far parte della comunità di fede a tutti gli effetti. Le forze del male non prevarranno.

Scadenza - Mt 28,20 - Il prodotto, in sé corruttibile, veicola e deposita germi positivi di incorruttibilità e di risurrezione. Viene confezionato ogni giorno e adempie la promessa di Gesù: "Sarò con voi sempre, fino alla fine del mondo".

eucaristiacorpocomunione

inviato da Suor M.Gioia Agnetta, inserito il 02/06/2009

PREGHIERA

64. Ed eccoti...

Paolino Iorio

Maria è il tuo nome,
tu una ragazza,
vergine di Nazareth,
ti immagino così:
una adolescente
dai capelli neri
e dagli occhi neri,
vivaci e penetranti,
e con un viso delicato.
Ma ancora più bella
la tua umiltà
e il tuo cuore semplice,
ecco perché un giorno
dicesti si
ad un Messaggero,
che forse mentre cucivi,
nel silenzio della tua casa,
ti sorprese
con quella notizia bella
ma sconvolgente:
essere la mamma di Gesù.
E ti sei fidata
dicendo: Eccomi,
e così hai cambiato tutto,
la mia vita,
la vita dell'umanità,
e ci hai donato la gioia,
quella che dura per sempre:
il Verbo si è fatto carne.
Ed eccoti in viaggio
per il censimento
e durante il viaggio
i dolori del parto,
nessuno ti accolse
forse perché
il Salvatore nostro
voleva nascere povero,
in una mangiatoia,
a Betlemme,
perché noi fossimo ricchi
ma solo di lui.
Ed eccoti lì,
con Gesù bambino
nelle tue braccia,
vicino a San Giuseppe,
tra un bue e un asinello,
che vi riscaldano
in quella notte gelida
del Natale,
mentre guardi stupita
i pastori che vengono
ad adorare il tuo Figlio.
Ed eccoti a Nazareth,
mentre allevi Gesù:
mentre giochi con lui
e poi ti occupi della casa:
pensi a cucinare,
a fare il bucato,
ad essere una buona
madre e moglie.
Ed eccoti a Gerusalemme
e mentre sei lì
non trovi Gesù,
che spavento ti sarai presa,
mentre lo cercavi,
e che sollievo
quando lo trovasti
nel tempio,
in mezzo ai dottori.
Ed eccoti a Cana,
con la tua sensibilità femminile,
capisci che manca il vino
e lo dici a Gesù,
e così che accade
il primo segno
del Regno di Dio tra noi:
l'acqua diventa vino.
Ed eccoti
ai piedi della croce,
piena di dolore,
insieme a Giovanni
e Gesù ti dice:
"Donna ecco tuo figlio,
figlio ecco tua Madre";
così sei diventata
la nostra Mamma
e noi ti abbiamo accolto
nella nostra vita.
Ed eccoti lì,
quando hai incontrato
il tuo Figlio Risorto
e gioiosa lo hai abbracciato,
mentre sapevi che noi figli
eravamo salvi ormai.
Ed eccoti in preghiera
con i discepoli
a Pentecoste,
mentre nasce la Chiesa
dal soffio dell'Amore.
Ed eccoti innalzata
accanto al tuo Figlio
che ti porta con se
nella Gloria,
e preghi per noi.
Ed eccoti qua,
mentre cammini con noi,
per le strade del mondo,
e ci prendi per mano
perché siamo figli deboli
che hanno bisogno
della loro Mamma.

mariamadonnapreghierapentecostefamiglia

inviato da Paola Pacchiano, inserito il 29/05/2009

TESTO

65. Lettera sulla preghiera   7

Bruno Forte, Messaggio per la Quaresima 2007

Mi chiedi: perché pregare? Ti rispondo: per vivere.

Sì: per vivere veramente, bisogna pregare. Perché? Perché vivere è amare: una vita senza amore non è vita. È solitudine vuota, è prigione e tristezza. Vive veramente solo chi ama: e ama solo chi si sente amato, raggiunto e trasformato dall'amore. Come la pianta che non fa sbocciare il suo frutto se non è raggiunta dai raggi del sole, così il cuore umano non si schiude alla vita vera e piena se non è toccato dall'amore. Ora, l'amore nasce dall'incontro e vive dell'incontro con l'amore di Dio, il più grande e vero di tutti gli amori possibili, anzi l'amore al di là di ogni nostra definizione e di ogni nostra possibilità. Pregando, ci si lascia amare da Dio e si nasce all'amore, sempre di nuovo. Perciò, chi prega vive, nel tempo e per l'eternità. E chi non prega? Chi non prega è a rischio di morire dentro, perché gli mancherà prima o poi l'aria per respirare, il calore per vivere, la luce per vedere, il nutrimento per crescere e la gioia per dare un senso alla vita.

Mi dici: ma io non so pregare! Mi chiedi: come pregare? Ti rispondo: comincia a dare un po' del tuo tempo a Dio. All'inizio, l'importante non sarà che questo tempo sia tanto, ma che Tu glielo dia fedelmente. Fissa tu stesso un tempo da dare ogni giorno al Signore, e daglielo fedelmente, ogni giorno, quando senti di farlo e quando non lo senti. Cerca un luogo tranquillo, dove se possibile ci sia qualche segno che richiami la presenza di Dio (una croce, un'icona, la Bibbia, il Tabernacolo con la Presenza eucaristica...). Raccogliti in silenzio: invoca lo Spirito Santo, perché sia Lui a gridare in te "Abbà, Padre!". Porta a Dio il tuo cuore, anche se è in tumulto: non aver paura di dirGli tutto, non solo le tue difficoltà e il tuo dolore, il tuo peccato e la tua incredulità, ma anche la tua ribellione e la tua protesta, se le senti dentro.

Tutto questo, mettilo nelle mani di Dio: ricorda che Dio è Padre - Madre nell'amore, che tutto accoglie, tutto perdona, tutto illumina, tutto salva. Ascolta il Suo Silenzio: non pretendere di avere subito le risposte. Persevera. Come il profeta Elia, cammina nel deserto verso il monte di Dio: e quando ti sarai avvicinato a Lui, non cercarlo nel vento, nel terremoto o nel fuoco, in segni di forza o di grandezza, ma nella voce del silenzio sottile (cf. 1 Re 19,12). Non pretendere di afferrare Dio, ma lascia che Lui passi nella tua vita e nel tuo cuore, ti tocchi l'anima, e si faccia contemplare da te anche solo di spalle.

Ascolta la voce del Suo Silenzio. Ascolta la Sua Parola di vita: apri la Bibbia, meditala con amore, lascia che la parola di Gesù parli al cuore del tuo cuore; leggi i Salmi, dove troverai espresso tutto ciò che vorresti dire a Dio; ascolta gli apostoli e i profeti; innamorati delle storie dei Patriarchi e del popolo eletto e della chiesa nascente, dove incontrerai l'esperienza della vita vissuta nell'orizzonte dell'alleanza con Dio. E quando avrai ascoltato la Parola di Dio, cammina ancora a lungo nei sentieri del silenzio, lasciando che sia lo Spirito a unirti a Cristo, Parola eterna del Padre. Lascia che sia Dio Padre a plasmarti con tutte e due le Sue mani, il Verbo e lo Spirito Santo.

All'inizio, potrà sembrarti che il tempo per tutto questo sia troppo lungo, che non passi mai: persevera con umiltà, dando a Dio tutto il tempo che riesci a darGli, mai meno, però, di quanto hai stabilito di poterGli dare ogni giorno. Vedrai che di appuntamento in appuntamento la tua fedeltà sarà premiata, e ti accorgerai che piano piano il gusto della preghiera crescerà in te, e quello che all'inizio ti sembrava irraggiungibile, diventerà sempre più facile e bello. Capirai allora che ciò che conta non è avere risposte, ma mettersi a disposizione di Dio: e vedrai che quanto porterai nella preghiera sarà poco a poco trasfigurato.

Così, quando verrai a pregare col cuore in tumulto, se persevererai, ti accorgerai che dopo aver a lungo pregato non avrai trovato risposte alle tue domande, ma le stesse domande si saranno sciolte come neve al sole e nel tuo cuore entrerà una grande pace: la pace di essere nelle mani di Dio e di lasciarti condurre docilmente da Lui, dove Lui ha preparato per te. Allora, il tuo cuore fatto nuovo potrà cantare il cantico nuovo, e il "Magnificat" di Maria uscirà spontaneamente dalla tue labbra e sarà cantato dall'eloquenza silenziosa delle tue opere.

Sappi, tuttavia, che non mancheranno in tutto questo le difficoltà: a volte, non riuscirai a far tacere il chiasso che è intorno a te e in te; a volte sentirai la fatica o perfino il disgusto di metterti a pregare; a volte, la tua sensibilità scalpiterà, e qualunque atto ti sembrerà preferibile allo stare in preghiera davanti a Dio, a tempo "perso". Sentirai, infine, le tentazioni del Maligno, che cercherà in tutti i modi di separarti dal Signore, allontanandoti dalla preghiera. Non temere: le stesse prove che tu vivi le hanno vissute i santi prima di te, e spesso molto più pesanti delle tue. Tu continua solo ad avere fede. Persevera, resisti e ricorda che l'unica cosa che possiamo veramente dare a Dio è la prova della nostra fedeltà. Con la perseveranza salverai la tua preghiera, e la tua vita.

Verrà l'ora della "notte oscura", in cui tutto ti sembrerà arido e perfino assurdo nelle cose di Dio: non temere. È quella l'ora in cui a lottare con te è Dio stesso: rimuovi da te ogni peccato, con la confessione umile e sincera delle tue colpe e il perdono sacramentale; dona a Dio ancor più del tuo tempo; e lascia che la notte dei sensi e dello spirito diventi per te l'ora della partecipazione alla passione del Signore. A quel punto, sarà Gesù stesso a portare la tua croce e a condurti con sé verso la gioia di Pasqua. Non ti stupirai, allora, di considerare perfino amabile quella notte, perché la vedrai trasformata per te in notte d'amore, inondata dalla gioia della presenza dell'Amato, ripiena del profumo di Cristo, luminosa della luce di Pasqua.

Non avere paura, dunque, delle prove e delle difficoltà nella preghiera: ricorda solo che Dio è fedele e non ti darà mai una prova senza darti la via d'uscita e non ti esporrà mai a una tentazione senza darti la forza per sopportarla e vincerla. Lasciati amare da Dio: come una goccia d'acqua che evapora sotto i raggi del sole e sale in alto e ritorna alla terra come pioggia feconda o rugiada consolatrice, così lascia che tutto il tuo essere sia lavorato da Dio, plasmato dall'amore dei Tre, assorbito in Loro e restituito alla storia come dono fecondo. Lascia che la preghiera faccia crescere in te la libertà da ogni paura, il coraggio e l'audacia dell'amore, la fedeltà alle persone che Dio ti ha affidato e alle situazioni in cui ti ha messo, senza cercare evasioni o consolazioni a buon mercato. Impara, pregando, a vivere la pazienza di attendere i tempi di Dio, che non sono i nostri tempi, ed a seguire le vie di Dio, che tanto spesso non sono le nostre vie.

Un dono particolare che la fedeltà nella preghiera ti darà è l'amore agli altri e il senso della chiesa: più preghi, più sentirai misericordia per tutti, più vorrai aiutare chi soffre, più avrai fame e sete di giustizia per tutti, specie per i più poveri e deboli, più accetterai di farti carico del peccato altrui per completare in te ciò che manca alla passione di Cristo a vantaggio del Suo corpo, la chiesa. Pregando, sentirai come è bello essere nella barca di Pietro, solidale con tutti, docile alla guida dei pastori, sostenuto dalla preghiera di tutti, pronto a servire gli altri con gratuità, senza nulla chiedere in cambio. Pregando sentirai crescere in te la passione per l'unità del corpo di Cristo e di tutta la famiglia umana. La preghiera è la scuola dell'amore, perché è in essa che puoi riconoscerti infinitamente amato e nascere sempre di nuovo alla generosità che prende l'iniziativa del perdono e del dono senza calcolo, al di là di ogni misura di stanchezza.

Pregando, s'impara a pregare, e si gustano i frutti dello Spirito che fanno vera e bella la vita: "amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé" (Gal 5,22). Pregando, si diventa amore, e la vita acquista il senso e la bellezza per cui è stata voluta da Dio. Pregando, si avverte sempre più l'urgenza di portare il Vangelo a tutti, fino agli estremi confini della terra. Pregando, si scoprono gli infiniti doni dell'Amato e si impara sempre di più a rendere grazie a Lui in ogni cosa. Pregando, si vive. Pregando, si ama. Pregando, si loda. E la lode è la gioia e la pace più grande del nostro cuore inquieto, nel tempo e per l'eternità.

Se dovessi, allora, augurarti il dono più bello, se volessi chiederlo per te a Dio, non esiterei a domandarGli il dono della preghiera. Glielo chiedo: e tu non esitare a chiederlo a Dio per me. E per te. La pace del Signore nostro Gesù Cristo, l'amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo siano con te. E tu in loro: perché pregando entrerai nel cuore di Dio, nascosto con Cristo in Lui, avvolto dal Loro amore eterno, fedele e sempre nuovo. Ormai lo sai: chi prega con Gesù e in Lui, chi prega Gesù o il Padre di Gesù o invoca il Suo Spirito, non prega un Dio generico e lontano, ma prega in Dio, nello Spirito, per il Figlio il Padre. E dal Padre, per mezzo di Gesù, nel soffio divino dello Spirito, riceverà ogni dono perfetto, a lui adatto e per lui da sempre preparato e desiderato. Il dono che ci aspetta. Che ti aspetta.

preghierapregare

5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 30/04/2009

PREGHIERA

66. Preghiera per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali 2009

suor Nadia Bonaldo

O Trinità santa,
Padre, Figlio e Spirito santo,
che ti manifesti nel mondo
come Dio della comunicazione e della comunione,
noi ti adoriamo, ti benediciamo
e ti riconosciamo presente e operante
nell'oggi della nostra storia.

Innestati in te,
fonte di ogni creatività dell'ingegno umano,
aiutaci a mantenere vivo
il desiderio di connessione gli uni con gli altri,
a intessere con tutti
relazioni sempre più profonde e durature
per promuovere la pace e la giustizia
il rispetto della vita e il bene della creazione.

Partecipando in tempo reale,
a eventi che accadono lontano,
a situazioni che scuotono la nostra coscienza,
fa' che diveniamo più umani, misericordiosi e solidali,
senza dimenticarci quelli di casa,
le persone che incontriamo sul lavoro,
i compagni di scuola, gli amici del tempo libero.

Donaci il coraggio e la forza
di non ricercare e non condividere
parole, immagini, musica e video
che possono offendere
il valore e la dignità dell'essere umano,
e di cestinare, senza indugio, tutto ciò
che alimenta odio, violenza, intolleranza.

Fa' che non cadiamo nell'inganno
di quanti ci vorrebbero ingenui consumatori,
in un mercato di possibilità indifferenti,
dove la scelta in se stessa diviene il bene,
la novità si contrabbanda come bellezza ,
l'esperienza soggettiva soppianta la verità.
La nostra sete di rispetto, dialogo e amicizia,
o Padre,
sia fondata sulla ricerca sincera e reciproca
del vero, del bene e del bello,
dove ognuno possa ritrovare
pienezza di vita,
felicità e gioia duratura.

O Trinità santa,
sii tu la dimora di ogni cuore
che accede e fruisce dei mondi virtuali
affinché possiamo navigare nelle nuove reti digitali,
con cuore semplice e sguardo trasparente,
intelligenza aperta e coscienza illuminata
e realizzare il tuo sogno:
fare dell'intera umanità
un'unica famiglia.
A te la nostra lode
ora e sempre, nei secoli dei secoli.
Amen.

comunicazioneinternetmediafacebook

inviato da Qumran2, inserito il 28/04/2009

TESTO

67. Un pieno di gioia (Messaggio in occasione dell'inizio della Quaresima - 22 febbraio 1993)   1

Tonino Bello

Carissimi,

incomincia il periodo dell'anno più ricco di grazia, che dal Mercoledì delle Ceneri ci porta alla Pasqua della Resurrezione. Dovrebbe essere l'identikit del nostro itinerario cristiano.

Si parte con l'anima piena di rimorsi, di peccati e di stanchezza e si giunge nell'estuario della luce e della speranza. Perché tutti sappiamo che il dolore, la morte, la malattia non sono stagioni permanenti della vita, ma sono passaggi che ci introducono nella gioia che non ha tramonti.

La mia esortazione quindi, di amico e di vescovo, è che affrontiate sin dall'inizio, con animo deciso al cambiamento, questo tempo di salvezza.

Perché non progettate un po' di digiuno, un po' di preghiera in più, semplice e autentica che vi metta in rapporto vero con Dio? Gli altri atteggiamenti penitenziali propri della quaresima potrebbero esprimersi rinnovando i rapporti con le persone, riscoprendone il volto, facendo la pace. Tutto il resto è chiacchiera.

Un capitale grossissimo da investire sul versante della nostra crescita comunitaria è quello che ci viene offerto dai nostri sofferenti.

Sabato prossimo celebreremo la giornata Diocesana dell'ammalato. E io mi rivolgo a voi, protagonisti del mistero della sofferenza, perché facciate un grande offertorio della vostra povertà. Siamo in tanti. Stavolta ci sono in mezzo anch'io e guiderò il popolo della sofferenza davanti al Signore perché egli dia prosperità e pace alla nostra città.

E ora desidero rivolgermi ai giovani. Ogni anno in quaresima abbiamo vissuto nelle nostre cattedrali incontri carichi di forza e di entusiasmo. Anche quest'anno, nonostante la mia non presenza fisica, v'incontrerete ugualmente guidati da persone che hanno fatto esperienza di Cristo. Sono certo che il bisogno di vedere il volto di Dio e ascoltarne il messaggio, prevalga su tutte le altre gratificazioni di amicizia, d'incontro, di tenerezza, di festa che permeano questi nostri raduni settimanali. Comunque, cari giovani, un affettuosissimo saluto ed un augurio per tutte le cose belle, i progetti, gli affetti che coltivate nel cuore.

Per tutti voi, carissimi fedeli, il Signore faccia il pieno già in anticipo della gioia che si sprigionerà dagli otri della Pasqua.

quaresimamercoledì delle cenericonversione

inviato da Sandra Aral, inserito il 12/03/2009

TESTO

68. Maria donna in cammino

Tonino Bello, Nigrizia, novembre 1990, p. 53

Se i personaggi del vangelo avessero avuto una specie di contachilometri incorporato, penso che la classifica dei più infaticabili camminatori l'avrebbe vinta Maria. Gesù a parte, naturalmente. Ma si sa, egli si era identificato a tal punto con la strada, che un giorno ai discepoli invitati a mettersi alla sua sequela confidò addirittura: «Io sono la via». La via. Non un viandante!

Siccome allora Gesù è fuori concorso, a capeggiare la graduatoria delle peregrinazioni evangeliche è lei: Maria. La troviamo sempre in cammino, da un punto all'altro della Palestina, con uno sconfinamento anche all'estero. Viaggio di andata e ritorno da Nazaret verso i monti di Giuda, per trovare la cugina. Viaggio fino a Betlem. Di qui a Gerusalemme, per la presentazione al tempio.

Espatrio clandestino in Egitto. Ritorno guardingo in Giudea e poi di nuovo a Nazaret. Finalmente, sui sentieri del Calvario, ai piedi della Croce, dove la meraviglia espressa da Giovanni con la parola stabat, più che la pietrificazione del dolore per una corsa fallita, esprime l'immobilità statuaria di chi attende sul podio il premio della vittoria.

Icona del camminare, la troviamo seduta solo al banchetto del primo miracolo. Seduta, ma non ferma. Non sa rimanersene quieta. Non corre col corpo, ma precorre con l'anima. E se non va lei verso l'ora di Gesù, fa venire quell'ora verso di lei, spostandone indietro le lancette, finché la gioia pasquale non irrompe sulla mensa degli uomini.

Sempre in cammino. E per giunta in salita. Da quando si mise in viaggio verso la montagna, fino al giorno del Golgota, anzi fino al crepuscolo dell'Ascensione, quando salì anche lei con gli apostoli «al piano superiore» in attesa dello Spirito, i suoi passi sono sempre scanditi dall'affanno delle alture.

Avrà fatto anche discese, e Giovanni ne ricorda una quando dice che Gesù, dopo le nozze di Cana, discese a Cafarnao insieme con sua madre. Ma l'insistenza con cui il Vangelo accompagna con il verbo "salire" i suoi viaggi a Gerusalemme, più che alludere all'ansimare del petto o al gonfiore dei piedi, sta a dire che la peregrinazione terrena di Maria simbolizza tutta la fatica di un esigente itinerario spirituale.

Santa Maria, donna della strada, come vorremmo somigliarti nelle nostre corse trafelate, ma non abbiamo traguardi. Siamo pellegrini come te, ma senza santuari verso cui andare. Camminiamo sull'asfalto, e il bitume cancella le nostre orme. Forzati del camminare, ci manca nella bisaccia di viandanti la cartina stradale che dia senso alle nostre itinerante.

E con tutti i raccordi anulari che abbiamo a disposizione, la nostra vita non si raccorda con nessun svincolo costruttivo, le ruote girano a vuoto sugli anelli dell'assurdo, e ci ritroviamo inesorabilmente a contemplare gli stessi panorami.

Santa Maria, donna della strada, fa' che i nostri sentieri siano, come lo furono i tuoi, strumenti di comunicazione con la gente e non nastri isolanti entro cui assicuriamo la nostra aristocratica solitudine. Liberaci dall'ansia della metropoli e donaci l'impazienza di Dio. L'impazienza di Dio ci fa allungare il passo per raggiungere i compagni di strada. L'ansia della metropoli, invece, ci rende specialisti del sorpasso. Ci fa guadagnare tempo, ma ci fa perdere il fratello che cammina accanto a noi.

Santa Maria, donna della strada, segno di sicura speranza e di consolazione per il peregrinante popolo di Dio, facci capire come, più che sulle mappe della geografia, dobbiamo cercare sulle tavole della storia le carovaniere dei nostri pellegrinaggi.

È su questi itinerari che crescerà la nostra fede. Prendici per mano e facci scorgere la presenza sacramentale di Dio sotto il filo dei giorni, negli accadimenti del tempo, nel volgere delle stagioni umane, nei tramonti delle onnipotenze terrene, nei crepuscoli mattinali di popoli nuovi, nelle attese di solidarietà che si colgono nell'aria.

Verso questi santuari dirigi i nostri passi. Per scorgere sulle sabbie dell'effimero le orme dell'eterno. Restituisci sapori di ricerca interiore alla nostra inquietudine di turisti senza meta.

Se ci vedi allo sbando, sul ciglio della strada, fermati, Samaritana dolcissima, per versare sulle nostre ferite l'olio della consolazione e il vino della speranza. E poi rimettici in carreggiata. Dalle nebbie di questa valle di lacrime, in cui si consumano le nostre afflizioni, facci volgere gli occhi verso i monti da dove verrà l'aiuto. E allora sulle nostre strade fiorirà l'esultanza del magnificat.

Come avvenne in quella lontana primavera, sulle alture della Giudea, quando ci salisti tu.

stradacamminomariamadonnapellegrinaggio

5.0/5 (1 voto)

inserito il 11/01/2008

TESTO

69. Maria, donna accogliente

Tonino Bello, Nigrizia, giugno 1991, p. 58

La frase si trova in un testo del Concilio Vaticano II, ed è splendida per dottrina e concisione. Dice che, all'annuncio dell'Angelo, Maria «accolse nel cuore e nel corpo il Verbo di Dio».

Nel cuore e nel corpo
Fu, cioè, discepola e madre del Verbo. Discepola, perché si mise in ascolto della Parola e la conservò per sempre nel cuore. Madre, perché offrì il suo grembo alla Parola e la custodì per nove mesi nello scrigno del corpo.
Forse per capire fino in fondo la bellezza di questa verità, il vocabolario non basta. Bisogna ricorrere alle espressioni visive. E allora non c'è di meglio che rifarsi ad una celebre icona orientale, che raffigura Maria con il divin Figlio Gesù inscritto sul petto. È indicata come "la Madonna del segno", ma potrebbe essere chiamata "la Madonna dell'accoglienza", perché, con gli avambracci levati in alto, in atteggiamento di offertorio o di resa, essa appare il simbolo della più gratuita ospitalità.

Accolse nel cuore
Fece largo, cioè, nei suoi pensieri ai pensieri di Dio. ma non si sentì, per questo, ridotta al silenzio. Offrì volentieri il terreno vergine della sua intimità alla germinazione del Verbo, ma non si considerò espropriata di nulla. Gli cedette con gioia il suolo più inviolabile della sua vita, ma senza dover ridurre gli spazi della sua libertà. Diede alloggio al Signore nella sua casa, ma non ne sentì, la presenza come violazione di domicilio. Gli aprì le porte delle stanze più segrete, ma senza subirne lo sfratto.

Accolse nel corpo
Sentì, cioè, il peso fisico di un altro essere che prendeva dimora nel suo grembo di madre. Adattò, quindi, i suoi ritmi a quelli dell'ospite. Modificò le sue abitudini in funzione di un compito che non le alleggeriva certo la vita. Consacrò i suoi giorni alla gestazione di una creatura che non le avrebbe risparmiato preoccupazioni e fastidi. E poiché il frutto benedetto del seno suo era il Verbo di Dio che s'incarnava per la salvezza dell'umanità, capì di aver contratto con tutti i figli di Eva un debito di accoglienza che avrebbe pagato con cambiali di lacrime.

Quell'ospitalità fondamentale la dice lunga sullo stile di Maria e delle sue mille altre accoglienze di cui il vangelo non parla, ma che non ci è difficile intuire. Nessuno fu mai respinto da lei. Tutti trovarono riparo sotto la sua ombra. Dalle vicine di casa, alle antiche compagne di Nazaret. Dai parenti di Giuseppe, agli amici di gioventù di suo figlio. Dai poveri della contrada, ai pellegrini di passaggio. Da Pietro, in lacrime dopo il tradimento, a Giuda che, forse, quella notte non riuscì a trovarla in casa.

Santa Maria, donna accogliente, aiutaci ad accogliere la Parola nell'intimo del cuore. A capire, cioè, come hai saputo fare tu, le irruzioni di Dio nella nostra vita. Egli non bussa alla porta per intimarci lo sfratto, ma per riempire di luce la nostra solitudine. Non entra in casa per metterci le manette, ma per restituirci il gusto della vera libertà.

Lo sappiamo: è la paura del nuovo a renderci spesso inospitali nei confronti del Signore che viene. I cambiamenti ci danno fastidio. E siccome lui scombina sempre i nostri pensieri, mette in discussione i nostri programmi e manda in crisi le nostre certezze, ci nascondiamo come Adamo nell'Eden, ogni volta che sentiamo i suoi passi. Facci comprendere che Dio, se ci guasta i progetti, non ci rovina la festa; se disturba i nostri sonni, non ci toglie la pace. E una volta che l'avremo accolto nel cuore, anche il nostro corpo brillerà della sua luce.

Santa Maria, donna accogliente, rendici capaci di gesti ospitali verso i fratelli. Sperimentiamo tempi difficili, in cui il pericolo di essere defraudati dalla cattiveria della gente ci fa vivere dietro porte blindate e sistemi di sicurezza. Non ci fidiamo più l'uno dell'altro. Vediamo agguati dappertutto. Il sospetto è diventato organico nei rapporti con il prossimo. Il terrore di essere ingannati ha preso il sopravvento sugli istinti di solidarietà che pure ci portiamo dentro. E il cuore se ne va a pezzi, dietro i cancelli dei nostri recinti.

Disperdi, ti preghiamo, le nostre diffidenze. Facci uscire dalla trincea degli egoismi corporativi. Sfascia le cinture delle leghe. Allenta le nostre ermetiche chiusure nei confronti di chi è diverso da noi. Abbatti le nostre frontiere. Quelle culturali, prima di quelle geografiche. Queste ultime cedono ormai sotto l'urto dei popoli "altri", ma le prime restano tenacemente impermeabili. Visto allora che siamo costretti ad accogliere stranieri nel corpo della nostra terra, aiutaci ad accoglierli anche nel cuore della nostra civiltà.

Santa Maria, donna accogliente, ostensorio del corpo di Gesù deposto dalla croce, accoglici sulle tue ginocchio, quando avremo reso lo spirito anche noi. Dona alla nostra morte la quiete fiduciosa di chi poggia il capo sulla spalla della madre e si addormenta sereno. Tienici per un poco sul tuo grembo, così come ci hai tenuti nel cuore per tutta la vita. Compi su di noi i rituali delle ultime purificazioni. E portaci, finalmente, sulle tue braccia davanti all'Eterno.

Perché solo se saremo presentati da te, sacramento della tenerezza, potremo trovare pietà.

mariamadonnaaccoglienzastranieriospitalitàmigrazione

inviato da Giovanni Graziano Tassello, inserito il 11/01/2008

TESTO

70. Il primo presepe

Johann Jorgensen

La santa sera tutto era pronto, a Greccio, come frate Francesco aveva desiderato; verso l'ora di mezzanotte, tutto il popolo di quei pressi era convenuto intorno al presepe per festeggiare la nascita del Signore. Come ci racconta Tomaso da Celano: «Greccio era diventata una nuova Betlemme; la foresta risuonava di voci melodiose e le rocce echeggiavano ai canti della folla». Ognuno portava torce accese, mentre, vicino al presepe, stavano i frati coi loro ceri; tanto che i boschi erano rischiarati come fosse pieno giorno. Sulla mangiatoia che serviva d'altare, un prete lesse la messa, perché il divino fanciullo fosse presente, sotto le specie del pane e del vino, al modo stesso che lo era stato corporalmente a Betlemme. Ci fu pure un istante in cui Giovanni Vellita ebbe l'impressione di vedere un vero bambino coricato nella mangiatoia, ma che sembrava morto, o, per lo meno, addormentato. Ed ecco che frate Francesco si avvicina al bambino e lo prende teneramente tra le braccia; ed ecco che anche il bambino si sveglia, sorride a frate Francesco, e, con le sue piccole mani, gli accarezza le guance barbute e la stoffa grigia della sottana! Visione che, del resto, non aveva nulla di stupefacente per messer Vellita: poiché egli conosceva già parecchi cuori, in cui, allo stesso modo, Gesù era stato morto, o per lo meno addormentato, fino al giorno in cui frate Francesco, con la sua parola e il suo esempio, non l'aveva risvegliato e risuscitato.

Dopo la lettura del Vangelo, frate Francesco, in veste di diacono, si avanzò verso la folla. «Sospirando profondamente, ci dice Celano, accasciato sotto la pienezza della sua pietà, e traboccante di meravigliosa gioia, il santo di Dio si drizzò presso la mangiatoia. E la sua voce, la sua voce forte e dolce, la sua voce chiara e sonora, trascinò gli uditori a ricercare il bene supremo».

Frate Francesco predica alla folla. «Con parole d'una dolcezza squisita, parla del povero re nato quella notte che è il Signore Gesù, nella città di David. E, ogni volta che vuole pronunciare il nome di Gesù, ecco che egli è tutto arso dal fuoco del suo amore, e che, invece di dirgli questo nome, lo chiama teneramente il Bambino di Betlemme! E, questa parola Betlemme, la dice col tono d'un agnello belante; e quando ha proferito il nome di Gesù, lascia scivolare la lingua sulle labbra, come per assaporare la dolcezza che quel nome ha sparso dietro di sé, passando su quelle labbra. E non fu che molto tardi che terminò quella santa notte di vigilia, e che ciascuno, con il cuore pieno di gioia, se ne ritornò alla sua casa».

«In seguito, questo luogo, dove era stato piantato il presepe, fu consacrato al Signore con l'erezione di un tempio; e sopra la mangiatoia fu alzato un altare in onore del nostro beato Padre Francesco: così che, là dove poco prima le bestie senza ragione mangiavano il fieno dalla greppia, oggi gli uomini, per la salute delle loro anime e del loro corpo, ricevono l'Agnello immacolato, Nostro Signore Gesù Cristo, che, spinto da ineffabile amore, ha dato la sua carne per la vita del mondo, e che, col Padre e lo Spirito Santo, vive e regna in somma grandezza per tutti i secoli dei secoli. Così sia!».

natalepresepepresepioSan Francesco

inviato da Franco Canzian, inserito il 19/12/2007

ESPERIENZA

71. Felice di vivere!   1

Angelo Comastri, Dio è Amore

Non molto tempo fa ho avuto un incontro indimenticabile. Erano le dieci di sera: avevo appena terminato la preghiera serale e la piazza del Santuario di Loreto si animava di voci, di saluti, di sorrisi e di "buona notte".

Mi accosto ad una culletta sostenuta dalle braccia robuste di un barelliere. Ma non vedo un bambino bensì una donna adulta: un piccolissimo corpo (58 centimetri!) con un volto splendidamente sorridente. Tendo la mano per salutare, ma l'ammalata con gentilezza mi risponde: «Padre non posso darle la mano, perché potrebbe fratturarmi le dita: io soffro di osteogenesi imperfetta e le mie ossa sono fragilissime. Voglia scusarmi». Non c'era nulla da scusare, evidentemente.

Rimasi affascinato dalla serenità e dalla dolcezza dell'ammalata e volevo sapere qualcosa di più della sua vita. Mi prevenne e mi disse: «Padre, sotto il cuscino della mia culletta c'è un piccolo diario. E' la mia storia! Se ha tempo, può leggerla». Presi i fogli e lessi il titolo: Felice di vivere! I miei occhi tornarono a guardare quel mistero di gioia crocifissa e domandai: «Perché sei felice di vivere? Puoi anticiparmi qualcosa di quello che hai scritto?». Ecco la risposta che consegno alla vostra meditazione.

L'ammalata mi disse: «Anticiparmi qualcosa di quello che hai scritto? Padre, lei vede le mie condizioni... ma la cosa più triste è la mia storia! Potrei intitolarla così: abbandono! Eppure sono felice, perché ho capito qual è la mia vocazione. Si, è la mia vocazione! Io, per un disegno d'amore del Signore, esisto per gridare a coloro che hanno la salute: "Non avete il diritto di tenerla per voi, la dovete donare a chi non ce l'ha, altrimenti la salute marcirà nell'egoismo e non vi darà la felicità!". Io esisto per gridare a coloro che si annoiano: "Le ore in cui voi vi annoiate... mancano a qualcuno che ha bisogno di affetto, di cure, di premure, di compagnia; se non regalerete quelle ore, esse marciranno e non vi daranno la felicità". Io esisto per gridare a coloro che vivono di notte e corrono da una discoteca all'altra: "Quelle notti, sappiatelo!, mancano, drammaticamente mancano a tanti ammalati, a tanti anziani, a tante persone sole che aspettano una mano che asciughi una lacrima: quelle lacrime mancano anche a voi, perché esse sono il seme della gioia vera! Se non cambierete vita non sarete mai felici!"».

Io guardavo l'ammalata, che parlava dal suo pulpito autorevole: il pulpito del dolore! Non osavo commentare, perché tutto era stupendamente e drammaticamente vero. L'ammalata aggiunse: «Padre, non è bella la mia vocazione?».

vocazionedoloreesistenzavitasenso della vitasofferenzacroce

inviato da Mario Varano, inserito il 20/08/2007

PREGHIERA

72. Maria, vergine del mattino, del meriggio, della sera, della notte

Maria, Vergine del mattino,
nel tuo sguardo apro la mia giornata
densa di imprevisti, piena di provvidenze.
Donami il coraggio
di passi fermi e decisi sulla strada che è Gesù,
senza soste, senza sospiri,
con te accanto.
Colma i miei occhi di stupore
per tutto ciò che mi accadrà di bene o di male,
di gioia o di sofferenza,
per cogliere in tutto i doni e i passi di Dio;
mai lamento o ribellione sporchino le mie labbra,
mai il peccato mi venga a turbare.

Maria, vergine del meriggio
donami acqua viva sotto il sole che batte,
donami soste di riposo e non di sconforto,
pronto a riprendere il cammino verso il domani.
Sia il mio andare un audace cammino verso l'infinito.
Liberami dalla tentazione
di lasciare Dio alla porta delle mie scelte.
Rendimi coraggioso testimone di Resurrezione
in un mondo immerso di tenebre.
Sia ogni mio incontro, un incontro di cuore,
dove ogni persona è specchio del volto del tuo Figlio
e ogni uomo in cui mi imbatto, mio fratello.
Sia io, samaritano di speranza con chi è nel bisogno.

Maria, Vergine della sera,
madre dell'ora dei rientri,
non tramonti il sole senza che io possa
essere in pace sulle ire delle umane debolezze
con la grazia del perdono.
Fammi dono di comunione di famiglia,
di dolci e teneri incontri di affetti.

Fammi gustare lo stare in famiglia
e, se per caso ne fossi orfano,
con te e con tuo Figlio voglio fare famiglia
per vincere la mia solitudine.

Maria, Vergine della notte,
illumina la notte della sofferenza,
del dolore e della solitudine.
Nel buio del mio calvario
rimani accanto alla mia croce.
Nella dolcezza e nella forza della tua maternità,
illumina, per me, l'ora delle tenebre.
In pace io mi corico e mi addormento
perché tu, sicuro, mi fai riposare.
Passa la notte in trepida veglia accanto a me, tuo figlio,
donami di attendere sereno,
in pace e senza peccato,
l'aurora del giorno senza tramonto,
perché viva ora il già e il non ancora.

maria

inviato da Luigi De Bernardi, inserito il 24/05/2007

PREGHIERA

73. Preghiera per i laici   1

Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica "Christifideles Laici"

O Vergine santissima,
Madre di Cristo e Madre della Chiesa,
con gioia e con ammirazione,
ci uniamo al tuo Magnificat,
al tuo canto di amore riconoscente.

Con te rendiamo grazie a Dio,
«la cui misericordia si stende
di generazione in generazione»,
per la splendida vocazione
e per la multiforme missione
dei fedeli laici,
chiamati per nome da Dio
a vivere in comunione di amore
e di santità con lui
e ad essere fraternamente uniti
nella grande famiglia dei figli di Dio,
mandati a irradiare la luce di Cristo
e a comunicare il fuoco dello Spirito
per mezzo della loro vita evangelica
in tutto il mondo.

Vergine del Magnificat,
riempi i loro cuori
di riconoscenza e di entusiasmo
per questa vocazione e per questa missione.

Tu che sei stata,
con umiltà e magnanimità,
«la serva del Signore»,
donaci la tua stessa disponibilità
per il servizio di Dio
e per la salvezza del mondo.
Apri i nostri cuori
alle immense prospettive
del Regno di Dio
e dell'annuncio del Vangelo
ad ogni creatura.

Nel tuo cuore di madre
sono sempre presenti i molti pericoli
e i molti mali
che schiacciano gli uomini e le donne
del nostro tempo.
Ma sono presenti anche
le tante iniziative di bene,
le grandi aspirazioni ai valori,
i progressi compiuti
nel produrre frutti abbondanti di salvezza.

Vergine coraggiosa,
ispiraci forza d'animo
e fiducia in Dio,
perché sappiamo superare
tutti gli ostacoli che incontriamo
nel compimento della nostra missione.
Insegnaci a trattare le realtà del mondo
con vivo senso di responsabilità cristiana
e nella gioiosa speranza
della venuta del Regno di Dio,
dei nuovi cieli e della terra nuova.

Tu che insieme agli Apostoli in preghiera
sei stata nel Cenacolo
in attesa della venuta dello Spirito di Pentecoste,
invoca la sua rinnovata effusione
su tutti i fedeli laici, uomini e donne,
perché corrispondano pienamente
alla loro vocazione e missione,
come tralci della vera vite,
chiamati a portare molto frutto
per la vita del mondo.

Vergine Madre,
guidaci e sostienici perché viviamo sempre
come autentici figli e figlie
della Chiesa di tuo Figlio
e possiamo contribuire a stabilire sulla terra
la civiltà della verità e dell'amore,
secondo il desiderio di Dio
e per la sua gloria.
Amen.

laiciimpegnoresponsabilitàlaicato

5.0/5 (1 voto)

inviato da Anna Barbi, inserito il 24/05/2007

RACCONTO

74. Il bambino che tolse i chiodi a Gesù   1

Questa storia è vera per la prima parte, mentre la seconda ne è un possibile proseguimento, suggerito dalla fede e dal cuore di chi scrive, liberamente interpretabile da chi legge, purché resti emblematica nel suo contenuto che vuol essere comunque educativo.

C'era una volta un bambino (oggi non è più quel bambino perché è regolarmente cresciuto) di nome Lorenzo, piccolo mulatto, birichino, occhi pieni di curiosità, denti bianchissimi nella bocca sorridente, voglia continua di correre e giocare, fantasioso, spericolato, sempre protetto dal vigile Angelo Custode.

E non c'era solo quel bambino, c'era anche un castello, dove il bimbo andava a giocare e dove l'aspettavano tante zie che se lo contendevano per appagare tutti i suoi desideri e raccontarsi poi le sue prodezze.

Nel castello c'era una piccola chiesa, perché le zie che lo custodivano erano delle suore secolari che sapevano coniugare la consacrazione al Signore l'amore materno ad ogni piccola creatura.

Ed ecco che un giorno, nel mezzo del gioco, mentre il bimbo corre calciando il pallone, nel corridoio accanto alla piccola chiesa la voce della zia "Annamalia", la madrina di battesimo, chiama: "Lorenzo, vieni a conoscere Gesù".

Così Lorenzo scende per la prima volta i gradini della chiesetta ed entra nel vano sacro, dove gli viene mostrato Gesù nel grande crocifisso appeso alla parete sopra l'altare.

Il bimbo alza gli occhi e vede i piedi forati dal chiodo, sovrapposti e sanguinanti. Ecco quello è Gesù e lui gli manda bacetti con la mano, rammaricandosi di non poterlo raggiungere, impotente a togliergli quei chiodi che forano i piedi e le mani fino a farli sanguinare.

Cominciò così il suo amore per Gesù, un misto di ammirazione e compassione che si rinnovava ad ogni nuova visita.

Per Lorenzo era un grosso sacrificio lasciare il gioco per andare a rivedere Gesù, ma ne valeva la pena... specialmente dopo che aveva assaggiato il "Pane di Gesù", che zia Annamaria aveva preso da un armadietto della sacrestia, e dopo aver saputo che la casa di Gesù era nel tabernacolo di marmo, proprio sotto la grande croce da cui Gesù non poteva discendere. In braccio alla madrina lui però poteva baciare la porticina di quella "casa" e stabilire con Gesù una grande amicizia, più importante di quella che aveva con i suoi compagni della Scuola Materna.

Ma il cuoricino di Lorenzo soffriva per quei grossi chiodi che non sapeva come fare a togliere perché Gesù potesse guarire e scendere dalla croce. Una volta che zia Roberta si ferì un piede e mostrò al bambino la ferita, egli si slanciò a baciarlo per farlo guarire come avrebbe voluto fare con Gesù.

Passò il tempo e venne il grande momento: una scala era rimasta abbandonata in chiesa con qualche attrezzo, come quelli che usava papà Mario per i lavori di casa. Lorenzo non aspettava altro! Ormai era abbastanza alto e forte per sollevare la scala, avvicinarla al grande crocifisso, prendere gli attrezzi e salire fino in alto. Ora finalmente poteva "lavorare" per togliere quei chiodi ai piedi e alle mani di Gesù.

Lavora, smuovi, tira... e uno! Poi due, ma il terzo che fatica! Non si arrese: tirò finché anche quello fu divelto, ma intanto la scala oscillò e si piegò all'indietro. Un grido: "Gesù!". Una risposta: "Lorenzo!".

E mentre il bimbo stava perdendo l'equilibrio, stava cadendo indietro, le mani libere di Gesù lo afferrarono e lo portarono in posizione sicura. Lorenzo, ignaro del pericolo corso, esultava di gioia: Gesù finalmente aveva parlato!

Le zie intanto cercavano il bambino e lo trovarono sulla scala sorridente. "Lorenzo che hai fatto?".
"Non ha più i chiodi! E Gesù mi ha risposto!".

Zia Ilva sale subito sulla scala e va a prendere il bambino, lo riconduce a terra illeso, fra la grande gioia di tutte le zie dal cuore materno che per lui hanno trepidato e stentano a capire che cosa è successo.

In realtà nessuno mai capì bene la cosa, solo Lorenzo sapeva che Gesù non aveva più i chiodi perché lui glieli aveva tolti e poi era felice perché Gesù gli aveva parlato come ad un vero amico.

Quando Lorenzo crebbe e diventò un uomo, non si sa cosa fece nella vita: forse divenne papà ed ebbe dei figli; forse partì missionario ed andò a fare del bene ad altri bambini. Comunque siano andate le cose, Lorenzo ebbe sempre tanto amore per Gesù ed insegnò ai bambini ad amarlo tanto. Così il mondo divenne più buono.

Gesùcrocifissocrocerapporto con Diosemplicità

5.0/5 (1 voto)

inviato da Una Catechista, inserito il 25/03/2007

TESTO

75. ContemplaTTivi   1

Tonino Bello, Cirenei della gioia

Secondo me questo gesto significa due cose: se non ci alziamo da tavola, se non ci alziamo da quella tavola, ogni nostro servizio è superfluo, inutile, non serve a niente. Qui arriviamo al punto nodale di tutte le nostre riflessioni, di tutta la revisione della nostra vita spirituale. Diciamo la verità: è probabile che noi si faccia un gran servizio alla gente, molta diaconia, ma spesso è una diaconia che non parte da quella tavola.

Solo se partiamo dall'eucaristia, da quella tavola, allora ciò che faremo avrà davvero il marchio di origine controllata, come dire, avrà la firma d'autore del Signore. Attenzione: non bastano le opere di carità, se manca la carità delle opere. Se manca l'amore da cui partono le opere, se manca la sorgente, se manca il punto di partenza che è l'eucaristia, ogni impegno pastorale risulta solo una girandola di cose.

Dobbiamo essere dei contempl-attivi, con due t, cioè della gente che parte dalla contemplazione e poi lascia sfociare il suo dinamismo, il suo impegno nell'azione. La contemplattività, con due t, la dobbiamo recuperare all'interno del nostro armamentario spirituale. Allora comprendete bene: si alzò da tavola vuol dire la necessità della preghiera, la necessità dell'abbandono in Dio, la necessità di una fiducia straordinaria, di coltivare l'amicizia del Signore, di poter dare del tu a Gesù Cristo, di poter essere suoi intimi.

Non ditemi che sono un vescovo meridionale che parlo con una carica emotiva di particolari vibrazioni: le sentite pure voi queste cose; tutti avvertite che, a volte, siamo staccati da Cristo, diamo l'impressione di essere soltanto dei rappresentanti della sua merce, che piazzano le sue cose senza molta convinzione, solo per motivi di sopravvivenza. A volte ci manca questo annodamento profondo.

Qualche volta a Dio noi ci aggrappiamo, ma non ci abbandoniamo. Aggrapparsi è una cosa, abbandonarsi un'altra. Quand'ero istruttore di nuoto - ero molto bravo, e quando ero in seminario tantissimi hanno imparato da me a nuotare - quante volte dovevo incoraggiare gli incerti: «Dai, sono qui io; non ti preoccupare...». Se qualcuno stava annaspando o scendendo giù, io gli passavo accanto e quello si avvinghiava fin quasi a strozzarmi. Questo è solo un abbraccio di paura, non un abbraccio d'amore.

Qualche volta con Dio facciamo anche noi così: ci aggrappiamo perché ci sentiamo mancare il terreno sotto i piedi, ma non ci abbandoniamo. Abbandonarsi vuol dire lasciarsi cullare da lui, lasciarsi portare da lui semplicemente dicendo: «Dio, come ti voglio bene!».

Allora: se non ci alziamo da quella tavola, magari metteranno anche il nostro nome sul giornale, perché siamo bravi ad organizzare, chissà quali marce o quali iniziative per le prostitute, per i tossici, per i malati di AIDS... diranno che siamo bravi, che sappiamo organizzare; trascineremo anche le folle per un giorno o due; però dopo, quando si accorgeranno che non c'è sostanza, che non c'è l'acqua viva, la gente se ne va.

Ma alzarsi da tavola come ha fatto Gesù significa anche un'altra cosa. Significa che da quella tavola ci dobbiamo alzare: significa che non si può star lì a fare la siesta; che non è giusto consumare il tempo in certi narcisismi spirituali che qualche volta ci attanagliano anche nelle nostre assemblee.

Infatti è bello stare attorno al Signore con i nostri canti che non finiscono mai o a fare le nostre prediche. Ma c'è anche da fare i conti con la sponda della vita. Spesso, come lamenta il papa nella Chiristi fideles laici, c'è una dissociazione tra la fede e la vita.

La fede la consumiamo nel perimetro delle nostre chiese e lì dentro siamo anche bravi; ma poi non ci alziamo da tavola, rimaniamo seduti lì, ci piace il linguaggio delle pantofole, delle vestaglie, del caminetto; non affrontiamo il pericolo della strada. Bisogna uscire nella strada in modo o nell'altro: c'è uscito anche Giuda, «ed era notte» (Gv. 13,30).

Dobbiamo alzarci da tavola. Il Signore Gesù vuole strapparci dal nostro sacro rifugio, da quell'intimismo, ovattato dove le percussioni dei mondo giungono attutite dai nostri muri, dove non penetra l'ordine del giorno che il mondo ci impone.

Ecco, carissimi confratelli, questo è il primo verbo che dovremmo meditare moltissimo..

amorecaritàattivitàcontemplazioneservizioeucaristia

5.0/5 (1 voto)

inviato da Don Luigi Pisoni, inserito il 17/11/2006

PREGHIERA

76. L'estasi delle tue volontà   1

Madeleine Delbrel, Che gioia credere

Quando quelli che amiamo ci chiedono qualcosa,
noi li ringraziamo di avercelo chiesto.

Se a te piacesse, Signore, chiederci una sola cosa
in tutta la nostra vita,
noi ne rimarremmo meravigliati
e l'aver compiuto questa sola volta la tua volontà
sarebbe «l'avvenimento» dei nostro destino.

Ma poiché ogni giorno ogni ora ogni minuto
tu metti nelle nostre mani tanto onore,
noi lo troviamo così naturale da esserne stanchi,
da esserne annoiati.

Tuttavia, se comprendessimo quanto inscrutabile è il tuo mistero,
noi rimarremmo stupefatti
di poter captare queste scintille del tuo volere
che sono i nostri microscopici doveri.

Noi saremmo abbagliati nel conoscere,
in questa tenebra immensa che ci avvolge,
le innumerevoli
precise
personali
luci delle tue volontà.

Il giorno che noi comprendessimo questo
andremmo nella vita come profeti,
come veggenti delle tue piccole provvidenze,
come mediatori dei tuoi interventi.

Nulla sarebbe mediocre, perché tutto sarebbe voluto da te.
Nulla sarebbe troppo pesante, perché tutto avrebbe radice in te.
Nulla sarebbe triste, perché tutto sarebbe voluto da te.
Nulla sarebbe tedioso, perché tutto sarebbe amore di te.
Noi siamo tutti dei predestinati all'estasi,
tutti chiamati a uscire dai nostri poveri programmi
per approdare, di ora in ora, ai tuoi piani.

Noi non siamo mai dei miserabili lasciati a far numero,
ma dei felici eletti,
chiamati a sapere ciò che vuoi fare,
chiamati a sapere ciò che attendi, istante per istante, da noi.

Persone che ti sono un poco necessarie,
persone i cui gesti ti mancherebbero,
se rifiutassero di farli.
Il gomitolo di cotone per rammendare, la lettera da scrivere,
il bambino da alzare, il marito da rasserenare,
la porta da aprire, il microfono da staccare,
l'emicrania da sopportare:
altrettanti trampolini per l'estasi,
altrettanti ponti per passare dalla nostra povertà,
dalla nostra cattiva volontà
alla riva serena dei tuo beneplacito.

abbandonovolontà di Diodisponibilitàumiltàprontezza

5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 29/10/2006

TESTO

77. L'uccellino e il sole divino

S. Teresa di Lisieux, Storia di un'anima

Gesù, Gesù, se è tanto delizioso il desiderio di amarti, che sarà possederti, godere del tuo amore?

In qual modo può, un'anima imperfetta quanto la mia, aspirare a possedere la pienezza dell'Amore? Gesù, mio primo, mio solo Amico, tu che amo unicamente, dimmi, quale mistero è questo? Perché non riservi queste aspirazioni immense alle anime grandi, alle aquile che roteano altissime? Io mi considero come un uccellino debole, coperto di un po' di piuma lieve; non sono un'aquila, ho dell'aquila soltanto gli occhi e il cuore perché, nonostante la mia piccolezza estrema, oso fissare il Sole divino, il Sole dell'Amore, e il mio cuore prova tutte le aspirazioni dell'aquila... L'uccellino vorrebbe volare verso quel Sole che affascina gli occhi, vorrebbe imitare le aquile, sue sorelle che vede elevarsi fino alla divina dimora della santissima Trinità... Ahimé! Tutto quello che può fare, è sollevare le sue alucce, ma volar via, questo non è nelle sue piccole possibilità. Che ne sarà di lui? Morirà di dolore vedendosi così impotente? No! L'uccellino non se ne affliggerà nemmeno. Con un abbandono audace vuol fissare ancora il suo Sole divino: niente gli fa paura, né vento, né pioggia, e se le nuvole pesanti nascondono l'Astro d'amore, l'uccellino non cambia posto, sa che di là dalle nubi il Sole splende sempre, che la sua luce non si offuscherà nemmeno per un attimo.

In certi momenti il suo cuore si trova assalito dalla tempesta, gli pare che non esistano altre cose se non le nubi che lo circondano; e allora è il momento della gioia perfetta per il povero esserino debole. Che felicità per lui restare lì ugualmente, e fissare la luce invisibile la quale si nasconde alla sua fede! Gesù, fino da ora capisco il tuo amore per l'uccellino, perché non si allontana da te... Ma io lo so, e tu lo sai, spesso questo cosino minimo e imperfetto, pur rimanendo al suo posto (cioè sotto i raggi del Sole), si lascia distrarre un poco dalla sua occupazione unica, becca un granellino di qua o di là, corre dietro a un vermiciattolo... Poi, trovando una pozzanghera, si bagna le piume appena spuntate, vede un fiore che gli piace, allora la sua piccola testa si occupa di quel fiore... e poi, non potendo planare come le aquile, il povero uccellino s'interessa ancora alle piccolezze della terra. Tuttavia, dopo questi malestri, invece di andare a nascondersi in un angolino per piangere la sua miseria e morir di pentimento, l'uccellino si volge verso il Sole amato, presenta ai raggi benefici le alucce bagnate, geme come la rondine, e con un canto dolce racconta tutti i particolari della sua infedeltà, pensando nel suo abbandono temerario di acquistare così maggior diritto, attirare più pienamente l'amore di Colui che non è venuto a chiamare i giusti, bensì i peccatori.

Se l'Astro adorato rimane sordo al lamento cinguettato della sua creaturina, se rimane velato, ebbene, la creaturina resta bagnata, accetta di essere intirizzita di freddo, e si rallegra ancora di questa sofferenza che ha pur mentata... Gesù, com'è felice il tuo uccellino di essere debole e piccolo. Oh, che sarebbe di lui se fosse grande? Mai avrebbe l'audacia di comparire alla tua presenza, di sonnecchiare dinanzi a te... Si, ecco un'altra debolezza dell'uccellino: quando vuoi fissare il Sole divino e le nuvole gli impediscono di vedere anche un solo raggio, nonostante la sua buona volontà gli occhi gli si chiudono, la testolina si nasconde sotto l'ala, e il povero esserino si addormenta, credendo di fissar sempre il suo Astro amato. Quando si desta, non si cruccia; il suo cuoricino rimane in pace, ricomincia il suo ufficio d'amore, invoca gli Angeli e i Santi i quali s'innalzano come aquile verso il fuoco divorante oggetto della sua brama, e le aquile, impietosite, proteggono il fratellino, e mettono in fuga gli avvoltoi che vorrebbero divorarlo.

Gli avvoltoi, immagini dei demoni, l'uccellino non li teme, non è destinato a diventar la loro preda, bensì sarà preda dell'Aquila che egli contempla nel centro del Sole d'amore. O Verbo divino, tu sei l'Aquila adorata, io ti amo. Tu mi attiri, sei tu che, slanciandoti verso la terra dell'esilio, hai voluto soffrire e morire per attirare le anime fino al seno dell'intimità eterna della Santissima Trinità, sei tu che, risalendo verso la Luce inaccessibile ove soggiornerai sempre, resti pur sempre nella valle delle lacrime, nascosto entro l'aspetto di un'Ostia bianca... Aquila eterna, tu vuoi nutrire della tua sostanza divina me, povero esserino che rientrerei nel nulla se il tuo sguardo divino non mi desse la vita minuto per minuto. Oh, Gesù, lasciami dire, nell'eccesso della mia riconoscenza, lasciami dire che il tuo amore arriva fino alla follia... Come vuoi che, dinanzi a questa follia, il mio cuore non si slanci verso te? Come potrebbe aver limiti la mia fiducia? Per te, lo so, i Santi hanno fatto anch'essi delle follie, hanno fatto grandi cose perché erano aquile.

Gesù, sono troppo piccola per fare cose grandi, e la follia mia è sperare che il tuo Amore mi accolga come vittima! La mia follia consiste nel supplicare le aquile, sorelle mie, perché mi ottengano la grazia di volare verso il Sole dell'Amore con le ali stesse dell'Aquila divina... Così, per quanto tempo tu lo vorrai, o mio Amato, il tuo uccellino rimarrà senza forza e senza ali; terrà sempre fissi in te gli occhi; vuole essere affascinato dal tuo sguardo divino, vuol diventare preda del tuo Amore... Un giorno, oso sperare, Aquila adorata, verrai in cerca del tuo uccellino, e risalendo con lui al focolare dell'Amore, lo immergerai per l'eternità nell'abisso ardente di quell'Amore al quale egli si è offerto come vittima...

O Gesù, perché non posso dire a tutte le piccole anime quanto ineffabile è la tua condiscendenza... Sento che se, cosa impossibile, tu trovassi un'anima più debole, più piccola della mia, ti compiaceresti di colmarla con favori anche più grandi, se si abbandonasse con fiducia completa alla tua misericordia infinita. Ma perché desiderare di comunicare i tuoi segreti d'amore, Gesù, non sei tu solo che me li hai insegnati, e non puoi forse rivelarti ad altri? Sì, lo so, e ti scongiuro di farlo, ti supplico di abbassare il tuo sguardo divino sopra un gran numero di piccole anime... Ti supplico di scegliere una Legione di piccole vittime degne del tuo Amore....

abbandono in Diorapporto con Dio

inviato da Debora Cavallone, inserito il 14/07/2006

TESTO

78. Lettera di chi non ha tutto

Caro Gesù,

quest'anno ho voluto anch'io scriverti per Natale. Questa lettera non la leggerà mai nessuno, ma non importa: l'importante è che arrivi a te.

Non ho particolari cose da chiederti.. anzi nessuna, se non una. Voglio pregarti per tutte le persone che incontro ogni giorno, che incrocio per le strade, che mi passano accanto nei supermercati, che vedo alla televisione, che assistono ai concerti e ascoltano la musica come me. Voglio pregarti perché siano felici.

Eh sì... perché qualche volta ho l'impressione che non sia così. Mi sembrano tanto tristi... E non capisco cosa gli manchi! Secondo la logica di questo mondo io non ho niente e loro tutto...
Pensa... io vorrei parlare, ma non posso.
Urlare... men che meno!
Vorrei correre... ma come faccio?
Saltare non esiste...
Un po' camminare.. ma che fatica!
Mangiare... mai da solo!
Bere... quando me lo danno.
Andare ai servizi... non ne parliamo!
Cantare: un sogno!
Per la musica che fanno gli altri... impazzisco!
Scrivere... non se ne parla;
prima vorrei imparare i colori, ma non ci riesco!
Adoro il calcio, ma non ci gioco...

Una cosa bella, però, ce l'ho anch'io; è una cosa spettacolare, il più grande dono che potessi ricevere: il sorriso.
Quello non lo risparmio mai a nessuno: né ai genitori, né a mia nonna o a mia sorella, né agli educatori né ai volontari, né ai bambini né agli sconosciuti...
È la mia arma vincente e la uso fino in fondo.

Allora, Gesù, ti prego: dona un po' di questo mio sorriso agli altri; è un sorriso semplice, di chi non parla, non canta, non corre, non gioca... ma che viene dal cuore; dal cuore di chi, nel suo silenzio, ti incontra ogni giorno e ti parla nel segreto. Il sorriso di chi, come te, quando giacevi nella mangiatoia in fasce, avevi bisogno di tutto: di essere nutrito, cambiato, lavato, compreso per le espressioni del tuo viso perché senza parole... Ma io ho 26 anni. Nella mia povertà mi sento vicino a te, e per me questo è tutto. Per questo niente di ciò che mi manca potrà mai togliermi il sorriso.

Questa lettera non la leggerà mai nessuno, perché non potrò mai scriverla. Ma ce l'ho nel cuore e vorrei urlarla al mondo intero.

sorrisointerioritàesterioritàgioiafelicitàrapporto con Dio

inviato da Laura De Capitani, inserito il 13/07/2006

RACCONTO

79. Il miracolo di Natale   1

Suor Angela Benedetta, clarissa

Nella valle incantata, in una fattoria felice, viveva un bue di nome Barny. Grande e grosso, con due occhi buoni e sinceri, lavorava tutto il giorno spingendo l'aratro. Questo bue era l'amico di tutta la fattoria: i contadini con i quali lavorava gli volevano un gran bene e i bambini non si stancavano mai di giocare con lui. Nonostante fosse così grande e grosso non faceva paura a nessuno, perché era l'animale più buono che potesse esserci. Alla sera quando tramontava il sole e si stendevano le prime ombre, tutti gli animali si radunavano intorno a lui per sentirlo narrare le sue tante storie. Appena finiva di raccontarne una, subito gli chiedevano: "Dai, dai, raccontane un'altra"; lui continuava fino al crepuscolo e allo spuntare delle prime stelle, poi diceva: "Ora andiamo a dormire, domani ci aspetta una lunga giornata di lavoro". Allora tutti gli animali andavano a dormire e nella fattoria scendeva un grande silenzio.

Il bue Barny era simpatico a tutti: alle pecore e alle oche, alle anatre e agli agnellini, alle mucche e ai maialini, alle galline e al vecchio cane da guardia, al padrone della fattoria e ai suoi bambini, ma il suo migliore amico era il piccolo asinello Tim con cui condivideva la stalla, la paglia e il duro lavoro. Quando arrivava la notte e si coricavano vicini, si guardavano a lungo senza dirsi nulla e poi si addormentavano, stanchi ma felici.

Il bue aveva un piccolo segreto nel cuore che conosceva solo l'asinello: gli piaceva danzare. Un giorno l'asinello gli disse: "Perché non ci provi, tanto non ci vede nessuno: ti prometto che questo segreto rimarrà in questa stalla". Tra veri amici anche i desideri più assurdi si possono realizzare e da quel giorno il bue incominciò ad improvvisare dei semplici balletti. L'asinello si divertiva tantissimo. Poi toccò a Tim realizzare il suo desiderio: a lui piaceva moltissimo cantare. E siccome tra amici anche i desideri più assurdi si possono realizzare, l'asinello, tutte le domeniche, inventava delle allegre canzoncine che mai nessuno aveva ascoltato all'infuori dell'amico bue.

Quei momenti, quegli scherzi, quelle risate erano tutta la vita e il divertimento dei due amici, che sapevano rendere grazie a Dio per ogni nuovo giorno loro donato. Appena sorgeva l'alba i due amici iniziavano il loro lavoro: il bue spingeva l'aratro e l'asinello trasportava la legna. Fino a sera non si vedevano più, ma non c'era istante della giornata in cui non sentivano l'uno la presenza e il sostegno dell'altro.

Tim era tutto per il bue Barny: fin dal giorno del suo arrivo nella fattoria gli era sempre stato accanto con il suo affetto e con la sua amicizia. Gli aveva insegnato le prime cose e si era preso cura di lui come un fratello, gli aveva fatto conoscere tutti gli animali della fattoria e l'aveva incoraggiato nei momenti di fatica. Anche Barny, sin dall'inizio, aveva ricambiato l'affetto per l'asino Tim e con il passare degli anni erano divenuti sempre più uniti, quasi una cosa sola. Quante difficoltà, quante sofferenze, ma il calore della loro amicizia aveva reso tutto più leggero, più bello.

Una sera, mentre tutti gli animali erano riuniti intorno al bue per ascoltare le sue storie, l'anatra chiese al bue: "Perché non ci racconti la tua storia, la storia della tua famiglia?". Il bue per un attimo esitò, ma poi iniziò il suo racconto.

"In verità non ho molto da dire", disse il bue, inizialmente un po' imbarazzato dall'argomento. "Nella fattoria dove sono nato eravamo tanti vitellini: gli altri sono stati scelti per diventare dei tori e io invece per essere un bue e fare lavori pesanti. Poiché nella mia fattoria non serviva un trasportatore di aratro sono stato venduto e sono finito qui. Io sono molto contento, sapete, non mi lamento, ma ringrazio ogni giorno il buon Dio di essere utile per il duro lavoro della terra e di alleviare il peso dei contadini. Ma i miei fratelli, ahimé, si vergognano di avere un fratello bue, loro, così famosi in tutto il mondo: partecipano alle più importanti corride, gareggiano con i toreri più famosi, figurano su tutti i quotidiani e per questo mi disprezzano. Ma io non li invidio affatto, io non vorrei essere come loro: non fanno altro che fomentare la violenza e l'odio delle persone che assistono alle loro gare, nelle quali, pensate un po', anche morire fa parte dello spettacolo".

Il bue concluse così il suo racconto. Gli animali erano ammutoliti e nessuno osava più domandare nulla. L'asinello prese la parola rompendo il grande silenzio che aveva seguito il racconto del bue e disse: "Anch'io ho dei cugini molto famosi: sono cavalli da corsa. Partecipano alle gare e la gente scommette fior di quattrini sulle loro vittorie. Si vergognano di avere un lontano parente asino e si vantano di avere avuto antenati che hanno portato sulla loro groppa i più coraggiosi cavalieri partecipando alle più cruenti guerre. Sì, io sono un asino da soma e perciò disprezzato, ma non ho mai fatto guerra a nessuno". "Bravo! Giusto!", incominciarono a commentare gli animali, infervorati dal racconto dell'asinello.

Ormai era notte inoltrata quando gli animali della fattoria sciolsero la seduta. Incominciava a far freddo poiché l'autunno stava per fini e l'inverno era alle porte.

Il giorno successivo iniziò con un gran trambusto nella fattoria. Alle prime luci dell'alba era infatti giunto nella valle incantata un gran numero di persone. C'erano il parroco del paese, le autorità e personalità molto importanti. "Chissà chi cercano", iniziarono a chiedersi curiosi gli animali.

Ben presto tutti iniziarono a fare castelli in aria. "Sicuramente cercano me - disse la mucca con presunzione - avranno bisogno del mio latte". "No! - ribatté l'anatra - è me che cercano: avranno bisogno della mia carne pregiata per un pranzo succulento". "No! - interruppe il maiale - il Natale si avvicina e certamente staranno cercando me per il cenone con il gustoso cotechino". "Siete tutti in errore - dissero le galline - certamente è delle nostre uova che avranno bisogno".

Barny e Tim ascoltarono un po' divertiti le dispute dei loro amici, poi si avviarono ad iniziare il loro lavoro, alquanto indifferenti alla questione: di sicuro non era loro due che cercavano. Mentre camminavano, all'improvviso si sentirono chiamare. "Barny, Tim venite qui - gridò il padrone della fattoria - vi stanno cercando". I due amici non credevano alle loro orecchie. Tim avanzò un po' timoroso e Barny lo seguì, restando leggermente indietro. Quando giunsero davanti a tutta quella folla di persone, l'enigma fu presto risolto. "Stiamo preparando per la prima volta un presepe vivente nel nostro paese", disse il parroco sorridendo ai due buffi amici. "E' un evento importante - continuò il sindaco - verrà la gente anche dai paesi vicini per poter rivivere dal vero la nascita del nostro Salvatore". Barny e Tim guardavano i due interlocutori un po' stupiti: cosa c'entravano loro in tutto questo discorso? "Voi saprete che il Bimbo divino fu scaldato nella gelida notte da un bue e un asinello - disse il parroco, concludendo il discorso - abbiamo bisogno di voi per preparare la grotta di Betlemme. Accettate il nostro invito?". "Noi?" disse Tim, talmente stupito da non riuscire quasi a reggersi in piedi, "Accettiamo con gioia immensa - disse Barny - è un dono senza misura poter scaldare Gesù Bambino".

Così nella fattoria iniziarono i preparativi per il grande evento. Tutti gli animali si sentivano onorati della parte assegnata a Tim e Barny e per questo venne loro l'idea di formare una piccola banda musicale per accompagnare il bue e l'asinello in paese la notte di Natale. Le oche suonavano la tromba, le galline i tamburi, i maiali la grancassa, le pecore i piatti, le mucche il trombone e il grosso cane da guardia era nientepopodimeno che il direttore d'orchestra. Intanto anche i bambini iniziarono ad ornare la fattoria con gli addobbi natalizi e tutto si colorò di attesa e di festa, Non c'era sera in cui, dopo il lavoro, gli animali non si riunissero per suonare i brani natalizi, preparati ed eseguiti dalla loro banda, mentre il bue e l'asinello provavano la loro parte nell'immaginaria grotta di Betlemme.

Passarono i giorni e presto giunse il momento tanto atteso: la vigilia di Natale. Gli animali non stavano più nella pelle dalla gioia. Poche ore prima della mezzanotte tutti gli amici si predisposero per scendere in paese suonando. Al cenno del cane da guardia la banda attaccò: prima le oche intonarono con le trombette le dolci melodie, accompagnate dai tromboni; si unirono ad essi i piatti e i tamburi che intervallavano la musica con dei bei ritmi. Ultimi seguivano la banda Tim e Barny, gli ospiti d'onore. E così, passo dopo passo, la processione arrivò in paese. Gli abitanti, usciti dalle case per attendere la nascita di Gesù, non credevano ai loro occhi: mai si era visto uno spettacolo così bello. Finito di suonare, gli animali fecero venire avanti Tim e Barny che presero posto nella grotta.

Eccoli dunque pronti per il fatidico momento. Allo scoccare della mezzanotte, iniziarono a suonare le campane: Gesù era nato. Mentre tutti cantavano "Gloria a Dio su nel cielo e pace in terra agli uomini di buona volontà", il sacerdote pose il bimbo di gesso nella grotta e i due amici commossi si chinarono per scaldarlo con il loro fiato, come era stato loro detto. Ma all'improvviso, il piccolo bimbo di gesso si animò, aprì gli occhi e guardando il bue e l'asinello disse: "Non è il calore del vostro fiato a scaldarmi in questa gelida notte, ma l'amore che regna tra voi, l'amore della vostra amicizia. Tutte le volte che continuerete a volervi bene, così come avete sempre fatto, io sarò tra voi, come in questa notte".

Questione di pochi attimi e il bimbo ritornò immobile, di gesso. La funzione finì e Barny e Tim ritornarono nella loro fattoria.

Era stato un sogno, uno scherzo della loro fantasia, o davvero un miracolo di Gesù Bambino? E chi lo sa! I due amici non raccontarono mai a nessuno l'episodio, che tennero conservato nel loro cuore fino alla morte. Ma nei loro occhi, da quella notte, ci fu una luce nuova che non passò inosservata agli amici della fattoria: la certezza che quel loro piccolo amore e quella loro semplice amicizia, era qualcosa di grande agli occhi di Dio.

nataleamicizia

2.0/5 (1 voto)

inviato da Marcello, inserito il 23/05/2006

RACCONTO

80. I tre alberi   1

Sulla vetta di una montagna, coperta di pascoli e pinete profumate di resina, spuntarono un giorno tre piccoli alberi. Nei primi tempi erano così teneri e verdi che si confondevano con l'erba e i fiori che prosperavano intorno a loro.
Ma, primavera dopo primavera, il loro piccolo tronco si irrobustì. Le sfide autunnali e invernali per fronteggiare i venti e le bufere li riempivano di gioia baldanzosa.
Dall'alto della loro casa verde guardavano il mondo e sognavano.
Come tutti coloro che stanno crescendo, sognavano quello che avrebbero voluto diventare da grandi.

Il primo albero guardava le stelle che brillavano come diamanti trapuntati sul vestito di velluto nero della notte.
"Io sopra ogni cosa vorrei essere bello. Vorrei custodire un tesoro" disse. "Vorrei essere coperto d'oro e contenere pietre preziose. Diventerò il più bello scrigno per tesori del mondo".
Il secondo alberello guardava il torrente che scendeva serpeggiando dalla montagna, aprendosi il cammino verso il mare. L'acqua correva e correva, gorgogliando e scherzando con i sassi, un momento era lì e poco dopo già era scomparsa all'orizzonte. E niente riusciva a fermarla. "Io voglio essere forte. Sarò un grande veliero" disse. "Voglio navigare sugli oceani sconfinati e trasportare capitani e re potenti. Io sarò il galeone più forte del mondo".
Il terzo alberello contemplava la valle che si stendeva ai piedi della montagna e guardava la città che si indovinava nella foschia azzurrina.
Laggiù formicolavano uomini e donne. "Io non voglio lasciare questa montagna" disse. "Voglio crescere tanto che quando la gente si fermerà per guardarmi, dovrà alzare gli occhi al cielo e pensare a Dio. Io diventerò il più grande albero del mondo!".

Gli anni passarono. Caddero le piogge, brillò il sole, e i piccoli alberelli divennero tre alberi alti e imponenti.
Un giorno, tre boscaioli salirono sulla montagna, con le loro scuri a tracolla.
Uno dei boscaioli squadrò ben bene il primo albero e disse: "E' un bell'albero. E' perfetto".
Dopo pochi minuti, stroncato da precisi colpi d'ascia, il primo albero piombò al suolo.
"Ora sto per trasformarmi in un magnifico forziere" pensò l'albero. "Mi affideranno in custodia un tesoro favoloso".
Il secondo boscaiolo guardò il secondo albero e disse: "Questo albero è vigoroso e solido. E' proprio quello che ci vuole". Sollevò la scure, che lampeggiò al sole, e abbatté l'albero.
"D'ora in poi, navigherò sui mari infiniti e i vasti oceani" pensò il secondo albero. "Sarò una nave importante, degna dei re".
Il terzo albero si sentì mancare il cuore, quando il boscaiolo lo fissò.
"Per me va bene qualunque albero" pensò il boscaiolo. L'ascia balenò nell'aria e, poco dopo, anche il terzo albero giaceva sul terreno.
I loro bei rami, che fino a poco prima avevano scherzato con il vento e protetto uccelli e scoiattoli, furono stroncati uno a uno.
I tre tronchi furono fatti rotolare lungo il fianco della montagna, fino alla pianura.

Il primo albero esultò quando il boscaiolo lo portò da un falegname. Ma il falegname aveva ben altri pensieri che mettersi a fabbricare forzieri. Con le sue mani callose trasformò l'albero in una mangiatoia per animali. L'albero che era stato un tempo bellissimo non fu ricoperto di lamine d'oro né riempito di tesori. Era coperto di rosicchiature e riempito di fieno per nutrire gli animali affamati della fattoria.
Il secondo albero sorrise quando il boscaiolo lo trasportò al cantiere navale, ma quel giorno nessuno pensava a costruire un veliero. Con grandi colpi di martello e di sega, l'albero fu trasformato in una semplice barca da pescatori.
Troppo piccola, troppo fragile per navigare su un oceano o anche solo su un fiume, la barca fu portata in un laghetto. Tutti i giorni, trasportava carichi di pesce, che la impregnavano di odore sgradevole.
Il terzo albero divenne tristissimo quando il boscaiolo lo squadrò per farne rozze travi che accatastò nel cortile della sua casa.
"Perché mi succede questo?" si domandava l'albero, ricordando il tempo in cui lottava con il vento sulla cima della montagna.
"Tutto quello che volevo era svettare sul monte per invitare la gente a pensare a Dio".
Passarono molti giorni e molte notti. I tre alberi quasi dimenticarono i loro sogni.

Ma una notte, la luce dorata di una stella accarezzò con i suoi raggi il primo albero, proprio nel momento in cui una giovane donna con infinita tenerezza sistemava nella mangiatoia il suo bambino appena nato.
"Avrei preferito costruirgli una culla" mormorò suo marito. La giovane mamma gli sorrise, mentre la luce della stella scintillava sulle assi lucide e consunte che un tempo erano state il primo albero.
"Questa mangiatoia è magnifica" rispose la mamma.
In quel momento, il primo albero capì di contenere il tesoro più prezioso del mondo.
Altri giorni e altre notti passarono. Una notte, un viaggiatore stanco e i suoi amici si imbarcarono sul vecchio battello da pesca, che un tempo era stato il secondo albero.
Mentre il secondo albero, diventato barca, scivolava tranquillamente sull'acqua del lago, il viaggiatore si addormentò.
All'improvviso, dopo lo schianto di un tuono, in una ridda di fulmini e violente ondate, scoppiò la tempesta.
Il piccolo albero tremò. Sapeva di non avere la forza di trasportare in salvo tante persone con quel vento e con la violenza di quelle onde. Le sue fiancate scricchiolavano penosamente per lo sforzo.
Preoccupati, gli amici svegliarono il misterioso viaggiatore. L'uomo si alzò, spalancò le braccia, sgridò il vento e disse all'acqua del lago: "Fa' silenzio! Calmati!". La tempesta si quietò immediatamente e si fece una grande calma.
In quel momento, il secondo albero capì che stava trasportando, come desiderava, un re, anzi, il re dei cieli, della Terra e degli infiniti oceani.
Poco tempo dopo, un Venerdì mattino, il terzo albero fu molto sorpreso quando le sue rozze travi furono tolte di malagrazia dalla catasta di legname dimenticato.
Furono trasportate nel mezzo di una folla vociante e irosa, sbattute sulle spalle torturate di un uomo, che poi su di esse fu inchiodato. Il povero albero si sentì orribile e crudele. E piangeva, reggendo quel povero corpo tormentato... lui che voleva che la gente grazie a lui vedesse Dio!

Ma la Domenica mattina, quando il sole si levò alto nel cielo e tutta la Terra vibrò di una gioia immensa, il terzo albero seppe che non aveva trasportato un uomo qualunque, ma aveva trasportato Dio!
In quel mattino seppe e capì che l'amore di Dio aveva trasformato tutto.
Aveva fatto del primo albero il meraviglioso scrigno del più tenero e incredibile dei tesori. Aveva reso il secondo albero forte portatore del Creatore del cielo e della Terra.
E ogni volta che una persona avesse guardato il terzo albero avrebbe visto Dio! Ogni persona, anche noi, non solo i pochi della Valle...
E questo era più che essere solo il più bello, il più forte o il più grande albero del mondo...

Clicca qui per una versione simile.

Il racconto ci è stato inviato nel 2005 indicando come autore Paulo Coelho, nel tempo però abbiamo avuto segnalazioni che lo attribuiscono a Stefano Valeri:
http://www.club.it/autori/sostenitori/stefano.valeri/prefazione2.html
ed Elena Pasquali ne ha fatto una riscrizione definendolo un racconto popolare:
http://www.paolinestore.it/shop/la-leggenda-dei-tre-alberi.html

desideriprogetto di Diocroce

inviato da Fabio, inserito il 03/05/2006

TESTO

81. Il Dare   2

Kahlil Gibran

Allora un uomo ricco disse: Parlaci del Dare.
E lui rispose:
Date poca cosa se date le vostre ricchezze.
E' quando date voi stessi che date veramente.
Che cosa sono le vostre ricchezze se non ciò che custodite e nascondete nel timore del domani?
E domani, che cosa porterà il domani al cane troppo previdente che sotterra l'osso nella sabbia senza traccia, mentre segue i pellegrini alla città santa?
E che cos'è la paura del bisogno se non bisogno esso stesso?
Non è forse sete insaziabile il terrore della sete quando il pozzo è colmo?
Vi sono quelli che danno poco del molto che possiedono, e per avere riconoscimento, e questo segreto desiderio contamina il loro dono.
E vi sono quelli che danno tutto il poco che hanno.
Essi hanno fede nella vita e nella sua munificenza, e la loro borsa non è mai vuota.
Vi sono quelli che danno con gioia e questa è la loro ricompensa.
Vi sono quelli che danno con rimpianto e questo rimpianto è il loro sacramento.
E vi sono quelli che danno senza rimpianto né gioia e senza curarsi del merito.
Essi sono come il mirto che laggiù nella valle effonde nell'aria la sua fragranza.
Attraverso le loro mani Dio parla, e attraverso i loro occhi sorride alla terra.
E' bene dare quando ci chiedono, ma meglio è comprendere e dare quando niente ci viene chiesto.
Per chi è generoso, cercare il povero è gioia più grande che dare.
E quale ricchezza vorreste serbare?
Tutto quanto possedete un giorno sarà dato.
Perciò date adesso, affinché la stagione dei doni possa essere vostra e non dei vostri eredi.
Spesso dite: "Vorrei dare ma solo ai meritevoli".
Le piante del vostro frutteto non si esprimono così né le greggi del vostro pascolo.
Esse danno per vivere, perché serbare è perire.
Chi è degno di ricevere i giorni e le notti, è certo degno di ricevere ogni cosa da voi.
Chi merita di bere all'oceano della vita, può riempire la sua coppa al vostro piccolo ruscello.
E quale merito sarà grande quanto la fiducia, il coraggio, anzi la carità che sta nel ricevere?
E chi siete voi perché gli uomini vi mostrino il cuore, e tolgano il velo al proprio orgoglio così che possiate vedere il loro nudo valore e la loro imperturbata fierezza?
Siate prima voi stessi degni di essere colui che dà e allo stesso tempo uno strumento del dare.
Poiché in verità è la vita che dà alla vita, mentre voi, che vi stimate donatori, non siete che testimoni.
E voi che ricevete - e tutti ricevete - non permettete che il peso della gratitudine imponga un giogo a voi e a chi vi ha dato.
Piuttosto i suoi doni siano le ali su cui volerete insieme.
Poiché preoccuparsi troppo del debito è dubitare della sua generosità che ha come madre la terra feconda, e Dio come padre.

daregenerositàgratuitàriconoscenza

5.0/5 (1 voto)

inviato da Daniela Antonini, inserito il 25/02/2006

ESPERIENZA

82. Jacques Fesch: la drammatica storia di un giovane moderno   1

Chi è Jacques Fesch? E' un giovane moderno, che a 24 anni commette un terribile delitto, epilogo di una vita vuota e senza ideali, piena di egoismo e di capricci. Ecco una veloce cronaca del delitto. Il 24 febbraio 1954 Jacques entra al mattino nel negozio di un cambiavalute e ordina un quantitativo d'oro. L'uomo si fida perché sa che alle spalle del giovane c'è un opadre facoltoso che può pagare. Nel pomeriggio dello stesso giorno Jacquaes torna per prelevare l'oro e approfittando di un momento di disattenzione del cambiavalute lo colpisce alla testa con il calcio della pistola del padre. Il cambiavalute reagisce urlando. Jacques fugge e si nasconde in un palazzo vicino fino a che è riconosciuto da un polizziotto accorso sul posto. All'ingiunzione di fermarsi Jacques spara e uccide l'agente di polizia. Intervengono poi altri agenti che lo catturano.

Perché questo delitto assurdo? Jacques voleva aprire una propria attività e chiede un grosso prestito al padre che glielo rifiuta. Sa che il figlio ha le mani bucate! Allora Jacques decide di compiere una rapina: di procurarsi i soldi con l'inganno.

Che cosa accade in carcere? Viene raggiunto dal cappellano ma egli lo rifiuta dicendo: "Io non ho la fede e non ho bisogno di lei!". Passano i giorni, chiuso tra quattro pareti, solo con la sua disperazione. Ma una notte: "Era una sera, nella mia cella... Nonostante tutte le catastrofi che da alcuni mesi si erano abbattute sulla mia testa, io restavo ateo. Ora quella sera, ero a letto con gli occhi aperti e soffrivo realmente per la prima volta nella mia vita per le conseguenze del mio delitto; ed è allora che un grido mi scaturì dal petto, un appello di soccorso: "Mio Dio, Mio Dio aiutami!". E instantaneamente, come un vento violento, che passa senza che si sappia dove viene, lo Spirito del Signore mi prese alla gola! Ho creduto e non capivo più come avessi fatto prima a non credere. La grazia mi ha visitato e una grande gioia s'è impossessata di me e soprattutto una grande pace". Quella notte Jacques udì una voce che gli diceva: "Tu ricevi le grazie della tua morte!". Una frase per lui incomprensibile, il cui senso capirà più tardi.

Inizia una nuova vita in Cristo. Il cambiamento di questo giovane è qualche cosa di straordinario: è una testimonianza di quanto Dio può operare. "Ora veramente ho la certezza di cominciare a vivere per la prima volta. Ho la pace e ho dato un senso alla mia vita, mentre prima non ero che un uomo morto!". Jacques organizza la vita in prigione come la vita in un monastero: si dà un orario per la preghiera, legge libri religiosi e la Bibbia, scrive lettere per dare conforto ai suoi famigliari, che stanno vivendo una grossa crisi, vuole soprattutto poter vivere per riparare il male fatto.

Arriva il giorno del processo: il 3 aprile 1957 si apre il processo che si conclude con la sua condanna a morte. In quel momento capisce la frase: "Tu ricevi le grazie della tua morte!". Jacques dopo un iniziale smarrimento vive la sentenza e la condanna come una vocazione ad amare fino in fondo la croce di Gesù. Egli desidera prepararsi spiritulamente alla sua morte e desidera salutare da vero cristiano tutti coloro che lo hanno amato e coloro a cui ha fatto del male. Scrive alla moglie e alla sua piccola figlia di 6 anni, si mette in contatto, tramite il suo avvocato anche con la famiglia del gendarme che lui ha ucciso per chiedere il perdono. Nonostante il grande cambiamento di vita che stupisce lo stesso presidente della Repubblica a cui era stata inoltrata la domanda di grazia, la sentenza viene confermata per il 30 settembre.

Le ultime ore: l'attesa dell'incontro con Gesù. "Ancora soltanto qualche ora di lotta, prima di conoscere Colui che è l'Amore. Oggi sarò in cielo. Cara mamma, innanzi tutto ti devo dire un grosso grazie per tutto l'amore di cui mi hai circondato in questi ultimi mesi... Tu sai che Gesù ha detto nel suo vangelo: Ero carcerato e siete venuti a visitarmi. Con queste righe io ti affido la mia bambina e mia moglie. Proteggile assiduamente. Amale in Dio e sii certa che di lassù io vi proteggerò e veglierò su di voi...". Alle 5,30 del mattino del 30 settembre le guardie carcerarie che sono veute a prenderlo per l'esecuzione capitale, lo trovano in ginocchio e in preghiera accanto al letto rifatto. Si confessa e riceve l'Eucarestia. Abbraccia il crocefisso e si avvia verso la ghigliottina... Le ultime sue parole: "Signore non abbandonarmi, io confido in te!".

confessioneconversionecambiare vitapeccatomisericordia di Dio

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 13/12/2005

TESTO

83. Il Segno della Croce

Matteo Salvatti

Che dono, che grande dono, il Segno della Croce! Non dovremmo mai stancarci di ringraziare il Signore per questo gesto di amore verso di noi. Un dono eterno, che mai si esaurisce e che sempre possiamo sfruttare a nostro beneficio.

Con il segno della santa croce noi veniamo inglobati, subito, all'istante, nel grande vortice del paradiso. Siamo già in paradiso, siamo già con Lui! Non c'è istante della vita in cui non possa essere composta questa melodia del cielo. Non c'è problema che non sia immediatamente alleviato da quel gesto. Un gesto universale, perché non esiste preghiera tanto semplice e tanto bella. Una preghiera così universale che ingloba tutti, che si esprime con il solo linguaggio dell'amore, che travalica, supera ogni lingua, così che davanti a quel gesto tutte le nazioni, tutti i continenti si scoprono davvero fratelli.Ogni volta che tracciamo il segno della croce su di noi, ci tocchiamo prima il capo: simbolo della ragione, perché la ragione è essenziale per giungere a Dio, la cui conoscenza non è gioco cieco, avventura spericolata. Poi ci tocchiamo il cuore, perché la fede è l'amore, è l'amore di Dio, è il Suo dono gratuito, senza il quale non possiamo credere, è fondamentale la sua grazia. E infine ci tocchiamo le spalle, perché è il nostro corpo, la nostra responsabilità, la nostra singolarità di persone che alla fine deve accettare Dio. Ognuno lo deve accettare singolarmente, con una adesione personale.

Ma il segno della croce non testimonia solo la fede: il segno della croce testimonia anche la carità. Noi ci tocchiamo il capo, perché dobbiamo conoscere Dio con le parole, tramite la Sua rivelazione, tramite la Sua parola rivelata, ma ci tocchiamo anche il cuore, perché poi dobbiamo saper meditare, come Maria, tutto nell'amore, e infine ci tocchiamo per due volte le spalle: perché tutto deve trasformarsi in carità operosa, altrimenti tutto diventa sterile.

Il segno della santa croce: tracciamo su di noi il segno della croce di Gesù, il vessillo glorioso, la nostra salvezza. Con quel gesto noi abbracciando noi stessi con le nostre stesse braccia abbracciamo Gesù e ci doniamo completamente e totalmente a Lui, accettiamo apertamente la Sua Croce.

Il segno della Santa Croce: l'orgoglio dei cristiani: quel gesto da compiere tutti i giorni, più volte al giorno, in tutte le circostanze. Anche quando la malattia impedisce la parola o neppure ci si può alzare dal letto, quel gesto fatto con fede quanta pace dona, quanta gioia, quanti miracoli ottiene!

crocesegno di croce

inviato da Matteo Salvatti, inserito il 09/12/2005

TESTO

84. Il mistero del male. La bellezza che salva

Abbé Pierre

La situazione del mondo è tale, che ci è impossibile non interrogare Dio. Dio che è eterno Amore, Amore infinito. Personalmente, nei miei 93 anni ormai, avendo anche avuto l'occasione di vedere e di toccare con mano, in ogni angolo della terra, tante miserie, tante ingiustizie, tanti mali, tanti crimini, tanti delitti di ogni sorta, più di una volta ho osato chiedere: "Dio mio, ma perché? A che gioco stai giocando? Forse al massacro dell'umanità?". Ho letto da qualche parte che anche Woody Allen, lui pure ferito da questa crudele realtà, ha esclamato: "se Dio esiste, spero abbia una spiegazione di tutto questo...".

E' comprensibile non capire questa "assenza" di Dio, e gridargli con tutto l'Amore e anche la rabbia che abbiamo dentro di noi: "Signore basta! Quanti miliardi di persone innocenti devono ancora soffrire e morire ingiustamente?". Certo, amo Dio profondamente e credo con tutte le mie forze che Lui può tutto, anzi è Tutto, ma non posso stare zitto. Di questa situazione del mondo, non capisco nulla. Non capisco nulla, ma a differenza di Woody Allen che "spera", io sono che Dio ha una spiegazione.

Credo nella perfezione infinita di Dio, ma nello stesso tempo mi interrogo, devo interrogarmi sul perché di questa sofferenza così ingiusta e detestabile.

E so benissimo che mentre io sento il bisogno, il dovere di gridare a Dio: "Mio Dio, basta!", Lui pure, a sua volta, avendoci dotati di intellligenza e di responsabilità, potrebbe gridarci ugualmente: "Basta!". E chiederci conto di come mai, anziché utilizzare la nostra intelligenza, le nostre risorse e le nostre conoscenze per alimentare sulla terra solo paure e guerre, per disumani sfruttamenti dei più deboli, per rompere l'armonia del creato spezzando le regole che regolano l'ambiente, non mettiamo le nostre qualità migliori al servizio dell'umanità, cominciando dai più deboli e dai più sofferenti. Gridiamo pure "Basta" a Dio, ma sappiamo anche ascoltare i suoi "Basta"... questo non ci impedisce di vedere la bellezza e la bontà che pur esitono nel mondo: nella vita che comincia, ovunque e comunque, nell'immensità del mare, nell'incanto delle stelle, soprattutto nella gioia del sorriso dei bimbi... questi doni che Dio ci fa di continuo possono essere una prima spiegazione alle nostre giuste interpellanze di Dio. E devono essere anche le ragioni per dare, da parte nostra, la risposta alle interpellanze di Dio nei nostri confronti. Non possiamo dimenticare che la prima risposta di Dio ai nostri interrogativi sull'esistenza del male nel mondo è la reale presenza di Gesù nell'Eucaristia. Questa presenza esige coerenza nella vita di noi cristiani. Pur non dandoci la risposta, l'Eucaristia ci indica da che parte stare, concretamente, in questo mondo minato dall'odio, dal terrorismo, dalla miseria e dalla sofferenza, non solo materiale, di troppo miliardi di figli di Dio. Innocenti. Ci dà la forza di non scoraggiarci, pur così terribilmente fragili. Ci rende capaci, se lo vogliamo, di donarci tutti agli altri, ben sapendo che non possiamo essere felici prendendo ma donandoci senza riserva, senza altri calcoli, senza speculazione alcuna, agli altri. E non dimentichiamo che lo spirito di Dio soffia. Dove e come vuole. Una "sveglia" per tutti gli umani.

sofferenzamaledoloregiustiziaingiustiziaimpegnoresponsabilità

5.0/5 (1 voto)

inviato da Don Giovanni Benevenuto, inserito il 09/12/2005

TESTO

85. Terza Lettera a Timoteo   2

Francesco Lambiasi

La seguente lettera è uno "pseudoepigrafo paolino", sulla conversione missionaria del prete; è una simpatica e profonda lettera rivolta da un vescovo ai preti di oggi.

Carissimo fratello Timoteo,

da circa un mese sei parroco in Santa Maria del terzo Millennio. Come non ricordare la solenne e commovente "presa di possesso"? L'unica pecca che stava per guastare la festa fu proprio quella bruttissima espressione - "presa di possesso" - che il cancelliere vescovile voleva implacabilmente inserire nel verbale da conservare nell'archivio Diocesano e in quello parrocchiale. Ti ho letto nel lampo degli occhi che stavi per scattare - per dire con la vostra brutalità giovanile che non ti sentivi affatto un vassallo in atto di prendere possesso del suo ambìto feudo. Intervenni io, un po' a gamba tesa, e spiegai alla tanta gente in festa che tu, la parrocchia, non l'avresti mai e poi mai vista come un "tuo" possesso, ma solo come un dono immeritato e preziosissimo, e a quel punto mi permisi un'autocitazione, presa dalla mia seconda lettera ai cristiani di Corinto: noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia.

Mi telefonasti la sera dopo, e mi dicesti: "Che bella parrocchia! E c'è anche la luna!". Da allora non ti ho più visto né sentito, ma dato che siamo al primo... "trigesimo" di quel felice inizio, ho pensato bene di scriverti questa breve lettera, perché vorrei che la tua gioia di essere parroco crescesse di giorno in giorno.

Sì, lo so: questo miracolo della beatitudine è purtroppo un po' raro tra noi pastori, ma non è improbabile e niente affatto impossibile. Ed è proprio di questo che vorrei parlarti. Stai sereno, non ti rifilo un trattato di ascetica e mistica sulla carità pastorale. Ti vorrei parlare solo di una condizione assolutamente irrinunciabile - "sine qua non", si diceva ai miei tempi - perché il miracolo si avveri. Sarai un parroco felice nella misura in cui sarai un vero missionario. Non si scappa: o missionari o... dimissionari.

E' una conversione profonda, che bisogna rinnovare ogni giorno. Ogni mattina, prima di mettere i piedi fuori dal letto, beato te se dirai: "Grazie, Signore, per avermi creato, fatto cristiano, e grazie per avermi fatto questi piedi belli per il vangelo". Scrivi sullo specchio in sagrestia, o almeno in quello del bagno: "Non sono un professionista del sacro, né un insegnante della fede: sono un annunciatore del vangelo". Quando ero a Corinto io avevo scritto sulla porta della stanzetta nella casa di Aquila e Priscilla: Non sono stato mandato qui a battezzare, ma ad evangelizzare.
Ricordi la grammatica di base del missionario, che ti ho insegnato quando prima di essere tuo vescovo, ti ho fatto da rettore in seminario? E' una grammatica costruita su un quadrilatero di certezze che devono rimanere solide più delle fondamenta della tua splendida chiesetta romanica:

- La parola di Dio è come l'acqua e la neve, se cade...
- La Parola non è lontana, ma molto vicina al cuore, anzi è dentro. Basta trovare il modo per far scattare il contatto...
- "Come agnelli tra i lupi" non è per farci sbranare, ma per far accogliere il messaggio: quanto più siamo deboli umanamente...
- A noi tocca il compito di annunciare. E' il Signore che veglia sulla sua parola perché si realizzi...

Stai attento, Timoteo: devi essere severo nel vigilare che questo spirito missionario non venga aggredito da virus micidiali, quali l'IO-latria del prete che pensa: "Come me non c'è nessuno: prima di me e dopo di me, non ci sarà nessuno uguale a me!". Perciò niente cose alla "W il parroco!". Un altro virus che fa strage in casa nostra è quello dello stress da pastorale: correre, competere, confliggere e alla fine... l'eterno riposo! Ma non c'è da scherzare neanche con la depressio clericalis (si chiama così anche quando infetta i laici): la si vede come un messaggio scritto sulla maglietta in quei "nostri" che vanno in giro con l'aria fritta di chi sembra dire: "fateme 'na flebo". Ti ripeto: devi essere severo. E se lo sarai con te, potrai vigilare anche sullo spirito missionario dei "vicini". Per esempio i gruppi - dal coro a quello liturgico, a quello catechistico e caritativo, dall'AC ai carismatici - non devono essere luoghi di potere o gradini per emergere (è un pericolo sempre in agguato), ma sviluppare il servizio al vangelo. Allora la tua - la vostra - parrocchia non sarà una scuola in cui si spiega il cristianesimo o, peggio ancora, un ufficio di controllo della fede dei parrocchiani, ma riuscirete a far circolare la parola di Dio per le strade, in modo che la gente la incontri.

E con gli altri? Quelli che si servono della parrocchia per continuare abitudini e consuetudini sociali; quelli che la ignorano: cosa puoi esigere se non hanno le motivazioni? Allora ringrazia Dio tutte le volte che càpitano a messa. Tutte le volte che ti portano i figli al catechismo. Tutte le volte che ti chiedono i sacramenti, per sé o per i figli, o il funerale per il caro estinto. Anche se per le loro motivazioni non proprio di fede. Tutte le volte! Non è una disgrazia: è un dono di Dio che vengano, quando saresti tu che dovresti andare a cercarli.

Accogliendoli così come sono, non farai finta che abbiano le tue motivazioni. Quindi non li rimproveri e non li ricatti, non imponi loro dei compiti come se avessero le tue motivazioni, non parli loro e non fai prediche come se avessero la fede. Ti comporti da missionario: entri nella loro situazione, cerchi di capire le loro domande e i loro interessi, parli la loro lingua, proponi con libertà e chiarezza il messaggio, non imponi loro dei fardelli che nemmeno tu riesci a portare.
Per finire, permettimi di ricordarti alcune regole che ti potranno servire per misurare il tuo spirito missionario.

1. Non maledire i tempi correnti: è arrivato al capolinea il cristianesimo dell'abitudine e sta rinascendo il cristianesimo per scelta, per innamoramento.
2. Non anteporre nulla all'annuncio di Gesù Cristo, morto e risorto. Afferra ogni situazione, ogni problema, ogni interesse e riportalo lì, al centro di tutta la fede.
3. Annuncia il cristianesimo delle beatitudini e non vergognarti mai del vangelo della croce: Cristo non toglie nulla e dà tutto!
4. Il vangelo è da proporre, non da imporre. Non imporlo mai a nessuno, neanche ai bambini, soprattutto ai bambini: gli resterebbe un ricordo negativo per tutta la vita.
5. Non amareggiarti per l'indifferenza dei "lontani" e non invocare mai il fuoco dal cielo perché li consumi, ma fa' festa anche per uno solo di loro che si converte.
6. Ricorda: il kerygma non è come un chewing-gum che più si mastica e più perde sapore. Il messaggio cristiano non è da ripetere meccanicamente, è da reinterpretare nella mentalità e nella lingua della gente: vedi s. Paolo. Scusami: guarda me...
7. Sogna una parrocchia che sia segno e luogo di salvezza, non club di perfetti.
8. Non credere di comunicare il vangelo da solo! Almeno in 2, meglio in 12, molto meglio in 72! Creare un gruppo di parrocchiani veri per evangelizzare i presunti tali.
9. Ricordati che i laici non vanno usati come ausiliari utili, ma vanno aiutati a diventare collaboratori corresponsabili.
10. Non ridurti mai a vigile del traffico intraparrocchiale: tu non sei il coordinatore delle attività o il superanimatore di gruppi, ma sei una vera guida, sei il primo evangelizzatore.

Ti auguro di credere sempre nella presenza forte e dolce dello Spirito Santo e ti raccomando di ravvivare il dono di Dio che è in te per l'imposizione delle mie mani.

Caro Timoteo, ti ripeto quanto ti scrissi nella mia prima Lettera: Custodisci con cura tutto quanto ti è stato affidato. Evita le chiacchiere contrarie alla fede. E ti raccomando pure quanto ti scrissi nella seconda Lettera: Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù: annuncia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e inopportuna, rimprovera, raccomanda e incoraggia con tutta la tua pazienza.

La grazia sia con te e con tutti i fedeli della tua comunità, anche con quelli che ancora non sei riuscito ad incontrare!

Paolo, missionario di Gesù Cristo

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inserito il 01/10/2005

PREGHIERA

86. Maria, donna obbediente

Tonino Bello

Si sente spesso parlare di obbedienza cieca. Mai di obbedienza sorda. Sapete perché? Per spiegarvelo devo ricorrere all'etimologia, che, qualche volta, può dare una mano d'aiuto anche all'ascetica.

Obbedire deriva dal latino "ob-audire". Che significa: ascoltare stando di fronte. Quando ho scoperto questa origine del vocabolo, anch'io mi sono progressivamente liberato dal falso concetto di obbedienza intesa come passivo azzeramento della mia volontà, e ho capito che essa non ha alcuna rassomiglianza, neppure alla lontana, col supino atteggiamento dei rinunciatari.

Chi ubbidisce non annulla la sua libertà, ma la esalta. Non mortifica i suoi talenti, ma li traffica nella logica della domanda e dell'offerta. Non si avvilisce all'umiliante ruolo dell'automa, ma mette in moto i meccanismi più profondi dell'ascolto e del dialogo.

C'è una splendida frase che fino a qualche tempo fa si pensava fosse un ritrovato degli anni della contestazione: "obbedire in piedi". Sembra una frase sospetta, da prendere, comunque, con le molle. Invece è la scoperta dell'autentica natura dell'obbedienza, la cui dinamica suppone uno che parli e l'altro che risponda. Uno che faccia la proposta con rispetto, e l'altro che vi aderisca con amore. Uno che additi un progetto senza ombra di violenza, e l'altro che con gioia ne interiorizzi l'indicazione.

In effetti, si può obbedire solo stando in piedi. In ginocchio si soggiace, non si obbedisce. Si soccombe, non si ama. Ci si rassegna, non si collabora.

Teresa, per esempio, che è costretta a dire sì a tutte le voglie del marito e non può uscire mai di casa perché lui è geloso, e la sera, quando torna ubriaco e i figli piangono, lei si prende un sacco di botte senza reagire, è una donna repressa, non è una donna obbediente. Il Signore un giorno certamente la compenserà: ma non per la sua virtù, bensì per i patimenti sofferti.

L'obbedienza, insomma, non è inghiottire un sopruso, ma è fare un'esperienza di libertà. Non è silenzio di fronte alle vessazioni, ma è accoglimento gaudioso di un piano superiore. Non è il gesto dimissionario di chi rimane solo con i suoi rimpianti, ma una risposta d'amore che richiede per altro, in chi fa la domanda, signorilità più che signoria.

Chi obbedisce non smette di volere, ma si identifica a tal punto con la persona a cui vuol bene, che fa combaciare, con la sua, la propria volontà. Ecco l'analisi logica e grammaticale dell'obbedienza di Maria.

Questa splendida creatura non si è lasciata espropriare della sua libertà neppure dal Creatore. Ma dicendo "Sì", si è abbandonata a lui liberamente ed è entrata nell'orbita della storia della salvezza con tale coscienza responsabile che l'angelo Gabriele ha fatto ritorno in cielo, recando al Signore un annuncio non meno gioioso di quello che aveva portato sulla terra nel viaggio di andata.

Forse non sarebbe sbagliato intitolare il primo capitolo di Luca come l'annuncio dell'angelo al Signore, più che l'annuncio dell'angelo a Maria.

Santa Maria, donna obbediente, tu che hai avuto la grazia di "camminare al cospetto di Dio", fa' che anche noi, come te, possiamo essere capaci di "cercare il suo volto".

Aiutaci a capire che solo nella sua volontà possiamo trovare la pace. E anche quando egli ci provoca a saltare nel buio per poterlo raggiungere, liberaci dalle vertigini del vuoto e donaci la certezza che chi obbedisce al Signore non si schianta al suolo, come in un pericoloso spettacolo senza rete, ma cade sempre nelle sue braccia.

Santa Maria, donna obbediente, tu sai bene che il volto di Dio, finché cammineremo quaggiù, possiamo solo trovarlo nelle numerose mediazioni dei volti umani, e che le sue parole ci giungono solo nei riverberi poveri dei nostri vocabolari terreni. Donaci, perciò, gli occhi della fede perché la nostra obbedienza si storicizzi nel quotidiano, dialogando con gli interlocutori effimeri che egli ha scelto come segno della sua sempiterna volontà.

Ma preservaci anche dagli appagamenti facili e dalle acquiescenze comode sui gradini intermedi che ci impediscono di risalire fino a te. Non è raro, infatti, che gli istinti idolatrici, non ancora spenti nel nostro cuore, ci facciano scambiare per obbedienza evangelica ciò che è solo cortigianeria, e per raffinata virtù ciò che è solo squallido tornaconto.

Santa Maria, donna obbediente, tu che per salvare la vita di tuo figlio hai eluso gli ordini dei tiranni e, fuggendo in Egitto, sei divenuta per noi l'icona della resistenza passiva e della disobbedienza civile, donaci la fierezza dell'obiezione, ogni volta che la coscienza ci suggerisce che "si deve obbedire a Dio piuttosto che agli uomini".

E perché in questo discernimento difficile non ci manchi la tua ispirazione, permettici che, almeno allora, possiamo invocarti così: "Santa Maria, donna disobbediente, prega per noi".

MariaMadonnaobbedienzaascolto

inviato da Giulio Bianchi, inserito il 23/09/2005

RACCONTO

87. E Dio creò la mamma   4

Bruno Ferrero, 40 Storie nel deserto

Il buon Dio aveva deciso di creare... la mamma. Ci si arrabattava intorno già da sei giorni, quand'ecco comparire un angelo che gli fa: "Questa qui te ne fa perdere di tempo, eh?". E Lui: "Sì, ma hai letto i requisiti dell'ordinazione? Dev'essere completamente lavabile, ma non di plastica... avere 180 parti mobili tutte sostituibili... funzionare a caffè e avanzi del giorno prima... avere un bacio capace di guarire tutto, da una sbucciatura ad una delusione d'amore... e sei paia di mani". L'angelo scosse la testa e ribatté incredulo: "Sei paia?!". "Il difficile non sono le mani - disse il buon Dio - ma le tre paia di occhi che una mamma deve avere". "Così tanti?". Dio annuì. "Un paio per vedere attraverso le porte chiuse quando domanda "che state combinando lì dentro, bambini?", anche se lo sa già; un altro paio dietro la testa, per vedere quello che non dovrebbe vedere, ma che deve sapere; un altro paio ancora per dire tacitamente al figlio che si è messo in un guaio "capisco e ti voglio bene lo stesso".

"Signore - fece l'angelo sfiorandogli gentilmente un braccio - va' a dormire. Domani è un altro...". "Non posso - ripose il Signore - ho quasi finito ormai. Ne ho già una che guarisce da sola se è malata, che può lavorare 18 ore di seguito, preparare un pranzo per sei con mezzo chilo di carne tritata e che riesce a tenere sotto la doccia un bambino di nove anni". L'angelo girò lentamente intorno al modello di madre, esaminandolo con curiosità: "E' troppo tenera", disse poi con un sospiro. "Ma resistente - ribatté il Signore con foga - tu non hai idea di quello che può sopportare una mamma!". "Sa pensare?". "Non solo, ma sa anche fare un ottimo uso della ragione e venire a compromessi", ribatté il Creatore. A quel punto l'angelo si chinò sul modello della madre e le passò un dito su una guancia: "Qui c'è una perdita", dichiarò. "Non è una perdita - lo corresse il Signore - è una lacrima". "E a che serve?". "Esprime gioia, tristezza, delusione, dolore, solitudine, orgoglio". "Ma sei un genio!", esclamò l'angelo. Con sottile malinconia Dio aggiunse: "A dire il vero, non sono stato io a mettercela quella cosa lì...".

mammamadrematernità

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inviato da Silvia Ongaro, inserito il 21/04/2005

TESTO

88. La lacrima di Dio

Mons. Antonio Riboldi

Deve essere stato per un'impazienza non più sopportabile che un giorno Dio Padre, fissando lo sguardo sugli uomini che si erano fatti curvi per la schiavitù, con dentro il cuore la siccità disperata del deserto, proprio come orfani destinati a non conoscere amore, disse dentro di Sé: "Basta!".

Con braccio potente raccolse tutte le stelle piccole e grandi che sono nel firmamento e con esse scrisse queste parole agli uomini: "VI AMO!" a lettere così grandi che occuparono tutto il cielo e tutti gli uomini le potessero leggere: tutti, proprio tutti...

Per la grande pietà o per il grande amore che gli riempivano il cuore, nello scrivere "Vi amo" cadde dagli occhi di Dio una lacrima che scivolò sulle stelle bagnandole tutte e facendole splendere di più e dalle stelle la lacrima andò a posarsi su una mangiatoia a Betlemme e si chiamò quel giorno Natale di Gesù, Figlio di Dio, nato da Maria Vergine.

Quella lacrima schizzò sugli occhi spenti degli uomini e questi finalmente guardarono in su e lessero: "VI AMO". Scoppiò una gran gioia e si cantò pace nel cuore di tanti. Ancora oggi gli uomini sono stanchi, soli ed aridi fino ad uno smarrimento ed un'angoscia che avvolge tutta di una coltre di tristezza che nasconde tanto il cielo da disperare che esista ancora.

Ma a Natale, ogni Natale, le stelle obbedienti si allineano per riscrivere: "VI AMO".

E torna a piovere sulla terra una lacrima di tenerezza del Padre: una lacrima che cerca ancora gli occhi spenti degli uomini per posarsi in loro come in "nuova mangiatoia di Gesù", perché il mondo sia un irrefrenabile scroscio di sorrisi.

Io a Natale apro gli occhi in su perché voglio riempirmi gli occhi di quella lacrima e piangendo di gioia come Maria.

Prego: «Guarda, Signore, me e tutti i miei amici che sono la più grande cesta, la stupenda immensa cesta, che porto sulle spalle: esaudisci, Signore, ridònati a noi perché ne abbiamo bene: senza di Te, stiamo male, ma tanto male.

Insegnaci a cercarti e tu mostrati quando ti cerchiamo.

Che ti cerchiamo, Signore, desiderandoti e ti desideriamo cercandoti. Che ti troviamo amandoti e ti amiamo trovandoti (S. Anselmo)».

nataleamore di Dio

inviato da Don Fabio Fioraso, inserito il 07/01/2005

ESPERIENZA

89. Testimonianza di Benedetta Bianchi Porro

Benedetta Bianchi Porro, Oltre il silenzio. Diari e lettere

Caro Natalino,

in «Epoca» è stata riportata una tua lettera. Attraverso le mani, la mamma me l'ha letta. Sono sorda e cieca, perciò le cose, per me, diventano abbastanza difficoltose.

Anch'io come te, ho ventisei anni, e sono inferma da tempo. Un morbo mi ha atrofizzata, quando stavo per coronare i miei lunghi anni di studio: ero laureanda in medicina a Milano. Accusavo da tempo una sordità che i medici stessi non credevano all'inizio. Ed io andavo avanti casi non creduta e tuffata nei miei studi che amavo disperatamente. Avevo diciassette anni quando ero già iscritta all'Università.

Poi il male mi ha completamente arrestata quando avevo quasi terminato lo studio: ero all'ultimo esame. E la mia quasi laurea mi è servita solo per diagnosticare me stessa, perché ancora (fino allora) nessuno aveva capito di che si trattasse.

Fino a tre mesi fa godevo ancora della vista; ora è notte. Però nel mio calvario non sono disperata. lo so che in fondo alla via Gesù mi aspetta.

Prima nella poltrona, ora nel letto che è la mia dimora ho trovato una sapienza più grande di quella degli uomini. Ho trovato che Dio esiste ed è amore, fedeltà, gioia, certezza, fino alla consumazione dei secoli.

Fra poco io non sarò più che un nome; ma il mio spirito vivrà qui fra i miei, fra chi soffre, e non avrò neppure io sofferto invano.

E tu, Natalino, non sentirti solo. Mai. Procedi serenamente lungo il cammino del tempo e riceverai luce, verità: la strada sulla quale esiste veramente la giustizia, che non è quella degli uomini, ma la giustizia che Dio solo può dare.

Le mie giornate non sono facili; sono dure, ma dolci, perché Gesù è con me, col mio patire, e mi dà soavità nella solitudine e luce nel buio.
Lui mi sorride e accetta la mia cooperazione con Lui.

Ciao, Natalino, la vita è breve, passa velocemente. Tutto è una brevissima passerella, pericolosa per chi vuole sfrenatamente godere, ma sicura per chi coopera con Lui per giungere in Patria.

Ti abbraccio. Tua sorella in Cristo, Benedetta

Lettera di Benedetta Bianchi Porro, già molto malata, ad un giovane disperato.

sofferenzadolorecrocesperanza

inviato da Don Roberto Rossi, inserito il 29/07/2004

PREGHIERA

90. Invocazione allo Spirito (versione lunga)

Tonino Bello, Parole d'amore

Spirito di Dio che agli inizi della creazione ti libravi sugli abissi dell'universo, e trasformavi in sorriso di bellezza il grande sbadiglio delle cose, scendi ancora sulla terra e donale il brivido dei cominciamenti. Questo mondo che invecchia, sfioralo con l'ala della tua gloria.
Dissipa le rughe. Fascia le ferite che l'egoismo sfrenato degli uomini ha tracciato sulla sua pelle. Mitiga con l'olio della tenerezza le arsure della sua crosta. Restituiscile il manto dell'antico splendore, che le nostre violenze le hanno strappato, e riversale sulle carni inaridite anfore di profumi.
Permea tutte le cose, e possiedine il cuore.
Facci percepire la tua dolente presenza nel gemito delle foreste divelte, nell'urlo dei mari inquinati, nel pianto dei torrenti inariditi, nella viscida desolazione delle spiagge di bitume.
Restituiscici al gaudio dei primordi. Riversati senza misura sulle nostre afflizioni.
Librati ancora sul nostro vecchio mondo in pericolo. E il deserto, finalmente, ridiventerà giardino, e nel giardino fiorirà l'albero della giustizia, e frutto della giustizia sarà la pace.

Spirito Santo che riempivi di luce i Profeti e accendevi parole di fuoco sulla loro bocca, torna a parlarci con accenti di speranza. Frantuma la corazza della nostra assuefazione all'esilio.
Ridestaci nel cuore nostalgie di patrie perdute.
Dissipa le nostre paure. Scuotici dall'omertà.
Liberaci dalla tristezza di non saperci più indignare per i soprusi consumati sui poveri.
E preservaci dalla tragedia di dover riconoscere che le prime officine della violenza e della ingiustizia sono ospitate nei nostri cuori.
Donaci la gioia di capire che tu non parli solo ai microfoni delle nostre Chiese.
Che nessuno può menar vanto di possederti. E che, se i semi del Verbo sono diffusi in tutte le aiuole, è anche vero che i tuoi gemiti si esprimono nelle lacrime dei maomettani e nelle verità dei buddisti, negli amori degli indù e nel sorriso degli idolatri, nelle parole buone dei pagani e nella rettitudine degli atei.

Spirito Santo che hai invaso l'anima di Maria per offrirci la prima campionatura di come un giorno avresti invaso la Chiesa e collocato nei suoi perimetri il tuo nuovo domicilio, rendici capaci di esultanza.
Donaci il gusto di sentirci "estroversi". Rivolti, cioè, verso il mondo, che non è una specie di chiesa mancata, ma l'oggetto ultimo di quell'incontenibile amore per il quale la Chiesa stessa è stata costituita.
Se dobbiamo attraversare i mari che ci distanziano dalle altre culture, soffia nelle vele perché, sciolte le gomene che ci legano agli ormeggi del nostro piccolo mondo antico, un più generoso impegno missionario ci solleciti a partire.
Se dobbiamo camminare sull'asciutto, mettici le ali ai piedi perché, come Maria, raggiungiamo in fretta la città. La città terrena. Che tu ami appassionatamente. Che non è il ripostiglio dei rifiuti, ma il partner con cui dobbiamo "agonizzare" perché giunga a compimento l'opera della Redenzione.

Spirito di Dio che presso le rive del giordano sei sceso con pienezza sul capo di Gesù e l'hai proclamato Messia, dilaga su questo corpo sacerdotale raccolto davanti a te.
Adornalo di una veste di Grazia. Consacralo con l'unzione, e invitalo a portare il lieto annunzio ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, e a promulgare l'anno di misericordia del Signore.
Se Gesù ha usato queste parole di Isaia per la sua autoproclamazione nella sinagoga di Nazareth e per la stesura del suo manifesto programmatico, vuole dire che anche la Chiesa oggi deve farsi solidale con i sofferenti, con i poveri, con gli oppressi, con i deboli, con gli affamati e con tutte le vittime della violenza.
Facci capire che i poveri sono i "punti di entrata" attraverso i quali tu, Spirito di Dio, irrompi in tutte le realtà umane e le ricrei. Preserva, perciò, la tua sposa dal sacrilegio di pensare che la scelta degli ultimi sia il sacrilegio di pensare che la scelta degli ultimi sia l'indulgenza alle mode di turno, e non invece la feritoia attraverso la quale la forza di Dio penetra nel mondo e comincia la sua opera di salvezza.

Spirito Santo dono del Cristo morente, fa' che la Chiesa dimostri di aver ereditato davvero. Trattienila ai piedi di tutte le croci. Quelle dei singoli e quelle dei popoli. Ispirale, parole e silenzi, perché sappia dare significato al dolore degli uomini. Così che ogni povero comprenda che non è vano il suo pianto e ripeta con il salmo "le mie lacrime, Signore, nell'otre tuo raccogli".
Rendila protagonista infaticabile di deposizione del patibolo, perché i corpi schiodati dei sofferenti trovino pace sulle sue ginocchia di Madre. In quei momenti poni sulle sue labbra canzoni di speranza.
E donale di non arrossire mai della Croce, ma di guardare ad essa come all'antenna della sua nave, le cui vele tu colmi di brezza e spingi con fiducia lontano.

Spirito di Pentecoste ridestaci all'antico mandato di profeti, dissigilla le nostre labbra, contratte dalle prudenze carnali. Introduci nelle nostre vene il rigetto per ogni compromesso. E donaci la nausea di lusingare i detentori del potere per trarne vantaggio.
Trattienici dalle ambiguità. Facci la grazia del voltastomaco per i nostri peccati. Poni il tuo marchio di origine controllata sulle nostre testimonianze.
E facci aborrire dalle parole, quando esse non trovino puntuale verifica nei fatti.
Spalanca i cancelletti dei nostri cenacoli. Aiutaci a vedere i riverberi delle tue fiamme nei processi di purificazione che avvengono in tutti gli angoli della terra. Aprici a fiducie ecumeniche. E in ogni uomo di buona volontà facci scorgere le orme del tuo passaggio.

Spirito del Signore dono del Risorto agli apostoli del cenacolo,
gonfia di passione la vita dei tuoi presbiteri. Riempi di amicizie discrete la loro solitudine. Rendili innamorati della terra, e capaci di misericordia per tutte le sue debolezze. Confortali con la gratitudine della gente e con l'olio della comunione fraterna. Ristora la loro stanchezza, perché non trovino appoggio più dolce per il loro riposo se non sulla spalla del Maestro. Liberali dalla paura di non farcela più. Dai loro occhi partano inviti a sovrumane trasparenze. Dal loro cuore si sprigioni audacia mista a tenerezza. Dalle loro mani grondi il crisma su tutto ciò che accarezzano. Fa' risplendere di gioia i loro corpi. Rivestili di abiti nuziali. E cingili con cinture di luce.
Perché, per essi e per tutti, lo sposo non tarderà.

Clicca qui per la versione breve.

Spirito SantoPentecoste

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inviato da Marco V. Stocchi, inserito il 29/07/2004

TESTO

91. Lucciole d'amore, scarafaggi di rabbia   1

"L'uomo è stato creato da Dio perché ami". Questa affermazione riassume in sé tutto quanto sia necessario dire. Certo, poi si possono dare spiegazioni, si può approfondire e discutere. Ma in ogni caso quella frase contiene tutto il necessario. Capita a volte di stupirsi per la gratuità dell'amore che riceviamo. Capita a volte che una persona abbia una semplice gentilezza verso un altro individuo, che dica una parola buona, che abbia anche solo uno sguardo di dolcezza o risponda un "grazie" di cuore, anche quando esso non sia dovuto. Queste sono piccolezze, ma ciascuna è una piccola gemma d'amore, una piccola luce... una lucciola d'amore. Ciò che le caratterizza è la loro semplicità da una parte e la loro assoluta, completa gratuità dall'altra. È un'esperienza bellissima accorgersi poi di come a volte possa instaurasi un vero e proprio circolo virtuoso grazie alla presenza di queste piccole, semplici lucciole d'amore. Se qualcuno lancia a un altro una piccola lucciola d'amore, chi la riceve ne sarà felice. Non è davvero la felicità entusiasta e sfrenata che si può provare nel vedere, per esempio, realizzato un proprio grande desiderio... è tuttavia pur sempre una piccola felicità, un senso di benessere, una piccola lucciola che, a volte, è sufficiente ad illuminare quella che altrimenti sarebbe stata solo una grigia e fredda giornata di noie, di malumori e di preoccupazioni. Forse, allora, capiterà che chi riceve una piccola lucciola d'amore si accorga della sua gratuità e del benessere che gli deriva dal ricevere questo piccolo gesto. Forse capiterà anche che si fermi un momento a riflettere e a gustare quel piccolo benessere. E forse, a questo punto, gli sorgerà il desiderio di fare altrettanto verso altre persone: donare piccole e gratuite lucciole d'amore. Se, poi, questo individuo davvero proverà a donarne alcune, allora si accorgerà con grande, meraviglioso stupore di quanto sia facile lanciare agli altri lucciole d'amore, di quanta poca fatica costi, e di quanta gioia porti non solo agli altri ma anche a lui per primo! Già, perché la fatica che occorre per lanciare piccole lucciole d'amore è davvero poca: un sorriso, una parola gentile, un gesto semplice, una cortesia da nulla, una risposta garbata ad una do-manda... sono molti gli esempi, le occasioni capitano mille volte al giorno! Chi riceve una lucciola d'amore sa quanto essa possa far bene, quanto scaldi il cuore!

Esistono a volte, invece, situazioni opposte: malumori e grattacapi possono chiudere il cuore degli uomini, e questi si riducono allora a scortesie, a risposte sgarbate, a dimenticare un "grazie" o un saluto... e questi comportamenti sono gratuiti e inaspettati, altrettanto quanto le lucciole d'amore. Sono scarafaggi di rabbia, che intristiscono il cuore, oscurano la giornata e rischiano, a volte, di innescare veri e propri circoli viziosi, in cui chi riceve uno scarafaggio di rabbia si incupisce al punto da lanciarne a sua volta ad altre persone, e così via...

Ma talvolta accade qualcosa di meraviglioso: capita infatti che qualcuno riceva uno di questi scarafaggi di rabbia e risponda ad esso con una piccola lucciola d'amore, diretta proprio verso chi gli aveva mandato la scortesia. Forse una sola lucciola in quel momento non basterà a rischiarare un cuore incupito, forse neppure due o tre... ma a volte capita di vedere persone che non si scoraggiano, e che portano dentro sé una luce tanto grande da potersi permettere di intestardirsi nel "bombardare" quel cuore cupo con lucciole d'amore. Oggi una, domani un'altra, dopodomani ancora... e dai e dai, a un certo punto anche nel cuore cupo compare un raggio di luce. E questa persona, che fino ad ieri era cupa, accenna timidamente a lanciare a sua volta a un'altra persona una piccola, minuscola, timidissima lucciola d'amore. Che gioia, che stupore, che meraviglia quando questo accade! Che meraviglia scoprire che c'è un altro cuore che si è rischiarato, e quanta gioia c'è nel vedere che questo cuore ci prende gusto, che assapora la felicità di donare lucciole d'amore, ancora e ancora... diventa quasi una droga!

A volte capita però che le persone siano esauste, che rientrino a casa sfinite da una giornata di duro lavoro, di impegni, di scadenze, di fatiche... è come se, a volte, nel rientrare a casa venisse lasciata fuori dalla porta tutta la luce che avevano albergato in cuore fino a quel momento. Si comportano con le persone più care, con i famigliari, con la moglie, con il marito come se, adesso che sono finalmente a casa, "pretendessero" di ricevere a tutti i costi qualche lucciola d'amore da essi. Se è vero che le lucciole d'amore donate dalle persone più care e dalla persona amata sono le più luminose e le più lenitive nei confronti di un animo stanco ed esausto, è anche vero purtroppo che la pretesa che lucciole ci vengano donate è in se stessa un vero e proprio scarafaggio di rabbia. E uno scarafaggio di rabbia diretto verso la persona amata morde e graffia molto di più che non uno scarafaggio lanciato da un semplice conoscente o addirittura da uno sconosciuto! Le lucciole d'amore non devono essere mai pretese: altrimenti, si spengono. L'unico modo per mantenerle sempre luminose e vive è donarle, e le più preziose sono quelle che rispondono ad un piccolo scarafaggio di rabbia, perché a volte hanno il potere di tramutarlo in una bellissima lucciola!

generositàamoregratuitàdono di séamare i nemici

5.0/5 (1 voto)

inviato da Isabella, inserito il 29/07/2004

PREGHIERA

92. Preghiera del sacerdote la domenica sera   3

Michel Quoist, Preghiere

Signore, stasera, sono solo.
A poco a poco, i rumori si sono spenti nella chiesa,
le persone se ne sono andate,
ed io sono rientrato in casa,
solo.

Ho incontrato la gente che tornava da passeggio.
Sono passato davanti al cinema che sfornava la sua porzione di folla.
Ho costeggiato le terrazze dei caffè, in cui i passanti,
stanchi, cercavano di prolungare la gioia di vivere una domenica di festa.
Ho urtato i bambini che giocavano sul marciapiede,
i bambini o Signore,
i bambini degli altri, che non saranno mai i miei.

Eccomi, Signore
solo.
Il silenzio mi incomoda,
la solitudine mi opprime.

Signore, ho 35 anni,
un corpo fatto come gli altri,
braccia nuove per il lavoro,
un cuore riservato all'amore,
ma ti ho donato tutto.
È vero, tu ne avevi bisogno.
Io ti ho dato tutto ma è duro, o Signore.

È duro dare il proprio corpo: vorrebbe darsi ad altri.
È duro amare tutti e non serbare alcuno.
È duro stringere una mano senza volerla trattenere.
È duro far nascere un'affetto, ma per donarlo a Te.
È duro non essere niente per sé per esser tutto per loro.
È duro essere come gli altri, fra gli altri, ed esser un'altra.
È duro dare sempre senza cercare di ricevere.
È duro andare incontro agli altri, senza che mai qualcuno ti venga incontro.
È duro soffrire per i peccati degli altri, senza poter rifiutare di accoglierli e portarli.
È duro ricevere i segreti, senza poterli condividere.
È duro sempre trascinare gli altri e non mai potere, anche solo un'istante, farsi trascinare.
È duro sostenere i deboli senza potersi appoggiare ad uno forte
È duro essere solo,
solo davanti a tutti,
Solo davanti al Mondo.
Solo davanti alla sofferenza,
alla morte,
al peccato.

Figlio, non sei solo,
io sono con te,
Sono te.
Perché avevo bisgono di un'umanità in più
per continuare la Mia Incarnazione e la Mia Redenzione.
Dall'eternità Io ti ho scelto,
ho bisogno di te.

Ho bisogno delle tue mani per continuare a benedire,
Ho bisogno delle tue labbra per continuare a parlare,
Ho bisogno del tuo corpo per continuare a soffrire,
Ho bisogno del tuo cuore per continuare ad amare,
Ho bisogno di te per continuare a salvare,
Resta con Me, Figlio mio.

Eccomi, Signore;
ecco il mio corpo,
ecco il mio cuore,
ecco la mia anima.
Concedimi d'essere tanto grande da raggiungere il Mondo,
tanto forte da poterlo portare,
tanto puro da abbracciarlo senza volerlo tenere.
Concedimi d'essere terreno d'incontro,
ma terreno di passaggio,
strada che non ferma a sé,
perché non vi è nulla di umano da cogliervi
che non conduca a te.

Signore, stasera, mentre tutto tace e nel mio cuore sento
duramente questo morso della solitudine,
mentre il mio corpo urla a lungo la sua fame di piacere,
mentre gli uomini mi divorano l'anima ed io mi sento incapace di saziarli,
mentre sulle mie spalle il mondo intero pesa con tutto il suo peso di miseria e di peccato,
io ti ripeto il mio sì, non in una risata, ma lentamente, lucidamente, umilmente.
Solo, o Signore davanti a te,
nella pace della sera.

I fedeli sono esigenti verso il loro prete. Hanno ragione. Ma devono sapere che è duro essere prete. Chi si è donato nella piena generosità della sua giovinezza rimane un uomo, ed ogni giorno in lui l'uomo cerca di riprendere quel che ha donato. È una lotta continua per restare totalmente disponibile al Cristo e agli altri.

Il prete non ha bisogno di complimenti o di regali imbarazzanti: ha bisogno che i cristiani, di cui ha in modo speciale la cura, amando sempre più i loro fratelli, gli provino che non ha dato invano la sua vita. E poiché rimane un uomo, può aver bisogno una volta d'un gesto delicato di amicizia disinteressata... una domenica sera in cui è solo.

Seguitemi ed io vi farò pescatori di uomini. (Mc 1,17)
Non voi avete scelto me, ma io ho sceto voi e vi ho destinati ada ndare a portare frutto, un frutto che rimanga. (Gv 15,16)
Dimentico del cammino percorso, mi protendo in avanti, corro verso la meta, per conseguire lassù il premio della vocazione di Dio nel Cristo Gesù. (Fil 3,13-14)

sacerdoziopretesacerdotesolitudineoffertà di sédonazione

inviato da Anna Barbi, inserito il 27/07/2004

TESTO

93. Fare spreco di generosità

Tonino Bello, Ti voglio bene, omelia pronunciata il 19 marzo 1993 durante il rito di Ammissione di due giovani seminaristi tra i candidati agli Ordini Sacri

... La cosa più importante che vi voglio dire è quello di fare veramente con il Signore spreco di generosità. Guardate, non impressionatevi per i problemi che ci sono nel mondo, per le difficoltà che dovete incontrare per arrivare alla meta del sacerdozio. È difficile che oggi dei giovani scelgano di seguire Gesù Cristo con totalità, con libertà, con amore, lusingati come sono da tante seduzioni: le seduzioni della strada, della piazza, del successo, non dico del denaro, perché forse, grazie a Dio, nonostante la promessa di povertà, di fame non morrete nella Chiesa. Però dovete rimanere poveri, nella condizione di dipendenza da Dio, sentirvi poveri davanti a lui.

Ci sono lusinghe, le lusinghe della ricchezza, che vi attraggono, che attraggono tanti giovani: voi resistete a queste lusinghe e andate avanti con gioia perché volete seguire il Signore. Ma è difficile, oggi.

Ci sono le lusinghe bellissime, dolcissime, nella cui trama di rugiada, carica di luce, che sa di cancelli che immettono nell'aldilà, nell'ulteriorità, è facile abbandonarsi: la lusinga dell'amore, dell'amore per una donna. Pure dentro di voi batte il cuore per queste cose sante, pure e nobili. Eppure voi con grazia, con garbo, accantonate e mettete da parte con la stessa delicatezza con cui accarezzate il volto di Gesù Cristo. Mettete da parte tutta questa potenziale esperienza che potete avere per dire: "Signore, io seguo Te più da vicino, in modo più stretto. Voglio vivere in un legame più forte per poter essere più pronto a darti una mano, più agile perché i miei piedi che annunciano la pace sui monti possano essere salutati con gioia da chi sta a valle".
"Beati i piedi di coloro che sui monti annunciano la pace".

Coraggio, non lasciatevi lusingare oppure tirar dietro: guardate avanti con grande fierezza, con grande gioia perché il Signore è vicino. Il Signore ha bisogno di voi.

Il tempo si è fatto breve. Tantissimi giovani hanno bisogno di Lui, hanno bisogno di sentir parlare di Lui. I figli chiedono il pane e non c'è chi lo spezza per loro - dice un salmo; voi fate questa prova di gettarvi a capofitto in questo abisso di luce che è Gesù Cristo. Egli poi vi dà la forza di andare avanti. Vi sostiene. Vi dà l'entusiasmo, il gusto di vivere in mezzo al popolo, non lontano, non astratti dal mondo.

Io vi auguro che non stiate mai in testa e neppure in coda, ma possiate stare in mezzo al popolo, come Gesù: "Gesù, allora si sedette in mezzo ai dottori, aprì la bocca e disse...". Si sedette in mezzo. Gesù che si siede in mezzo...

Anche voi, sedetevi in mezzo alla gente, sentite il sapore e il profumo del popolo, inebriatevi di questo grande ideale di annunciare Gesù Cristo.

È splendido: dà significato alla vostra vita. Parola di uomo. È così. Il Signore Gesù è in grado di renderci felici al punto tale che questa felicità sentite il bisogno di trasferirla agli altri, a tutti coloro che vi accostano.

...Chiedete ogni giorno a Dio che vi dia un cuore umano che batta secondo i suoi ritmi. Quanti saranno i battiti di Gesù Cristo?

Come vorrei che il mio cuore battesse come il suo, in sintonia col suo per poter trascinare tutti quanti in un vortice di amore, di tenerezza, di bontà!

Chiedete al Signore che vi dia un cuore umano perché possiate essere capaci di capire la povertà della gente, la tristezza della gente, il pianto della gente; nessuno legge più questi "audiovisivi". Sono degli audiovisivi il pianto, la sofferenza, il dolore.

Il Signore si prende gioco della morte. Cos'è la morte davanti a Lui? Cos'è la malattia davanti a Lui? Cos'è un tumore davanti a Lui? Cosa volete che sia! Come facciamo a non vivere nella gioia, nel gaudio, nella speranza del Signore? Della morte lui si prende gioco. Il Signore non ci abbandona mai.

Il Signore vi dà la mano stasera, e la tiene sempre inevitabilmente stretta. E a meno che non siate voi a dichiarare il divorzio, state tranquilli che Lui da voi non si allontanerà più. È l'augurio che vi faccio ed è anche l'offertorio che presentiamo al Signore.

generositàvocazionesacerdozioseminaristichiamata

inviato da Sandra Aral, inserito il 27/07/2004

ESPERIENZA

94. Il mio cammino con Gesù crocifisso e abbandonato

E.l.

E' iniziato così il mio cammino con Gesù Crocifisso e abbandonato.

Ero seduta di fronte al mio neurologo che con il volto preoccupato leggeva i risultati degli accertamenti da me eseguiti perché da tempo avevo dei proplemi alla vista e alle articolazioni, tanto da non riuscire a camminare bene. Mi aveva accompagnato una mia carissima amica.

Il neurologo mi guardava e comincia a parlare con termini medici a me poco chiari. Allora lo interrompo e gli dico: "Senti, parlami chiaramente, non ho problemi ad accettare qualunque sia la diagnosi". Mi guarda ancora quasi impacciato e mi dice: "Purtroppo è una forma di sclerosi multipla".

La mia amica rimane quasi senza respiro, io non faccio certo salti di gioia, ma in quel momento guardo un piccolo crocifisso posto nel muro dietro la scrivania del dottore. Non ascolto più le sue parole, il mio dialogo è con Gesù crocifisso e abbandonato che in quel momento mi chiama a condividere con Lui la croce della sofferenza, come il Cireno che sulla strada del Calvario prende la croce di Gesù.

Quella sera non dissi niente a mia figlia e mio marito, ma ho preso il Vangelo e leggo il discorso della montagna che Gesù fa alla folla e dice: "...beati i poveri, beati gli afflitti, beati gli operatori di pace, beati i poveri di spirito perché di loro sarà il regno de cieli...". Con quete parole ho messo nelle mani di Gesù le mie preoccupazioni, la mia sofferenza e la croce è diventata "un giogo leggero e soave" perché Gesù dice ancora: "venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi ed io vi ristorerò".

Questo dialogo con Gesù scaturisce dalla preghiera e meditazione della sua Parola, mi aiuta a liberare lo spirito da ogni cosa che mi impedisce di entrare in comunione con il Padre sempre pronto ad ascoltarci e risollevarci. L'apostolo Luca nella prima domenica di avvento ci dice "vegliate e pregate, alzate il capo non lasciatevi appessantire dagli eventi della vita". Ma gettiamo ogni preoccupazione nelle mani di Dio ed egli ci soleverà. Solo così si può accogliere Gesù che per amore nostro nasce nella povertà e umiltà, Dio mi ama e ci ama di un amore infinito, sono felice di averlo incontrato, in modo particolare, in questo momento di prova.

Ogni giorno offro a Lui la mia malattia, la mia sofferenza per tutti gli ammalati, chi si sente solo, i giovani, affinché possiamo riscoprire la tenerezza dell'amore di un Padre che non ci abbandona mai.

doloresofferenzacrocesacrificio

inviato da E.l., inserito il 22/12/2003

RACCONTO

95. La benedizione   1

Bruno Ferrero, Solo il vento lo sa

Nella comunità dell'Arca dove aveva deciso di vivere, dopo una vita passata nel mondo universitario, un giorno il celebre padre Henri Nouwen fu avvicinato da una handicappata della comunità che gli disse: "Henri, mi puoi benedire?". Padre Nouwen rispose alla richiesta in maniera automatica, tracciando con il pollice il segno della croce sulla fronte della ragazza.

Invece di essere grata, lei protestò con veemenza: "No, questa non funziona. Voglio una vera benedizione!". Padre Nouwen si accorse di aver risposto in modo abitudinario e formalistico e disse: "Oh, scusami... ti darò una vera benedizione quando saremo tutti insieme per la funzione".

Dopo la funzione, quando circa una trentina di persone erano sedute in cerchio sul pavimento, padre Nouwen disse: "Janet mi ha chiesto di darle una benedizione speciale. Lei sente di averne bisogno adesso".

La ragazza si alzò e andò verso il sacerdote, che indossava un lungo abito bianco con ampie maniche che coprivano sia le mani che le braccia. Spontaneamente Janet lo abbracciò e pose la testa contro il suo petto. Senza pensarci, padre Nouwen la avvolse con le sue maniche al punto di farla quasi sparire tra le pieghe del suo abito.

Mentre si tenevano l'un l'altra padre Nouwen disse: "Janet, voglio che tu sappia che sei l'Amata Figlia di Dio. Sei preziosa agli occhi di Dio. Il tuo bel sorriso, la tua gentilezza verso gli altri della comunità e tutte le cose buone che fai, ci mostrano che bella creatura tu sei. So che in questi giorni ti senti un po' giù e che c'è della tristezza nel tuo cuore, ma voglio ricordarti chi sei: sei una persona speciale, sei profondamente amata da Dio e da tutte le persone che sono qui con te". Janet alzò la testa e lo guardò; il suo largo sorriso dimostrò che aveva veramente sentito e ricevuto la benedizione.

Quando Janet tornò al suo posto, tutti gli altri handicappati vollero ricevere la benedizione. Anche uno degli assistenti, un giovane di ventiquattro anni, alzò la mano e disse: "E io?". "Certo", rispose padre Nouwen. "Vieni".

Lo abbracciò e disse: "John, è cosi bello che tu sia qui. Tu sei l'Amato Figlio di Dio. La tua presenza è una gioia per tutti noi. Quando le cose sono difficili e la vita è pesante, ricordati sempre che tu sei Amato di un amore infinito". Il giovane lo guardò con le lacrime agli occhi e disse: "Grazie, grazie molte".

La sensazione di essere maledetti spesso colpisce più facilmente che la sensazione di essere benedetti. Dobbiamo riscoprire il senso e la bellezza della benedizione. E quando le cose sono difficili e la vita è pesante ricordati chi sei: sei una persona speciale, sei profondamente amato da Dio e da tutte le persone che sono con te.

amorebenedizionerapporto con Dio

inviato da Maurizio Seghieri, inserito il 16/12/2003

RACCONTO

96. I due specchi   3

Un giorno Satana scoprì un modo per divertirsi. Inventò uno specchio diabolico che aveva una magica proprietà: faceva vedere meschino e raggrinzito tutto ciò che era bello e buono.

Satana se ne andava in giro dappertutto con il suo terribile specchio. E tutti quelli che ci guardavano dentro rabbrividivano: ogni cosa appariva deformata e mostruosa.

Il maligno si divertiva moltissimo con il suo specchio: più le cose erano ripugnanti più gli piacevano. Un giorno, lo spettacolo che lo specchio gli offriva era così piacevole ai suoi occhi che scoppiò a ridere in modo scomposto: lo specchio gli sfuggì dalle mani e si frantumò in milioni di pezzi.

Un uragano potente e maligno fece volare i frammenti dello specchio in tutto il mondo. Alcuni frammenti erano più piccoli di granelli di sabbia ed entrarono negli occhi di molte persone. Queste persone cominciarono a vedere tutto alla rovescia: si accorgevano solo di ciò che era cattivo e vedevano cattiveria dappertutto.

Altre schegge diventarono lenti per occhiali. La gente che si metteva questi occhiali non riusciva più a vedere ciò che era giusto ed a giudicare rettamente.
Non hai, per caso, già incontrato degli uomini così?

Qualche pezzo di specchio era così grosso, che venne usato come vetro da finestra. I poveretti che guardavano attraverso quelle finestre vedevano solo vicini antipatici, che passavano il tempo a combinare cattiverie.

Quando Dio si accorse di quello che era successo si rattristò. Decise di aiutarli.

Disse: "Manderò nel mondo mio Figlio. E' Lui la mia immagine, il mio specchio. Rispecchia la mia bontà, la mia giustizia, il mio amore. Riflette l'uomo come io l'ho pensato e voluto.".

Gesù venne come uno specchio per gli uomini. Chi si specchiava in Lui riscopriva la bontà e la bellezza e imparava a distinguerle dall'egoismo e dalla menzogna, dall'ingiustizia e dal disprezzo.

I malati ritrovavano il coraggio di vivere, i disperati riscoprivano la speranza. Consolava gli afflitti e aiutava gli uomini a vincere la paura della morte.

Molti uomini amavano lo specchio di Dio e seguirono Gesù. Si sentivano infiammati da Lui.

Altri invece ribollivano di rabbia: decisero di rompere lo specchio di Dio. Gesù fu ucciso. Ma ben presto si levò un nuovo possente uragano: lo Spirito Santo.

Sollevò i milioni di frammenti dello specchio e li soffiò in tutto il mondo.

Chi riceve anche una piccolissima scintilla di questo specchio nei suoi occhi comincia a vedere il mondo e le persone come li vedeva Gesù: si riflettono negli occhi prima tutto le cose belle e buone, la giustizia e la generosità, la gioia e la speranza; le cattiverie e le ingiustizie invece appaiono modificabili e vincibili.

benemalepregiudiziSpirito SantoPentecosteincarnazione

3.3/5 (3 voti)

inviato da Tiziana Venturi, inserito il 28/06/2003

PREGHIERA

97. Preghiera per la pace

Carlo Maria Martini

O Dio nostro Padre, ricco di amore e di misericordia, noi vogliamo pregarti con fede per la pace, addolorati e umiliati come siamo a causa degli episodi di violenza che hanno insanguinato e insanguinano Gerusalemme, città il cui nome evoca subito il mistero di morte e di risurrezione del tuo Figlio, di Gesù che ha donato la sua vita per riconciliare ogni uomo e ogni donna di questo mondo con te, con se stessi, con tutti i fratelli. Città santa, città dell'incontro eppure città da sempre contesa, da sempre crocifissa e sulla quale il tuo Figlio, i profeti e i santi hanno invocato la pace.

Noi vogliamo pregarti con fede per la pace in tanti altri paesi del mondo, per i numerosi focolai di lotte e di odio; vogliamo pregarti per gli aggressori e per gli aggrediti, per gli uccisi e gli uccisori, per tutti i bambini che non hanno potuto conoscere il sorriso e la gioia della pace.

E' vero, Signore, che noi stessi siamo responsabili del venire meno della pace, e per questo ti supplichiamo di accogliere il nostro accorato pentimento, di donarci una volontà umile, forte, sincera per ricostruire nella nostra vita personale e comunitaria rapporti di verità, di giustizia, di libertà, di carità, di solidarietà. Ti confessiamo i nostri peccati personali e sociali: il nostro attaccamento al benessere, i nostri egoismi, le infedeltà e i tradimenti a livello familiare, la pigrizia e lo sciupio delle energie vitali per cose vane e frivole, dannose, il nostro voltare la faccia di fronte alle miserie di chi ci sta vicino o di chi viene da lontano. Vivendo così, non abbiamo forse pensato di renderci responsabili della distruzione di quell'edificio invisibile che è la pace. La pace terrestre è riflesso della tua pace che tu ci doni e ci affidi, nasce dal tuo amore per l'uomo e dal nostro amore per te e per tutti i fratelli.

Cambia il nostro cuore, Signore, perché siamo noi i primi ad avere bisogno di un cuore pacifico. Purificaci, per il mistero pasquale del tuo Figlio, da ogni fermento di ostilità, di partigianeria, di partito preso; purificaci da ogni antipatia, da ogni pregiudizio, da ogni desiderio di primeggiare.

Facci comprendere, o Padre, il senso profondo di una preghiera vera di pace, di una preghiera di intercessione e di espiazione simile a quella di Gesù su Gerusalemme. Preghiera di intercessione che ci renda capaci di non prendere posizione nei conflitti, ma di entrare nel cuore delle situazioni insanabili diventando solidali con entrambe le parti in contesa, pregando per l'una e per l'altra. Noi vogliamo abbracciare con amore tutte le parti in causa, fiduciosi soltanto nella tua divina potenza. Se noi preghiamo perché tu dia vittoria all'uno o all'altro, questa preghiera tu non l'ascolti; se ci mettiamo a giudicare l'uno o l'altro, la nostra supplica tu non l'ascolti.

Manda il tuo santo Spirito su di noi per convertirci a te! Non ci illudiamo di superare le nostre inquietudini interiori, i rancori che ci portiamo dentro verso un popolo o verso un altro se non lasciamo spazio allo Spirito di gioia e di pace che vuole pregare in noi con gemiti inenarrabili. E' lo Spirito che ci fa accogliere quella pace che sorpassa ogni nostra veduta e diventa decisione ferma e seria di amare tutti i nostri fratelli, in modo che la fiamma della pace risieda nei nostri cuori e nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità e si irradi misteriosamente sul mondo intero sospingendo tutti verso una piena comunione di pace. E' lo Spirito che ci aiuta a penetrare nella contemplazione del tuo Figlio crocifisso e morto sulla croce per fare di tutti un popolo solo.

E tu, Maria, Regina della pace, intercedi affinché il sorriso della pace risplenda su tanti bambini sparsi nelle varie parti del mondo, segnate dalla violenza e dalla guerriglia; veglia sulla tua terra, su Gerusalemme, suscita nei suoi abitanti desideri profondi e costruttivi di pace, desideri di giustizia e di verità. Noi ti promettiamo di non temere le difficoltà e i momenti oscuri e difficili, purché tutta l'umanità cammini nella pace e nella giustizia, così che si avveri pienamente la parola del profeta Isaia: "Ho visto le vostre vie e voglio sanarle [...] Pace, pace ai lontani e ai vicini, dice il Signore, io guarirò tutti".

paceamoreperdonoconflittidialogogiustiziaingiustizia

inviato da Gianmarco Marzocchini, inserito il 01/04/2003

TESTO

98. Il lavoro

Kahlil Gibran, Il profeta

Allora un contadino disse: Parlaci del Lavoro.
E lui rispose dicendo:
Voi lavorate per assecondare il ritmo della terra e l'anima della terra.
Poiché oziare è estraniarsi dalle stagioni e uscire dal corso della vita, che avanza in solenne e fiera sottomissione verso l'infinito.

Quando lavorate siete un flauto attraverso il quale il sussurro del tempo si trasforma in musica.
Chi di voi vorrebbe essere una canna silenziosa e muta quando tutte le altre cantano all'unisono?

Sempre vi è stato detto che il lavoro è una maledizione e la fatica una sventura.
Ma io vi dico che quando lavorate esaudite una parte del sogno più remoto della terra, che vi fu dato in sorte quando il sogno stesso ebbe origine.
Vivendo delle vostre fatiche, voi amate in verità la vita.
E amare la vita attraverso la fatica è comprenderne il segreto più profondo.

Ma se nella vostra pena voi dite che nascere è dolore e il peso della carne una maledizione scritta sulla fronte, allora vi rispondo: tranne il sudore della fronte niente laverà ciò che vi è stato scritto.

Vi è stato detto che la vita è tenebre e nella vostra stanchezza voi fate eco a ciò che è stato detto dagli esausti.
E io vi dico che in verità la vita è tenebre fuorché quando è slancio,
E ogni slancio è cieco fuorché quando è sapere,
E ogni sapere è vano fuorché quando è lavoro,
E ogni lavoro è vuoto fuorché quando è amore;
E quando lavorate con amore voi stabilite un vincolo con voi stessi, con gli altri e con Dio.

E cos'è lavorare con amore?
E' tessere un abito con i fili del cuore, come se dovesse indossarlo il vostro amato.
E' costruire una casa con dedizione come se dovesse abitarla il vostro amato.
E' spargere teneramente i semi e mietere il raccolto con gioia, come se dovesse goderne il frutto il vostro amato.
E' diffondere in tutto ciò che fate il soffio del vostro spirito,
E sapere che tutti i venerati morti stanno vigili intorno a voi.

Spesso vi ho udito dire, come se parlaste nel sonno:
"Chi lavora il marmo e scopre la propria anima configurata nella pietra, è più nobile di chi ara la terra.
E chi afferra l'arcobaleno e lo stende sulla tela in immagine umana, è più di chi fabbrica sandali per i nostri piedi".
Ma io vi dico, non nel sonno ma nel vigile e pieno mezzogiorno, il vento parla dolcemente alla quercia gigante come al più piccolo filo d'erba;
E che è grande soltanto chi trasforma la voce del vento in un canto reso più dolce dal proprio amore.

Il lavoro è amore rivelato.
E se non riuscite a lavorare con amore, ma solo con disgusto, è meglio per voi lasciarlo e, seduti alla porta del tempio, accettare l'elemosina di chi lavora con gioia.
Poiché se cuocete il pane con indifferenza, voi cuocete un pane amaro, che non potrà sfamare l'uomo del tutto.
E se spremete l'uva controvoglia, la vostra riluttanza distillerà veleno nel vino.
E anche se cantate come angeli, ma non amate il canto, renderete l'uomo sordo alle voci del giorno e della notte.

lavoro

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 11/12/2002

TESTO

99. Lettera al "fratello marocchino"   1

Tonino Bello

Fratello marocchino. Perdonami se ti chiamo così, anche se col Marocco non hai nulla da spartire. Ma tu sai che qui da noi, verniciandolo di disprezzo, diamo il nome di marocchino a tutti gli infelici come te, che vanno in giro per le strade, coperti di stuoie e di tappeti, lanciando ogni tanto quel grido, non si sa bene se di richiamo o di sofferenza: tapis!

La gente non conosce nulla della tua terra. Poco le importa se sei della Somalia o dell'Eritrea, dell'Etiopia o di Capo Verde. A che serve? Il mondo ti è indifferente.

Dimmi marocchino. Ma sotto quella pelle scura hai un'anima pure tu? Quando rannicchiato nella tua macchina consumi un pasto veloce, qualche volta versi anche tu lacrime amare nella scodella? Conti anche tu i soldi la sera come facevano un tempo i nostri emigranti? E a fine mese mandi a casa pure tu i poveri risparmi, immaginandoti la gioia di chi li riceverà? E' viva tua madre? La sera dice anche lei le orazioni per il figlio lontano e invoca Allah, guardando i minareti del villaggio addormentato? Scrivi anche tu lettere d'amore? Dici anche tu alla tua donna che sei stanco, ma che un giorno tornerai e le costruirai un tukul tutto per lei, ai margini del deserto o a ridosso della brugheria?

Mio caro fratello, perdonaci. Anche a nome di tutti gli emigrati clandestini come te, che sono penetrati in Italia, con le astuzie della disperazione, e ora sopravvivono adattandosi ai lavori più umili. Sfruttati, sottopagati, ricattati, sono costretti al silenzio sotto la minaccia di improvvise denunce, che farebbero immediatamente scattare il "foglio di via" obbligatorio.

Perdonaci, fratello marocchino, se noi cristiani non ti diamo neppure l'ospitalità della soglia. Se nei giorni di festa, non ti abbiamo braccato per condurti a mensa con noi. Se a mezzogiorno ti abbiamo lasciato sulla piazza, deserta dopo la fiera, a mangiare in solitudine le olive nere della tua miseria.

Perdona soprattutto me che non ti ho fermato per chiederti come stai. Se leggi fedelmente il Corano. Se osservi scrupolosamente le norme di Maometto. Se hai bisogno di un luogo dove poter riassaporare, con i tuoi fratelli di fede e di sventura, i silenzi misteriosi della tua moschea. Perdonaci, fratello marocchino. Un giorno, quando nel cielo incontreremo il nostro Dio, questo infaticabile viandante sulle strade della terra, ci accorgeremo con sorpresa che egli ha... il colore della tua pelle.

extracomunitaristranieriaccoglienzacaritàsolidarietàamore

inviato da Anna Barbi, inserito il 11/12/2002

ESPERIENZA

100. Il mio inno d'amore per un fratello "speciale"

Rivista Dimensioni Nuove, Elledici

Sono una quattordicenne di Brescia e vi scrivo per raccontarvi la mia bellissima esperienza che fin da piccola mi ha aiutata a crescere con sentimenti forti e profondi.

Ho un fratellino e una sorella e due genitori che ci amano e ci hanno cresciuto con valori che ci hanno formato e che cerchiamo di trasmettere a quelli che ci stanno vicino. Mio fratello ha vent'anni. È rimasto celebroleso a causa di un parto difficile nel quale è mancata l'assistenza del ginecologo. Per l'asfissia di mio fratello rischiò di morire anche mia madre. Nonostante la nostra fede in Dio, non abbiamo mai perdonato quel medico che ci ha lasciato una piccola creatura sofferente che, a detta dei medici, non sarebbe vissuta più di quattro anni.

Davide (è questo il suo nome) è cresciuto circondato dal nostro amore e adesso come adesso non conosco al mondo un ragazzo più indispensabile di lui! Sarà sempre il ragazzo più importante della mia vita che, oltre ai miei genitori, mi ha trasmesso quei sentimenti che caratterizzano il mio stile di vita. In questi quattordici anni io e Davide siamo sempre stati in simbiosi perfetta: un equilibrio che col tempo si è radicato fino a diventare qualcosa di indistruttibile.

Mi ha sempre insegnato ad amare e a donare la mia vita agli altri. Lui l'ha data a tutti noi, ha dato il suo amore, la sua serenità e anche il suo corpicino debole che, nonostante la malattia l'abbia deformato e irrigidito, è di una dolcezza unica. Fra lui e me il dialogo è continuo. È il dialogo più bello, più ricco, più gratificante che esista; non ci sono parole ma soltanto amore! Quando ero piccola giocavo con lui, ridevo con lui, ma non capivo ancora chi fosse e che cosa mi donasse. Oltretutto non ha mai parlato e non si è mai mosso. Io ero piccola e per la sua immobilità era la mia bambola preferita. Ora invece sono cresciuta: amo con lui, rido ancora con lui, piango insieme a lui, soffro quando soffre lui e finalmente so chi è e che cosa continuamente ci dona. È terribile vederlo soffrire, seguire il suo respiro affannoso che scuote violentemente il suo piccolo e fragile torace. Ma il suo cuore, che oltre a farlo vivere l'ha fatto amare, è forte e anche quando cesserà di battere, il suo ritmo irregolare e debole continuerà in un'eco perfetto nella mia vita. L'amore che Davide mi regala è qualcosa di irresistibile...

È splendido osservare quanta vitalità abbia il suo bellissimo viso e quanta dolcezza vi sia nel suo sguardo a volte debole, ma comunque sempre vicino a noi. I suoi occhi scuri e profondi sono ovunque, anche quando lui non c'è e il suo sguardo andrà oltre la morte. Davide è il mio angelo, il nostro angelo, una piccola creatura mandata da Dio per portarci tanto conforto. Ma è in queste poche parole di un amico che sta l'essenza di Davide: «Ogni giorno il suo sorriso sconfigge la morte. Un prezioso diamante custodito gelosamente nelle vostre mani. Un candido fiore del paradiso disceso per donare amore!».

E questo è ciò che Davide è per noi. Questa è la mia vita.
Tanto felice e serena, qualche volta alternata a momenti difficili e tristi.
Qualcosa di veramente vero: io amo la vita, amo Dio, amo l'amore!
La strada che devo percorrere è ancora molto lunga, ma vorrei augurare a tutti i ragazzi che sono alla ricerca di qualcosa di importante, di guardarsi continuamente intorno e di capire che l'amore è possibile trovarlo!
È molto vicino e basta cercarlo nelle cose più semplici: l'amore c'è e la vita stessa è amore. Dio è amore, amore unico e inconfondibile, amore vero e continuo.
È compito nostro renderci portatori instancabili. Basta guardare gli occhi tristi di una persona che soffre, un bambino che canta, un piccolo fiore che appare, il tramonto nel silenzio di una montagna...
Tutto è amore, bisogna soltanto vederlo.
Buona fortuna a tutti!

amoresofferenzacrocedolorefelicitàgioiacomprensionesolidarietàaffettosenso della vita

inviato da Sergio, inserito il 11/12/2002

TESTO

101. Perfetta letizia

San Francesco d'Assisi

Venendo una volta santo Francesco da Perugia a Santa Maria degli Angeli con frate Leone a tempo di verno, e il freddo grandissimo fortemente il cruciava, chiamò frate Leone il quale andava un poco innanzi, e disse così: "Frate Leone, avvegnadio ch'e frati minori in ogni terra dieno grande esempio di santità e buona edificazione, nondimeno scrivi, e nota diligentemente, che non è ivi perfetta letizia".

E andando più oltre, santo Francesco il chiamò la seconda volta: "O frate Leone, benché 'l frate minore illumini i ciechi, distenda gli attratti, cacci i demoni, renda l'udire a' sordi, l'andare a' zoppi, il parlare a' mutoli e (maggior cosa è) risusciti il morto di quattro dì, scrivi che non è in ciò perfetta letizia".

E andando un poco, santo Francesco grida forte: "O frate Leone, se 'l frate minore sapesse tutte le lingue e tutte le scienzie e tutte le scritture, sì ch'e sapesse profetare e rivelare non solamente le cose future, ma eziandio i segreti delle coscienzie e degli animi, scrivi che non è in ciò perfetta letizia".

Andando un poco più oltre, santo Francesco ancora chiamò forte: "O frate Leone, pecorella di Dio, benché 'l frate minore parli con lingua d'angeli e sappi i corsi delle stelle e le virtù dell'erbe e fossongli rivelati tutti i tesori della terra e cognoscesse le nature degli uccelli e de' pesci e di tutti gli animali e degli uomini e degli arbori e delle pietre e delle radici e dell'acque, scrivi che non ci è perfetta letizia".

E andando anche un pezzo, santo Francesco chiama forte: "O frate Leone, benché 'l frate minore sapesse sì bene predicare, che convertisse tutti gl'infedeli alla fede di Cristo, scrivi che non è ivi perfetta letizia".
E durando questo modo di parlare bene due

...E durando questo modo di parlare ben di due miglia, Frate Lione con grande ammirazione il domandò: «Padre, io ti prego dalla parte di Dio, che tu mi dica dov'è perfetta letizia».

E Santo Francesco sì gli rispose: «Quando noi saremo a Santa Maria degli Angeli, cosi bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo, e infangati di loto e afflitti di fame, e picchieremo alla porta; e il portinaio verrà adirato e dirà: "Chi siete voi?", e noi diremo: "Noi siamo due de' vostri Frati". E colui dirà: "Voi non dite vero: anzi siete due ribaldi che andate ingannando il mondo e rubando le limosine de' poveri; andate via"; e non ci aprirà, e faracci star di fuori alla neve e all'acqua, col freddo e con la fame insino alla notte; allora se noi tanta ingiura e tanta crudeltate sosterremo pazientemente senza turbarsene e senza mormorare di lui; e penseremo umilmente e caritativamente che quello portinaio veramente ci cognosca, e che Iddio il fa parlare contra a noi: o Frate Lione, iscrivi, che qui è perfetta letizia. E se noi perseveriamo picchiando, e egli uscirà fuori turbato, e come gaglioffi importuni ci caccerà con villanie e con gotate, dicendo: "Partitevi quinci, ladroncelli vilissimi, andate allo spedale, che qui non mangerete né albergherete". Se noi questo sosterremo con pazienza e con allegrezza e con amore: o Frate Lione, iscrivi, che qui è perfetta letizia. E se noi, pur costretti dalla fame e dal freddo, più picchieremo e chiameremo e pregheremo per l'amore di Dio con grande pianto, che ci apra e mettaci dentro; e quello più scandalizzato dirà: "Costoro son gaglioffi importuni, io gli pagherò bene come sono degni"; e uscirà fuori con un bastone nocchieruto e piglieracci per lo cappuccio e getteracci in terra e involgeracci nella neve, e batteracci nodo a nodo con quello bastone: se noi tutto questo sosterremo pazientemente e con allegrezza, pensando le pene di Cristo benedetto, le quali dobbiamo sostenere per suo amore: o Frate Lione, iscrivi, che qui è perfetta letizia. E però odi la conclusione: sopra tutte le grazie e doni dello Spirito Santo, le quali Cristo concede agli amici suoi, si è di vincere se medesimo e volentieri per amore di Cristo sostenere pene, ingiurie e disagi. Imperocché in tutti gli altri doni di Dio noi non ci possiamo gloriare, perché non sono nostri, ma di Dio; onde dice l'Apostolo: "Che hai tu, che tu non abbi da Dio?"... Ma nella croce della tribolazione ben ci possiamo gloriare, perocché questo è nostro; e perciò dice l'Apostolo: "Io non mi voglio gloriare, se non nella croce del Nostro Signor Gesù Cristo"».

letiziacrocesofferenzaumiltàgioialibertà

5.0/5 (1 voto)

inviato da Emilio Centomo, inserito il 11/12/2002

TESTO

102. Che dite che io sia? (Mt 16,15)

Madre Teresa di Calcutta

Chi è Gesù per me?
Gesù è il Verbo fatto uomo.
Gesù è il pane della vita.
Gesù è la vittima offerta
per i nostri peccati sulla croce.
Gesù è il sacrificio offerto per i miei
e per i peccati del mondo.
Gesù è la parola che va proclamata.
Gesù è la verità, che deve essere narrata.
Gesù è la vita, che deve essere percorsa.
Gesù è la luce, che deve essere fatta splendere.
Gesù è la vita, che deve essere vissuta.
Gesù è l'amore, che deve essere amato.

Gesù è la gioia, che deve essere condivisa.
Gesù è il sacrificio, che deve essere offerto.
Gesù è la pace, che deve essere data.
Gesù è il pane della vita, che deve essere mangiato.
Gesù è l'affamato, che deve essere nutrito.
Gesù è l'assetato, che deve essere dissetato.
Gesù è l'ignudo, che deve essere rivestito.
Gesù è il senza tetto, che deve essere ospitato.
Gesù è il malato, che deve essere sanato.
Gesù è l'uomo solo, che deve essere consolato.
Gesù è il non voluto, che deve essere voluto. Gesù è il lebbroso, che deve essere lavato nelle sue ferite.
Gesù è il mendicante, che deve essere gratificato di un sorriso.
Gesù è l'ubriaco, che bisogna ascoltare .
Gesù è il malato di mente che bisogna proteggere.
Gesù è il piccolo che bisogna abbracciare.
Gesù è il cieco, che bisogna guidare.
Gesù è il muto, cui bisogna parlare.
Gesù è lo zoppo, con cui bisogna camminare.
Gesù è il drogato, che bisogna aiutare.
Gesù è la prostituta, da sottrarre al pericolo e da sostenere.
Gesù è il prigioniero, che bisogna visitare.
Gesù è il vecchio, che deve essere servito.

Per me
Gesù è il mio Dio
Gesù è il mio sposo
Gesù è la mia vita
Gesù è il mio solo amore
Gesù è il mio tutto di tutto.
La mia pienezza.

Gesù,
ecco chi amo con tutto il cuore,
con tutto il mio essere.
Gli ho dato tutto,
persino i miei peccati.
E lui m'ha sposata a se stesso.
In tenerezza e amore.
Ora e per la vita.
Sono al sposa del mio sposo crocifisso.
Amen.

Gesù Cristocaritàamoresolidarietàtestimonianza

inviato da Rossella Di Cosmo, inserito il 07/12/2002

TESTO

103. Cari uomini... lettera da Gesù Bambino!

Cari uomini, beh! Non state a sgranare gli occhi. Sono io, e non è proprio il caso di fare tante storie.

Siete cosi abituati a tenermi imprigionato nei vostri schemi e, fra poco, nei vostri presepi, che non vi rendete conto che sono diverso dai vostri schemi, che non sono un bambino di gesso, innocuo, ma sono in carne ed ossa, capace di parlare, o addirittura, come in questo caso, di strillare. Ho deciso di invertire le parti.

Siete sempre voi a domandarmi qualcosa, e visto che si avvicina il Natale, sarete voi a scrivermi delle lettere. La lettera questa volta, se non vi dispiace, la scrivo io. E, a scanso di equivoci, vi anticipo che non sarà affatto una letterina gentile.

Ho ascoltato milioni e milioni di vostre richieste, ho letto milioni e milioni di vostre lettere. Per una volta, almeno, voglio essere io a dirvi qualcosa, a esprimere desideri, a formulare precise richieste.
E pretendo naturalmente la vostra attenzione.

Pochi di voi, a quanto mi risulta, e credo di essere ben informato, si sono preoccupati di sapere quali sono i miei progetti su di loro, se lo hanno fatto, lo hanno fatto un po' per retorica; pochi si sono preoccupati di sapere quale speranza ho nutrito e nutro, facendomi uomo, venendo ad abitare in mezzo a voi; pochi si sono preoccupati di sapere se il mio "sogno" realizzabile; sì confessatelo, piuttosto avete pensato che sono sogni, che sono "cose" campate in aria.

Vi devo dire che siete molto abili a "trasformare", ma con quella trasformazione che mi esclude. Volete un esempio?!

lo sono nato per portare la salvezza, sono nato per portare la speranza, sono nato in povertà. E voi la salvezza, la speranza, la povertà le avete "trasformate" in una faccenda dove io sono stato messo da parte, in feste dove io non c'entro e con me non entra la speranza, la salvezza, la povertà, il "sogno" che Dio mio Padre ha per voi uomini.

Non è attraverso l'uso del mio nome che si realizza il "sogno" di Dio per voi, non attraverso i bei canti, i "formalismi", i "bei discorsi" attraverso le cose sporadiche, che la speranza del Dio-con-noi si vive e si realizza.

E cosi, cari uomini, la storia si ripete. Ed è sempre la triste storia che mi fa trovare porte chiuse. Quando sono venuto in mezzo a voi per condividere la vostra situazione, per partecipare alle vostre vicende, per essere insomma uno di voi, per me non c'era posto nelle vostre abitazioni, perché erano già piene.

Allora come oggi, dopo duemila anni, devo constatare che non c'è posto per me nel vostro cuore: è già pieno di altri affetti, è occupato da molti idoli, è distratto dai molteplici impegni; e ciò che più mi dispiace è che non c'è posto nemmeno là dove si pronuncia con frequenza e disinvoltura il mio nome.

La mia presenza è gradita, a patto che venga circoscritta, limitata nel tempo e nello spazio, relegata ad alcuni istanti, soprattutto neutralizzata nei suoi elementi più impegnativi.

Non sono venuto sulla terra come occasione per la vostra vanità, superficialità, gusto del chiasso; o soprattutto, visto che si avvicina il Natale, perché vi poteste "abbuffare", oppure vi sentite, almeno una volta l'anno, buoni e generosi, non era proprio il caso che mi scomodessi per così poco, non vi pare?...

Sia ben chiaro: O mi accettate come Protagonista e quindi subordinate tutto il resto al mio "sogno", oppure vi diffido formalmente dall'usare ancora il mio nome. Sulla terra ci sono venuto e ci vengo, ci rimango volentieri. In mezzo a voi mi ci trovo benissimo, sono uno dei vostri ormai. Desidero camminare con voi, condividere pene e gioie, portare pesi, successi e fallimenti. L'unica cosa che non ammetto è di diventare pretesto per un gioco di vanità che finirebbe per lasciarvi ancora più soli, più poveri, più insoddisfatti, più disperati.

Quindi d'ora innanzi sapete a quali condizioni potete contare su di me. Vi ho parlato con chiarezza, forse vi ho ferito. Ma dopo, ne sono sicuro, le cose andranno molto meglio, con comune soddisfazione. E non si ripeteranno certi equivoci...

Comunque statene certi: per un "sogno" vero e autentico, per un "sogno" di porte e cuori spalancati, per un "sogno" di pace, per un "sogno" che frantumi le barriere, per un "sogno" di gioia, desiderato e costruito da tutti gli uomini di buona volontà, per un "sogno" di perdono per individui che si riconoscono peccatori, per un "sogno" di salvezza, per un "sogno" di speranza, è sempre disponibile il vostro

Gesù Bambino

Nataleincarnazioneprogetto di Dio

inviato da Eleonora Polo, inserito il 06/12/2002

PREGHIERA

104. Invocazione allo Spirito (versione breve)

Tonino Bello

Spirito di Dio, che agli inizi della creazione ti libravi sugli abissi dell'universo, e trasformavi in sorriso di bellezza il grande sbadiglio delle cose, scendi ancora sulla terra e donale il brivido dei cominciamenti. Questo mondo che invecchia, sfioralo con l'ala della tua gloria.

Dissipa le sue rughe. Fascia le ferite che l'egoismo sfrenato degli uomini ha tracciato sulla sua pelle. Mitiga con l'olio della tenerezza le arsure della sua crosta. Restituiscile il manto dell'antico splendore, che le nostre violenze le hanno strappato e riversa sulle carni inaridite anfore di profumo.

Permea tutte le cose, e possiedine il cuore. Facci percepire la tua dolente presenza nel gemito delle foreste divelte, nell'urlo dei mari inquinati, nel pianto dei torrenti inariditi, nella viscida desolazione delle spiagge di bitume.

Restituiscici al gaudio dei primordi. Riversati senza misura su tutte le nostre afflizioni. Librati ancora sul nostro vecchio mondo in pericolo. E il deserto, finalmente, ridiventerà giardino, e nel giardino fiorirà l'albero della giustizia, e frutto della giustizia sarà la pace.

Spirito di Dio, che presso le rive del Giordano sei sceso in pienezza sul capo di Gesù e l'hai proclamato Messia, dilaga su questo Corpo sacerdotale raccolto davanti a te.

Adornalo di una veste di grazia. Consacralo con l'unzione, e invitalo a portare il lieto annunzio ai poveri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, e a promulgare l'anno di misericordia del Signore.

Spirito del Signore, dono del Risorto agli apostoli del cenacolo, gonfia di passione la vita dei tuoi presbiteri. Riempi di amicizie discrete la loro solitudine. Rendili innamorati della terra, e capaci di misericordia per tutte le sue debolezze. Confortali con la gratitudine della gente e con l'olio della comunione fraterna. Ristora la loro stanchezza, perché non trovino appoggio più dolce per il loro riposo se non sulla spalla del Maestro.

Liberali dalla paura di non farcela più. Dai loro occhi partano inviti a sovrumane trasparenze. Dal loro cuore si sprigioni audacia mista a tenerezza. Dalle loro mani grondi il crisma su tutto ciò che accarezzano. Fa' risplendere di gioia i loro corpi. Rivestili di abiti nuziali. E cingili con cinture di luce. Perché, per essi e per tutti, lo sposo non tarderà.

Clicca qui per la versione lunga.

Spirito SantoPentecoste

inviato da Eleonora Polo, inserito il 28/11/2002

RACCONTO

105. Storia di un chicco di grano   1

Johannes Joergensen, Parabole

Come il seminatore ebbe terminato la sua opera, il chicco di grano venne a trovarsi tra due zolle di terra nera e umidiccia, e divenne terribilmente triste. Era buio, era umido, e l'oscurità e l'umidore aumentavano sempre di più, poiché al calar sera s'era disciolta in pioggia fitta fitta. C'era da darsi alla disperazione. E il chicco di grano cominciò a ricordare.

Bei tempi quelli, quando il chicco stava al caldo e al riparo in una spiga diritta e cullata dal vento, in compagnia dei fratellini! Bei tempi sì, ma così presto passati!

Poi era venuta la falce con il suo suono stridulo e devastatore, a sbattere tutte le spighe. Poi i mietitori con i loro rastrelli avevano caricato sui carri le spighe legate in covoni. Poi, più terribile ancora, i battitori si erano accaniti sulle spighe pestandole senza pietà. E le famigliole dei chicchi, vissute sempre insieme dalla più verde giovinezza, erano state sbalzate fuori dalle loro spighe, e i chicchi scaraventati in giro, ciascuno per conto suo, per non incontrarsi più.

Ma nel sacco del grano almeno ci si trovava ancora in compagnia. Un po' pigiati, è vero, e magari si respirava a fatica, ma insomma si poteva chiacchierare un po'. Ora invece, era l'abbandono assoluto, la solitudine tetra, una disperazione!

Ma l'indomani fu peggio, quando l'erpice passò sul campo e il chicco si trovò nella tenebra più densa, con terra dappertutto, sopra, sotto, in parte. L'acqua lo penetrava tutto, non sentiva più in sé il minimo cantuccio asciutto.

"Ma perché fui creato, se dovevo finire in modo così miserando? Non sarebbe stato meglio per me non aver mai conosciuto la vita e la luce del sole?" Pensava tra sé.

Allora dal profondo della terra una voce si fece sentire. Gli diceva: "Abbandonati con fiducia. Volentieri, senza paura. Tu muori per rinascere ad una vita più bella".

"Chi sei?" domandò il povero chicco, mentre un senso di rispetto sorgeva in lui. Poiché sembrava che la Voce parlasse a tutta la terra, anzi all'universo intero.

"Io sono Colui che ti ha creato, e che ora ti vuole creare un'altra volta".

Allora il chicco di grano si abbandonò alla volontà del suo Creatore, e non seppe più nulla di nulla.

Un mattino di primavera, un germoglio verde mise fuori la testolina dalla terra umida. Si guardò attorno inebriato. Era proprio lui, il chicco di grano, tornato a vivere un'altra volta.

Nell'azzurro del cielo il sole splendeva e la lodoletta cantava.

Era tornato a vivere... E non da solo, poiché intorno a sé vedeva uno stuolo di germogli in cui riconobbe i suoi fratellini.

Allora la tenera pianticella si sentì invadere dalla gioia di esistere, e avrebbe voluto alzarsi fino al cielo per accarezzarlo con le sue foglioline.

Dio è il pastore. Il dolore è il suo cane. Talvolta ha il morso duro, ma è per il bene.

fiduciafedeabbandono in Diomortevita eternadoloresofferenzarisurrezione

4.0/5 (1 voto)

inviato da Andrea Zamboni, inserito il 23/11/2002

RACCONTO

106. La vecchietta che aspettava Dio   9

Bruno Ferrero

La vita di ognuno di noi è intessuta di attese. Si tratta di una esperienza importante e di grande valore educativo. Consapevole di ciò, la Chiesa ha fissato un tempo per ravvivare questo 'stato' fondamentale nella vita del cristiano: il tempo dell'Avvento. La storia sottolinea che Dio è sempre sorprendente... è possibile incontrarlo in tanti modi, ma in modo particolare nelle persone che ci avvicinano tutti i giorni.

C'era una volta un'anziana signora che passava in pia preghiera molte ore della giornata. Un giorno sentì la voce di Dio che le diceva: "Oggi verrò a farti visita". Figuratevi la gioia e l'orgoglio della vecchietta. Cominciò a pulire e lucidare, impastare e infornare dolci. Poi indossò il vestito più bello e si mise ad aspettare l'arrivo di Dio.

Dopo un po', qualcuno bussò alla porta. La vecchietta corse ad aprire. Ma era solo la sua vicina di casa che le chiedeva in prestito un pizzico di sale. La vecchietta la spinse via: "Per amore di Dio, vattene subito, non ho proprio tempo per queste stupidaggini! Sto aspettando Dio, nella mia casa! Vai via!". E sbattè la porta in faccia alla mortificata vicina.

Qualche tempo dopo, bussarono di nuovo. La vecchietta si guardò allo specchio, si rassettò e corse ad aprire. Ma chi c'era? Un ragazzo infagottato in una giacca troppo larga che vendeva bottoni e saponette da quattro soldi. La vecchietta sbottò: "Io sto aspettando il buon Dio. Non ho proprio tempo. Torna un'altra volta!". E chiuse la porta sul naso del povero ragazzo.

Poco dopo bussarono nuovamente alla porta. La vecchietta aprì e si trovò davanti un vecchio cencioso e male in arnese. "Un pezzo di pane, gentile signora, anche raffermo... E se potesse lasciarmi riposare un momento qui sugli scalini della sua casa", implorò il povero.

"Ah, no! Lasciatemi in pace! Io sto aspettando Dio! E stia lontano dai miei scalini!" disse la vecchietta stizzita. Il povero se ne partì zoppicando e la vecchietta si dispose di nuovo ad aspettare Dio.

La giornata passò, ora dopo ora. Venne la sera e Dio non si era fatto vedere. La vecchietta era profondamente delusa. Alla fine si decise ad andare a letto. Stranamente si addormentò subito e cominciò a sognare. Le apparve in sogno il buon Dio che le disse: "Oggi, per tre volte sono venuto a visitarti, e per tre volte non mi hai ricevuto".

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4.5/5 (4 voti)

inviato da Andrea Zamboni, inserito il 23/11/2002

RACCONTO

107. Festa grande per un pacco consegnato   1

Marina Parodi

C'era un uomo che di mestiere faceva il corriere espresso (sapete? quello che consegna nelle case i pacchi...). Come tutte le mattine, caricò il suo camion e si preparò al lungo giro di consegne. Quel giorno aveva 100 pezzi da consegnare.

Iniziò con una cassa di bottiglie di vino, che andava consegnata proprio all'ultimo piano di un lussuoso palazzo del centro. Con il fiatone suonò alla porta. Aprì un distinto signore: "Buongiorno, sì è per me, prego la metta qui, no un po' più in là, ecco perfetto, arrivederci!".

Poi fu la volta di una anziana signora, a cui trepidante consegnò un pacchetto con un preziosissimo anello. La donna annoiata e indifferente commentò solo: "Ah, lo metta lì con tutti gli altri, poi lo aprirò...".

A una giovane coppia doveva consegnare la lavatrice nuova. Mentre era in cucina e li aiutava a dismballare, i due iniziarono a litigare "Vedi, avevo ragione io: dovevamo prendere l'altro modello". "Invece no, abbiamo fatto bene a seguire il consiglio di mia madre". "Ma cosa dici, non vedi che sta malissimo vicino al frigo". "Piantala, si sa che tu hai un pessimo gusto!". "Perché secondo te era di buon gusto il regalo che tu mi hai fatto a Natale"... Il trasportatore se ne andò un po' imbarazzato.

Un pacco era destinato a un parroco. Era una statua molto bella, ma molto pesante. Il trasportatore era molto in difficoltà, e nell'entrare in sacrestia si ferì una mano contro un'acquasantiera. Ma il parroco lo accolse solo con un "Oh, finalmente me l'ha portata! Per favore faccia presto, si sbrighi. Sono impegnatissimo, tra 2 min e 40 sec. devo dire messa, tra 45 min c'è la lezione di catechismo, poi c'è la riunione con il gruppo della 3 età, poi il comitato di programmazione economica, poi i giovanissimi e la catechesi per famiglie. Capisce, no?, c'è tanto da fare: faccia presto!". Con la mano ancora dolorante il trasportatore uscì e andò a bagnarla alla fontana del sagrato.

Con il passare delle ore e il crescere della fatica, i pacchi pian piano diminuivano. Alla fine ne rimase solo uno. Quando arrivò all'indirizzo segnato sul pacco, aprì la porta un ragazzo: "No mi dispiace, il suo indirizzo è sbagliato, la signora Beatrice Bianchi (quello era il nome della destinataria) non abita più qui, si è trasferita almeno da un mese...". "E sa dove è andata ad abitare?". "No, io no, ma provi a chiedere al fruttivendolo all'angolo. Lui conosce tutti".

Il camionista si presentò al fruttivendolo e spiegò il suo problema: "Devo consegnare un pacco alla signora Beatrice Bianchi, ma ho l'indirizzo sbagliato. Lei sa dirmi dove posso trovarla?". "Ah, sì, si è trasferita, in un altro quartiere, me lo aveva detto, però l'indirizzo proprio non me lo ricordo... Provi a chiedere a Piero, lo trova là all'osteria, lui sicuramente lo sa".

Il camionista entrò nel fumoso bar e dietro un bicchiere di vino e un mazzo di carte, trovò Piero, un vecchietto con la barba bianca e due occhi azzurri come il cielo. "Ma sì la Beatrice! La conosciamo tutti qui, faceva la cameriera, è un peccato che si sia trasferita... Ecco, le scrivo il nuovo indirizzo".

Finalmente, dopo la lunga ricerca, il nostro amico si trovò di fronte alla porta dell'appartamento della signora Beatrice Bianchi. Il palazzo era in una delle zone più povere e degradate della città, lo squallore del luogo metteva proprio tristezza. Come aveva fatto con gli altri 99 pacchi, suonò e annunciò: "Signora, devo consegnarle un pacco". Aprì una giovane ragazza, mentre da una stanza interna si sentiva il pianto di un ragazzino. "Un pacco per me?". "Sì, signora; non è stato facile, ma sono contento di averla trovata...". "E cosa sarà mai? Non aspettavo pacchi... Oh... mi scusi, la sto lasciando sulla porta; prego, si accomodi, si sieda, posso offrirle un caffè? intanto guardiamo cosa c'è nel pacco...". Piacevolmente sorpreso, il corriere accettò volentieri l'invito. Il bambino intanto aveva smesso di piangere e si era avvicinato a osservare curioso quell'ospite sconosciuto.

Dopo aver versato il caffè all'ospite, Beatrice aprì il grosso pacco. Non poté trattenere un grido di gioia, quando ne vide il contenuto. Il pacco era pieno di cibi buonissimi, tra cui una grossa torta di compleanno. Insieme ai cibi una lettera. Quando la lesse, a Beatrice vennero gli occhi lucidi. Poi spiegò: "5 anni fa litigai violentemente con mia madre, e da allora non ci siamo più frequentate. Ora mi scrive che non vuole più discutere del passato, ma si è ricordata che oggi è il compleanno di Roberto, mio figlio e ci manda un po' di dolci per festeggiare. E pensare che proprio 10 minuti fa io stavo spiegando a Roberto che non avremmo potuto fare la festa con i suoi amici perché dopo aver pagato le bollette mi sono avanzati pochissimi soldi... È lei che ha permesso tutto questo! Io... io voglio ringraziarla. Si fermi e festeggi con noi!".

E così il trasportatore si trovò coinvolto in una festa piena di musica, allegria e risate, insieme con Beatrice, Roberto, i suoi amici e altre persone del vicinato. E alla fine della giornata, potete star certi, fu proprio lui il più contento per quel pacco con l'indirizzo sbagliato!

La storia può essere un punto di partenza per parlare di Dio che cerca tutti gli uomini, anche la pecorella smarrita... per suggerimenti sull'attività e per scaricare altre storielle simili, clicca qui.

rapporto con Diomisericordiapecorella smarrita

inviato da Andrea Zamboni, inserito il 20/11/2002

TESTO

108. Educazione alla povertà   1

Tonino Bello, Sui sentieri di Isaia

L'educazione alla povertà è un mestiere difficile: per chi lo insegna e per chi lo impara. Forse per questo il Maestro ha voluto riservare ai poveri la prima beatitudine.
Non è vero che si nasce poveri.
Si può nascere poeti, ma non poveri.
Poveri si diventa. Come si diventa avvocati, tecnici, preti.
Dopo una trafila di studi, cioè.
Dopo lunghe fatiche ed estenuanti esercizi.

Questa della povertà, insomma, è una carriera. E per giunta tra le più complesse. Suppone un noviziato severo. Richiede un tirocinio difficile. Tanto difficile, che il Signore Gesù si è voluto riservare direttamente l'insegnamento di questa disciplina.

Nella seconda lettera che San Paolo scrisse ai cittadini di Corinto, al capitolo ottavo, c è un passaggio fortissimo: "Il Signore nostro Gesù Cristo, da ricco che era, si è fatto povero per voi".

E' un testo splendido. Ha la cadenza di un diploma di laurea, conseguito a pieni voti, incorniciato con cura, e gelosamente custodito dal titolare, che se l'è portato con sé in tutte le trasferte come il documento più significativo della sua identità: "Le volpi hanno le loro tane, gli uccelli il nido; ma il figlio dell'uomo non ha dove posare il capo".

Se l'è portato perfino nella trasferta suprema della croce, come la più inequivocabile tessera di riconoscimento della sua persona, se è vera quella intuizione di Dante che, parlando della povertà del Maestro, afferma: "Ella con Cristo salì sulla croce".

Non c'è che dire: il Signore Gesù ha fatto una brillante carriera.
E ce l'ha voluta insegnare.

Perché la povertà si insegna e si apprende. Alla povertà ci si educa e ci si allena. E, a meno che uno non sia un talento naturale, l'apprendimento di essa esige regole precise, tempi molto lunghi, e, comunque, tappe ben delineate.

Proviamo a delinearne sommariamente tre.

Povertà come annuncio

A chi vuole imparare la povertà, la prima cosa da insegnare è che la ricchezza è cosa buona.

I beni della terra non sono maledetti. Tutt'altro. Neppure i soldi sono maledetti.

Continuare a chiamarli sterco del diavolo significa perpetuare equivoci manichei che non giovano molto all'ascetica, visto che anche i santi, di questo sterco, non hanno disdegnato di insozzarsi le tasche.

I beni della terra non giacciono sotto il segno della condanna. Per ciascuno di essi, come per tutte le cose splendide che nei giorni della creazione uscivano dalle mani di Dio, si può mettere l'epigrafe: "ed ecco, era cosa molto buona".

Se la ricchezza della terra è buona, però, c'è una cosa ancora più buona: la ricchezza del Regno, di cui la prima è solo un pallidissimo segno. Ecco il punto. Ci vorrà fatica a farlo capire agli apprendisti. Ma è il nodo di tutto il problema. Farsi povero non deve significare disprezzo della ricchezza, ma dichiarazione solenne, fatta con i gesti del paradosso e perciò con la rinuncia, che il Signore è la ricchezza suprema.

Un po' come rinunciare a sposarsi in vista del Regno non significa disprezzare il matrimonio, ma annunciare che c'è un amore più grande di quello che germoglia tra due creature. Anzi, dichiarare che questo piccolo amore è stato scelto da Dio come segno di quell'altro più grande. Sicché, chi non si sposa sembra dire ai coniugi: "Splendida la vostra esperienza. Ma non è tutto. Essa è solo un segno. Perché c'è un'esperienza di amore ancora più forte, di cui voi attualmente state vivendo solo un lontanissimo frammento, e che un giorno saremo tutti chiamati a vivere in pienezza".

Analogamente, farsi povero significa accendere una freccia stradale per indicare ai viandanti distratti la dimensione "simbolica" della ricchezza, e far prendere coscienza a tutti della realtà significata che sta oltre. Significa, in ultima analisi, divenire parabola vivente della "ulteriorità".

In questo senso, la povertà, prima che rinuncia, è un annuncio. E' annuncio del Regno che verrà.

Povertà come rinuncia

E' la dimensione che, a prima vista, sembra accomunare la povertà cristiana a quella praticata da alcuni filosofi o da molte correnti religiose. Rinunciare alla ricchezza per essere più liberi.

in realtà, però, c'è una sostanziale differenza tra la rinuncia cristiana e quella che, per intenderci, possiamo chiamare rinuncia filosofica.

Questa interpreta i beni della terra come zavorra. Come palla al piede che frena la speditezza del passo. Come catena che, obbligandoti agli schemi della sorveglianza e alle cure ansiose della custodia, ti impedisce di volare. E' la povertà di Diogene, celebrata in una serie infinita di aneddoti, intrisa di sarcasmi e di autocompiacimenti, di disprezzo e di saccenteria, di disgusti raffinati e di arie magisteriali. La botte è meglio di un palazzo, e il regalo più grande che il re possa fare è quello che si tolga davanti perché non impedisca la luce del sole.

La rinuncia cristiana ai beni della terra, invece, pur essendo fatta in vista della libertà, non solleva la stessa libertà a valore assoluto e a idolo supremo dinanzi a cui cadere in ginocchio.

Il cristiano rinuncia ai beni per essere più libero di servire. Non per essere più libero di sghignazzare: che è la forma più allucinante di potere.

Ecco allora che si introduce nel discorso l'importantissima categoria del servizio, che deve essere tenuta presente da chi vuole educarsi alla povertà. Spogliarsi per lavare i piedi, come fece Gesù che, prima di quel sacramentale pediluvio fatto con le sue mani agli apostoli, "depose le vesti".

Chi vuol servire deve rinunciare al guardaroba. Chi desidera stare con gli ultimi, per sollecitarli a camminare alla sequela di Cristo, deve necessariamente alleggerirsi dei "tir" delle sue stupide suppellettili.

Chi vuol fare entrare Cristo nella sua casa, deve abbandonare l'albero, come Zaccheo, e compiere quelle conversioni "verticali" che si concludono inesorabilmente con la spoliazione a favore dei poveri.

E' la gioia, quindi, che connota la rinuncia cristiana: non il riso.
La testimonianza, non l'ostentazione.

Come avvenne per Francesco, innamorato pazzo di madonna Povertà. Come avvenne per i suoi seguaci, che si spogliarono non per disprezzo, ma per seguire meglio il maestro e la sua sposa: "O ignota ricchezza, o ben verace! Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro, dietro allo sposo; sì la sposa piace!".

Povertà come denuncia

Di fronte alle ingiustizie del mondo, alla iniqua distribuzione delle ricchezze, alla diabolica intronizzazione del profitto sul gradino più alto della scala dei valori, il cristiano non può tacere.

Come non può tacere dinanzi ai moduli dello spreco, del consumismo, dell'accaparramento ingordo, della dilapidazione delle risorse ambientali.

Come non può tacere di fronte a certe egemonie economiche che schiavizzano i popoli, che riducono al lastrico intere nazioni, che provocano la morte per fame di cinquanta milioni di persone all'anno, mentre per la corsa alle armi, con incredibile oscenità, si impiegano capitali da capogiro.

Ebbene, quale voce di protesta il cristiano può levare per denunciare queste piovre che il Papa, nella "Sollicitudo rei socialis", ha avuto il coraggio di chiamare strutture di peccato? Quella della povertà!

Anzitutto, la povertà intesa come condivisione della propria ricchezza.

E' un'educazione che bisogna compiere, tornando anche ai paradossi degli antichi Padri della Chiesa: "Se hai due tuniche nell'armadio, una appartiene ai poveri". Non ci si può permettere i paradigmi dell'opulenza, mentre i teleschermi ti rovinano la digestione, esibendoti sotto gli occhi i misteri dolorosi di tanti fratelli crocifissi. Le carte patinate delle riviste, che riproducono le icone viventi delle nuove tragedie del Calvario, si rivolgeranno un giorno contro di noi come documenti di accusa, se non avremo spartito con gli altri le nostre ricchezze.

La condivisione dei propri beni assumerà, così, il tono della solidarietà corta.
Ma c'è anche una solidarietà lunga che bisogna esprimere.

Ed ecco la povertà intesa come condivisione della sofferenza altrui. E' la vera profezia, che si fa protesta, stimolo, proposta, progetto. Mai strumento per la crescita del proprio prestigio, o turpe occasione per scalate rampanti.

Povertà che si fa martirio: tanto più credibile, quanto più si è disposti a pagare di persona.

Come ha fatto Gesù Cristo, che non ha stipendiato dei salvatori, ma si è fatto lui stesso salvezza e, per farci ricchi, sì è fatto povero fino al lastrico dell'annientamento.

L'educazione alla povertà è un mestiere difficile: per chi lo insegna e per chi lo impara.

Forse è proprio per questo che il Maestro ha voluto riservare ai poveri, ai veri poveri, la prima beatitudine.

povertàricchezzaingiustiziacelibatovita eternaparadisoserviziocaritàregno dei cieliregno di Diorinuncia

5.0/5 (1 voto)

inviato da Eleonora Polo, inserito il 18/11/2002

TESTO

109. Gesù non ha buona memoria   3

Cardinale Van Thuan

Gesù non ha buona memoria.
Sulla Croce durante la sua agonia il ladrone gli chiede di ricordarsi di lui quando sarebbe entrato nel suo regno. Se fossi stato io gli avrei risposto, "non ti dimenticherò, ma i tuoi crimini devono essere espiati, con almeno 20 anni di purgatorio", invece Gesù gli rispose "Oggi sarai con me in Paradiso".
Aveva dimenticato i peccati di quell'uomo. Lo stesso avviene con Maddalena e con il figliol prodigo. Gesù non ha memoria, perdona ogni persona, il suo amore è misericordioso.

Gesù non conosce la matematica, lo dimostra la parabola del Buon Pastore. Aveva cento pecore, una di loro si smarrì e senza indugi andò a cercarla lasciando le altre 99 nell'ovile. Per Gesù uno equivale a 99 e forse anche di più.

Gesù poi non è buon filosofo.
Una donna ha dieci dracme ne perde una quindi accende la lucerna per cercarla, quando la trova chiama le sue vicine e dice loro "Rallegratevi con me perché ho ritrovato la dracma che avevo perduto". E' davvero illogico disturbare le amiche solo per una dracma, e poi far festa per il ritrovamento. Per di più invitando le sue amiche per far festa, spendendo ben di più di una dracma. In questo modo Gesù spiega che c'è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte.

Gesù è un avventuriero.
Chiunque voglia raccogliere il consenso della gente si presenta con molte promesse, mentre Gesù promette a chi lo segue processi e persecuzioni, eppure da 2000 anni constatiamo che non si è esaurita la schiera di avventurieri che hanno seguito Gesù.

Gesù non conosce né finanza né economia.
Nella parabola degli operai della vigna, il padrone paga lo stesso stipendio a chi lavora al mattino e a chi inizia a lavorare il pomeriggio. Ha fatto male i conti? Ha commesso un errore? No, lo fa di proposito, perché Gesù non ci ama rispetto ai nostri meriti o per i nostri meriti, il suo amore è gratuito e supera infinitamente i nostri meriti. Gesù ha i "difetti" perché ama.
L'amore autentico non ragiona, non calcola, non misura, non innalza barriere, non pone condizioni, non costruisce frontiere e non ricorda offese.

perdonomisericordiaconfessionericonciliazioneGesù Cristoamore di Diorapporto con Dio

inviato da Anna Barbi, inserito il 30/09/2002

TESTO

110. Lettera alla Parrocchia

Centro di Orientamento Pastorale [COP], a conclusione della 52ma Settimana di aggiornamento pastorale a Bergamo; Settimana, luglio 2002

Cara parrocchia,

sappiamo che più o meno consapevolmente molti, anche tra i cristiani, non ti ritengono oggi un riferimento necessario per la loro vita e che in certe zone d'Italia non sei più il centro dell'esperienza di un popolo.

Sappiamo che, per molti, rischi di essere soltanto una stazione di servizio distributrice di sacramenti e di elemosine e che, per alcuni gruppi, sei poco più di una base logistica.

Sappiamo tuttavia che molte associazioni, gruppi e movimenti trovano in te non solo un luogo di accoglienza e di ospitalità, ma la casa e la scuola dove crescere nella fede, per essere missionari nella città degli uomini.

Sappiamo che la fatica del rinnovamento nella fedeltà al Vangelo può togliere anche a te un po' di respiro ed entusiasmo.

Sappiamo che vorresti essere una comunità di celebrazione, di carità e di annuncio, ma che, a volte, ti mancano persone, parole di incoraggiamento e gesti di sostegno.

Sappiamo, infine, che potresti essere una delle molte comunità che sono senza pastore, ma noi non ti molliamo, anzi scommettiamo sulla tua grande capacità di rigenerarti, come hai fatto tante volte nella storia.

Non siamo nostalgici, vogliamo - con te e per te - essere creativi.

Non possiamo fare a meno di te, perché è nel tuo essere Chiesa tra le case, porzione di quella grande comunità che è la Chiesa universale, che noi apprendiamo a fare comunione; è tra le tue mura, chiese, cappelle, tessuti di relazione che incontriamo la comunità, sacramento cui è affidata la Parola che genera per tutti salvezza.

Non possiamo fare a meno di te, se vogliamo compiere oggi il percorso necessario di Parola, rito e carità che ci unisce a Cristo.

Non possiamo fare a meno di te, perché è nella celebrazione eucaristica che troviamo il sostegno decisivo per la nostra fede, la sorgente per la nostra sete di senso, la forza per una convivenza nella giustizia e nella pace.

Non possiamo fare a meno di te, se vogliamo imparare, da laici, consacrati e da preti, come si fa a essere laici, consacrati e preti in mezzo alla gente.

Siamo convinti che ancora molte persone si accostano a te con domande semplici di umana comprensione, di pietà e di condivisione e tu hai ancora per ciascuno parole e gesti di speranza e di fiducia.

Siamo convinti che con te si viene ancora a misurare l'incredulità fragile di molti uomini e donne, la loro nostalgia di Dio, il loro stesso rancore per l'inganno e le trappole in cui sono caduti e tu hai sempre un percorso di fede da ricominciare.

Siamo convinti che il Vangelo che proponi (e come lo proponi) in fedeltà allo Spirito che guida la Chiesa è la risposta ultima alle grandi domande dell'uomo.

Ti vogliamo aiutare a farti cantiere di formazione nei tuoi gesti solenni e quotidiani, nella tua assemblea domenicale, nell'accompagnare con il sacramento la vita che nasce, muore, esplode nella gioia, si affatica nel lavoro, si misura nella malattia.

Ti vogliamo aiutare a farti scuola di comunione anche nelle varie forme associative (pensiamo ad esempio, all'Azione Cattolica) generate da quella fantasia cristiana che tanta ricchezza di crescita spirituale, di fede e di apostolato ha portato alla vita delle nostre comunità. Ti vogliamo aiutare a farti punto di speranza nella capacità di incontrarti con le domande anche più petulanti e disperate, perché le sappia far diventare percorsi di vita e di fede.

Ti vogliamo aiutare a farti segno di quel "totalmente altro" che chiede di mescolarci nella società e di essere presenti nelle istituzioni abitandole da cristiani capaci di mostrare il Volto di Cristo, crocifisso e risorto, figlio dell'uomo e figlio di Dio, che tu ci aiuti a contemplare.

Ti vogliamo aiutare a vivere pienamente, con responsabilità e con gioia la dimensione Diocesana, ad aprirti alla collaborazione con tutte le altre parrocchie, superando ogni autosufficienza.

Ti vogliamo aiutare a confrontarti con un territorio che cambia per l'arrivo di altre culture e altre religioni, a portare al tuo interno per offrirla sull'altare dell'Eucaristia la vita quotidiana dei tuoi fedeli vita di famiglia, vita di lavoro e di disoccupazione, vita di italiani e di stranieri, vita culturale, politica, apertura al mondo intero.

Ti vogliamo aiutare a osare nella verità il dialogo con ogni ricerca di Dio e per questo ti chiediamo di essere esigente con noi stessi perché l'accoglienza e l'ascolto siano il frutto di una fede pensata. Cara parrocchia chiedici di più, sapremo darti anche di più e soprattutto lascia sempre trasparire sul tuo volto l'immagine beatificante del Volto di Dio.

parrocchialaicicollaborazioneresponsabilitàcorresponsabilitànuova evangelizzazione

inviato da Anna Barbi, inserito il 24/09/2002

TESTO

111. Dio aspetta sempre, qualcuno arriverà?   1

Ho incontrato un Dio, figlio di Giuseppe, che crede in me, perché è stato uomo.
Ho incontrato un Dio che ha scelto di essere il medico del mio cuore, l'aroma per il mio palato.
Ho incontrato un Dio che non soffre il daltonismo,
ha occhi per i colori di tutte le pelli.
Ho incontrato un Dio che ama le vedove quanto i profeti.
Ho incontrato un Dio disarmato, che si è fatto cacciare dalla sinagoga
perché non aveva privilegiato gli abitanti del suo paese.
Ho incontrato un Dio incandescente, che converte con la tenerezza.
Ho incontrato un Dio più splendente del sole, più tenero della notte.
Ho incontrato un Dio che non cancella mai nessuno dalla sua memoria.
Ho incontrato un Dio che ha contato i capelli sul mio capo, le ciglia dei miei occhi, i peli della mia barba.
Ho incontrato un Dio che accende la sua lanterna
per vedere dentro l'anima, di chi non ha anima.
Ho incontrato un Dio che supera le distanze,
che non ha paura di toccarmi, di sospingermi,
di scuotermi, di accarezzarmi.
Ho incontrato un Dio che è contro il pessimismo, il malessere, la tristezza.
Ho incontrato un Dio allegro, che balla con le stelle,
saltella con i cerbiatti, corre con il vento, volteggia con i fiocchi di neve.
Ho incontrato un Dio che non ha avuto fortuna nella sua patria, che ha fatto adirare i fedeli della sinagoga.
Ho incontrato un Dio che ha guarito Naaman, lo straniero.
Ho incontrato un Dio che completa le profezie,
non facendo cose meravigliose, ma predicando la misericordia.
Ho incontrato un Dio che si è fatto pellegrino, cercatore itinerante.
Ho incontrato un Dio che ha trasformato le strade in vie, le parole in verità, le morti in vita.
Ho incontrato un Dio che sa aspettare all'infinito:
sa aspettare i buoni; sa aspettare i cattivi;
sa aspettare i vecchi; sa aspettare i bambini.
Saper aspettare un'arte difficile?
Ho capito però perché Dio sa aspettare, sempre, qualcuno.
Perché aspettare nessuno è la cosa più triste al mondo.
La tristezza vera è quando tu non attendi più nessuno, non attendi più nulla dalla vita.
La solitudine più nera non la provi quando trovi il focolare spento,
ma quando non lo vuoi più accendere,
neppure per un eventuale ospite di passaggio.
E' tristezza quando non aspetti più neppure la "vita del mondo che verrà",
quando pensi che ormai i giochi sono fatti, che per te "la musica è finita,
gli amici se ne vanno...", come diceva una famosa canzone.
Poiché Dio è la gioia, aspetta sempre, e sa che qualcuno arriva.
Viva questo Dio nei nostri cuori, per sempre.
Amen.

Gesù Cristoincarnazionerapporto con Dio

inviato da Mariangela Molari, inserito il 14/06/2002

PREGHIERA

112. La vita è bella, Signore

Michel Quoist

La vita è bella Signore,
e voglio coglierla
come si colgono i fiori in un mattino di primavera.
Ma so, mio Signore,
che il fiore nasce
solo alla fine di un lungo inverno,
in cui la morte ha infierito.

Perdonami Signore, se a volte,
non credo abbastanza nella primavera della vita,
perché, troppo spesso,
mi sembra un lungo inverno
che non finisce mai di rimpiangere
le sue foglie morte
o i suoi fiori scomparsi.

Eppure con tutte le mie forze
credo in Te, Signore,
ma urto contro il tuo sepolcro e lo scorgo vuoto.

E quando gli apostoli d'oggi mi dicono
che ti hanno visto vivente
sono come San Tommaso,
ho bisogno di vedere e di toccare.
Dammi abbastanza fede,
ti supplico, Signore,
per aspettare la Primavera,
e nel momento più duro dell'inverno,
per credere alla Pasqua trionfante
oltre il Venerdì di passione. (...)

Signore tu sei risorto!
Dal sepolcro, grazie a Te,
la Vita è uscita trionfante.

La sorgente d'ora in poi non si prosciugherà mai,
Vita nuova, offerta a tutti,
per ricrearci per sempre
figli di un Dio che ci attende,
per le Pasque di ogni giorno
e di una gioia eterna.

Era Pasqua ieri, Signore,
ma è Pasqua anche oggi
ogni volta che accettando di morire in noi stessi,
con Te apriamo una breccia
nella tomba dei nostri cuori,
perché zampilli la Fonte
e scorra la Tua Vita.

E se tanti uomini,
nel loro sforzo umano
purtroppo, non sanno che sei già lì,
lo scopriranno più tardi
alla tua luce.

Era Pasqua ieri,
ma è Pasqua anche oggi,
quando un bambino divide le sue caramelle,
dopo avere in segreto lottato
per non tenersele tutte lui.

Quando marito e moglie si abbracciano di nuovo
dopo una discussione o una penosa rottura.
Quando i ricercatori scoprono
il rimedio che guarisce
e il medico riaccende la vita
che senza di lui si spegneva.

Quando la porte della prigione si aprono,
perché la pena è terminata,
e quando già nella sua cella
il carcerato divide le sigarette con i compagni.
Quando l'uomo dopo un lungo sforzo
trova lavoro
e porta a casa un po' di denaro guadagnato. (...)

Sì, Signore, la vita è bella,
poiché è tuo Padre che l'ha donata.
La vita è bella,
poiché sei Tu che ce l'hai ridata
quando l'avevamo perduta.
La vita è bella,
perché è la tua stessa Vita offerta per noi...
ma dobbiamo farla fiorire.
E per offrirtela ogni sera
devo raccoglierla
sulle strade degli uomini
come quel bimbo che passeggiando,
raccoglie i fiori dei campi
per farne un mazzo
da offrire ai suoi genitori.
Oh sì Signore,
fammi scoprire ogni giorno, sempre di più,
che la vita è bella!

vitapasquarisurrezionesperanzaaltruismodonare

inviato da Mariangela Molari, inserito il 11/06/2002

RACCONTO

113. Date l'esempio!   2

C'era una volta un uomo che viveva una vita normale. Pensava di non essere stato cattivo, ma neppure di essere stato un santo. Un giorno Gesù toccò il suo cuore e quest'uomo lo accettò come suo Signore e Salvatore. Sentì tanta gioia che promise al Signore di parlare di Lui a tutte le persone che avrebbe incontrato e che avrebbe portato almeno 100 persone a questa cosa grande che aveva trovato. Ma quest'uomo subito si accorse che portare persone a Cristo non era una cosa facile da fare. La maggior parte dei suoi amici pensava che fosse impazzito e si allontanava da lui.

A volte voleva ritirarsi dalla sua promessa ma continuò a raccontare a chi gli era possibile della buona novella del vangelo e come lo aveva cambiato riempiendolo di tanta pace e gioia.

Poi un giorno quest'uomo morì e si trovò in una stanza, con tutte le cose che aveva fatto e detto durante la sua vita: tutte le cose cattive che aveva fatto, tutti i brutti pensieri che aveva avuto, ritornati a lui come un lampo in un momento di tempo. Poi vide una visione di sé, nel giorno in cui la salvezza l'aveva toccato, quando aveva promesso a Gesù che avrebbe portato a Lui almeno 100 persone. L'uomo cadde in ginocchio piangendo.

Allora Gesù si avvicinò a lui e gli disse: "Alzati figliolo e dimmi: perché piangi?". L'uomo rispose: "Signore ho commesso tutte queste cose terribili nella mia vita, e ti ho detto perfino bugie!". Il Signore lo guardò chiedendogli: "Quando mi hai detto bugie?". "Ti avevo promesso di portare 100 persone a te Signore. E anche se ho provato non sono riuscito a portarne nemmeno una alla salvezza! Non ho mantenuto la mia promessa e ho detto bugie a Te".

Allora Gesù gli sorrise, gli asciugò le lacrime sul viso, e gli disse: "Figliuolo, tu non hai rotto la tua promessa con me". "Ma Signore, non ho portato neanche una persona a te!!!". Gesù rispose: "Mio figliuolo, ti ricordi quel giorno quando ti sei seduto al ristorante e hai mangiato ringraziando il Padre per il cibo? C'era una donna seduta in quel ristorante, era malata di peccato. Anche se ho provato tante volte a toccare il suo cuore, lei mi aveva sempre ignorato. Pensava di ritornare a casa per togliere la vita a sé stessa e a quella dei suoi figliuoli. Ma questa signora ti ha visto pregare e le si è aperto il cuore. Una porta si aprì nel suo cuore e mi lasciò entrare. La signora andò a casa e invece di togliersi la vita accettò me chiedendomi di diventare il Signore della sua vita. Uno dei suoi bambini diventò un presbitero santo e guidò molte anime a me. Quindi mio figliuolo sii felice, tu hai mantenuto la tua promessa. Il tuo piccolo consistente atto di fede guidò non 100 ma 100.000 persone a me!".

L'uomo prese coraggio, ma ancora si sentiva colpevole: "Mio Dio, e tutte le altre cose brutte che ho fatto?". Gesù sorrise dicendo: "Ho pagato il prezzo io per te: vedi le mie mani e i miei piedi trafitti, il mio costato perforato, il mio capo grondante sangue per te, tutto il mio corpo flagellato? Tutti e due abbiamo mantenuto la promessa!".

Ricordiamoci che un nostro piccolo atto insignificante può toccare il cuore di altri fratelli, anche quando non ce ne accorgiamo.

Un sorriso, una dolce parola, una preghiera in pubblico, sono vie che portano luce e possono cambiare una vita.

quotidianitàtestimonianzaesempioconversionemissione

5.0/5 (1 voto)

inviato da Luca Mazzocco, inserito il 02/06/2002

RACCONTO

114. La principessa Anima

T.Spidlìk, Il professore Ulipispirus e altre storie

In mezzo alle montagne coperte di neve c'era una verde vallata con giardini, campi fertili, casette di artigiani. Sulla collina più alta c'era un castello dove abitava il vecchio principe con l'unica figlia, di nome Anima. Il principe e la principessa erano tutti e due buoni e la gente della valle li amava. Perciò tutti diventarono tristi quando si sparse la notizia che la principessa Anima era gravemente malata e non poteva uscire dal castello. Molti diedero consigli e portarono erbe medicinali. I medici arrivarono da paesi lontani. Ma nessun rimedio servì a niente. La principessa Anima peggiorava di giorno in giorno e la gente era sempre più triste.

Un giorno arrivò alla porta del castello una vecchietta sconosciuta. La presero per una mendicante e le diedero del pane in elemosina. Ma la vecchietta disse che voleva vedere la principessa malata. I servi non volevano lasciarla entrare e stavano a discutere con lei sul portone del castello finché il vecchio principe fu attirato dalle voci e uscì a vedere la strana vecchietta. Gli sembrò una buona donna e non trovò nessun motivo per non farla salire nella camera dove la figlia giaceva malata. "Dio mio, com'è dimagrita e com'è triste!", sospirò la vecchietta. "Purtroppo - gemette il principe - sembra che non vi sia più speranza". "Vi lamentate inutilmente - gli sussurrò all'orecchio la vecchietta - la principessa guarirà. Ha una malattia particolare. Non è nel corpo, è nell'anima. Per guarire ha bisogno di vedere il volto più bello che esiste sulla terra". Detto questo, la vecchietta improvvisamente sparì.

Al principe sembrava assai strano questo consiglio. Ma quando l'uomo è nella miseria si attacca a tutto. Così invitò pubblicamente tutte le più belle ragazze e i più bei giovani della sua terra a venire al castello. Il bel viso che guarirà la principessa, diceva il bando dei principe, riceverà una lauta ricompensa. Se si tratterà di un giovane, Anima diventerà sua moglie, nel caso di una ragazza, riceverà in dote la metà dell'eredità. Appena il bando fu pubblicato, tutta la più bella gioventù accorse al castello. I giovani sono tutti belli, e ognuno cercava di persuadersi di essere più bello degli altri. Ma tutto fu inutile. Anima peggiorava di giorno in giorno e diventava l'ombra di se stessa. Il principe piangeva, e nessuno riusciva a consolarlo.

Un pomeriggio la vecchietta sconosciuta comparve di nuovo al portone del castello. Di nuovo i servi non volevano lasciarla entrare e la prendevano in giro chiedendole se per caso credesse d'essere lei la più bella del mondo. Ma il principe anche stavolta fu attirato dal trambusto, accorse all'ingresso e condusse subito la vecchietta al capezzale della principessa. «Dio mio, com'è dimagrita e com'è debole!», esclamò la vecchietta. Il principe scoppiò a piangere. Ma la vecchietta aggiunse: " E' un bene che sia qui, sta morendo". Tutto il castello si riempì del pianto disperato del principe, a cui s'unì quello di tutti i servi e di tutte le guardie. Ma la vecchietta non badò affatto alla gran confusione che le sue parole avevano provocato. Corse al muro della stanza, tolse lo specchio che vi era appeso, s'avvicinò al letto e mise lo specchio davanti al volto agonizzante della principessa Anima. Successe il miracolo. La principessa vide il più bel volto dei mondo: era lei la più bella giovane della terra. Lo sguardo su se stessa la guarì all'istante e il pianto del castello si trasformò in grida di esultanza e di gioia.

Ora domanderete come finisce questa favola. Le favole non sono tutte uguali, e questa è una favola vera. La principessa Anima è l'anima umana, la più bella fra tutte le cose che esistono sulla terra. Purtroppo però non lo sa. Cerca la bellezza fuori di sé e non riesce a trovarla, perciò s'ammala e s'indebolisce. Solo quando riesce a conoscere se stessa e la sua bellezza interiore, allora guarisce e la sua gioia è senza fine. Per questo anche questa favola è senza il solito finale.

interiorità

inviato da Giuliana Babini, inserito il 01/06/2002

PREGHIERA

115. Signore, liberami da me stesso!   1

Michel Quoist

Signore, mi senti?
Soffro tremendamente. Asserragliato in me stesso,
prigioniero di me stesso. Non sento che la mia voce,
non vedo che me stesso, e dietro di me non v'è che sofferenza.

Signore, mi senti?
Liberami dal mio corpo, che è tutto brama,
e tutto quello che tocca con i suoi innumerevoli grandi occhi,
con le sue mille mani tese, è solo per coglierlo e cercare di calmare la sua insaziabile fame.

Signore, mi senti?
Liberami dal mio cuore, tutto gonfio di amore,
ma, mentre credo di amare pazzamente, intravvedo rabbioso che ancora amo me stesso nell'altro.

Signore, mi senti?
Liberami dal mio spirito, pieno di se stesso, delle sue idee,
dei suoi giudizi; non sa dialogare, perché non lo colpisce altra parola fuorché la sua.

Solo, mi annoio, mi detesto, mi disgusto,
e mi rigiro nella mia sudicia pelle come il malato nel suo letto bruciante da cui vorrebbe scappare.
Tutto mi sembra brutto, mostruoso, senza luce,
...perché non posso veder nulla se non attraverso me.
Mi sento disposto ad odiare gli uomini ed il mondo intero,
...per dispetto, perché non li posso amare.
Vorrei uscire,
Vorrei camminare, correre verso un altro paese.
So che esiste la gioia, l'ho vista raggiare sui volti.
So che brilla la luce, l'ho vista illuminare gli sguardi.
Ma Signore, non posso uscire,
insieme amo e odio la mia prigione,
perché la mia prigione sono io
ed io mi amo,
mi amo, o Signore, e mi faccio ribrezzo.

Signore, non trovo neppure più la porta di casa mia.
Mi trascino tastoni, accecato,
urto nelle mie stesse pareti, nei miei propri limiti,
mi ferisco.
Ho male, ho troppo male, e nessuno lo sa, perché nessuno è entrato in casa mia.
Sono solo, solo.

Signore, Signore, mi senti?
Signore, indicami la mia porta,
prendi la mia mano, apri,
indicami la Via,
la via della gioia, della luce.

...Ma...
Ma, o Signore, mi senti Tu?

Figliuolo, Io ti ho sentito.
Mi fai compassione.
Da tanto tempo spio le tue imposte chiuse, aprile,
la Mia luce ti rischiarerà.
Da tanto tempo Io sono davanti al tuo uscio sprangato, aprilo,
mi troverai sulla soglia.
Io ti attendo, gli altri ti attendono,
ma bisogna aprire,
ma bisogna uscire da te.

Perché rimanere prigioniero di te stesso?
Sei libero.
Non ho chiuso Io la tua porta,
non posso riaprirla Io,
...perché sei tu dall'interno a tenerla solidamente sprangata.

peccatoconversionelibertàrapporto con Dio

inviato da Mariangela Molari, inserito il 01/06/2002

RACCONTO

116. La storia dei colori

In principio i colori non esistevano, Dio aveva già creato il mondo, il cielo, il mare, le, montagne, le piante, i fiori e gli animali. Era tutto a posto, ma tutto in bianco e nero. La fantasia del Creatore però non poteva accontentarsi di un mondo così monotono e triste, e dal suo Amore fece esplodere la brillantezza del verde, lo splendore del giallo, la profondità del blu, il calore del rosso e tutti gli altri colori così belli e diversi che è impossibile descriverli.

Appena nati i colori erano pieni di entusiasmo e scorrazzavano felici a prendere posesso del creato, ma le cose non erano per niente semplici: l'azzurro riempì subito il cielo e il giallo colorò il sole, ma presto arrivò il grigio e li scacciò, portando un sacco di nuvole, poi cadde la notte e venne il blu e poi il nero. Il verde andò sulle foglie e sulle piante ma quando arrivò l'autunno dovette cedere il posto al giallo, al marrone, al rosso...

I colori cominciarono a litigare tra di loro, perché non erano capaci di stare insieme, ognuno voleva tutto per sé e non accettava le presenza degli altri: anche gli animali si trovavano a cambiare il colore della pelliccia o delle piume, con strani accostamenti oppure macchie e striature a causa della guerra tra i colori.

Poco alla volta la situazione peggiorò fino a diventare insostenibile: tutto cambiava di colore vorticosamente e non si poteva fissare gli occhi un attimo su qualcosa che subito cambiava di colore. I colori stessi, in origine così vivi e brillanti, avevano perso la loro bellezza e procuravano nausea.

"Ora basta! - disse il Padreterno - non posso lasciare il mondo in questo stato!", e con tutto l'impegno di cui era capace creò l'arcobaleno. Era più bello di qualunque cosa si potesse mai immaginare, e subito i colori smisero la loro folle giostra per fermarsi a contemplare la nuova creatura... poi tutti vollero farne parte, e con immensa meraviglia scoprirono che c'era un posto preciso per ciascuno: il rosso accanto al giallo, in mezzo l'arancione, poi il verde, l'azzurro il blu... con mille altre nuove sfumature una più bella dell'altra!

Era incredibile, ma i colori avevano fatto pace. Dopo la tempesta che aveva sconvolto il creato ora andavano tutti d'accordo, con gioia si cedevano il passo l'un l'altro, si prendevano per mano in accostamenti da sogno, si abbracciavano contenti per creare nuove tinte; il mondo era colorato dall'armonia dell'Amore.

Anche oggi i colori vivono in pace ed armonia; talvolta per ricordare l'origine della loro concordia (o per insegnarla ad altri) si riuniscono festanti nell'arcobaleno: la gioia dei nostri occhi e del nostro cuore, magico ponte che unisce il cielo e la terra, l'anima e il corpo, il passato e il futuro.

armoniapaceconviverecomunitàmulticulturalità

inviato da Mariangela Molari, inserito il 28/05/2002

ESPERIENZA

117. Andate in missione per cercare luoghi e modi per dare la vita

Roberta Pignone

Questo titolo un po' strano è quello che meglio descrive il mio viaggio in Bangladesh fatto proprio lo scorso settembre. Fin dall'inizio del mio cammino di preparazione al PIME, iniziato lo scorso ottobre, ho sempre avuto come motivazione principale quella di scoprire cosa avrei potuto fare come medico in una Missione.

E così mi sono completamente affidata a questo cammino, io ho deciso di parteciparvi, tutto il resto mi è stato donato.

Nel mese di aprile ho saputo che la mia destinazione sarebbe stata il Bangladesh.

Non sapevo nulla di questo paese, solo che è il più povero del mondo...

Sono partita per questa esperienza caricata molto positivamente, la gioia e la curiosità erano davvero grandi, ma avevo anche un po' di paura. Le aspettative erano molte ma ho voluto un po' accantonarle dicendo: "Lascio al Signore di decidere quello che vorrà donarmi con questa esperienza".

Al momento della partenza sapevo solo che io, a differenza delle due ragazze che sono partite con me, sarei stata da sola in un'altra missione più a nord del paese, dove mi aspettava il lavoro in un dispensario.

Il primo impatto all'arrivo a Dahka è stato davvero traumatico, la prima sera i miei sentimenti e le emozioni erano incontrollabili continuavo a ripetermi: Perché sono qui? Non potevo seguire i consigli di chi mi ha sempre un po' scoraggiato in questo viaggio?!. Ma chi me lo ha fatto fare? Voglio tornare a casa!

Dahka è una città lasciata a metà, tutto è stato iniziato ma ben poco è stato portato a termine, grande caos, forti rumori, traffico peggio che a Milano, odori nauseabondi...

Ma in fondo la mia destinazione era un piccolo villaggio del nord, questo mi faceva avere la speranza che le cose sarebbero cambiate.

Dopo due giorni ho raggiunto Boldipukur, la mia piccola e accogliente missione. Le case diroccate hanno lasciato spazio al verde che è la nota caratteristica del B, qua la gente vive nelle capanne in mezzo alla natura, proprio intorno alla missione.
Uno spettacolo meraviglioso!

Così le angosce e le paure che mi avevano accompagnato fino a quel momento hanno lasciato spazio ad una sensazione di pace. Sono stata ospite di una piccola comunità di cinque suore, tre bengalesi e due italiane, suor Eleonora e suor Mariangela. Mi sono sentita subito ben accolta, mi sentivo come a casa mia.

A differenza di Dahka dove sono stata solo spettatrice di un mondo che sentivo estremamente estraneo a me e anche un po' ostile, in questo ambiente sono dovuta scendere allo scoperto, entrando nella quotidianità di questa gente, nelle loro case, nelle loro vite.

Sono entrata con timore, quasi in punta di piedi per non voler far notare troppo la differenza e mi sono scontrata subito con una povertà che disarma e fa cadere tutte le certezze.

Appena arrivata in missione mi hanno mostrato la mia camera e subito mi ha colto una sensazione di disagio: non funzionava il ventilatore, assolutamente necessario per affrontare alcuni momenti della giornata, e l'acqua che scendeva dal mio rubinetto era arancione. "Voglio tornare a casa" e il solito "Chi me lo ha fatto fare?!".

In risposta a queste mie domande mi hanno portato a fare un giro nel villaggio appena fuori le mura della missione e ho visto gente che vive nelle capanne, in una unica stanza c'è tutto e soprattutto nessuna comodità, niente ventilatore, niente acqua corrente, solo la luce per chi è fortunato.

La povertà che ho incontrato nel piccolo villaggio è diversa da quella di Dahka, è una povertà dignitosa, hanno davvero poco per il loro sostentamento, ma quel poco lo condividono.

Ho voluto conoscere la realtà della Sanità in B, suor Mariangela si è fatta carico di questa cosa e mi ha fatto vedere tutto quello che le era possibile, portandomi da una cittadina all'altra, consapevole che di fronte ad alcune realtà sarei rimasta senza parole.

Così ho visitato l'ospedale governativo di Rangpur, la città più grande vicino alla mia missione, una decina di chilometri, penso che le parole non riescano a rendere il significato di quello che ho visto: non credevo di essere in un ospedale. La struttura è fatiscente, mi verrebbe da paragonarla alla stazione centrale, ogni angolo di corridoio o di scala è utilizzato come bagno o spazzatura. Nel reparto di chirurgia generale, uno stanzone enorme nel quale sono ricoverati una cinquantina di persone, uomini e donne insieme, chi su di un letto dalle lenzuola putride, chi addirittura per terra adagiato su delle coperte di lana anch'esse molto sporche. Ogni paziente ha al suo fianco la famiglia per qualsiasi necessità, l'ospedale non dà cibo, ma nemmeno i farmaci necessari al ricovero. Tutto è a carico del paziente.

E' stato sufficiente vedere quel reparto per chiedere alla suora di portarmi via, non volevo veder più nulla e nel cuore la speranza che non succeda mai nulla per cui i missionari abbiano bisogno di un ricovero urgente.

La speranza si è accesa quando invece a Dinajpur ho visto l'ospedale gestito dai Missionari, una stretta al cuore, nella povertà e nella semplicità della struttura, riesco comunque a riconoscere un ospedale. Corridoi e stanze pulite, ognuno ha un proprio letto con lenzuola degne di essere chiamate tali.

L'esperienza comunque più significativa l'ho vissuta proprio al dispensario dove ho potuto agire direttamente.

Il dispensario raccoglie tutti i giorni dalle 100 alle 150 persone e più provenienti dai villaggi limitrofi, solo donne e bambini. Vi lavorano solo due suore infermiere, il numero di utenti sarebbe troppo alto con gli uomini.

Vengono fatte accomodare 5 o 6 persone tutte insieme e ognuno dice apertamente il proprio problema, non esiste certo la legge sulla privacy.

Così le suore gestiscono i loro pazienti, ascoltandoli, facendo diagnosi, consigliando terapie con farmaci che loro stessi devono pagare. E non si può certo eccedere con i farmaci, dipende da quanti soldi può offrire il paziente.

I primi giorni mi domandavo che senso avessero tali terapie che non duravano più di quattro giorni a dosi che da noi non utilizziamo nemmeno nei bambini. E ho fatto fatica a mettere da parte le mie conoscenze e le mie certezze per entrare in un'ottica che è completamente diversa dalla mia.

Ho subito pensato a come noi, facilmente, possiamo avere dei farmaci che ci aiutano e a quanti Km di strada devono fare loro per raggiungere il dispensario che copre un territorio vastissimo. Certo nei villaggi ci sono i loro dottori che nella maggior parte dei casi sono stregoni che impongono terapie che io non ho voluto nemmeno conoscere.

Certo che i ricordi sono davvero tanti e potrei stare raccontare per ore...

Prima di partire mi hanno consigliato di non andare a vivere un'esperienza di questo tipo con l'idea di andare a fare grandi cose, con l'idea di salvare il mondo, ma anzi, di lavorare poco e di guardare, ascoltare, imparare.

E così ho fatto, sono partita dicendo: "Non dirò di no a nulla e farò tutto quello che mi verrà proposto...".

Ora il sentimento che sento davvero forte nel mio cuore è quello della gratitudine, io non ho fatto assolutamente nulla in questa esperienza, ho solo ricevuto tanti doni.

E quello davvero più grosso è stato quello di una comunità accogliente che mi ha permesso di essere davvero libera di guardare, ascoltare, registrare tutto quello che veniva messo sul mio cammino.

Ho fatto migliaia di km per scoprire in terra straniera uomini e donne italiane, sì, i missionari!!

"Negli occhi una terra lontana, nel cuore una speranza, andare ai confini del mondo per far conoscere te" sono le parole di un canto che porto nel cuore da quando sono tornata e racchiudono davvero il senso del mio viaggio.

Porto nel cuore queste persone che mi hanno insegnato uno stile di vita davvero semplice e sobrio, il loro sguardo carico di amore, i loro sorrisi... riflesso di un amore più grande che li accompagna e li sostiene ogni giorno.

Non posso che chiedervi di pregare per queste persone perché possano davvero continuare questa grande opera che non è altro che la loro vita per Dio!

missionepovertàdonare

inviato da Mariangela Molari, inserito il 26/05/2002

TESTO

118. Credo in Te   1

Credo nell'amore perché in sé racchiude tutto il significato della nostra vita: nasciamo per amore, cresciamo nell'amore e siamo chiamati ad amare, in condivisione e comunione completa con i nostri fratelli, perché elevato fino a Dio l'amore può andare oltre i limiti dell'uomo.

Credo nell'altro perché è in chi mi sta accanto che ritrovo il tuo volto.

Credo nell'amicizia perché riconosco in essa un importante punto di riferimento che mi dà sicurezza, fiducia in me e negli altri, insegnandomi a crescere e a maturare.

Credo nella vita come grande dono che Dio ci ha concesso e con il quale possiamo realizzare quel progetto che lui ha posto in noi.

Credo nella preghiera perché ci permette di entrare in intimità con un amico sempre disponibile ad ascoltarci e confortarci; perché ci consente di elevarci fino a lui dimenticando tutto ciò che ci preoccupa ed affanna e perché in essa ritroviamo la forza per fare della nostra vita una grande esperienza d'amore.

Credo nell'intelligenza perché ci permette di affrontare con consapevolezza e responsabilità le scelte della vita.

Credo nella sincerità perché rende più puri e veri i nostri sentimenti.

Credo nella fiducia perché ci consente di non rimanere mai soli.

Credo nella felicità perché ci rende vivi e capaci di donare con spontaneità e senza pretese.

Credo nel rispetto poiché non siamo nati per giudicare o condannare, ma per imparare a crescere nella scoperta del grande valore che l'altro rappresenta per noi.

Credo nella vita eterna perché consente di superare il limite umano, la materialità, dando un senso ancora più profondo alla vita terrena.

Credo nella semplicità perché Dio ha scelto la semplicità del pane e del vino per essere sempre presente e vivo in mezzo a noi.

Credo nella conversione perché solo attraverso essa posso liberare la mia anima ed avvicinarmi a Dio privo di condizionamenti e nel totale appagamento.

Credo nel silenzio perché ci consente di superare la confusione delle parole, di riflettere, di capire, ascoltare e confortare meglio di quanto possa fare qualunque parola o qualunque orecchio.

Credo nella musica come modo di comunicare universale, diretto, spontaneo; la musica ci parla della nostra vita e ci dà l'opportunità di riflettere.

Credo nella volontà perché è grazie al desiderio e allo stimolo che Dio suscita nel cuore dell'uomo che egli riesce ad affrontare di tutto per poter, alla fine, raggiungere il suo scopo e trovare la piena felicità in esso.

Credo nella Verità poiché tutti noi abbiamo bisogno di sapere la verità; l'uomo ha sete di verità.

Credo nella gratuità perché nessuna ricompensa è più grande della gioia che sa donarci la felicità espressa dal sorriso di un volto amico.

Credo nella Provvidenza perché con essa in noi nulla ci può mancare anche quando non abbiamo niente.

Credo nel camposcuola come stimolo, spinta verso un cammino di crescita che ci fa forti nella fede e ci rende testimoni della Tua misteriosa e preziosa presenza.

Credo nella perfetta letizia, nel dono di Dio di perdonare e sentirsi perdonati. Un amore senza misura che riempie il cuore di gioia e dà il coraggio di affrontare la vita.

Credo nella libertà di essere se stessi perché ci rende unici, veri, autentici e liberi.

Credo nella pace perché è nella pace che si costruisce un mondo fatto d'amore, di felicità e di quella serenità che ci rende liberi pellegrini verso te, Signore.

Credo nel creato perché ovunque Lo sento: nelle montagne, nel cielo, nelle nuvole, nelle stelle, nel sole, nel vento... Tutto ci parla di Lui.
Credo in tutto questo perché credo in te.

regola di vitacredo

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inviato da Francesco G., inserito il 21/05/2002

PREGHIERA

119. Lo sguardo

Michel Quoist

Adesso Signore, sto per chiudere le mie palpebre,
perché i miei occhi questa sera hanno finito il loro lavoro,
e il mio sguardo sta per rientrare nella mia anima
dopo aver girato una giornata nel giardino degli uomini.
Grazie, Signore, per i miei occhi, finestre aperte sullo spazio.
Grazie per lo sguardo che trasporta la mia anima
come il raggio generoso conduce la luce e il calore del tuo sole.
Io ti prego nella notte, affinché domani, Signore,
quando aprirò i miei occhi al chiarore del mattino,
essi siano pronti a servire la mia anima e il suo Dio.
Fa' che i miei occhi siano chiari, Signore,
e che il mio sguardo limpido dia fame di purezza.
Fa' che non sia sguardo deluso, disilluso, disperato.
Ma che sappia ammirare, estasiarsi, contemplare.
Concedi ai miei occhi di sapersi chiudere per ritrovarti meglio,
ma senza che si distolgano mai dal mondo perché essi ne hanno paura.
Concedi al mio sguardo di essere profondo
per riconoscere nel mondo la tua presenza.
E fa' che mai i miei occhi si chiudano sulla miseria degli uomini.
Che il mio sguardo, Signore, sia pulito e saldo,
ma sappia intenerirsi e che i miei occhi siano capaci di piangere.
Fa' che il mio sguardo non sporchi colui che tocca.
Che non disturbi ma plachi.
Che non rattristi ma comunichi Gioia.
Che non seduca per tener prigioniero,
ma sia invitante e aiuti a superare se stessi.
Fa' che disturbi il peccatore affinché vi riconosca la tua luce,
ma che sia solo un rimprovero per incoraggiare.
Fa' che il mio sguardo sconvolga, perché è un incontro, l'incontro con Dio.
Che sia l'appello, lo squillo di tromba
che mobilita tutto il mondo sulla soglia di casa,
non a causa mia, Signore, ma perché Tu stai per passare.
Affinché il mio sguardo sia tutto questo, Signore,
una volta di più, questa sera, io ti offro la mia anima.
Ti offro il mio corpo.
Ti offro i miei occhi così che guardando gli uomini, miei fratelli,
sia tu a guardarli,
e che attraverso me Tu faccia loro un richiamo.

sguardopurezzadonaretestimonianza

inviato da Mariangela Molari, inserito il 20/05/2002

RACCONTO

120. Diario sconcertante   2

Turriseburnea.it

5 ottobre: oggi la mia vita è incominciata. Il babbo e la mamma non lo sanno ancora. Io sono più piccolo di una capocchia di spillo, eppure sono già un essere indipendente. Tutte le mie caratteristiche fisiche e psicologiche sono già fissate. Ad esempio io avrò gli occhi del babbo e i capelli biondi e mossi della mamma. Ed anche un'altra cosa è già stabilita: io sarò una bambina.

19 ottobre: il mio primo sangue, le mie prime vene appaiono. Però i miei organi non sono ancora completamente formati ed allora la mia mamma mi deve sostenere con il suo sangue e con la sua energia vitale. Ma quando sarò nata mi basterà soltanto, e per qualche tempo, il suo latte.

23 ottobre: la mia bocca si apre verso l'esterno. Entro un anno già potrò ridere, quando i mie genitori si chineranno sul mio lettino. Ho deciso, la mia prima parola sarà: "mamma".

P.S. Chi è quel matto che dice che io non sono un essere umano del tutto autonomo, ma che sono invece una parte del corpo di mia madre?

25 ottobre: il mio cuore ha cominciato a battere. Non si fermerà più, senza riposare, fino alla fine della mia vita. Questo è proprio un grande miracolo!

2 novembre: le mie braccia e le mie gambe cominciano a crescere. E cresceranno fino a che non saranno completamente formate: ciò durerà per un certo tempo, anche dopo la mia nascita.

12 novembre: adesso nelle mie mani stanno spuntando le dita. Con esse mi impadronirò del mondo e parteciperò alle fatiche degli uomini.

20 novembre: oggi, per la prima volta, mia madre ha appreso dal suo cuore che mi portava in seno. Chissà quanto è grande la sua gioia!!

25 novembre: adesso già si potrebbe vedere che io sono una bambina. Certamente i miei genitori stanno già pensando a come mi dovrò chiamare. Potessi già saperlo!!!

28 novembre: tutti i miei organi sono già completamente formati. Io sono molto cresciuta.

12 dicembre: mi stanno crescendo i capelli e le ciglia. Chissà come sarà contenta la mamma della sua piccola!

13 dicembre: presto potrò vedere. Però i miei occhi sono ancora cuciti con un filo. Luce, colori, fiori... deve essere magnifico! Soprattutto mi riempie di gioia il pensiero che potrò vedere la mia mamma. Oh se non ci fosse tanto da aspettare. Ancora più di sei mesi!

24 dicembre: il mio cuore è ormai perfetto. Ci devono essere bambini che vengono al mondo con un cuore malato. In questo caso bisogna affrontare terribili pene per salvarli con una operazione. Grazie a Dio il mio cuore è sano, io sarò una bambina piena di forza e di vita. Tutti saranno felici della mia nascita. Domani è Natale...

28 dicembre: oggi mia madre mi ha assassinata!

abortovitamaternità

inviato da Luca Peyron, inserito il 11/05/2002

TESTO

121. Mi ami tu?

Roger Schutz

"Mi ami tu?": è l'ultima domanda di Gesù a Pietro, Pietro era triste al pensiero di aver rinnegato tre volte Gesù, prima della sua crocifissione. Ed ecco il Risorto sta dinanzi a lui. Gesù non lo condanna per il suo rinnegamento. Non prende l'atteggiamento del forte. Non tira sulla corda della cattiva coscienza già attaccata al collo di Pietro.

Nel Cristo vi sono viscere d'umanità: Lui pure durante la sua vita terrena ha percorso cammini d'oscurità.

A Pietro, Cristo dice solo queste tre parole: "Mi ami tu?" e Pietro risponde: "Signore, tu sai che ti amo". Una seconda volta Gesù riprende: "MI ami tu?". E Pietro di nuovo: "Ma lo sai che ti amo". Una terza volta Gesù insiste: "Mi ami più di tutti costoro?" E Pietro scosso: "Signore, tu conosci ogni cosa, tu sai che ti amo":

Da quel giorno ad ogni essere umano sulla terra, il Cristo instancabilmente domanda: "Mi ami tu?".

Vi sono giorno in cui ci turiamo le orecchie: la domanda ci è insopportabile. Essa è intollerabile per colui che non ha mai sperimentato l'amore umano, per chi esperimenta solo l'abbandono, o la ferita ricevuta nell'innocenza della sua infanzia.

Essa è intollerabile per noi tutti quando ci rivela quella parte di solitudine che nessuna intimità umana può colmare, quella parte di solitudine nella quale Dio ci aspetta. E quando la rivolta si esaspera, la domanda ci appare come una condanna poiché per amare non basta un atto della volontà.

Lo sappiamo abbastanza? Il Cristo non obbliga mai ad amarlo. Ma Lui, il Vivente, rimane al fianco di ciascuno, come un povero, come un oscuro. E' presente anche negli eventi più squallidi, nella fragilità dell'esistenza. Il suo amore è presenza non d'un solo istante ma di sempre. Quell'amore d'eternità apre un aldilà al nostro vivere. Senza quell'altrove, senza quell'aldilà, l'uomo non ha più speranza... e svanisce il gusto di procedere. Di fronte a quell'amore d'eternità, lo sentiamo, la nostra risposta concreta non può essere fuggitiva, per un periodo soltanto, con la possibilità di ritornare sulle nostre decisioni in seguito. La nostra risposta non può neppure essere uno sforzo della volontà; taluni vi si infrangerebbero. Essa è innanzitutto un abbandonarsi.

Rimanere dinanzi a Lui, con o senza parole, significa sapere dove riposare il nostro cuore, significa rispondergli da poveri. In questo consiste la molla segreta dell'esistenza, il rischio del Vangelo.

"Anche se talvolta io non so più se ti amo o no, o Cristo, tu sai tutto, tu sai che ti amo".

Grandi felicità sono offerte a colui che corre il rischio di un tale amore, senza calcolarne troppo le conseguenze. Quando ricerchiamo in primo luogo la felicità per noi stessi, essa a breve o lunga scadenza ci abbandona. Quanto più ardentemente la inseguiamo, tanto più lontano se ne fugge da noi.

Cercatore appassionato del suo amore d'eternità, chiunque tu sia saprai dove riposare il tuo cuore? Attraverso le tue stesse ferite, egli apre la porta della pienezza: la lode del suo amore. Abbandonati, donati. In questo consiste la guarigione delle ferite, e non solo delle tue: già, in Lui, ci guariamo reciprocamente.

felicitàgioiapeccatoconversioneamore di Dio

inviato da Mariangela Molari, inserito il 10/05/2002

RACCONTO

122. Il giorno degli uomini verdi   1

Bruno Ferrero, Tutte storie

Un giorno Dio, stufo delle guerre e delle violenze che si compivano sulla Terra, riunì tutti gli angeli e tenne loro questo discorso: "Avevo detto agli uomini: amatevi gli uni gli altri, e in vece si detestano, perché non sopportano le loro differenze. Ho deciso di impartire loro una buona lezione. Ordinò che a partire dal 1 maggio 2000 tutti gli esseri umani abbiano la stessa pelle color verde-mela, e che diventino tutti perfettamente uguali."

Il 1 maggio 2000 il professor O'Neil, premio Nobel per la biologia, si svegliò di soprassalto. Scese dal letto di pessimo umore e, guardatosi allo specchio, quasi che gli venne un colpo. Non si riconosceva più! Penso di sognare, ma dopo una bella doccia fredda il risultato non era cambiato, anzi, la sua pelle era di un verde ancor più splendente. Velocemente si recò in cucina per bersi un caffè e trovò la moglie... irriconoscibile, anche lei verde! Si collegò in videoconferenza con il suo collega giapponese Mite Mangiu, ma vide dall'altra parte del monitor una persona altrettanto verde! Erano tutti e due disperati!
Scene simili si ripetevano in ogni angolo del mondo.

Clinton telefonò in fretta al presidente russo, ma quasi che non riconoscevano più le loro voci, anch'esse cambiate, uguali cioè alle voci di tutti gli altri uomini nel mondo.

Alcuni dirottatori del Kashmir minacciavano di uccidere tutti gli indiani sull'aereo, ma non li distinguevano più dagli altri passeggeri e sconsolati si misero a piangere.

Un centinaio di calciatori si spacciarono per Del Piero chiedendo un aumento di stipendio, ma furono tutti scacciati a calcioni, compresi il vero Del Piero, verde anche lui e non solo di bile!

I politici anche loro erano tutti verdi, compreso Bertinotti, mentre i veri "Verdi" diedero le dimissioni perché ormai si ritenevano inutili!

Insomma, era un vero manicomio. Gli occidentali erano tutti sconsolati, avevano perso tutto perché ovviamente banche, borse, industrie non potevano più funzionare, dato che non si distinguevano più direttori da impiegati, lavoratori da ladri opportunisti... In Africa e nel terzo Mondo invece erano contenti, perché adesso non c'era più il colore diverso della pelle come fattore discriminante...

Però la situazione era davvero grave... ovunque regnava il panico.

Ci fu un grande summit di biologi, ma alla fine il professor O'Neil disse che non sapeva proprio che fare.

Di fronte a questa ammissione di impotenza il buon Dio decise di intervenire e di riportare tutto alla normalità.

Con grande sorpresa e gioia indescrivibile il 15 maggio 2000 la gente si risvegliò normale, scoprendo la bellezza dell'essere diversi gli uni dagli altri. La gente corse fuori ad abbracciarsi, russi e ceceni, cattolici e protestanti, musulmani e ebrei, neri e bianchi... fu come una nuova nascita per tutti.

Certo, non tutti i problemi furono risolti, ma almeno nessuno più si sentiva superiore agli altri solo perché era nato in occidente anziché al sud del mondo.

Dio riunì nuovamente tutti i suoi angeli e concluse dicendo: "Chissà fino a quando durerà?".

uguaglianzadifferenzemulticulturalitàrazzismo

inviato da Stefania Raspo, inserito il 08/05/2002

RACCONTO

123. Il segreto del paradiso   1

Bruno Ferrero, L'importante è la rosa

Una volta un samurai grosso e rude andò a visitare un piccolo monaco. "Monaco", gli disse "insegnami che cosa sono l'inferno e il paradiso!".

Il monaco alzò gli occhi per osservare il potente guerriero e rispose con estremo disprezzo: "Insegnarti che cosa sono l'inferno e il paradiso? Non potrei insegnarti proprio niente. Sei sporco e puzzi, la lama del tuo rasoio si è arrugginita. Sei un disonore, un flagello per la casta dei samurai. Levati dalla mia vista, non ti sopporto".

Il samurai era furioso. Cominciò a tremare, il volto rosso dalla rabbia, non riusciva a spiccicare parola. Sguainò la spada e la sollevò in alto, preparandosi a uccidere il monaco.
"Questo è l'inferno", mormorò il monaco.

Il samurai era sopraffatto. Quanta compassione quanta resa in questo ometto che aveva offerto la propria vita per dargli questo insegnamento, per dimostrargli l'inferno! Lentamente abbassò la spada, pieno di gratitudine e improvvisamente colmo di pace.

"E questo è il paradiso", mormorò il monaco.

Dopo una lunga ed eroica vita, un valoroso samurai giunse nell'aldilà e fu destinato al paradiso. Era un tipo pieno di curiosità e chiese di poter dare prima un'occhiata anche all'inferno. Un angelo lo accontentò e lo condusse all'inferno.

Si trovò in un vastissimo salone che aveva al centro una tavola imbandita con piatti colmi di pietanze succulente e di golosità inimmaginabili. Ma i commensali, che sedevano tutt'intorno, erano smunti, pallidi e scheletriti da far pietà.

"Com'è possibile?", chiese il samurai alla sua guida. "Con tutto quel ben di Dio davanti!".

"Vedi: quando arrivano qui, ricevono tutti due bastoncini, quelli che si usano come posate per mangiare, solo che sono lunghi più di un metro e devono essere rigorosamente impugnati all'estremità. Solo così possono portarsi il cibo alla bocca".

Il samurai rabbrividì. Era terribile la punizione di quei poveretti che, per quanti sforzi facessero, non riuscivano a mettersi neppur una briciola sotto i denti. Non volle vedere altro e chiese di andare subito in paradiso.

Qui lo attendeva una sorpresa. Il Paradiso era un salone assolutamente identico all'inferno. Dentro l'immenso salone c'era l'infinita tavolata di gente; un'identica sfilata di piatti deliziosi. Non solo: tutti i commensali erano muniti degli stessi bastoncini lunghi più di un metro, da impugnare all'estremità per portarsi il cibo alla bocca.

C'era una sola differenza: qui la gente intorno al tavolo era allegra, ben pasciuta, sprizzante di gioia. "Ma com'è possibile?", chiese il samurai.

L'angelo sorrise. "All'inferno ognuno si affanna ad afferrare il cibo e portarlo alla propria bocca, perché si sono sempre comportati così nella vita. Qui, al contrario, ciascuno prende il cibo con i bastoncini e poi si preoccupa di imboccare il proprio vicino".
Paradiso e inferno sono nelle tue mani. Oggi.

paradisoinfernoaltruismoamoreegoismoserviziogenerositàcaritàdonare agli altri

5.0/5 (1 voto)

inviato da Marianna Sebastiani, inserito il 08/05/2002

PREGHIERA

124. Testamento di un martire   1

Christian de Chergé, monaco cistercense

Se mi capitasse un giorno di essere vittima del terrorismo mi piacerebbe che la mia comunità, la mia Chiesa, la mia famiglia si ricordassero che la mia vita era donata a Dio e a questo paese. Che pregassero per me. Che sapessero associare questa morte a tante altre ugualmente violente, lasciate nell'indifferenza dell'anonimato. La mia vita non ha un prezzo più alto di un'altra. Non vale di meno né di più. In ogni caso non ha l'innocenza dell'infanzia. Ho vissuto abbastanza per considerarmi complice del male che sembra, ahimè, prevalere nel mondo, e anche di quello che mi può colpire alla cieca. Non posso auspicare una morte così; mi sembra importante dichiararlo. Infatti non vedo come potrei rallegrarmi del fatto che un popolo, che amo, sia indistintamente accusato dei mio assassinio. Sarebbe un prezzo troppo caro, per quella che forse chiameranno la grazia del martirio, doverla a un algerino qualsiasi, soprattutto se questi dice di agire nella fedeltà a ciò che crede essere l'islam. Conosco le caricature dell'islam che un certo Islamismo incoraggia. E' troppo facile mettersi la coscienza in pace, identificando questa religione con gli integrismi dei suoi estremisti. L'Algeria e l'Islam, per me, sono un'altra cosa, sono un corpo e un'anima. Evidentemente, la mia morte sembrerà dar ragione a quelli che mi hanno considerato con precipitazione un naïf o un idealista. Ma queste persone devono sapere che la mia più lancinante curiosità verrà finalmente soddisfatta. Ecco che potrò, a Dio piacendo, immergere il mio sguardo in quello del Padre, per contemplare con lui i suoi figli dell'Islam come Lui li vede, totalmente illuminati dalla gloria di Cristo, frutti della sua Passione, investiti dal dono dello Spirito, la cui gioia segreta sarà sempre stabilire la comunione, ristabilire la rassomiglianza, giocando sulle differenze. Questa vita perduta, totalmente mia, totalmente loro, rende grazie a Dio. E anche a te, amico dell'ultimo minuto, che non sapevi quel che facevi. Si, anche per te voglio prevedere questo "Grazie" e questo "Addio". E che sia dato a tutti di ritrovarci, ladroni beati, in Paradiso, se piacerà a Dio, nostro Padre comune. Amen! Insciallah.

martirioislamismo

5.0/5 (1 voto)

inviato da Rovaris Pinuccio, inserito il 08/05/2002

PREGHIERA

125. Il dono di nozze da parte di Dio   3

La creatura che hai al fianco è mia. Io l'ho creata.
Io le ho voluto bene da sempre, prima di te e più di te.
Per lei non ho esitato a dare la mia vita. Te la affido.
La prendi dalle mie mani e ne diventi responsabile.
Quando l'hai incontrata l'hai trovata amabile e bella.
Sono le mie mani che hanno plasmato la sua bellezza,
è il mio cuore che ha messo in lei tenerezza ed amore,
è la mia sapienza che ha formato la sua sensibilità,
la sua intelligenza e tutte le qualità che hai trovato in lei.
Ma non puoi limitarti a godere del suo fascino.
Devi impegnarti a rispondere ai suoi bisogni, ai suoi desideri.
Ha bisogno di serenità e di gioia, di affetto e di tenerezza,
di piacere e di divertimento, di accoglienza e di dialogo,
di rapporti umani, di soddisfazione nel lavoro, e di tante altre cose.
Ma ricorda che ha bisogno soprattutto di me.
Sono Io, e non tu, il principio, il fine, il destino di tutta la sua vita.
Aiutala ad incontrarmi nella preghiera, nella Parola,
nel perdono, nella speranza.
Abbi fiducia in me.
La ameremo insieme. Io la amo da sempre.
Tu hai cominciato ad amarla da qualche anno,
da quando vi siete innamorati.
Sono Io che ho messo nel tuo cuore l'amore per lei.
Era il modo più bello per dirti "Ecco te l'affido.
Gioisci della sua bellezza e delle sue qualità".
Con le parole "Prometto di esserti fedele,
di amarti e rispettarti per tutta la vita",
è come se mi rispondessi che sei felice di accoglierla
nella tua vita e di prenderti cura di lei.
Da quel momento siamo in due ad amarla.
Anzi Io ti rendo capace di amarla "da Dio",
regalandoti un supplemento di amore
che trasforma il tuo amore di creatura e lo rende simile al mio.
E' il mio dono di nozze: la grazia del sacramento del matrimonio.
Io sarò sempre con voi e farò di voi gli strumenti del mio amore
e della mia tenerezza:
continuerò ad amarvi attraverso i vostri gesti d'amore.

matrimoniocoppiaamorefamigliainnamoramento

5.0/5 (1 voto)

inviato da Francesco Sessa, inserito il 04/05/2002

TESTO

126. La preghiera

Kahlil Gibran, il Profeta

Allora una sacerdotessa disse: Parlaci della preghiera.
Ed egli rispose, dicendo:

Voi pregate nelle angustie e nel bisogno; ma io vorrei che voi pregaste anche nella gioia piena e nei giorni dell'abbondanza.
Poiché che altro è la preghiera se non l'espansione di voi stessi nell'etere vivente?
Ed è a voi di conforto versare nello spazio la vostra oscurità, ed è anche per voi di diletto versare nell'esterno la gioia mattinale del vostro cuore.
E se non potete fare a meno di piangere quando l'anima vi spinge alla preghiera, essa dovrebbe spingervi, comunque, fino al punto che attraverso le lacrime spunti il sorriso.
Quando pregate voi vi innalzate a incontrare nell'aria tutti coloro che in quel medesimo istante sono in preghiera, che mai, se non nella preghiera, potreste incontrare.
Perciò non sia questa vostra visita a quell'invisibile tempio che estasi e dolce comunione.
Poiché se intendeste entrare nel tempio non per altro che per chiedere, non ricevereste nulla:
E se entrate per umiliarvi, non sareste innalzati:
E se anche voleste entrare per intercedere per il bene di qualcun'altra non sarete esauditi.
Basta già che voi entriate nell'invisibile tempio.
Io non posso insegnarvi parole di preghiere.
Dio non ascolta le vostre parole, a meno che non le pronunci attraverso le vostre labbra.
Ed io non posso insegnarvi la preghiera dei mari, delle foreste, delle montagne.
Ma voi, nati dai monti, dalle foreste e dal mare potete ritrovare nei vostri cuori la loro preghiera.
E se solo state in ascolto nella quiete delle notti udrete mormorare:
"Dio nostro, che sei la nostra ala, è la tua volontà che vuole in noi,
è il tuo desiderio che desidera in noi,
è il tuo impulso in noi che può trasformare le nostre notti, che sono anche le tue notti, in giorni che siano anche i tuoi giorni.
Nulla possiamo noi chiederti, poiché tu conosci le nostre necessità prima ancora che nascano in noi:
Sei tu la nostra necessità; e nel darci più di te stesso, tu ci dai tutto".

preghierarapporto con Dio

inviato da Luca Mazzocco, inserito il 03/05/2002

PREGHIERA

127. Spirito Santo

Filippa Castronovo

Spirito Santo, che il Padre concede a coloro che credono in Gesù e a lui si sottomettono, riempi di te la nostra vita.
Tu, vivente in noi, ci darai occhi per vedere, orecchie per ascoltare, cuore per convertirci,
bocca per lodare Dio e annunciare le sue meraviglie al mondo.

Spirito Santo, tu sei il dono promesso da Gesù risorto per esseri suoi testimoni.
Spirito Santo, tu sei l'atteso dagli apostoli da Maria e dalle donne che seguirono Gesù.
Spirito Santo, tu vieni a riempire i cuori della tua presenza.
Spirito Santo, tu trasformi i dubbi e i timori colmandoli di gioiosa speranza.
Spirito Santo, tu dai il potere di esprimerci e di essere compresi.

Spirito Santo, tu fai realizzare la vera comunione e comunicazione.
Spirito Santo, tu doni il coraggio di annunziare Gesù Cristo, morto e risorto.
Spirito Santo, tu sciogli la nostra lingua perché possiamo proclamare le meraviglie di Dio.
Spirito Santo, tu sei il dono del Padre a coloro che si sottomettono a Lui.
Spirito Santo, tu vivente in noi, attesti che siamo i figli amati dal Padre.

Spirito Santo, tu conduci i credenti nella via della missione.
Spirito Santo, tu elargisci la tua sapienza e ci fai servire in modo evangelico.
Spirito Santo, tu fai crescere la Chiesa e ne allarghi i confini.
Spirito Santo, tu fai camminare la Chiesa nel timore del Signore.
Spirito Santo, tu consoli la Chiesa, donandole pace.

Spirito Santo, la tua presenza dona la luce e noi vediamo il risorto.
Spirito Santo, in te il Padre consacrò Gesù, riempiendolo di potenza.
Spirito Santo, tu incoraggi i chiamati ad aprire nuove vie al Vangelo.
Spirito Santo, tu fai percorrere le strade del mondo senza timore.
Spirito Santo, tu riservi per te e invii in missione.

Spirito Santo, tu guidi i singoli passi del nostro cammino.
Spirito Santo, tu concedi l'intelligenza per riconoscere la verità e denunciare l'errore.
Spirito Santo, tu riempi di gioia coloro che annunciano la Parola con sincerità.
Spirito Santo, tu guidi la tua Chiesa a scelte sapienti, animate dalla carità.
Spirito Santo, tu crei i profeti e li doni alla Chiesa.

Spirito Santo, tu apri le vie al Vangelo e in esse dirigi gli apostoli.
Spirito Santo, tu fai vivere, con coraggio, le fatiche e le tribolazioni per Cristo.
Spirito Santo, tu costituisci in autorità per guidare a Cristo i fratelli.
Spirito Santo, tu hai parlato per mezzo dei profeti, ora parli per mezzo dei credenti in Gesù.
Spirito Santo, tu trasformi la debole parola umana in annuncio fedele e franco del Regno.

Spirito santo

5.0/5 (1 voto)

inviato da Filippa Castronovo, inserito il 02/05/2002

ESPERIENZA

128. Stupendo "Presepe vivente" non pubblicizzato a...

Fra Angelo De Padova

In questi giorni tutti i mezzi di comunicazione annunciano che le amministrazioni comunali, le parrocchie, le associazioni, hanno organizzato il: "Presepe vivente a..., nei giorni..., dalle ore... alle ore...; il 6 gennaio l'arrivo dei Magi con i doni...; comparse numero...; scenario suggestivo sul...; prenotarsi allo..., offerta libera" e noi annotiamo le date per poterli vedere tutti. Con questa mia lettera volevo fare anche io un po' di pubblicità ad un presepe reale...

La Società Consumista, Egoista, ha organizzato sulla Campi - Lecce, un presepe vivente, dal 1 gennaio al 31 dicembre (fin quando non ci diamo una mossa); dalle ore 00,00 alle ore 24,00; arrivano i doni (vestiti usati, pasta, olio, burro tutto aiuto CEE). I personaggi (non comparse) sono circa 300; le grotte sono fatte di roulotte bucate, senza finestre, freddissime d'inverno, bollenti in estate; le luminarie: poca luce di giorno (la notte salta sempre perché non avendo il bue e l'asino per riscaldarsi accendono tutti le stufe ed è normale che la piccola cabina elettrica non riesca a mantenere e quindi i vari bambinelli rimangono al freddo e al gelo, riscaldati dalla disperazione dei genitori che danno un po' di calore abbracciandoli, col rischio di soffocarli); gli animali: topi, scarafaggi; i servizi (se così si possono chiamare): una quindicina per 300 persone, acqua fredda; l'assistenza medica (solo le urgenze al pronto soccorso, se fanno in tempo; ma è meglio prevenire che curare). Il resto lo vedrete voi. Ah! Dimenticavo, non bisogna prenotarsi, né fare lunghe code, l'ingresso è gratuito, anzi uscendo da questo presepe vi accorgerete come loro vi avranno dato qualcosa: sì, capirete molte cose della vita. Uscendo non direte Che bello e poi tutto finisce lì. Non avrete parole, ma ve lo ricorderete per tutta la vita. Lo spazio Campo Sosta Panareo per realizzare questo presepe è stato messo a disposizione (e abbandonato) dal Comune di Lecce.

I personaggi di questo presepe mi fanno venire in mente i pastori al tempo di Gesù: non godevano di diritti civili ed erano considerati gli ultimi della società. Vivevano immersi nell'abiezione e dal punto di vista delle norme religiose nell'impurità totale, senza alcuna possibilità di riscatto. Venivano trattati alla stregua di bestie, con una differenza a favore delle bestie: si può tirare un animale caduto in un fosso, ma non un pastore. Proprio a costoro si rivolge l'angelo. Non parole di condanna, ma un annunzio di grande gioia, la nascita di colui che li libererà dall'emarginazione. Quelli che gli uomini avevano confinato nelle tenebre (in un campo sosta) sono i primi a rendersi conto della luce che risplende, mentre quanti vivono nello splendore (ricchezza) rimangono nelle tenebre. Quando Gesù si presenta nella storia, nessun sacerdote di Gerusalemme se ne accorge. I pastori sì, loro se ne andarono dalla grotta "glorificando e lodando Dio": questo era compito esclusivo degli angeli.

Correremo anche noi il rischio di non accorgerci della nascita di Gesù? Ci inginocchieremo davanti ad un bambino fatto di gesso che non soffre né il caldo né il gelo e ci dimenticheremo che nasce in carne ed ossa nel "Campo Sosta Panareo"?. E i musulmani del Campo quella notte ascolteranno gli angeli che canteranno "Gloria a Dio nell'alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama", e il giorno di Natale, stando ai semafori delle nostre città o davanti alle porte delle nostre chiese, ci annunceranno la grande gioia che Gesù è nato anche per loro. Ci vogliamo impegnare quanto prima a cambiare un po' lo scenario di questo presepe vivente (ci vuole qualche novità per l'anno prossimo)? Andate a vedere e decidete quale modifica apportare. Magari un prefabbricato andrebbe bene.
Santo Natale a tutti.

Natalepovertàsolidarietàcaritàamore

inviato da Fra Angelo De Padova, inserito il 30/04/2002

TESTO

129. Lirica del Capo

Quando dopo un'uscita faticosa ed impegnativa rifletti sui risultati ottenuti non indugiare, non aspettare: inginocchiati e ringrazia Dio per ciò che ti ha permesso di vivere e sperimentare, prega per i tuoi ragazzi, per le loro speranze i loro sogni e le loro sofferenze.

Quando ti sembra di aver dato il massimo della tua intelligenza, competenza, disponibilità e creatività, non dimenticare di donare senza limiti entusiasmo gioia e amore.

Quando accetti di essere un capo, ricordati di accettare un capo sopra di te.

Quando fai coraggiosa proposta di vita in cui credi, vivila intensamente con tutta la tua generosità.

Quando un problema ti assilla, la tristezza sta per avere il sopravvento, la paura ti assale, non fuggire nel frastuono delle parole o nella polverizzazione di mille esperienze, taci e nel silenzio della solitudine, ascolta.

Quando ti accorgi di ripetere esperienze già fatte, discorsi orecchiati, attività già vissute, impara a sognare: proiezione per il futuro.

Quando ti senti soddisfatto per ciò che hai fatto e ciò che sei riuscito ad ottenere non voltarti e non attendere: riparti subito.

Quando sai imporre le tue idee con chiarezza e determinazione, con dialettica e convinzione, rifletti e medita con serietà sulle idee e proposte contrarie alle tue.

Quando un ragazzo ti parla, non sottovalutare mai la ricchezza del dialogo e dell'incontro, anche il più banale.

Quando hai la sensazione che tutto vada bene, che non ci siano problemi, che ciò che hai fatto e che fai è giusto, sappi che sei fuori strada, qualcosa non va sei tu.

Quando capisci che la tua presenza è inutile, la tua strada coi ragazzi l'hai percorsa, ciò che dovevi dire l'hai detto, sappi salutare e senza voltarti riprendere il tuo zaino per continuare il tuo cammino da solo. Incontrerai altra gente da aiutare, da ascoltare, da amare, per ricevere il dono più grosso che Dio ci ha dato in questa vita: l'amore che è felicità.

Quando credi di sapere già, di conoscere tutto, di non aver bisogno degli altri, non fare il capo. Meglio la tua incertezza, la tua titubanza, la tua modestia, ostinatamente orientate verso la ricerca della verità.

Quando ti poni degli obiettivi educativi, cercali sempre nel profondo del tuo cuore ed illuminali con la ricchezza della tua intelligenza.

Quando le cose non vanno, quando tutto ti sembra crollarti addosso, quando ti viene voglia di mandare tutto all'aria, non disperare, tieni duro, non piegarti in ginocchio se non per pregare.

Quando ti accorgerai che gioie e dolori dei tuoi ragazzi ti interrogano continuamente e ti fanno gioire e soffrire, con loro ringrazia Dio per questo dono immenso che ti ha dato.

Quando sei un capo, non cessare mai di meravigliarti e di stupirti sempre di tutto e di tutti. Allena il tuo occhio, la tua mente ed il tuo cuore a scoprire, anche nelle cose vecchie, quelle nuove che le circostanze diverse mettono in evidenza, per cogliere il bello e l'inedito di ogni istante.

Quando la tua presenza offusca o adombra qualcuno o qualcosa, sforzati di essere trasparente tu stesso ed allora la luce passerà senza riflessi.

Quando... lascia che la Grazia di Dio riempia i vuoti che inevitabilmente tu lasci.

scouteducare

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inviato da Maria Vitali, inserito il 30/04/2002

TESTO

130. Amami come sei (versione lunga)   2

Mons. Lebrun

Conosco la tua miseria, le lotte e le tribolazioni della tua anima, le deficienze e le infermità del tuo corpo; so la tua viltà, i tuoi peccati, e ti dico lo stesso: Dammi il tuo cuore, amami come sei...

Se aspetti di essere un angelo per abbandonarti all'amore, non amerai mai. Anche se sei vile nella pratica della virtù e del dovere, se ricadi spesso in quelle colpe che vorresti non commettere più, non ti permetto di non amarmi. Amami come sei.

In ogni istante e in qualunque situazione tu sia, nel fervore o nell'aridità, nella fedeltà o nell'infedeltà, amami... come sei... voglio l'amore del tuo povero cuore; se aspetti di essere perfetto, non mi amerai mai.

Non potrei forse fare di ogni granello di sabbia un serafino radioso di purezza, di nobiltà e di amore? Non sono io l'Onnipotente? E se mi piace lasciare nel nulla quegli esseri meravigliosi e preferire il povero amore del tuo cuore, non sono io padrone del mio amore?

Figlio mio, lascia che ti ami, voglio il tuo cuore. Certo voglio col tempo trasformarti, ma per ora ti amo come sei... e desidero che tu faccia lo stesso; io voglio vedere dai bassifondi della miseria salire l'amore. Amo in te anche la tua debolezza, amo l'amore dei poveri e dei miserabili; voglio che dai cenci salga continuamente un gran grido: Gesù ti amo.

Voglio unicamente il canto del tuo cuore, non ho bisogno né della tua scienza, né del tuo talento. Una cosa sola mi importa, di vederti lavorare con amore.

Non sono le tue virtù che desidero; se te ne dessi, sei così debole che alimenterebbero il tuo amor proprio; non ti preoccupare di questo. Avrei potuto destinarti a grandi cose; no, sarai il servo inutile; ti prenderò persino il poco che hai... perché ti ho creato soltanto per l'amore.

Oggi sto alla porta del tuo cuore come un mendicante, io il Re dei Re! Busso e aspetto; affrettati ad aprirmi. Non allargare la tua miseria; se tu conoscessi perfettamente la tua indigenza, moriresti di dolore. Ciò che mi ferirebbe il cuore sarebbe di vederti dubitare di me e mancare di fiducia.

Voglio che tu pensi a me ogni ora del giorno e della notte; voglio che tu faccia anche l'azione più insignificante soltanto per amore. Conto su di te per darmi gioia...

Non ti preoccupare di non possedere virtù; ti darò le mie. Quando dovrai soffrire, ti darò la forza. Mi hai dato l'amore, ti darò di poter amare al di là di quanto puoi sognare...
Ma ricordati... Amami come sei...

Ti ho dato mia Madre: fa passare, fa passare tutto dal suo Cuore così puro.

Qualunque cosa accade, non aspettare di essere santo per abbandonarti all'amore, non mi ameresti mai... Va...

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accettazione di séamare Dioamore di Dio

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inviato da Sara D'Erasmo, inserito il 26/04/2002