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RACCONTO

1. I biscotti bruciati   3

Quando ero piccola, a mia mamma piaceva preparare come cena ciò che solitamente si mangia a colazione. Quella sera, una lunga e dura giornata di lavoro, mia mamma mise davanti a mio padre un piatto di uova, salsiccia e biscotti estremamente bruciati. Io aspettavo in silenzio per vedere se qualcuno se ne fosse accorto!

Mio padre prese il suo biscotto, sorrise a mia madre e mi chiede come era andata la mia giornata a scuola. Non ricordo cosa gli ho detto, ma ricordo benissimo di averlo visto spalmare burro e gelatina su quel brutto biscotto bruciato. Mangiò ogni boccone senza scomporsi e senza pronunciare una parola al riguardo!

Quando mi sono alzato dal tavolo quella sera, mia madre si scusò con mio padre per aver bruciato i biscotti. E non dimenticherò mai quello che risposte mio padre: «Tesoro, adoro i biscotti bruciati di tanto in tanto.»

Più tardi quella sera andai a baciare la buonanotte a papà e gli chiesi se gli piacevano davvero i suoi biscotti bruciati. Mi abbracciò e mi disse: «Tua mamma ha passato una dura giornata di lavoro oggi ed è davvero stanca. E poi un biscotto bruciato non ha mai fatto male a nessuno!»

Quando sono cresciuto, ci ho pensato molte volte. La vita è piena di cose imperfette e persone imperfette. Non sono il migliore in quasi nulla, e dimentico compleanni e anniversari proprio come tutti gli altri. Ma quello che ho imparato nel corso degli anni è che imparare ad accettare i reciproci difetti e scegliere di celebrare le reciproche differenze è una delle chiavi più importanti per creare una relazione sana, in crescita e duratura.

E questa è la mia preghiera per te oggi: che imparerai a prendere le parti buone, cattive e brutte della tua vita e metterle da parte. Potremmo estenderlo a qualsiasi relazione. In effetti, la comprensione è la base di ogni relazione, che si tratti di marito-moglie o genitore-figlio o amicizia!

"Non mettere la chiave della tua felicità nella tasca di qualcun altro, tienila nella tua."

Quindi, per favore, passami un biscotto e sì, quello bruciato andrà bene.

Sii più gentile del necessario perché tutti quelli che incontri stanno combattendo un qualche tipo di battaglia.

gentilezzaaccettazioneamorefamigliacomprensionecoppiamatrimoniolimitiimperfezionidifetti

3.5/5 (2 voti)

inserito il 23/06/2020

RACCONTO

2. Si raccoglie ciò che si semina!   1

Un giovane ingegnere decise di impiegare un piccolo capitale in agricoltura e comprò un piccolo campo in una pianura fertile. Dal momento che non era proprio esperto di coltivazioni, decise di chiedere informazioni a un vecchio contadino che abitava nei pressi.

«Hai visto, Battistin, il mio campicello?».
«Ma certo. Confina con i miei», rispose il vecchio.
«Vorrei chiederti una cosa, Battistin: credi che il mio campicello potrebbe darmi del buon orzo?».
«Orzo? No, signore mio, non credo che questo campo possa dare orzo. Da tanti anni vivo qui e non ho mai visto orzo in questo campo».
«E mais?», insistette il giovane. «Credi che il mio campicello possa darmi del mais?».
«Mais, figliolo? Non credo che possa dare mais. Per quanto ne so, potrebbe fornire radici, cicorie, erba cipollina e meline acerbe. Ma mais no, non credo proprio».

Benché sconcertato, il giovane ingegnere replicò: «E soia? Mi potrebbe dare soia il campicello?». «Soia, dice? Non voglio fare il menagramo, ma io non ho mai visto soia in questo campo. Al massimo, erba alta, un po' di rametti da bruciare, ombra per le mucche e qualche cespuglio di bacche, non di più».

Il giovane, stanco di ricevere sempre la stessa risposta, scrollò le spalle e disse: «Va bene, Battistin, ti ringrazio per tutto quello che mi hai detto, ma voglio fare una prova. Seminerò del buon orzo e vediamo che cosa succede!».
Il vecchio contadino alzò gli occhi e, con un sorriso malizioso, disse: «Ah, beh. Se lo semina... È tutta un'altra cosa, se lo semina!».

Oggi seminerò un sorriso, affinché la gioia cresca.
Oggi seminerò una parola di consolazione, per donare serenità.
Oggi seminerò un gesto di amore, perché l'amore domini.
Oggi seminerò una preghiera, affinché l'uomo sia più vicino a Dio.
Oggi seminerò parole e gesti di verità, per vincere la menzogna.
Oggi seminerò atti sereni, per collaborare con la pace.
Oggi seminerò un gesto pacifico, affinché i nervi saltino meno.
Oggi seminerò una buona lettura nel mio cuore, per la gioia del mio spirito.
Oggi seminerò giustizia nei miei gesti e nelle parole, affinché la verità trionfi.
Oggi seminerò un gesto di delicatezza, affinché la bontà si espanda.

seminareconseguenzeimpegnoresponsabilitàsemesperanzafiducia

inviato da Qumran2, inserito il 29/12/2018

TESTO

3. Lettera d'amore di Dio per te   2

Aleteia

Figliolo mio,

forse non mi conosci, ma Io so tutto di te. So quando ti siedi e quando ti alzi, conosco ogni passo che fai e so il numero esatto dei capelli sulla tua testa, perché sei stato fatto a mia immagine. Ti ho conosciuto prima che tu nascessi, ti ho scelto quando ho pianificato la creazione, non sei stato un errore, perché ogni tuo giorno è già scritto nel mio Libro. Sei stato fatto in modo meraviglioso, Io ti ho formato nel ventre di tua madre e ti ho preso dal suo grembo il giorno in cui sei nato.

Chi non mi conosce mi ha presentato in modo sbagliato, non sono né lontano né arrabbiato, ma sono l'espressione perfetta dell'amore, manifestato in mio Figlio Gesù... ed è mio desiderio amarti, semplicemente perché sei stato creato per essere mio figlio e affinché Io sia tuo Padre.

Io sono colui che provvede ad ogni tua esigenza, il mio piano per il futuro è pieno di speranza. Perché ti amo di un amore eterno. I miei pensieri per te sono smisurati, sono come la sabbia del mare. Sono vicino a te per salvarti, in te mi rallegro e gioisco. Non smetterò mai di farti del bene: se ascolti la mia parola e la metti in pratica, sarai il mio tesoro speciale.

Voglio con tutto il mio cuore e con tutta la mia anima che tu prosperi, desidero mostrarti cose grandi e meravigliose. Se mi cerchi con tutto il cuore mi incontrerai... Trova il tuo diletto in me e Io ti concederò i desideri del tuo cuore. Perché sono Io che suscito in te ciò che tu vuoi. Sono potente, e posso fare in te molto più di quanto tu immagini.

Sono il Padre che ti consola in tutte le tue tribolazioni, sono vicino a te quanto il tuo cuore è ferito. Vedo che a volte sei tanto lontano da me, e arrivo a temere di perderti per sempre. Ieri ti ho visto molto triste e avrei voluto privarti di questo dolore. Ho gridato ai quattro venti, ma non sei venuto a cercarmi. Ti ho visto parlare con i tuoi amici, ti ho visto mangiare fuori orario e ho camminato con te nella strada verso casa. Ho quasi visto con i tuoi occhi ciò che stavi guardando tu, ciò che ti ha provocato tanta nostalgia. Avrei voluto che tu mi prestassi ascolto. Ma non l'hai fatto, e quindi ho aspettato tutto il giorno.

Ti ho donato un bel tramonto a conclusione delle tue giornate, e una leggera brezza per permetterti di riposare meglio. Ti ho aspettato, dopo un giorno così frenetico, ma non sei mai venuto. La scorsa notte ti ho visto dormire e ti ho voluto toccare la fronte. Ti ho mandato dei raggi di luna dentro casa per vedere se ti fossi svegliato, ma hai continuato a dormire.

Ti parlo all'orecchio attraverso le foglie degli alberi e il profumo dei fiori, grido a te nei ruscelli di montagna, e attraverso gli uccelli canto il mio amore per te. Ti rivesto del calore del sole e profumo l'aria della natura con l'aroma della natura. Ascolto il silenzio dentro di te e provo a suscitare in te dei buoni desideri. Non sono lontano, sono nel tuo cuore. Regala uno sguardo d'amore a tutti coloro che ti circondano, e mi troverai, in ogni momento.

Oggi ho cercato qualcuno che mi prestasse le sue mani per scriverti, d'ora in poi scriverò direttamente nel tuo cuore. Se me lo permetti, devi solo dirmi ‘Sì'... So che è difficile vivere in questo mondo, lo è davvero, ma se confidi in me ti darò nuove forze. A partire da oggi. Parla con me, scarica i tuoi pesi e le tue ansie su di me. Ho sempre tempo per te, raccontami ogni cosa, piangi se vuoi, asciugherò ogni tua lacrima e accarezzerò il tuo volto.

Chiamami a qualsiasi ora del giorno o della notte, non dormo mai e ti risponderò sempre. Se tu riuscissi a guardare l'universo con amore, a vederti nello specchio con umiltà, a mostrare tenerezza a chi ti sorride, misericordia a chi ti chiede compassione e perdono a chi ti fa piangere... la mia voce diventerà il tuo pensiero.

Come il pastore guida le sue pecore, così io ti conduco vicino al mio cuore. Un giorno asciugherò ogni lacrima dai tuoi occhi ed eliminerò tutto il dolore che hai sofferto sulla terra. Ti amo tanto, al punto da aver mandato mio Figlio Gesù affinché tu abbia vita eterna. Perché in Gesù ho rivelato il mio Amore per te, Lui è la rappresentazione esatta del mio essere. È venuto per dimostrarti che Io sono dalla tua parte, non contro di te. È venuto per dirti che non ricorderò più dei tuoi peccati. Gesù è morto affinché tu possa riconciliarti con me, la Sua morte è stata la massima espressione del mio amore per te... Ho dato ogni cosa per avere il tuo amore...

Vieni a casa e celebra la festa più grande che il Cielo abbia mai visto... Sono sempre stato, e sempre sarò, tuo Padre. La domanda è: vuoi essere mio figlio? Sono con le braccia aperte, aspetto te. Devi soltanto ricevere mio Figlio Gesù nel tuo cuore.
Ti abbraccio e non me ne vado. Resto al tuo fianco. Ti amo!
Con affetto: tuo papà, Dio.

amore di DioDio padrepaternità di Diorapporto con Dio

5.0/5 (3 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 15/01/2018

RACCONTO

4. La favola del colibrì

Antica leggenda africana

Un giorno nella foresta scoppiò un grande incendio. Di fronte all'avanzare delle fiamme, tutti gli animali scapparono terrorizzati mentre il fuoco distruggeva ogni cosa senza pietà.

Leoni, zebre, elefanti, rinoceronti, gazzelle e tanti altri animali cercarono rifugio nelle acque del grande fiume, ma ormai l'incendio stava per arrivare anche lì.

Mentre tutti discutevano animatamente sul da farsi, un piccolissimo colibrì si tuffò nelle acque del fiume e, dopo aver preso nel becco una goccia d'acqua, incurante del gran caldo, la lasciò cadere sopra la foresta invasa dal fumo. Il fuoco non se ne accorse neppure e proseguì la sua corsa sospinto dal vento.

Il colibrì, però, non si perse d'animo e continuò a tuffarsi per raccogliere ogni volta una piccola goccia d'acqua che lasciava cadere sulle fiamme.

La cosa non passò inosservata e ad un certo punto il leone lo chiamò e gli chiese: «Cosa stai facendo?». L'uccellino gli rispose: «Cerco di spegnere l'incendio!».

Il leone si mise a ridere: «Tu così piccolo pretendi di fermare le fiamme?» e assieme a tutti gli altri animali incominciò a prenderlo in giro. Ma l'uccellino, incurante delle risate e delle critiche, si gettò nuovamente nel fiume per raccogliere un'altra goccia d'acqua.

A quella vista un elefantino, che fino a quel momento era rimasto al riparo tra le zampe della madre, immerse la sua proboscide nel fiume e, dopo aver aspirato quanta più acqua possibile, la spruzzò su un cespuglio che stava ormai per essere divorato dal fuoco.

Anche un giovane pellicano, lasciati i suoi genitori al centro del fiume, si riempì il grande becco d'acqua e, preso il volo, la lasciò cadere come una cascata su di un albero minacciato dalle fiamme.

Contagiati da quegli esempi, tutti i cuccioli d'animale si prodigarono insieme per spegnere l'incendio che ormai aveva raggiunto le rive del fiume.

Dimenticando vecchi rancori e divisioni millenarie, il cucciolo del leone e dell'antilope, quello della scimmia e del leopardo, quello dell'aquila dal collo bianco e della lepre lottarono fianco a fianco per fermare la corsa del fuoco.

A quella vista gli adulti smisero di deriderli e, pieni di vergogna, incominciarono a dar manforte ai loro figli. Con l'arrivo di forze fresche, bene organizzate dal re leone, quando le ombre della sera calarono sulla savana, l'incendio poteva dirsi ormai domato.

Sporchi e stanchi, ma salvi, tutti gli animali si radunarono per festeggiare insieme la vittoria sul fuoco.

Il leone chiamò il piccolo colibrì e gli disse: «Oggi abbiamo imparato che la cosa più importante non è essere grandi e forti ma pieni di coraggio e di generosità. Oggi tu ci hai insegnato che anche una goccia d'acqua può essere importante e che insieme si può spegnere un grande incendio. D'ora in poi tu diventerai il simbolo del nostro impegno a costruire un mondo migliore, dove ci sia posto per tutti, la violenza sia bandita, la parola guerra cancellata, la morte per fame solo un brutto ricordo».

impegnopiccole coseresponsabilitàimportanza delle piccole cosefiduciasperanzapositivitàesempiocollaborazione

inviato da Qumran, inserito il 01/12/2017

RACCONTO

5. Il quarto dono

Gulli Morini

Gesù è nato a Betlemme e dal lontano oriente tre sapienti si sono messi in viaggio per venire a conoscere il re dei re. Li guida una stella, ma in realtà non sanno cosa troveranno. Il linguaggio degli astri ha detto loro che è nato un re: porterà la pace nel mondo, inizierà un regno che non avrà mai fine e unirà il cielo con la terra, ma non ha detto loro dove accadrà tutto questo e, soprattutto, come. Ecco allora che, seguendo la stella, arrivano in Palestina.
Dove andreste a cercare il futuro re? Nella città più grande, nei palazzi dove abitano i ricchi e i potenti, ed è proprio quello che fanno i tre magi a Gerusalemme.

«Dov'è il re dei Giudei che è nato?», vanno chiedendo a tutti, ma nessuno sa rispondere loro.
«Abbiamo visto sorgere la sua stella e siamo venuti ad adorarlo» affermano con sicurezza i tre forestieri, e all'udire queste parole tutti, ma proprio tutti, si stupiscono, perché a un re normalmente si fa omaggio, ma non adorazione; per questo tutti comprendono bene che i Magi cercano un grande re, non uno dei tanti che regnano sulla terra.
Il loro abbigliamento, le loro domande insistenti non passano inosservate e vengono riferite a chi ha il potere in quel paese, e cioè al re Erode, ma anche ai soldati romani che da anni hanno conquistato la Palestina e sono di fatto i veri padroni del territorio.
Il comandante del presidio di Gerusalemme invia loro un soldato con la scusa di proteggerli, ma in realtà per sapere cosa c'è di vero nelle loro affermazioni.
Erode raduna i suoi consiglieri più fidati, gli studiosi della bibbia di quel tempo per conoscere dove avrebbe dovuto nascere il più grande di tutti i re, cioè il Messia d'Israele. La risposta, come potete leggere nel Vangelo di S. Matteo, è Betlemme, allora il re fa' chiamare segretamente i Magi perché ha in mente un piano. Invia i magi a Betlemme e chiede loro di tornare quando l'avranno trovato, così potrà andare anche lui ad ad «adorarlo». Di fatto pensa solo ad individuare il suo rivale per eliminarlo.

Ecco allora che i tre Magi riprendono il cammino assieme al soldato romano che li scorta sul suo cavallo, armato di lancia e di spada. I tre personaggi parlano tra di loro, sono emozionati perché sperano di arrivare presto alla fine del loro viaggio. Il soldato, che si chiama Longino, ascolta tutto con grande attenzione, così impara quali sono le caratteristiche di questo re nato da poco che i tre sapienti stanno cercando con impazienza.
Sarà un re più grande di ogni altro re; il suo regno si estenderà su tutti i popoli (e questo preoccupa molto il romano se pensa che l'impero della sua Roma possa essere in pericolo), ma nonostante tutto questo sarà un regno di pace, un regno buono, come non ce ne sono stati altri.
Alla sera, quando si accendono le prime stelle, i tre saggi scrutano con visibile apprensione il cielo e d'improvviso scoppiano in esclamazioni di gioia: la stella, ecco di nuovo la stella!
«Quale stella?» chiede Longino ai sapienti che lo guardano con occhi pieni di felicità.
«Guarda, quella è la stella che ci ha guidati», dice Melchiorre indicando un punto luminoso nel cielo.
«E' la stella del più grande dei re, come dicono tutti i libri che insegnano il linguaggio delle stelle», continua Gasparre.
«L'abbiamo vista per la prima volta nei territori d'oriente, da dove veniamo, alcuni mesi fa», aggiunge Baldassarre.
«Per settimane ci ha guidato, poi è sparita, così abbiamo proseguito il cammino solo sulla fiducia», riprende Melchiorre.
«Ma ora i nostri occhi la vedono di nuovo e la nostra gioia è talmente grande che tu non puoi nemmeno immaginare», conclude Gasparre.
«Voi saggi stranieri non lo sapete - dice Longino - ma la stella è proprio nella direzione di Betlemme, che dista da qui meno di un'ora di cammino».
I tre Magi sono eccitati come bambini.
«Cosa aspettiamo? Presto, prepariamo i doni. Partiamo subito», si dicono l'un l'altro.
Longino vorrebbe trattenerli, ma i tre sapienti insistono tanto che alla fine il romano è costretto a far loro da guida.

Il viaggio diventa sempre più disagiato, perché ormai il buio è totale e si intravede solo la via al bagliore delle stelle. L'aspettativa dell'evento ha contagiato anche il soldato, cosicché la comitiva procede in silenzio. Ognuno pensa a ciò che tra poco troverà: un sapiente, un re, un inviato dal cielo, un pericoloso concorrente.
Dopo più di un'ora di viaggio difficoltoso i quattro finalmente giungono in vista delle luci di Betlemme. A quel tempo non c'erano le strade illuminate come adesso. Solo chi era sveglio aveva un lume acceso che filtrava appena dalle finestre già chiuse. Nel buio totale della campagna bastava una luce o due per segnalare la presenza di un villaggio.
Eccolo il paesino tanto a lungo cercato. Una decina di case costruite sulla roccia, qualche muro che circonda cortili e piccoli orti, una luce accesa fuori di una porta dalla quale esce luce e un brusìo continuo. I quattro entrano e si trovano in una locanda. Tre soldati romani ad un tavolo, qualche altro cliente agli altri tavoli, ben lontani dai soldati. Longino si avvicina ai commilitoni, scambia qualche parola in latino, poi va dall'oste, parla animatamente per qualche minuto, poi torna dai Magi che aspettano in piedi vicino alla porta.
«Nessuno sa nulla, nessun personaggio importante è passato di qui ultimamente. Tanti ebrei sono passati di qui in occasione dell'ultimo censimento, ma si trattava quasi esclusivamente di povera gente, se non proprio di straccioni. In qualche momento c'è stata tanta gente che qualcuno ha dovuto alloggiare nelle grotte dei pastori che si trovano intorno al villaggio.»
I quattro escono delusi dalla locanda e si ritrovano in una specie di piazza, nello spazio lasciato libero da alcune casette tutt'intorno. I magi guardano il cielo e interrogano muti la stella che li ha guidati fin qui. Tutte le stelle brillano con qualche tremore della luce, ma questa brilla in un modo strano anche se non fa più luce delle altre.
«E' qui vicino, guardate la stella, sembra che danzi», dice Gasparre come in trance.
«Sembra che stia cantando e che ci chiami», risponde Melchiorre come in estasi.
«Andiamo», dice Gasparre come in sogno.
Longino non capisce bene, ma anche lui è affascinato da questa strana atmosfera che si è creata e senza parlare segue i tre sapienti che si sono incamminati per un sentiero che esce dal paese, nella stessa direzione della stella.

A meno di cinque minuti di cammino c'è una grotta, dentro una piccola luce. I piedi camminano da soli, i quattro procedono come automi e si fermano sulla soglia della grotta. Quello che vedono è molto diverso da quel che si aspettavano. Un giovane uomo che gioca con un bimbo in braccio mentre la moglie, giovanissima, sta cucinando in un angolo della grotta. Di fianco a loro un bue ed un asinello legati vicino ad una greppia. Il giovane uomo si accorge della presenza dei nuovi arrivati e senza nessuna esitazione li invita ad entrare.
«La notte è umida, lì fuori: entrate e dividete con noi la nostra cena.» Poi, rivolto alla moglie: «Maria, il Signore benedice la nostra dimora con quattro ospiti.»
«Siate i benvenuti, riposatevi qualche istante mentre io impasterò e cuocerò per voi delle focacce», risponde lei.
I quattro entrano, si siedono su alcune logore stuoie per terra ed osservano questa piccola famiglia cercando con gli occhi conferme ai loro pensieri più profondi. Si aspettavano tutto tranne la straordinaria normalità di ciò che vedono: una semplice famiglia che vive l'ancor più semplice felicità di tutti i giorni che è stata loro concessa dalla nascita di un figlio. La sicurezza che accompagnava i tre saggi durante la loro ricerca è svanita. Più che delusi sono sorpresi. Qui niente ha l'apparenza dell'abitazione di un re, nemmeno le persone che stanno davanti a loro hanno un comportamento di chi aspira a comandare, le parole che sentono non son quelle di chi ha studiato tanto sui libri o di chi ha grandi sogni ed ambizioni. Eppure tutt'intorno a quel bambino c'è una tale atmosfera d'amore che i tre saggi, ma anche il soldato, ne sono conquistati. Non sono sicuri di essere davvero arrivati perché qui non corrisponde nulla alle loro aspettative, per questo debbono cambiare completamente prospettiva per poter vedere con altri occhi ciò che sta loro innanzi.
Più tardi, mentre mangiano tutti insieme, decidono di fidarsi della loro intuizione e raccontano del loro viaggio, del messaggio delle stelle, dei presagi sul futuro di quel bimbo che ora dorme nella mangiatoia degli animali. Maria e Giuseppe, suo sposo, ascoltano stupiti il racconto dei Magi. Capiscono che possono fidarsi di loro e raccontano dei pastori che, la notte della nascita di Gesù, loro figlio, erano accorsi raccontando di visioni di angeli nel cielo.
Longino ascolta anche queste notizie senza ben capire se deve considerarle verità o frutto d'immaginazione. L'unica cosa che percepisce chiaramente è un'atmosfera di serenità che lo circonda. Per i Magi invece questo racconto è la conferma che cancella tutti i loro dubbi. Sicuramente quel bimbo che dorme tranquillamente nella paglia profumata sarà il grande re annunciato dalle stelle, ma sarà anche molto diverso da tutti gli altri. Il loro cuore e non solo la mente finalmente si è aperto, è ora di aprire anche le bisacce e offrire i doni che hanno portato dal loro paese per il Re dei re. A turno depongono ai piedi del bambino Gesù l'oro, segno di ricchezza della regalità, l'incenso, profumo che sale al cielo segno di unione Dio, e mirra, profumo raro e prezioso, segno di nobiltà e di pulizia terrena, ma anche di profonda umanità, visto che viene usato anche nei riti di sepoltura.
Longino è confuso da questa atmosfera che si è creata: percepisce che quel bambino avrà un futuro misterioso e decide di donare anche lui qualcosa, ma non ha nulla. Allora prende la lancia e la depone ai piedi di Gesù: un re deve avere potere anche se sarà un re di pace: se non vorrà fare guerre almeno potrà difendersi, e la lancia è l'arma più adatta a tener lontani i nemici. Giuseppe e Maria osservano tutto con grande attenzione mista a sorpresa: anche questi doni sono davvero inaspettati. Poi Giuseppe prende la lancia e la restituisce al soldato.
«Amico soldato, non ti offendere se non accetto il tuo dono. Capisco la tua buona intenzione e te ne sono profondamente grato. Non so cosa diventerà da grande mio figlio, ma prego il Signore che non tocchi mai un'arma e che il suo potere sia solo di amore.»
Longino si guarda intorno ma non vede ombra di rimprovero o di commiserazione, ma solo sguardi di comprensione e di stima, allora riprende la lancia e torna a sedersi sulla sua stuoia silenzioso. C'è qualcosa che gli sfugge, che non riesce a capire, che non riesce ad accettare. È tardi, per tutti c'è bisogno di dormire. Il sonno dei Magi è ricco di emozioni, di presagi, di calcoli astronomici. Quello di Longino è un sonno pesante, un po' disilluso, ma anche affascinato dalla serenità di un incontro inaspettato.

È Gesù che sveglia tutti poco prima dell'alba perché ha fame. Maria lo allatta cantando sottovoce per non disturbare gli ospiti, ma questi sono già svegli. I tre saggi discutono tra si loro sommessamente, mentre Longino accompagna Giuseppe a prendere del latte dai pastori che stanno in una grotta poco lontano. Il cielo è ormai chiaro, è l'ora di salutarsi, ma prima che Gesù si riaddormenti i tre sapienti lo prendono a turno in braccio e lo cullano guardandolo con grande affetto. Sembra che se lo mangino con gli occhi, che vogliano fissare per sempre nella mente l'immagine di quel fanciullo che per loro è così importante. Prima di riconsegnarlo alla madre lo sollevano e tenendolo più alto delle loro teste chinano il capo in segno di omaggio, di sottomissione e di adorazione. Anche il romano saluta con gentilezza e accarezza delicatamente il piccino.
I quattro s'incamminano silenziosamente verso Betlemme, ma dopo poco Baldassarre chiede a Longino: «Cambiamo strada, non torniamo a Gerusalemme, andiamo direttamente ad oriente, torniamo a casa.»
«Ma Erode vi aspetta.»
«E lascia che aspetti: secondo me considera il bambino come un rivale che intralcia i suoi progetti», risponde Gasparre.
«E poi non potrà certamente capire quali possano essere i piani di questo fanciullo: non sono chiari nemmeno per noi!», conclude Melchiorre.
Dopo qualche giorno i Magi salutano il soldato romano e lo rimandano alla sua guarnigione.
«Vai, riferisci al tuo comandante ciò che hai visto: Roma non deve aver paura di un bimbo che parlerà di pace e non di guerra. Il cielo ti benedica buon Longino.»

Passano più di trent'anni, Gesù è stato crocifisso da pochi giorni e a Gerusalemme si è sparsa la voce che è risorto. Alcuni discepoli dicono perfino di averlo visto, di aver mangiato con lui. Nel Cenacolo sono riuniti i suoi apostoli, hanno paura perché c'è chi li ha già minacciati di morte. Il sommo sacerdote e i capi religiosi vogliono chiudere per sempre l'avventura di un maestro, di un profeta troppo scomodo che ha avuto l'ardire di chiamarsi Figlio di Dio: chiunque osa affermare che Gesù è risorto viene imprigionato. Alla porta del Cenacolo qualcuno bussa: è un soldato romano, e subito il terrore si dipinge sul volto degli apostoli. Ma è un volto noto, è il vecchio Longino, il più anziano tra i soldati della guarnigione, rispettato da tutti perché non ha mai abusato del proprio potere.
Appena entrato depone la spada e la lancia per terra e chiede di parlare con Pietro. È qui a titolo personale, spiga subito, non in veste ufficiale. Vuole sapere se è vero quel che dicono di Gesù. Pietro si fida di lui e racconta di averlo visto più volte e di aver assistito alla sua ascensione al cielo in Galilea. Allora Longino si mette a piangere, sommessamente, ma incapace di smettere. Tutti gli apostoli gli sono intorno stupiti cercando di fargli coraggio, poi, finalmente, il vecchio soldato riesce a trattenersi. Viene fatto sedere e comincia il suo racconto.
«Sono io che sul Golgota ho trafitto il costato di Gesù con quella lancia», dice con fatica.
«Ti ho visto, c'ero anch'io - conferma Giovanni - ma non sei stato tu ad ucciderlo, non devi avere rimorsi».
«Lo so, ma non avevo ancora capito nulla, ero deluso per la seconda volta.»
«Non capisco per cosa tu sia rimasto deluso, e soprattutto perché la seconda volta», dice Pietro.
«E' una storia lunga», esordisce il vecchio soldato, quindi racconta il primo incontro con Gesù nella grotta di Betlemme. «Cercavo un re, il più grande dei re, ma ho trovato un bambino, una famiglia meravigliosamente normale, troppo normale per far crescere un re speciale. Ho provato nonostante la mia delusione ad offrirgli tutto ciò che avevo, cioè la mia lancia, ma mi è stata rifiutata, allora ho pensato, a differenza dei tre sapienti, di aver fallito la mia ricerca. È passato tanto tempo da quel giorno. Sono tornato a Roma e dopo parecchi anni son tornato qui e ho sentito parlare di Gesù. L'ho cercato, una volta l'ho persino ascoltato e ne sono rimasto turbato. Forse, pensavo, nonostante tutto poteva essere lui quello che doveva venire, anche se era così diverso da come l'aspettavo. Ma la mia speranza è morta con lui sul Golgota. Non sono io che l'ho ucciso, ma la mia incredulità lo ha trafitto, proprio con quella lancia che più di trent'anni fa lui mi aveva rifiutato. Ma adesso è risorto. Tanti lo dicevano e io non volevo crederci. Eppure questa notizia sconvolgente si è aggrappata al mio cuore e non ha più voluto staccarsi: ho cercato inutilmente di cancellarla, di pensare che era impossibile, che era una solo una voce messa in giro per confondere i più deboli e creduloni. Alla fine mi son deciso a venire da voi, i suoi amici per avere una parola definitiva, ed ora voi mi testimoniate che è vero: è risorto. Solo adesso, finalmente, i miei occhi cominciano a vedere, il mio cuore crede quel che la mia mente ha sempre rifiutato. Comincio adesso a capire che nulla è successo per caso, che tutto, proprio tutto è servito perché il suo disegno si compisse. Quando a Betlemme ho voluto donargli la mia lancia, Gesù non l'ha rifiutata, l'ha accettata ma me l'ha lasciata in custodia fin quando non è servita, sul Golgota. Sì, ha preso anche la mia lancia non per conquistare o comandare, ma solo per donarci il suo sangue fino all'ultima goccia.»
Maria, presente in mezzo al gruppo degli apostoli, non ha perso una sola parola del romano: il suo stupore e la sua commozione sono evidenti. Non apre bocca, come pure nessuno dei dodici, come se volesse ben imprimersi nella memoria quella testimonianza.
Dopo qualche istante di silenzio, Pietro propone di pregare tutti assieme e di ringraziare Dio per il dono di Gesù. Longino si ritira in un angolo della stanza per rispetto delle usanze degli Ebrei. È una preghiera semplice «Benedetto sei tu, Signore, che ci hai donato Gesù, tuo figlio, il quale ha versato il suo sangue per la nostra salvezza ed è risorto dai morti per confermare la nostra fede.»
Nel silenzio che segue alla preghiera si sente un fragore come di un vento che scuote le porte, le finestre si spalancano con frastuono e una luce, come una palla di fuoco entra nel cenacolo e si divide in tante piccole fiamme che scendono sulla testa degli apostoli e sulla Madonna. Ancora una volta Longino è testimone di un evento straordinario ed assiste alla prima predicazione pubblica fatta dagli apostoli per bocca di Pietro dopo la discesa dello Spirito Santo. Nei giorni successivi frequenta assiduamente i dodici, poi dà le dimissioni da soldato e si fa battezzare.

Il soldato romano che trafigge Gesù con la lancia compare anche nei Vangeli Apocrifi: è da queste fonti che abbiamo il suo nome. La tradizione vuole anche che la sua conversione sia stata talmente esemplare da farlo diventare uno dei primi vescovi della Cappadocia, e poi santo martire.

ricerca di Diore magiepifaniacrocifissione

inviato da Guglielmo Morini, inserito il 26/09/2017

ESPERIENZA

6. Fino all'ultimo respiro

Padre Modesto Paris, Panorama, num. 23/2017

Mancano poche ore al mio intervento di tracheostomia. Alcuni giorni fa ho dovuto prendere una decisione che non prevede ripensamenti. Non si può più tornare indietro. Mai avrei pensato di affrontare questa scelta a 59 anni. Ma i dottori mi hanno detto chiaro e tondo che sono arrivato alla fine del mio sentiero. Manca poco. E se non mi faccio aiutare con un foro nella trachea per far passare un tubo da collegare a una macchina esterna, il mio corpo non ce la farà più a respirare in maniera autonoma. L'alternativa era una sola: finire la mia permanenza terrena in modo dolce, addormentato. Da due anni mi hanno diagnosticato la Sla, sclerosi laterale amiotrofica, una malattia neurodegenerativa progressiva che, un pezzo alla volta, ha bloccato tutte le mie funzioni motorie e vitali. I medici sono stati chiari: mi hanno detto che solo il 15 per cento delle persone nelle mie condizioni decide di continuare a lottare. Il mio sì alla vita, nonostante le statistiche, è stato però immediato, senza esitazioni. E non solo perché sono un uomo di fede, un frate agostiniano scalzo, ordinato sacerdote 33 anni fa da Papa Giovanni Paolo II. L'ho fatto perché amo la vita in ogni sua sfaccettatura.

Ho puntato tutto il mio sacerdozio sull'esempio. Non potevo tirarmi indietro proprio ora. Per tutti i miei anni con il saio l'ho predicato in migliaia di Messe, in chiesa o in cima alle montagne. Agli adulti o ai giovani delle associazioni che ho fondato, ho sempre proposto un modello di vita basato su una fede viva aperta e gioiosa. Anche nelle difficoltà. Specialmente nelle difficoltà. Mentre sono sul letto su cui aspetto la chiamata per la sala operatoria, arriva una telefonata. È Guido. Il mio amico di sempre, compagno di tutte le mie avventure e "pazzie" nel volontariato. Lo conosco da quando ha cominciato a fare il chierichetto con me 40 anni fa. Io avevo 18 anni, lui 8. Ora è giornalista di Panorama. E nonostante abiti a 150 chilometri di distanza e abbia appena avuto un figlio, non ha mai smesso di credere ai miei sogni. Mi chiama e chiede se voglio raccontare a tutti i lettori perché ho detto sì. Perché non mi voglio arrendere. Se potessi ancora parlare ripeterei a gran voce queste parole di Papa Francesco: "Il dolore è dolore, ma vissuto con gioia e speranza ti apre la porta alla gioia di un frutto nuovo". Non potendo urlare lo scrivo sul tablet che mio fratello Andrea sorregge. Uso tre dita della mano destra. L'unica parte di me che ancora riesco a muovere. Oltre agli occhi.

Vado a ruota libera. Metto in fila i pensieri che come un lampo hanno attraversato la mia mente, gli istanti prima del mio sì. In camera mia i ragazzi hanno appeso al soffitto un aquilone con una scritta. Così una frase che ho ripetuto tantissime volte a chi era in difficoltà, ora diventa uno sprone anche per me quando apro le palpebre. "L'aquilone prende il volo solo con il vento contrario". In questi mesi l'ho guardata dalla mattina alla sera per ore e ore. Il vento, in questo periodo, è stato costantemente, ostinatamente, contrario. E proprio per questo ho continuato a volare. La mia decisione per il sì alla respirazione artificiale non è arrivata subito. È frutto di un cammino in salita che dura da mesi. A ogni ostacolo è seguita sempre una soluzione. E la vita è andata avanti. E io sono stato felice. Per prima cosa la malattia mi ha bloccato le corde vocali. Da quasi un anno non parlo più. Ma in mio aiuto è arrivato il comunicatore: un computer che parla al posto mio traducendo in messaggi audio i pensieri che digito sulla tastiera. Grazie a questo strumento tecnologico, per me la Messa non è mai finita. Ho potuto celebrare quasi tutte le domeniche. Anche in ospedale. Persino in diretta su Facebook. L'attenzione è addirittura aumentata. E ho visto tornare in chiesa tanti giovani che si erano smarriti. Poi ha smesso di funzionare la mia deglutizione e lo stomaco. Mi hanno messo un "rubinetto" nella pancia che permette di alimentarmi artificialmente. I canederli di mia madre e la pasta al pesto sono solo un ricordo.

Ma riesco a farne a meno. Sono pure dimagrito e tornato un figurino. Di Sant'Agostino cito spesso una frase: "È meglio aver meno desideri che avere più cose". E mentre scrivo queste righe capisco quanto sia vera. Non so spiegarlo, ma mi sento fortunato. Vado avanti e dico sì anche al rubinetto. Prima l'una poi l'altra, si sono fermate le gambe. E poi il braccio sinistro. Da bravo trentino, come un montanaro su un sentiero, ho continuato a salire in vetta. Questa volta sono spinto da una carrozzina elettrica ultratecnologica che io chiamo Bcs come il mio primo trattore. Penso e ripenso all'ok che ho scritto sulla lavagnetta ai medici e il sì diventa sempre più mio: ho sempre osato nella vita. Mi sono sempre spinto oltre. Per questo per me il sì è venuto spontaneo. Lo dico e lo ripeto più volte a me stesso, chi mi conosce condivide. Chi mi vuole bene sorride orgoglioso di questo sì. Un infermiere mi ha sorpreso: ha detto che il dolore va sempre prevenuto con medicine ad hoc. Ma senza dolore e sacrificio, la vita è noia. Non mi sento un grande, ma un piccolo Modesto che ha sempre sognato oltre le stelle. Questa nuova macchina mi aiuterà a respirare e a mantenere il mio sorriso anche quando non potrò nemmeno fare ok con il pollice: con il cuore e con gli occhi sarà facile farmi capire da chi mi vuol bene. Sant'Agostino scrive: "Ama, e fa' quello che vuoi". Si ama con il cuore e con gli occhi. Quindi non cambierà nulla nemmeno questa volta. Tante sono le cime che ho scalato insieme ai ragazzi e agli adulti dei gruppi che in questi anni ho fondato.

Ci sono vette che vedi sempre mentre stai salendo, scorgi i sentieri, sai benissimo dove si trova la meta perché l'hai raggiunta tante volte. Altre vette non le vedi, le immagini, le sogni. Alcune hanno bisogno di gambe buone, altre di un cuore grande, altre di grinta, altre di tanta fede. Gli infermieri mi chiudono il computer. Ho scritto tutta la notte. Sono esausto. È ora di andare sotto i ferri. E tutto quello che ho digitato forse non potrò leggerlo sfogliando Panorama. Porto con me in sala operatoria il fazzoletto promessa simbolo di appartenenza ai gruppi e una piccola croce di legno. È venerdì, sono le 9 di mattino. Proprio il giorno e l'ora in cui Gesù è stato crocifisso. Ho paura, ma cerco di non farlo vedere. L'anestesia sta svanendo. Mi sono svegliato, respiro bene. Quelli che vedo sono i miei amici di sempre. Sono angeli, ma non hanno le ali. Sono ancora vivo. Chiedo il computer. Voglio finire di scrivere le ragioni del mio sì alla vita. Mi viene in mente un racconto che mi ha fatto un giorno la caposala, trentina di nascita, genovese d'adozione, come me. Mi parla di una ragazza che ha assistito 30 anni fa. Si chiama Paola: a 19 anni, presenta disturbi motori e neurologici. Non si cita la Sla perché non la si conosceva ancora. Soltanto nove anni dopo le comunicano di avere proprio quella malattia. Paola conosce Alessandro, mentre riesce ancora a camminare e gli rivela sin da subito di essere malata. Paola e Alessandro si sposano e poco tempo dopo decidono di avere un figlio. Nel frattempo la malattia di Paola va avanti e non le permette più di camminare. I medici non sono favorevoli alla gravidanza perché pensano che possa essere troppo rischiosa. E invece nasce Luca un bimbo bellissimo e sano. Paola, poco per volta, perde tutte le sue funzionalità motorie e respiratorie, si deve sottoporre a vari interventi come quelli che ho affrontato io. Alimentazione assistita e tracheotomia.

Oggi la sua è una bellissima famiglia. Luca ha 18 anni, Paola muove solo gli occhi e Alessandro sa usare con molta abilità tutte le macchine che tengono in vita la moglie. Tantissimi sono gli amici che a turno vanno ad aiutare la sua famiglia e a chi le chiede come possa vivere così lei risponde: "Io sono felice così". Anche io sono felice così. Perché finché vivo mi posso nutrire della vita degli altri. Della grande famiglia che in questi anni è cresciuta con me. Vivo per sapere come vanno le attività dei miei ragazzi, dei gruppi di adulti, dei miei fratelli (e confratelli agostiniani), di mia mamma. Sapere che un giovane che conosco si è sposato o ha avuto un figlio mi riempie di gioia. Vedere un video e le foto di un campo o un bivacco, oppure sapere che una festa del volontariato è riuscita nell'intento di aiutare un orfanotrofio, mi fa sorridere. Mi fa sentire bene. Mi fa sentire vivo. Quanto è vera la frase "la vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare". L'ho ripetuta centinaia di volte per motivare i ragazzi ad arrivare in cima a una montagna. Ora è il mio bastone. La mia fede è rimasta la stessa. Quella fede del montanaro con gli scarponi. Quella del bambino cresciuto in segheria. Primo di sei fratelli ho iniziato a lavorare quando non avevo ancora compiuto 4 anni. Il mio compito era stare accanto alla " bindella a zapar stece", vicino alla sega a nastro per raccogliere le assicelle tagliate che servivano a costruire cassette per le mele. Il mio mondo era quello, lo stesso di mio padre. A 12 anni la chiamata.

Ho lasciato quel mondo per entrare in convento. E non l'ho abbandonato nemmeno quando morì, giovanissimo, mio padre. Lo avevo promesso a mia mamma che, in quell'occasione mi disse: "No nir fora parché se vene fora le come moris en auter". Voleva dire: "Non uscirai mica dal seminario, perché se lo fai è come se morisse un altro". Una frase che mi ha dato la carica per diventare sacerdote e che continua a spronarmi ancora oggi che sono bloccato a letto. È per mia mamma che ho detto sì. Ma non solo. Chiudo con un segreto, che non ho mai rivelato a nessuno. Nel 1985 sono stato ordinato sacerdote da Papa Giovanni Paolo II. Avevo 26 anni. C'è stato un momento, prima che mi ponesse le mani sulla testa, in cui abbiamo scambiato alcune parole. Davanti alla Pietà del Michelangelo, in San Pietro, a Roma, gli ho confidato il mio sogno: fare da guida ai ragazzi e agli adulti nella cordata della vita. Nella frase che ho detto c'era la parola "per sempre". E così è stato. E così sia.

Mercoledì 31 maggio 2017, poco giorni dopo aver scritto questa lettera, il sottile spago che teneva legato alla terra il fragile aquilone si è spezzato, cosi Modesto ha potuto proseguire il volo, verso il cielo.

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inviato da Qumran2, inserito il 08/06/2017

RACCONTO

7. Tre figli e una gemma preziosa

Beato don Luigi Monza

Un filosofo moderno, buon pensatore, scriveva un giorno ad un suo amico così: vorrei scrivere la tua vita in un bel volume, questo volume però lo vorrei raccogliere in una sola pagina, questa pagina in una sola riga e questa riga in una sola parola.
L'amico gli riscontrava: lo puoi. Scrivi così di me: Tu sei niente. Forse aveva ragione.
Se il medesimo filosofo dicesse a noi: io vorrei scrivere la vita del cristianesimo in un bel volume, questo volume in una pagina, questa pagina in una riga, questa riga in una sola parola, noi gli risponderemmo dicendo: scrivi "Amore".
Ci sono diverse specie di amore del prossimo, per diversi motivi.
I genitori amano i propri figlioli come i figlioli amano i propri genitori. E' un amore lodevole ma non è carità. Quello tra i genitori e i figli è un amore puramente naturale....
Si ama una persona perché ci fa dei favori, perché ci aiuta nelle più gravi necessità. E' lodevole questo amore, ma non è carità; questa sarà riconoscenza che facevano anche i pagani; si può amare una persona per la sua genialità, per il suo modo graziato di dire, perché ci riesce simpatica. E' pur anche questo un amore lodevole, ma non si può chiamare carità. Sarà invece amicizia, sarà simpatia e nulla più.
La vera carità è che si debba amare il prossimo nostro per un motivo soprannaturale cioè per amore di Dio. E perché?
Perché il nostro prossimo è l'immagine di Dio. Ora se noi amiamo la persona cara, amiamo anche la sua immagine. Quindi non bisogna distinguere né chi è in alto né chi sta in basso nella società; né se è ricco o povero; né se è dotto o ignorante... Il Vangelo dice di perdonare ai nostri nemici e Iddio ce ne dà l'esempio perché fa sorgere il sole sia sul campo del buono come sul campo del cattivo, come fa piovere sia sul campo del buono come sul campo del cattivo.
Il Vangelo però continua e dice: perdonate e sarete perdonati.
Il cristiano pertanto deve conformarsi a questa legge. Ora, il cristianesimo è nato e cresce nella grandiosa legge del perdono. E per comprendere maggiormente la nobiltà della legge cristiana sul perdono, racconto una parabola.

Un uomo aveva tre figli coi quali divise la sua eredità. Avanzò per sé una gemma preziosa da destinarsi a quello dei tre figli che avrà compiuta la più grande e più magnanima azione entro un anno. Andarono i fratelli e ritornarono dopo un anno.

E il primogenito si presenta a suo padre e gli dice: «Io ho incontrato un forestiero che mi ha affidato tutti i suoi averi. Al suo ritorno io gli consegnai ogni cosa e nessuna garanzia egli aveva fuorché la mia parola». E il padre: «Hai fatto bene, ma la tua opera è giustizia e non generosa azione».

Il secondo invece dice: «Padre, io un giorno ritornavo a casa lungo un fiume rigonfio di acqua e, vedendo un bimbo caduto nell'acqua che stava per annegare, mi buttai nel fiume e lo trassi in salvo». «Tu sei degno di lode - rispose - ma la tua azione si deve chiamare umanità e non è la più perfetta».

Il terzogenito si fece innanzi e disse: «Padre, io trovai lungo la strada il mio mortal nemico addormentato sull'orlo di un precipizio; solo che un poco si fosse mosso nel sonno, sarebbe precipitato e avrebbe trovata la sua morte. Io mi accostai a lui, cautamente, lo svegliai perché badasse a salvare la sua vita».

«Figliol mio - disse il padre, abbracciandolo - tu hai veramente compiuta la più bella azione, il diamante tocca a te».

O cristiano, qui sta l'essenza del cristianesimo, amare i nemici; qui è legge divina, la perfezione, la santità, il premio del paradiso.

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5.0/5 (1 voto)

inviato da Simona Fontanesi, inserito il 28/12/2016

PREGHIERA

8. Lettera di un parroco a Gesù Bambino

don Giuseppe Comi, Zenit.org

Caro Gesù Bambino,

da quando il Padre tuo, per mezzo di te, ha creato l'uomo, tu non ti sei mai stancato di amarlo. Per la sua salvezza, ti sei fatto carne nel seno della Vergine. Dalla carne gli hai mostrato quanto è grande la tua compassione, la tua divina carità. Nella carne hai preso tutti i suoi peccati e nel tuo corpo li hai affissi su legno della croce, per toglierli dalle sue spalle. Per attestare che ogni tua parola, ogni tuo gesto d'amore è vero, sei risorto e ora sei assiso nella più alta gloria del Cielo, avendo ricevuto dal Padre un nome che è sopra ogni altro nome.

Dinanzi a te, ogni ginocchio si piega sulla terra, nei cieli, sotto terra e ogni lingua proclama che solo tu sei il Signore. Non esistono altri signori nell'universo. Solo tu sei la Vita di ogni uomo. Questa la tua verità eterna. Questa è la nostra fede. In te, solo in te, l'uomo ritrova la luce, la pace, se stesso.

Dopo la tua gloriosa ascensione, hai bisogno della nostra carne per continuare la tua missione. Hai bisogno del mio corpo per dire la tua parola, per battezzare nel tuo nome, per perdonare i peccati, per fare te pane di vita, per trasformare te in Eucaristia. Per mostrare ad ogni uomo la tua compassione, la tua carità, la tua salvezza, per discerne e separare con taglio netto, più che spada a doppio taglio, la luce dalle tenebre, la verità dalla falsità, il bene dal male, la giustizia dall'ingiustizia, l'amore dall'odio, la pace dalla guerra, la virtù dal vizio.

Non hai bisogno di un corpo di peccato, nel quale non può abitare lo Spirito Santo e il tuo cuore mai potrà muovere il mio. Hai bisogno della mia carne pura, santa, immacolata, come la carne della Madre tua. Se è nel peccato, non può essere data a te, perché appartiene già al principe del mondo. Per questo ti scrivo: per chiederti questa piccola grazia: fa' che la tua carne sia la mia carne, il tuo cuore il mio cuore, la tua anima la mia anima, il tuo Spirito Santo il mio Spirito Santo, i tuoi sentimenti i miei sentimenti.

Conformami a te, perché come te, in te, per te, possa esercitare il mio ministero profetico, sacerdotale, regale come lo hai esercitato tu. Sarò sacerdote secondo il tuo cuore. Il mondo lo vedrà e tutti si lasceranno conquistare a te. Ti prego. Non negarmela. Tu per questo vieni: per farci vita della tua vita, per essere veri strumenti della tua salvezza.

Sarei egoista se pensassi solamente a me. La mia Parrocchia è fatta di molte persone: piccoli giovani, adulti, anziani, sani, ammalati, vicini a te, ma anche tanti che da te sono lontani. Anche per ogni persona affidata alle mie cure pastorali ti chiedo una grazia. Fa' che quanti sono vicini a te, crescano nel tuo amore, diventino tuoi missionari per fare conoscere te a quanti non ti conoscono o si sono stancati di servirti, perché privi del tuo amore nel loro cuore.

Dona a questi tuoi fedeli costanza nel servizio, perseveranza nell'amore, fortezza nell'impegno, zelo nella proclamazione della tua Parola, carità sempre viva perché mai si stanchino di amare, come non ti sei stancato tu, concludendo la tua missione sull'albero della croce. A quanti sono lontani dal tuo cuore e dalla tua parola, manda dal cielo lo Spirito di conversione come hai fatto con Saulo, il tuo persecutore. Tu lo hai convertito e ne hai fatto un tuo apostolo, sempre fedele nel servizio e perennemente obbediente alla tua volontà.

Aiuta quanti sono piccoli a crescere in età, sapienza e grazia. Sostieni i giovani perché non si smarriscano dietro le false profezie del mondo, le ingannevoli promesse e inganni che sempre le tenebre prospettano loro come vera luce. Dona alle famiglia la gioia dell'unità, della pace, del perdono, della mutua carità. Rendi gli uomini liberi per abbracciare la fede nel tuo Vangelo, senza mai vergognarsi di testimoniarti in ogni momento e circostanza della vita.

Ai senza lavoro provvedi perché abbiano il loro pane quotidiano. Agli ammalati porta la consolazione della tua presenza, così come hai fatto con tutti i sofferenti del tuo tempo. A tutti dona la saggezza dello Spirito Santo e la luce della verità.

Tu, Caro Gesù Bambino, dal tuo cielo ci scruti, ci conosci, sai le nostre debolezze, fragilità, carenza di amore. Sai che ci stanchiamo con facilità. Iniziamo tante cose, ma poi non abbiamo la forza di imitarti restando fedeli alla missione. Ti prego, manda con potenza su di noi il tuo Santo Spirito come hai fatto sugli Apostoli il giorno della Pentecoste. Fa' che Lui venga con tutta la potenza dei suoi santi sette doni: sapienza, conoscenza, fortezza, consiglio, intelletto, pietà, timore del Signore.

Senza di lui che ci muove e ci attrae, noi saremo sempre privi di quell'energia divina che ci fa tuoi veri servi. Noi non vogliamo essere discepoli oziosi, infingardi, negligenti, apatici, senza alcuna volontà di amarti. Vogliamo servirti con tutto l'amore che abita nel tuo cuore. Se tu non divieni, con il tuo Santo Spirito, il nostro nuovo alito di vita, mai ti serviremo secondo il tuo cuore e mai porteremo una sola anima a te. Vieni presto, non tardare. Abbiamo bisogno di te, per servire te, per amare te, per mostrare ad ogni uomo te.

Vergine Maria, Madre di Gesù, Madre della Redenzione, presenta la nostra preghiera al tuo Divin Figlio, prima però rivestila con il tuo cuore, avvolgila con la tua anima, così Gesù penserà che se tu che chiedi ogni cosa per te e di certo ti esaudirà. Angeli e Santi, intercedete per noi, gridate al cuore di Gesù perché ascolti la nostra supplica. Vogliamo vivere in lui, per essere di lui, per portare i cuori a Lui. Per lui sempre è Natale quando nasce in un cuore.

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4.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 24/12/2016

RACCONTO

9. Vengo da Samaria

Oliviero Ferro

Nessuno conosce il mio nome. Quel tale che mi ha fatto entrare nel suo racconto ha detto che sono un samaritano. Mi sta bene così, perché quello che ho fatto è una cosa normale per me. Non ho bisogno di pubblicità. Ma, se volete, ve la racconto, a modo mio.

Era un giorno d'estate e faceva molto caldo. Avevo preparato delle cose da andare a vendere a Gerico. Ormai quella strada la conoscevo bene. L'avevo percorsa tante volte. Dopo la sosta in un alberghetto a Gerusalemme, stavo per ripartire, quando un amico mi ha detto di stare attento, perché in questo periodo la strada era pericolosa. Invocai l'aiuto del Signore e cominciai la discesa verso Gerico. Andavo piano, accompagnando il mio asino che faceva fatica. Era sovraccarico. Dovevo fare attenzione che non finisse in un burrone. Quando, ad una curva della strada, sento qualcuno che si lamenta. Affretto il passo e vedo a terra un pover'uomo, pieno di sangue, più morto che vivo. Faccio fermare l'asino contro una roccia e prendo qualcosa per curarlo. Mi faceva compassione. Lui riesce a dirmi qualche parola. Certo, era stato assalito dai banditi che gli avevano portato via tutto e lo avevano picchiato per bene. Mentre lo medicavo, riesce a dirmi che era passato qualcuno prima di me. Mi pare gente che lavorava al tempio (un sacerdote e un levita), ma non si erano fermati. Si vede che avevano fretta. Ma a me interessava lui. Non lo conoscevo, ma lo sentivo come uno della mia famiglia. L'ho pulito per bene e l'ho fasciato. Poi l'ho messo sull'asino e piano piano siamo arrivati a Gerico. Alla prima locanda, lo affido al proprietario, gli do dei soldi e gli dico di accoglierlo come se accogliesse me. E al ritorno, concludo, aggiungerò il resto. Me ne vado a vendere tutte le merci e chissà perché, faccio dei buoni affari. Finalmente, dopo essermi riposato, ritorno alla locanda e trovo l'amico, sano, in piedi. La storia non lo dice, ma ve lo dico io. Ci abbracciamo felici. Lui riprende la sua strada, io la mia. Forse non ci incontreremo più, ma io so che ho incontrato Dio e quell'uomo è diventato mio fratello. Non mi è costato molto fare questo. Mi hanno insegnato a tenere gli occhi aperti e anche il cuore. Così è stato tutto più facile.

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inviato da P. Oliviero Ferro, inserito il 25/08/2016

TESTO

10. I verbi della misericordia   2

Ermes Ronchi, Il Messaggero di Sant'Antonio, Gennaio 2016

Le porte sante della terra, le porte del Signore, quali sono? Non ha nessun senso passare per la Porta Santa della cattedrale e non passare per la porta santa di un povero, di un malato, non far varcare la porta di casa tua a uno che ha fame, la porta del cuore a uno che è solo. Non ha senso chiedere misericordia a Dio, e non offrirla al tuo vicino.
Se il Giubileo non tocca la vita, non è giubileo. Il Giubileo sarà santo se scriveremo la nostra pagina, la nostra riga, il nostro frammento di un racconto amoroso, con le nostre mani.
La misericordia è un'arte che s'impara, imparando tre verbi: "vedere", "fermarsi", "toccare", i primi gesti del Buon Samaritano.

Vedere. "Lo vide e ne ebbe compassione". Il samaritano vede e si lascia ferire dalle ferite di quell'uomo.
La misericordia inizia con lo sguardo non giudicante del vangelo: "Il primo sguardo di Gesù nei vangeli non si posa mai sul peccato delle persone, ma sempre sul loro bisogno" (Johann Baptist Metz).
Molte volte i vangeli riferiscono che Gesù "mentre camminava vide" (Mt 4,18); camminava e abitava la vita, ben presente a tutto ciò che accadeva nel suo spazio vitale; sapeva guardare negli occhi: "Donna, perché piangi?" (Gv 20,13) e scoprire nel riflesso di una lacrima urgere una promessa, un desiderio.
Davanti alle ferite della vita qualcosa di noi vorrebbe chiudere gli occhi, girare la testa. Come fanno i falsi discepoli: quando mai, Signore, ti abbiamo visto affamato, assetato, nudo...? Non hanno avuto occhi per vedere le ferite della carne di Cristo.

Fermarsi. Per vedere bene, che sia un volto, un paesaggio, un'opera d'arte o un povero, non puoi accelerare il passo, ti devi fermare. E non "passare oltre" come il sacerdote e il levita della parabola. Oltre non c'è niente, tantomeno Dio.
Quando ti fermi con qualcuno hai messo nel telaio in cui si tesse il tessuto buono della terra i tuoi doni impagabili, le risorse più preziose che hai: tempo e cuore. Hai fatto una dichiarazione d'amore senza parole.
Per vedere un prato bisogna inginocchiarsi e guardarlo da vicino (Ermanno Olmi).
C'è un solo modo per conoscere un uomo, Dio, un paese, una ferita: fermarsi, inginocchiarsi, e guardare da vicino. Guardare gli altri a millimetri di viso, di occhi, di voce. Guardare come bambini e ascoltare come innamorati, in silenzio.

Toccare. Ogni volta che Gesù si commuove, si ferma e tocca. Tocca l'intoccabile: il lebbroso, il cieco, la bara del ragazzo di Nain.
Toccare è parola dura, che ci mette alla prova, perché non è spontaneo toccare, non dico il contagioso o l'infettivo, ma anche il mendicante.
Fai la tua elemosina, e lasci cadere la tua monetina dall'alto, guardandoti bene dal toccare la mano che chiede, mantenendo la distanza di sicurezza, senza rivolgere un saluto, una parola. E il povero rimane un problema anziché diventare una fessura d'infinito.
Il tatto è un modo di amare, il modo più intimo; è il bacio e la carezza. E apre stagioni nuove.

Vedere, fermarsi, toccare: piccoli gesti. Ma la notte comincia con la prima stella, il mondo nuovo con il primo samaritano buono.

misericordiaporta santagiubileovederefermarsitoccarebuon samaritano

5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 25/08/2016

TESTO

11. Un libro come fuoco - Papa Francesco ai giovani   4

Papa Francesco, Quaderno N°3972 del 2015/12/26 - Civiltà Cattolica IV 519-654

Miei cari giovani amici,

se voi vedeste la mia Bibbia, forse non ne sareste affatto colpiti. Direste: «Cosa? Questa è la Bibbia del Papa? Un libro così vecchio, così sciupato!». Potreste anche regalarmene una nuova, magari anche una da 1.000 euro: no, non la vorrei. Amo la mia vecchia Bibbia, quella che ha accompagnato metà della mia vita. Ha visto la mia gioia, è stata bagnata dalle mie lacrime: è il mio inestimabile tesoro. Vivo di lei e per niente al mondo la darei via.

La Bibbia per i giovani, che avete appena aperto, mi piace molto: è così vivace, così ricca di testimonianze di santi, di giovani, che fa venir voglia di leggerla d'un fiato, dall'inizio fino all'ultima pagina. E poi...? Poi la nascondete, sparisce sul ripiano di una libreria, magari dietro, in terza fila, finendo per riempirsi di polvere. Finché un giorno i vostri figli la venderanno al mercatino dell'usato. No: questo non può essere!

Voglio dirvi una cosa: oggi, ancor più che agli inizi della Chiesa, i cristiani sono perseguitati; qual è la ragione? Sono perseguitati perché portano una croce e danno testimonianza di Cristo; vengono condannati perché possiedono una Bibbia. Evidentemente la Bibbia è un libro estremamente pericoloso, così rischioso che in certi Paesi chi possiede una Bibbia viene trattato come se nascondesse nell'armadio bombe a mano!

Mahatma Gandhi, che non era cristiano, una volta disse: «A voi cristiani è affidato un testo che ha in sé una quantità di dinamite sufficiente per far esplodere in mille pezzi la civiltà tutta intera, per mettere sottosopra il mondo e portare la pace in un pianeta devastato dalla guerra. Lo trattate però come se fosse semplicemente un'opera letteraria, niente di più».

Che cosa tenete allora in mano? Un capolavoro letterario? Una raccolta di antiche e belle storie? In tal caso, bisognerebbe dire ai molti cristiani che si fanno incarcerare e torturare per la Bibbia: «Davvero stolti e poco avveduti siete stati: è solo un'opera letteraria!». No, con la Parola di Dio la luce è venuta nel mondo e mai più sarà spenta. Nella mia esortazione apostolica Evangelii gaudium ho scritto: «Noi non cerchiamo brancolando nel buio, né dobbiamo attendere che Dio ci rivolga la parola, perché realmente "Dio ha parlato, non è più il grande sconosciuto, ma ha mostrato se stesso". Accogliamo il sublime tesoro della Parola rivelata» (n. 175).

Avete dunque tra le mani qualcosa di divino: un libro come fuoco, un libro nel quale Dio parla. Perciò ricordatevi: la Bibbia non è fatta per essere messa su uno scaffale, piuttosto è fatta per essere tenuta in mano, per essere letta spesso, ogni giorno, sia da soli sia in compagnia. Del resto in compagnia fate sport, andate a fare shopping; perché allora non leggere insieme, in due, in tre o in quattro, la Bibbia? Magari all'aperto, immersi nella natura, nel bosco, in riva al mare, la sera al lume di una candela... farete un'esperienza potente e sconvolgente. O forse avete paura di apparire ridicoli di fronte agli altri?

Leggete con attenzione. Non rimanete in superficie, come si fa con un fumetto! La Parola di Dio non la si può semplicemente scorrere con lo sguardo! Domandatevi piuttosto: «Cosa dice questo al mio cuore? Attraverso queste parole, Dio mi sta parlando? Sta forse suscitando il mio anelito, la mia sete profonda? Cosa devo fare?». Solo così la Parola di Dio potrà dispiegare tutta la sua forza; solo così la nostra vita potrà trasformarsi, diventando piena e bella.

Voglio confidarvi come leggo la mia vecchia Bibbia: spesso la prendo, la leggo per un po', poi la metto in disparte e mi lascio guardare dal Signore. Non sono io a guardare Lui, ma Lui guarda me: Dio è davvero lì, presente. Così mi lascio osservare da Lui e sento - e non è certo sentimentalismo -, percepisco nel più profondo ciò che il Signore mi dice.

A volte non parla: e allora non sento niente, solo vuoto, vuoto, vuoto... Ma, paziente, rimango là e lo attendo così, leggendo e pregando. Prego seduto, perché mi fa male stare in ginocchio. Talvolta, pregando, persino mi addormento, ma non fa niente: sono come un figlio vicino a suo padre, e questo è ciò che conta.
Volete farmi felice? Leggete la Bibbia.

Vostro Papa Francesco

È la versione italiana della prefazione scritta dal Pontefice per una edizione della Bibbia destinata ai giovani, i quali hanno collaborato a discutere e scriverne i commenti (Bibel. Jugendbibel der Katholischen Kirche): vedi qui l'articolo su Civiltà Cattolica.

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5.0/5 (1 voto)

inviato da Centro Missionario Guanelliano, inserito il 25/08/2016

PREGHIERA

12. E beata colei che ha creduto

Valentino Salvoldi

Vergine beata, che cosa provasti alla sconcertante richiesta di diventare la madre del Salvatore?

Forse udisti solo una voce interiore, una chiamata ad abbandonarti totalmente alla volontà del Padre. E a Lui, pure turbata, desti il tuo assenso, Tu, la Donna del "sì".

Maria, vedesti solo porte chiudersi al tuo passaggio, quando cercavi un luogo in cui dare alla luce la Luce del mondo e, fiduciosa, continuasti a credere, Tu, la Donna fedele all'eterna Parola.

Profuga, nella straziante fuga verso l'Egitto, quanti dubbi dovesti scacciare, contemplando il bambino Gesù tra le tue braccia: "Ma Tu, figlio mio, sei Dio o pericolosa pietra d'inciampo?". Tu, Donna beata perché hai creduto.

E quando al tempio, dopo tre giorni di penosa ricerca, trovasti Gesù - un po' trasgressivo e misterioso come tutti gli adolescenti -, di fronte al dolore di Giuseppe e tuo, pur non comprendendo, continuasti a credere che era Dio Colui che quasi ti sfidava: "Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?".

...Ed eccolo al Giordano, in fila con i peccatori a farsi battezzare in remissione dei peccati: "Ma Gesù è Dio o uno dei tanti peccatori?", ti sarai chiesta. Tormento scacciato con un atto di fede nella misteriosa volontà divina.

La tua fede operò il miracolo dell'acqua cambiata in vino, a Cana di Galilea, dopo aver perdonato parole dure come pietre: "Ti emoi kai soi gunai?" ("Che cosa tra me e te, donna?"). Povera Vergine Maria, chiamata "donna" e non "Mamma"!

Tu accettasti che Gesù indirizzasse ad altri - agli ascoltatori della Parola - la lode rivolta a te per averlo generato. Così pure non ti lamentasti quando rifiutò di darti udienza: "Chi è mia madre?", o forse ti sentisti doppiamente madre per aver concepito la Parola nel tuo cuore, prima di concepirla nella carne?

Vergine addolorata ai piedi della croce, accettasti di "privarti" di una maternità divina, di "perdere" un così grande Figlio, per diventare madre di chi stava ammazzando il tuo Signore, il tuo Dio, l'unico tuo sostegno e conforto, l'unico tuo grande Amore.

E in Lui credesti quando te lo depositarono, morto, tra le braccia. Un Dio morto?...

Nel supremo dei dolori, solo il mistero di Dio poteva illuminare il mistero della sofferenza che, come trivella, perforava il tuo cuore alla ricerca dell'acqua viva, la grazia, fulgida luce che dissipa le tenebre della morte con il fulgore della resurrezione.

E nell'alba radiosa del primo giorno della settimana, il Risorto, forse, venne a ringraziare te, Donna del sabato santo, per aver tenuta viva la fede dei discepoli, per averli aiutati a credere e a sperare. Forse ti ringraziò con le sublimi parole di Elisabetta: "Beata te che hai creduto".

A te, Donna che ascolta, crede e si abbandona totalmente al Mistero; a te, Donna il cui latte è diventato il sangue di Dio, nel suo e tuo Figlio, Gesù; a te, Donna che danzi cantando il "Magnificat" e hai il privilegio di sentirti chiamare "Mamma" dal Salvatore del mondo; a te, che pure io invoco come "Madre mia e mia fiducia", chiedo il dono di credere come Tu hai creduto. La fede dilati gli orizzonti della speranza e si consumi nell'amore, affinché, quando busserò alla porta del paradiso, Tu mi corra incontro gioiosa, rivolgendo pure a me l'entusiastico encomio: "Beato te che hai creduto".

fedefiduciaMariamadonna

inviato da Don Valentino Salvoldi, inserito il 23/08/2016

PREGHIERA

13. Maria donna del cammino

Antonio Rungi

Vergine Santa, che hai percorso territori sconfinati, dalla Palestina all'Egitto, e seguendo le orme del Tuo Figlio non ti sei risparmiata nessun cammino, proteggi coloro che, per terra, cielo e mare sono in viaggio per qualsiasi motivo che li spinge a lasciare i loro luoghi d'origine e camminare senza mete e senza confini.

Tu che hai affrontato il primo viaggio della carità, da Nazareth a Ain-Karin, per andare incontro alla tua anziana cugina, insegnaci ad andare incontro, con generosità, alla vita nascente, agli anziani, agli ammalati e a tutti i sofferenti della Terra.

Tu che sei andata da Nazareth a Betlemme, per dare alla luce il Tuo Figlio Gesù, conforta le madri che soffrono per motivi attinenti la loro vita di nutrici e genitrici.

Tu che sei stata costretta a lasciare, per la violenza e il terrore di Erode, con Gesù e Giuseppe, la tua Nazareth, guarda con amore e proteggi coloro che sono immigrati storici o di questi giorni, che sono senza patria e senza un popolo, e che sono fuggiti via per motivi di fame, lavoro, guerre e violenze di ogni genere.

Tu che sei rientrata in Patria con la tua famiglia naturale, fa' che tutti coloro che desiderano ritornare alla loro casa, vicina o lontana, possono farlo senza alcuna difficoltà.

Tu che hai camminato insieme a Gesù, per celebrare la Pasqua nella Gerusalemme terrena, fa' che anche noi possiamo festeggiare la Pasqua eterna, senza perderci nel lungo o breve viaggio nel tempo e che, con il tuo santo aiuto, passiamo raggiungere per sempre Gesù.

Tu che hai seguito Cristo, nel suo peregrinare per portare la dolce parola del Vangelo alla gente del suo tempo, guidaci nel cammino della nuova evangelizzazione, ora e sempre.

Tu, Stella che conduci la Chiesa nel suo impegno apostolico e missionario in tutto il mondo, illumina gli annunciatori della parola del Signore ad essere veri testimoni di Gesù.

Tu che hai accompagnato il tuo Figlio Gesù lungo la via del Calvario, e ti sei incontrata con Lui, nel mezzo del cammino del suo patire, sii vicino alle tante sofferenze di questa umanità, che va in cerca della vera libertà.

Tu, infine, che hai partecipato alla Risurrezione del Tuo Figlio e sei stata la prima ed unica creatura ad essere elevata al cielo in anima e corpo, donaci la possibilità di sperimentare ogni giorno la gioia e la serenità di chi cammina con il cuore e la mente rivolti al Signore, che è Dio Amore e Padre di misericordia.

Tu Vergine e Donna del cammino, Tu Madre Immacolata e Purissima del Redentore, spingi i nostri cuori incontro al Signore della vita e della storia, perché nessuno dei tuoi figli vada perduto nel carcere eterno dell'inferno.
Amen.

mariamadonnacamminoimmigratimigranti

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inviato da Padre Antonio Rungi, inserito il 24/05/2016

TESTO

14. Maria Immacolata, che attende e prepara Gesù a nome dell'umanità

Giuseppe Impastato S.I.

Oggi è festa per noi, e dovrebbe essere la vera festa della donna. Maria è la persona riuscita, il capolavoro di creatura. Non è solo il capolavoro riuscito a Dio, ma è anche il nostro capolavoro. Perché la donna che attende un figlio non è un puro contenitore, un "utero in affitto" a disposizione di Dio per il Figlio che invia sulla Terra. Ogni madre - e quindi anche Maria! - infatti dona. Quello che il bambino riceve dalla madre da un punto di vista organico ce lo descrivono i medici. Ma una madre in attesa trasmette anche sogni, speranze, progetti, canti, carezze, sicurezze, reazioni, sensibilità, sorrisi, fantasie, ecc. La madre in attesa infatti immagina pure le situazioni che il figlio affronterà, le relazioni che vivrà, i modi con cui si approccerà, gli ostacoli che affronterà, le capacità che dimostrerà (nei lavori, nei combattimenti, nella danza, nel canto,...). Che tutto questo rappresenti un vero patrimonio, e inoltre i modi e i limiti con cui esso si trasmetta, la scienza non lo ha affrontato e capito.

Quindi Maria non ha solo ricevuto quelli che i teologi del passato preferivano sottolineare, cioè i "privilegi" (esenzione dal peccato originale, verginità, assunzione in corpo e anima), ma ha collaborato perché Gesù ricevesse l'afflato e il calore umano e il patrimonio di cui dicevamo. Maria a questo punto la possiamo definire come rappresentante dell'Umanità intera incaricata di far vivere e gustare - al Figlio di Dio! - che significhi "carnalmente" appartenere a questa umanità che freme e sussulta, sorride e piange, scopre e inventa, combatte e soccombe, si dà da fare e spera, abbraccia e stringe, bacia e solleva, danza e canta, grida e urla, offre e stringe la mano, guarda e incoraggia dando una pacca sulle spalle, ecc. Gesù, prima ancora di nascere, viene atteso-accolto- avvolto-abbracciato-stretto da Maria e da noi tutti. E perché non pensare che Maria venga investita dalla gioia e soddisfazione di tutta l'umanità nell'incaricarla di rappresentarci durante i 9 mesi in cui prepara e consegna i nostri doni. Poiché Maria è l'unica creatura consapevole che si è instaurata una relazione umano-divina, praticamente si fa carico e interpreta i sentimenti della parte migliore di noi uomini (patriarchi, profeti, santi, giusti...); Maria interpreta e realizza in altre parole il desiderio e lo sforzo che l'umanità mette nel donare il nostro meglio a questo Dio che si fa l'Emmanuele. Proprio Maria spiega, fa sentire e capire al Nascituro quale bellezza e grandezza ha visto l'Umanità in Lui, quanti occhi sono puntati su di Lui, quali sogni e aspirazioni dovrà rappresentare e soddisfare, quali pesi dovrà sopportare, quali entusiasmi sarà capace di sollevare, quante braccia si tenderanno verso di Lui, quali invocazioni di aiuto ascolterà, quanti sguardi pieni di gioia incontrerà... E forse lo ha preparato ad affrontare incomprensioni, abbandoni, rifiuti, minacce, tradimenti, condanne...

Alle parole di Gabriele: "Concepirai un figlio, lo darai alla luce... Sarà grande... Il Signore gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre...", Maria risponde: "Ecco la serva del Signore, avvenga per me secondo la tua parola". Perché non pensare che Maria abbia intuito e accettato - anche a nome di tutta l'Umanità - il progetto di Dio, cioè che Gesù fosse non solo Figlio dell'Altissimo, ma anche un figlio da concepire e nutrire e dare alla luce?

Davvero allora Maria Immacolata diventa la nostra rappresentante e collaboratrice.

immacolataumanitàmaternitàmariamadonnaattesa

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inviato da Giuseppe Impastato S.I., inserito il 08/12/2015

ESPERIENZA

15. Riflessione sulla morte   2

don Luciano Cantini

Non molto tempo fa ho accompagnato un amico al cimitero. Non era più giovanissimo ma in buona salute, con la moglie era in una casetta in montagna quando di notte un infarto gli ha chiuso gli occhi per sempre.

Aveva lasciato detto che il suo corpo fosse cremato, così per la prima volta sono andato al crematorio al Cimitero dei Lupi, non mai avuto occasione, non sono un frequentatore di cimiteri: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti» (Mt 8,22) ha detto Gesù. Le persone che ho amato le porto con me tutti i giorni e andare a visitare il luogo della conservazione dei loro resti biologici non è tra i miei interessi. Quando per diversi motivi sono andato nei cimiteri cittadini avevo fatto l'abitudine a un ordine caotico, con tutte le tombe in fila una accanto all'altra, una sopra l'altra; tra quelle tombe troviamo l'abbandono con vasi vuoti, i fiori secchi, il vento che si è divertito a lasciare traccia del suo passaggio ma anche la stravaganza di girandole al vento, di fiocchi colorati, alberi di Natale, troviamo l'abbondanza di fiori freschissimi, o artistiche composizioni di fiori di plastica, un po' di buon gusto e tanto kitsch. Poi sgabelli, scalette, scope, secchi... un armamentario di cose diverse che i frequentatori di quei luoghi lasciano lì per il giorno successivo. La parola cimitero significa "Luogo del riposo" e credo che dovremmo rispettare di più questo riposo. Invece non è così, è diventato il luogo delle esternazioni, spesso di degrado e, con la necessità di posti, il riposo è interrotto da esumazioni e nuove collocazioni.

Arrivando nel giardino davanti al crematorio ho avuto l'impressione di un luogo assai curato dove il rispetto della morte si traduce in vita. Ci sono grandi libri in bronzo con incise frasi che aiutano a pensare alla preziosità della vita proprio lì dove giunge al compimento, alla ricapitolazione del tutto, quando arriva sulla soglia del tempo e sta immergendosi nella eternità.

Perché in fondo questa è la morte: l'attimo in cui nel passaggio dal tempo al "non tempo" tutta la nostra vita, le nostre azioni, i nostri pensieri, le paure, i desideri, le sconfitte, le gioie e le sofferenze, come un fiume in piena arrivano e finalmente si liberano nel mare dell'eternità.

Mi ha colpito, all'interno del crematorio, nell'angolo della saletta di commiato e di attesa l'immagine del Crocifisso. È scolpito nel legno d'ulivo, l'artista più che modellare il legno si è fatto condurre da quel tronco, dalle sue venature, contorsioni... la storia di quella pianta continua ad esprimere e raccontare. Tra tutti i piegamenti, le storture, gli arzigogoli del legno c'è una fessura, ampia che attraversa il corpo del Cristo.

Ecco, quel legno ci racconta l'amore di Gesù, il suo cuore è spalancato, è un invito ad entrarvi, attraversarlo e andare oltre. Perché se l'amore ci conquista non ci rende prigionieri ma ci libera: la morte è la vita liberata.

Il giorno dopo siamo andati a raccogliere le ceneri perché aveva chiesto che fossero disperse; nell'angolo del cimitero c'è un giardinetto all'ombra di vecchi alberi, qua e là qualche statua forse reduci di altre storie: una colonna spezzata, una croce, una madonna... in terra come delle aiuole colme di sassi. In quella ai piedi della Madonna sono state versate le ceneri del mio amico, un po' acqua le ha trascinate più in basso togliendole alla nostra vista.

La preghiera è sgorgata spontanea di fronte al niente che rimane della nostra prosopopea umana, che certi addobbi tenderebbero a mantenere; davanti a quel barattolo di ceneri la nostra povertà è evidente ma anche la ricchezza del Creatore che dalla polvere ha tratto la grandezza dell'uomo. Eppure quella pochezza manifesta tutta la grandezza di Dio che, sola, si erge sulla storia degli uomini e la guida.

mortevita eternadefunti

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inviato da Don Luciano Cantini, inserito il 29/10/2015

RACCONTO

16. L'aquila e il falco   4

Racconta una leggenda sioux che, una volta, Toro Bravo e Nube Azzurra giunsero tenendosi per mano alla tenda del vecchio stregone della tribù e gli chiesero: «Noi ci amiamo e ci vogliamo sposare. Ma ci amiamo tanto che vogliamo un consiglio che ci garantisca di restare per sempre uniti, che ci assicuri di restare l'uno accanto all'altra fino alla morte. Che cosa possiamo fare?».

E il vecchio, emozionato vedendoli così giovani e così innamorati, così ansiosi di una parola bella, disse: «Fate ciò che dev'essere fatto. Tu, Nube Azzurra, devi scalare il monte al nord del villaggio. Solo con una rete, devi prendere il falco più forte e portarlo qui vivo, il terzo giorno dopo la luna nuova. E tu, Toro Bravo, devi scalare la montagna del tuono; in cima troverai la più forte di tutte le aquile. Solo con una rete prenderla e portarla a me, viva!».

I giovani si abbracciarono teneramente e poi partirono per compiere la missione.

Il giorno stabilito, davanti alla stregone, i due attendevano con i loro uccelli. Il vecchio li tolse dal sacco e costatò che erano veramente begli esemplari degli animali richiesti. «E adesso, che dobbiamo fare?», chiesero i giovani.

«Prendete gli uccelli e legateli fra loro per una zampa con questi lacci di cuoio. Quando saranno legati, lasciateli andare perché volino liberi». Fecero quanto era stato ordinato e liberarono gli uccelli.

L'aquila e il falco tentarono di volare, ma riuscirono solo a fare piccoli balzi sul terreno. Dopo un po', irritati per l'impossibilità di volare, gli uccelli cominciarono ad aggredirsi l'un altro beccandosi fino a ferirsi.

Allora, il vecchio disse: «Non dimenticate mai quello che state vedendo. Il mio consiglio è questo: voi siete come l'aquila e il falco. Se vi terrete legati l'uno all'altro, fosse pure per amore, non solo vivrete facendovi del male, ma, prima o poi, comincerete a ferirvi a vicenda. Se volete che l'amore fra voi duri a lungo, volate assieme, ma non legati con l'impossibilità di essere voi stessi».

Se realmente ami qualcuno, lascialo volare con le sue proprie ali...

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inviato da Qumran2, inserito il 20/10/2015

RACCONTO

17. Il più grande fabbro di spade del mondo   2

Efficacemente.com

Tanto, tanto tempo fa, in una terra lontana, viveva un fabbro di spade, conosciuto in tutto il mondo per la sua sublime capacità di forgiare il ferro e trasformarlo in spade eleganti e letali.

Un giorno, il racconto dell'incredibile abilità del fabbro di spade giunse a corte, ed il Re, affascinato da questa storia, volle incontrare quanto prima un suddito tanto dotato. I cavalieri del Re iniziarono a cercare il fabbro di spade in lungo ed in largo, setacciando l'intero regno, finché non lo trovarono in un piccolo villaggio vicino alle montagne. Di fronte all'invito del Re, il fabbro di spade non poté fare altro che accettare e, salutata la propria famiglia, seguì i cavalieri a corte.

Durante il loro primo incontro, il Re fu subito affascinato dall'umiltà e dalla gentilezza del fabbro di spade e decise di ricambiarla con altrettanta cortesia. Dopo una breve chiacchierata, il Re fece al fabbro di spade la domanda che poneva a tutti i grandi maestri ed esperti della sua corte: "Fabbro di spade, dimmi, qual è il tuo segreto? Come riesci a forgiare spade tanto belle?"

Il fabbro di spade, per nulla intimorito, rispose al proprio Re con reverenza, ma fermezza: "Sire, non esiste alcun segreto". Il Re sembrava perplesso, ma lasciò continuare il suo ospite. "Fin da quando ero bambino ho avuto l'opportunità di osservare, prima mio nonno e poi mio padre, lavorare il ferro."

Come catturato dall'estasi dei ricordi il fabbro di spade continuò il suo racconto. "Ben presto mi innamorai di questa arte che forgia elementi tanto potenti della natura: il ferro, il fuoco e l'acqua. Vedere nascere spade così eleganti dal ferro grezzo non solo affascinò la mia mente, ma catturò anche il mio cuore. Fu allora che, ancora bambino, decisi che sarei diventato il più grande fabbro di spade del mondo."

Il Re e tutta la corte continuarono ad ascoltare in silenzio l'umile artigiano. "Crescendo, lessi tutti il libri che furono scritti sull'arte della fabbricazione della spada ed imparai ogni tecnica sulla lavorazione del ferro. Non solo. Se un libro non conteneva la parola ‘spada', se una discussione non trattava della lavorazione del ferro, ed in generale, se un'attività non aveva nulla a che fare con le spade, semplicemente non sprecavo il mio tempo con essa. Credo che sia questo il segreto della mia eccellenza, Maestà."

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5.0/5 (2 voti)

inserito il 18/07/2015

TESTO

18. Lettera di Dio per la custodia della donna   2

La donna che hai al fianco, emozionata, con l'abito da sposa, è mia. Io l'ho creata. Io le ho voluto bene da sempre; ancor prima di te e ancor più di te. Per lei non ho esitato a dare la mia vita. Ho dei grandi progetti per lei. Te l'affido. La prenderai dalle mie mani e ne diventerai responsabile.

Quando l'hai incontrata l'hai trovata bella e te ne sei innamorato. Sono le mie mani che hanno plasmato la sua bellezza, è il mio cuore che ha messo dentro di lei la tenerezza e l'amore, è la mia sapienza che ha formato la sua sensibilità e la sua intelligenza e tutte le qualità belle che hai trovato in lei.

Però non basta che tu goda del suo fascino. Dovrai impegnarti a rispondere ai suoi bisogni, ai suoi desideri. Ti renderai conto che ha bisogno di tante cose: ha bisogno di casa, di vestito, di serenità, di gioia, di equilibrio psichico, di rapporti umani, di affetto e tenerezza, di piacere e di divertimento, di presenza umana e di dialogo, di relazioni sociali e familiari, di soddisfazioni nel lavoro e di tante altre cose.

Ma dovrai renderti conto che ha bisogno soprattutto di me, e di tutto quello che aiuta e favorisce questo incontro con me: la pace del cuore, la purezza di spirito, la preghiera, la Parola, il perdono, la speranza e la fiducia in me, la mia vita. Sono Io e non tu il principio, il fine, il destino di tutta la sua vita.

Facciamo un patto tra noi: la ameremo insieme. Io la amo da sempre. Tu hai incominciato ad amarla da qualche anno, da quando te ne sei innamorato. Sono io che ho messo nel tuo cuore l'amore per lei. È stato il modo più bello perché ti accorgessi di lei. Volevo affidarla a qualcuno che se ne prendesse cura. Ma volevo anche che lei arricchisse con la sua bellezza e le sue qualità la vita di un uomo. E questo uomo sei tu.

Per questo ho fatto nascere nel tuo cuore l'amore per lei. Era il modo più bello per dirti: "ecco, te la affido", e perché tu potessi godere della sua bellezza e delle sue qualità. Quando le dirai "prometto di esserti fedele, di amarti e rispettarti per tutta la vita", sarà come se mi rispondessi che sei lieto di accoglierla nella tua vita e di prenderti cura di lei. Da quel momento saremo in due ad amarla.

Dobbiamo però metterci d'accordo: non è possibile che tu la ami in un modo e io in un altro. Devi avere per lei un amore simile al mio, e devi desiderare per lei le stesse cose che Io desidero. Non puoi pensare nulla di più bello e gioioso per lei.

Se la ami sul serio vedrai che ti troverai d'accordo con me nel progetto che ho concepito per lei. Ti farò capire poco alla volta quale sia il mio modo di amare, e ti svelerò quale vita ho sognato e voluto per questa mia creatura che diventerà tua sposa.

Mi rendo conto che ti sto chiedendo molto. Pensavi che questa donna fosse tutta e solo tua, e ora invece hai l'impressione che io ti chieda di spartirla con Me. Non è così. Io non sono il tuo rivale in amore. Al contrario, sono molui che ti aiuta ad amarla appassionatamente. Per questo desidero che nel tuo piccolo amore ci sia il mio grande amore.

Col tuo amore potrai fare molto per lei, ma è sempre troppo poco. Io ti rendo invece capace di amare da Dio. È questo il mio dono di nozze: un supplemento di amore che trasforma il tuo amore di creatura e lo rende capace di produrre le opere di Dio nella donna che ami.

Sono parole per te misteriose, ma le capirai un poco alla volta. Ti assicurò che non ti lascerò mai solo in questa impresa. Sarò sempre con te e farò di te lo strumento del mio amore, della mia tenerezza; continuerò ad amare la mia creatura, che è diventata tua sposa, attraverso i tuoi gesti d'amore, di attenzione di impegno, di perdono, di dedizione. In una parola: ti renderò capace di amare come io amo, perché ti darò una forza nuova di amare che è il mio stesso amore.

Se vi amerete in questo modo, la vostra coppia diventerà come una fortezza che le tempeste di vita non riusciranno mai ad abbattere. Un amore costruito sulla mia Parola è come una casa costruita sulla roccia: nessuna vicenda potrà distruggerla. Ricordatelo, perché molti si illudono di poter fare a meno di me: ma se io non sono con voi nell'edificare la casa della vostra vita e del vostro amore, vi affaticherete invano: come gli apostoli che faticarono tutta una notte e al mattino tornarono a riva con le reti vuote; bastò un semplice intervento Mio, e le reti pescarono tanto pesce che per l'abbondanza si rompevano. Di più. Se vi amerete in questo modo diventerete forza anche per gli altri.

Oggi si crede poco all'amore vero, quello che dura per sempre, e che offre la propria vita all'amato. Si cercano più le emozioni amorose che l'amore. Ma le emozioni nascono e muoiono presto, lasciando solo vuoto e nostalgia.

Per questo qualcuno ha detto che il matrimonio è solo una grande illusione che si dissolve presto. Se voi saprete amarvi come io amo, con una fedeltà che non viene mai meno, diventerete come la città sul monte. Sarete una speranza per tutti, perché tutti vedranno che l'amore è una cosa possibile.

donnaamorematrimoniocoppiasposicustodire

4.7/5 (3 voti)

inviato da Paola Berrettini, inserito il 16/06/2015

RACCONTO

19. Un baratto   1

Marie Noel

A 18 anni ho venduto il mio spirito a Dio, come altri vendono la loro anima al diavolo.

Allora ero goffa, brutta, mingherlina, inetta, come il «brutto anitroccolo», ma avevo molto spirito... uno spirito chiaro, vivo, acuto, pungente, che mordeva senza misericordia. Non appena una persona un tantino ridicola arrischiava di mostrarsi a me, l'acchiappavo al volo e la fissavo con una parola pungente, come si fissa un insetto su un tappo, con uno spillo. Ciò mi divertiva molto e faceva ridere la compagnia. Ma i miei cugini mi giudicavano «cattiva», e mio fratello mi chiamava «vipera». Avrebbe fatto meglio a dire zanzara o vespa. Un giorno, però, ci pensai su e mi vidi tal quale ero col mio crudele pungiglione. Poteva forse una cristiana accettare di essere così?
Fui presa dal rimorso.

E una mattina ne parlai con Nostro Signore, dopo la Comunione.

Rinunciare al mio spirito? Cosa mi rimaneva senza di esso? Non avevo bellezza né fascino, niente che potesse piacere. Sacrificare il mio spirito? Non mi ci potevo decidere. Mi costava troppo. Mi costava tutto.

Dentro di me, Dio attendeva con aria di rimprovero. Fu allora che mi venne l'idea - forse fu lui ad ispirarmela - di cedergli il mio spirito dietro ricompensa. Un baratto.

Glielo vendetti. Caro. Senza far prezzi. Dio è ricco. Dio è giusto. E generoso, anche. Contavo che me l'avrebbe pagato bene. Una volta concluso il mercato - io negli affari sono onesta - non osai più servirmi dell'oggetto che avevo ceduto. Da principio mi sentii legata, impacciata, come colpita da improvvisa infermità. Le parole mi volavano alle labbra, le inghiottivo già dette a metà. Il che non era sempre comodo. Ma poi l'abitudine mi venne in aiuto. E diventai poco a poco la piccola, mite zitella cui nessuno fa caso, né in famiglia fuori... cui nessuno fa caso più che a un fiammifero spento. Sono passati vent'anni... Che cosa mi avrà dato il Buon Dio, in cambio della mia malizia?

Non la bellezza. Non il fascino. Non l'amore. Non la felicità. Forse il dono della poesia? Ma quello già lo avevo, sin dalla prima infanzia.

Ecco. Mi diede il dono di una vista nuova, per cogliere immediatamente, anziché il lato ridicolo, la bellezza e le qualità delle persone, anche di quelle che non ne hanno. Al punto che oggi io le amo tanto, anche quando sono ridicole, sciocche e mediocri, da poter giocare di nuovo con la mia malizia, solo per divertirmi, senza far male a nessuno.

conversionecattiveria

5.0/5 (1 voto)

inviato da Il Patriota Cosmico, inserito il 16/06/2015

PREGHIERA

20. Cristo, volto misericordioso del Padre

padre Antonio Rungi

Convertici a Te, Gesù,
che sei venuto a chiamare i peccatori
e non i giusti che non hanno bisogno di redenzione.

Convertici a Te, in questo anno giubilare,
indetto da Papa Francesco, per aiutare
il cammino di credenti verso la penitenza,
la conversione e il rinnovamento spirituale e morale.

Riconosciamo, Signore, le nostre colpe di oggi
e tutte quelle della vita passata,
vissuta, molte volte, nell'ipocrisia e nella falsità.

Noi abbiamo bisogno del tuo perdono
e della tua misericordia
per sentire quanto è grande il tuo amore per noi,
e quanto tieni poco conto dei nostri errori,
e delle nostre deviazioni,
dalla tua santa legge, o Signore.

Non abbandonarci, Signore, nella tentazione
di poter fare a meno di Te,
illudendo noi stessi che è possibile
essere felici e vivere senza il tuo sorriso
e dell'abbraccio della tua paternità infinita.

Con il tuo aiuto, vogliamo sinceramente
riprendere il cammino che ci porta a Te,
mediante la Penitenza e l'Eucaristia,
sacramenti della nostra continua rinascita spirituale
nel segno della coscienza di quanto poco valiamo
se non siamo ancorati a Te che sei la Via, la Verità e la Vita.

Non sia, Gesù, il nostro pentimento
solo e soltanto esteriore o apparente,
ma tocchi le profondità del nostro essere
e le corde di quell'armonia d'amore
che solo tuo puoi ridonarci, Signore.

Convertici a Te, con la tua Parola,
che è luce ai nostri passi,
è forza nel nostro cammino
è consolazione nel nostro patire.

Convertici a Te Signore e abbatti in noi
l'orgoglio e la presunzione di essere giusti
come il fariseo al tempio,
mentre dovremmo batterci sinceramente il petto,
come il pubblicano che non ha avuto
neppure la forza di alzare gli occhi
e lasciarsi illuminare dal tuo volto,
indegno quale era di avanzare nel tempio,
quale segno di riavvicinamento a Te.

Signore, converti il nostro cuore,
la nostra vita,
la nostra storia.

Purifica tutto e lava le nostre colpe
nel tuo sangue prezioso versato sulla croce per noi.
Gesù abbi pietà di noi e non abbandonarci più
nelle nostre illusioni, delusioni e tentazioni,
non abbandonarci nel peccato,
ma donaci il tuo abbraccio di Padre
dal volto tenero e misericordioso.
Amen.

misericordiagiubileo

5.0/5 (2 voti)

inviato da Antonio Rungi, inserito il 13/04/2015

TESTO

21. Povero fratello Giuda   3

Primo Mazzolari, Bozzolo, Giovedì Santo 1958

Povero Giuda. Che cosa gli sia passato nell'anima io non lo so. È uno dei personaggi più misteriosi che noi troviamo nella Passione del Signore.

Non cercherò neanche di spiegarvelo, mi accontento di domandarvi un po' di pietà per il nostro povero fratello Giuda. Non vergognatevi di assumere questa fratellanza. Io non me ne vergogno, perché so quante volte ho tradito il Signore; e credo che nessuno di voi debba vergognarsi di lui. E chiamandolo fratello, noi siamo nel linguaggio del Signore. Quando ha ricevuto il bacio del tradimento, nel Getsemani, il Signore gli ha risposto con quelle parole che non dobbiamo dimenticare: "Amico, con un bacio tradisci il Figlio dell'uomo!" Amico! Questa parola che vi dice l'infinita tenerezza della carità del Signore, vi fa anche capire perché io l'ho chiamato in questo momento fratello. Aveva detto nel Cenacolo non vi chiamerò servi ma amici. Gli Apostoli son diventati gli amici del Signore: buoni o no, generosi o no, fedeli o no, rimangono sempre gli amici. Noi possiamo tradire l'amicizia del Cristo, Cristo non tradisce mai noi, i suoi amici; anche quando non lo meritiamo, anche quando ci rivoltiamo contro di Lui, anche quando lo neghiamo, davanti ai suoi occhi e al suo cuore, noi siamo sempre gli amici del Signore...

Povero Giuda. Povero fratello nostro. Il più grande dei peccati, non è quello di vendere il Cristo; è quello di disperare. Anche Pietro aveva negato il Maestro; e poi lo ha guardato e si è messo a piangere e il Signore lo ha ricollocato al suo posto: il suo vicario. Tutti gli Apostoli hanno abbandonato il Signore e son tornati, e il Cristo ha perdonato loro e li ha ripresi con la stessa fiducia. Credete voi che non ci sarebbe stato posto anche per Giuda se avesse voluto, se si fosse portato ai piedi del calvario, se lo avesse guardato almeno a un angolo o a una svolta della strada della Via Crucis: la salvezza sarebbe arrivata anche per lui. Povero Giuda. Una croce e un albero di un impiccato. Dei chiodi e una corda...

Io voglio bene anche a Giuda, è mio fratello Giuda. Pregherò per lui anche questa sera, perché io non giudico, io non condanno; dovrei giudicare me, dovrei condannare me. Io non posso non pensare che anche per Giuda la misericordia di Dio, questo abbraccio di carità, quella parola amico, che gli ha detto il Signore mentre lui lo baciava per tradirlo, io non posso pensare che questa parola non abbia fatto strada nel suo povero cuore. E forse l'ultimo momento, ricordando quella parola e l'accettazione del bacio, anche Giuda avrà sentito che il Signore gli voleva ancora bene e lo riceveva tra i suoi di là. Forse il primo apostolo che è entrato insieme ai due ladroni...

speranzaperdonoconversionepeccatomisericordiarapporto con Diotradimentodisperazionegiovedì santo

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inviato da Qumran2, inserito il 21/06/2014

PREGHIERA

22. Con te che sei la nostra pace   3

Comunità FMA dell'Eremo San Biagio, La Voce di San Biagio

Signore Gesù, tu hai detto:
Vi lascio la mia pace,
ve la do in modo diverso
da come la dà il mondo.
Hai anche detto
che dove alcuni sono uniti nel tuo nome,
Tu sarai certamente con loro.
Tu sei dunque qui in mezzo a noi.
Aiutaci a vivere insieme con te,
nello scorrere dei giorni:
con te che sei la nostra pace.

Aiutaci a riconoscerti in ognuno
che incontriamo.
Aiuta il nostro cuore
a passare nel tuo Cuore che, unito al Padre,
è aperto a ogni uomo, a ogni creatura
nell'alito vivificante dello Spirito Santo.

Aiuta gli occhi del nostro cuore
a riconoscerti sempre
nel volto di chi gioisce e di chi piange,
di chi ha successo nella vita
e di chi, stanco e deluso,
si scoraggia e deprime.

Aiutaci a credere che la tua pace
può abbattere il reticolato
delle nostre diffidenze e discordie,
può fiorire anche
nelle aride sabbie dei nostri egoismi
scoperchiati dalla tua Parola e vinti dalla Tua grazia.

Aiutaci, Gesù nostra Pace,
a presentarci al mondo con un volto da salvati,
con occhi pensosi ma vividi di speranza
con progetti di collaborazione
costruttiva con quanti,
da qualsiasi sponda religiosa politica razziale provengano,
siano come noi sinceramente decisi a volere il bene di tutti.

Aiutaci a fare della tua pace
il nostro stile di approccio relazionale
con ogni uomo e donna,
con ogni giovane e anziano
che scopre nell'adesione al tuo volere
la profonda e vera radice della pace.

Aiutaci, o Signore, a percorrere
tutti i sentieri della vita
nel sole della tua presenza
perché, sorretti dalla preghiera
dalla vita sacramentale
e da un rapporto positivo con ogni creatura,
giungiamo a bussare alla porta
della tua e nostra casa.
Proprio perché arriveremo insieme a tanti fratelli e sorelle da te pacificati,
noi lo sappiamo: tu ci spalancherai la porta
della pace e della gioia senza fine.

paceguerra

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inviato da Suor Monica, inserito il 06/09/2013

PREGHIERA

23. Aiutami a dire di sì - versione completa   2

Michel Quoist

Ho paura di dire di sì, o Signore.
Dove mi condurrai?
Ho paura di avventurarmi,
ho paura di firmare in bianco,
ho paura del sì che reclama altri sì.

Eppure non sono in pace.
Mi insegui, o Signore, sei in agguato da ogni parte.
Cerco il rumore perché temo di sentirti,
ma ti infiltri in un silenzio.
Fuggo dalla via perché ti ho intravisto,
ma mi attendi quando giungo in fondo alla strada.
Dove mi potrei nascondere? Ovunque t'incontro:
non è dunque possibile sfuggirti!

...Ma ho paura di dire di sì, o Signore
Ho paura di darti la mano, tu la tieni nella tua.
Ho paura di incontrare il tuo sguardo, tu sei un seduttore.
Ho paura della tua esigenza, tu sei un Dio geloso.
Sono braccato, ma mi nascondo.
Sono prigioniero, ma mi dibatto,
e combatto sentendomi vinto.
Perché tu sei il più forte, o Signore,
tu possiedi il mondo e me lo sottrai.
Quando tendo le mani per cogliere persone e cose, esse svaniscono ai miei occhi.
Non è una cosa allegra, Signore, non posso prendere nulla per me.
Avvizzisce tra le mie dita il fiore che raccolgo,
muore sulle mie labbra il sorriso che abbozzo,
mi lascia ansante ed inquieto il valzer che ballo.
Tutto mi sembra vuoto,
tutto mi sembra vano,
hai creato il deserto intorno a me.
E ho fame,
e ho sete.
Non mi potrebbe saziare il mondo intero.

Eppure ti amavo, o Signore; che ti ho dunque fatto?
Per te lavoravo, per te mi spendevo.
O gran Dio terribile, che vuoi dunque ancora?

Piccolo, voglio di più per te e per il Mondo.
Prima conducevi la tua azione,
ma io non so che farmene.
Mi invitavi ad approvarla, m'invitavi a sostenerla,
volevi interessarmi al tuo lavoro.
Ma vedi, piccolo, invertivi le parti.
Ti ho seguito con gli occhi, ho veduto la tua buona volontà,
ora Io voglio di più per te.
Non farai più la tua azione, ma la volontà del tuo Padre celeste.

Di': "sì", piccino.
Ho bisogno del tuo sì, così come ho avuto bisogno del sì di Maria per venire sulla terra,
perché io debbo essere nel tuo lavoro,
io debbo essere nella tua famiglia,
io debbo essere nel tuo quartiere,
e non devi esserci tu.
Il mio sguardo penetra e non il tuo,
la mia parola trasporta e non la tua,
la mia vita trasforma e non la tua.
Dammi tutto, abbandonami tutto.
Ho bisogno del tuo sì per sposarti e scendere sulla terra.
Ho bisogno del tuo sì per continuare a salvare il Mondo!

O Signore, ho paura della tua esigenza,
ma chi ti può resistere?
Affinché venga il tuo regno e non il mio,
affinché sia fatta la tua volontà e non la mia,
aiutami a dire di sì.

Clicca qui per la versione breve.

fedefiduciaabbandonovocazionemissionechiamatarapporto con Diopaura

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inviato da Anna Barbi, inserito il 23/09/2012

TESTO

24. Leggi la Parola di Dio: illuminerà il tuo cammino   4

Sei triste e angosciato?
Leggi il cap. 14 del Vangelo di Giovanni

La cattiveria del mondo ti fa paura?
Leggi il salmo 26

Hai peccato?
Leggi il salmo 50

Ti fa paura l'avvenire?
Leggi i versetti 19-34 del cap. 6 del Vangelo di Matteo

Ti senti in pericolo?
Leggi il salmo 90

Ti senti ipocrita?
Leggi il salmo 33

Il Signore ti sembra lontano?
Leggi il salmo 138

Ti assale il dubbio?
Leggi il cap. 20 del Vangelo di Giovanni

Provi la tentazione?
Leggi il cap. 4 del Vangelo di Matteo

Sei disgustato dalla vita?
Leggi il cap. 40 di Isaia

Ti senti fragile e debole?
Leggi il salmo 22

Ti stai chiedendo: perché la fede?
Leggi il cap. 11 della lettera agli Ebrei

Sei sull'orlo della disperazione?
Leggi i versetti 31-39 del cap. 8 della lettera ai Romani

Non hai più il coraggio per affrontare la vita?
Leggi il 12 cap. del libro di Giosuè

Ti sembra che il diavolo sia più forte di Dio?
Leggi il salmo 89

Non ne puoi proprio più?
Leggi i versetti 28-30 del cap. 11 del Vangelo di Matteo

Stai per metterti in viaggio?
Leggi il salmo 120

Non riesci più a sopportarti?
Leggi il cap. 13 della la lettera ai Corinti

La tua preghiera è molto egoista?
Leggi il salmo 66

Hai l'impressione di pregare nel vuoto?
Leggi i versetti I -13 del cap. 11 del Vangelo

Sei in crisi?
Leggi il cap. 8 del libro dei Proverbi

Sei impaziente?
Leggi il cap. 12 della lettera agli Ebrei

Ti senti solo?
Leggi il cap. 15 della 1a lettera ai Corinzi

Sei malato?
Leggi il cap. 26 di Isaia

Vuoi sapere ciò che Dio attende da te?
Leggi il cap. 12 della lettera ai Romani

Hai bisogno di pace?
Leggi il cap. 14 di Giovanni

Non sai come ringraziare il Signore?
Leggi il salmo 102

bibbiavangeloParola di DioSacra Scritturapreghiera

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inviato da Don Giuseppe Ghirelli, inserito il 21/09/2012

ESPERIENZA

25. Il pane buono   2

Tempo fa', sul far della sera di un sabato qualunque, in una bella e profumata giornata primaverile, stavo innaffiando l'erba e i fiori del piccolo giardino che adorna la nostra casa, assorto nei lieti pensieri del dolce far niente. Davanti al cancello, all'improvviso, appare la figura di una ragazzina. Chiaramente una Rom, una zingara: il suo volto ed il suo cencioso abbigliamento non lasciavano certo spazio a dubbi in tal senso.

Con un italiano piuttosto stentato mi chiama e mi dice: "Dio ti benedica te e tua famiglia, mi dai pane vecchio per mangiare?".
Le rispondo:
- "Dove abiti?" (curioso, vero? Quando Dio ci parla, capita spesso che di primo acchito cambiamo discorso).
- "Là, vicino fiume Mella".
- "E di cosa vivi?".
- "Quello che mi danno".
- "Non vai a scuola?".
- "No, mai andata".
- "E i tuoi genitori cosa dicono?".
- "Padre non so, non vedo da tanto, lui carcere; madre dice: andare prendere qualcosa da mangiare. Mi dai pane vecchio?".
- "Sì, certo, scusa, volevi del pane vecchio. Ho quello fresco, buono, di oggi, vado dentro a prenderti quello", le dico mentre mi giro e faccio per entrare in casa.
- "Buono hai già dato".

Sono rimasto impietrito, come fulminato. Mi sono rigirato lentamente e l'ho guardata: stava sorridendo. Non so, non ho mai voluto pensare che quella frase fosse stata solo il frutto di un malriuscito tentativo di traduzione dal rumeno all'italiano di chissà quale espressione.

Nemmeno che quel suo sorriso fosse solo un modo, forse l'unico che conosceva, per dirmi la sua gioia nel vedere che il pane glielo avrei dato davvero. No. Ho pensato che quel parlare con lei, ascoltarla, sorriderle, fosse per lei, davvero, come spezzare insieme del pane fresco, del pane buono. "Me l'hai già dato, il pane buono: mi hai accolto, mi hai parlato, mi hai sorriso. Non ti sei girato dall'altra parte, non mi hai ignorato, né schernito, né evitato, né maltrattato, né violentato. Mi hai parlato".

Pane che nutre, non denti che divorano. Basta davvero così poco per sentirsi amati? E per essere fratelli, per essere cristiani? Sì. Ed Egle, mia sposa, mentre - entrato in casa - le racconto la vicenda, dice serenamente, quasi fosse la cosa più semplice e scontata di questo mondo: "Pane dei gesti che accolgono, pane delle parole che accarezzano. Pane di Gesù: è questo".

Pane fresco e buono, che non diventa mai vecchio perché prodotto nel cuore di chi crede in Colui che dice: "Io sono il pane della vita", e ci lascia un comandamento nuovo: "Amatevi come io vi ho amato".

Amare quella ragazzina cenciosa, spezzare il pane con lei e con tutti i cenci del mondo. Vivendo una vita nella solidarietà e nella comunione con tutti.

Sforzandoci di vivere così, di spezzare il pane così, allora Dio parla in noi; allora Dio parla con noi. Allora Dio spezza il pane e la parola tra noi: nei panni di una cenciosa ragazzina.

condivisioneeucaristia

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inviato da Ornella Zito, inserito il 24/06/2012

TESTO

26. Amore e comunione   1

Mariano Magrassi, Afferrati da Cristo

Dedichiamo brevemente attenzione ai gesti quotidiani che esprimono l'agàpe (amore) e costruiscono la koinonia (comunione). Al primo posto metterei una capacità infinita di comprensione e perdono. Non sta insieme una comunità dove i componenti non sono pronti a perdonarsi.

Bisogna anzitutto capire gli altri e accettarli come sono. Prendere i fratelli come Dio ce li manda e poi entrare in ciascuno, a partire da un gesto, da una parola, con una forte carica di simpatia, in modo da uscirne con la sua immagine, vera e non deformata. Spesso i pregiudizi fanno da schermo, si interpongono tra noi e i fratelli. Un filosofo ha definito la carità «l'attenzione prestata all'esistenza altrui».

Un altro elemento, importante per la comunione, è la prontezza a donarsi sulla linea del servizio. Un servizio che anzitutto deve afferrare tutto il mio essere, cioè devo fare di me quello che viene bene per gli altri. Aggiusto me stesso per essere gradito agli altri. È una carità che si fa con l'essere, prima che con l'azione.

Amare senza misura, né di intensità né di estensione. Quindi fraterna apertura a tutti. I fratelli non si scelgono, si accolgono senza discriminazione; basta escluderne uno per uccidere la carità. E dopo che l'ho accettato, il fratello, superando l'egoismo che è chiusura in me stesso, devo aprirmi a lui con una immensa speranza. Quando l'io si chiude in se stesso, intristisce. Quando invece diventa capace di rapporto, di comunione, allora si apre e fiorisce, come certi fiori che si schiudono quando sorge il sole.

Altro gesto di comunione è la correzione fraterna. Che sia un gesto cristiano non c'è alcun dubbio, perché si trova nel discorso ecclesiale di Matteo (18, 15-17). Ma è un'arte molto, molto difficile! Occorre intervenire nel momento giusto e col tono giusto. Deve nascere da un bisogno di amicizia che porge fraternamente all'altro una mano per risollevarsi. A sua volta, la correzione spinge chi la compie a togliere la trave dal proprio occhio.

Ma occorre pure sopportare se stessi, cioè accattare con serenità i propri limiti. Questo non lo riferisco ai peccati che dobbiamo cercare di eliminare, tutti; ma ai limiti che ci sono in ogni persona umana. Bisogna diventare scomplessati al riguardo; occorre saperci accettare come siamo, con lo sforzo quotidiano per renderci migliori. Allora si diventa uomini felici di vivere. È una cosa molto importante questa, perché l'uomo felice di vivere è capace di buoni rapporti con gli altri.

Accettare le diversità e saperle comporre nella comunione è un'altra cosa indispensabile. La diversità è voluta da Dio. La diversità è una ricchezza, purché non diventi contrasto. L'immagine più bella mi pare che l'abbia trovata Ignazio di Antiochia quando ha detto che siamo come una cetra, cha ha parecchie corde, e ogni corda suona la sua nota, ma ogni corda è armonizzata con l'altra. Se avessimo nella Chiesa un po' più di capacità di comporre queste differenze nella comunione! Si tratta di diversità a livello personale, non delle diversità sulle verità di fede; è chiaro che lì ci deve essere la perfetta comunione.

Da ultimo occorre da parte di tutti una fraterna cooperazione al bene di tutto il corpo ecclesiale. La salute e la vitalità di un organismo risultano dall'apporto di tutti gli organi che lo compongono. La Chiesa è un corpo che ha bisogno di tutti: ognuno l'arricchisce col suo dono.

Il Signore ci renda capaci di moltiplicare ogni giorno i gesti di bontà intorno a noi. Questa comprensione verso gli altri non è per il cristiano pura filantropia, ma un modo di andare incontro al Cristo, perché il fratello è "sacramento di Gesù". Gesù mette sul suo conto quello che abbiamo fatto al più piccolo dei nostri - e suoi - fratelli.

amorecomunionecomunitàfratelloserviziocorrezione fraterna

inviato da Marco Sciddurlo, inserito il 06/05/2012

ESPERIENZA

27. Una predica nella festa dell'Epifania in India

Piero Gheddo, http://gheddo.missionline.org/?p=826

Nel 1965, in India, alla festa dell'Epifania, sono stato invitato a parlare nella chiesa di una cittadina dello stato di Andhra Pradesh, dove lavorano i missionari del Pime. Essendo l'unico prete disponibile, ho dovuto celebrare la Messa (ma allora si celebrava in latino!) e anche fare la predica dell'Epifania. Dato che sapevo solo poche parole di telegu, la lingua locale (una delle più importanti delle 18 lingue ufficiali dell'India, parlata da più di 80 milioni di indiani, con una letteratura molto ricca e antica), il vescovo di Warangal monsignor Alfonso Beretta mi aveva fatto accompagnare da un catechista che sapeva bene l'inglese. «Tu parla inglese andando adagio», mi aveva detto, «e lui tradurrà in telegu, frase per frase, parola per parola».

Così sono andato in quella grande chiesa di Kammameth (che oggi è Diocesi), piena di gente, col mio bel discorso scritto in inglese. Dopo la lettura del Vangelo, la gente si è seduta e io ho cominciato a parlare, facendo riflessioni sulla festa liturgica, sul significato teologico dell'Epifania. A ogni frase mi fermavo e lasciavo al catechista il tempo di tradurre. Ma, man mano che andavo avanti nella predica, mi accorgevo che mentre le mie frasi erano brevi, il catechista parlava a lungo; e poi, io non citavo nessun nome proprio, ma lui continuava a citare Baldassarre, Melchiorre e Gaspare.

Dopo la Messa gli chiedo come aveva tradotto la mia predica e mi sento rispondere: «Padre, tu dicevi cose troppo difficili che io capivo poco e i nostri fedeli, gente semplice, non avrebbero capito nulla e non sapevo come tradurre. Allora ho raccontato alla gente la storia dei tre Re Magi, chi erano, da dove venivano e cosa hanno fatto quando sono tornati alle loro case dopo aver visto Gesù. Forse tu non sai, ma in India c'è la tradizione che i Magi erano indiani. Io li ho ambientati nei nostri villaggi telegu, in modo che tutti li sentissero come loro antenati. Ma non preoccuparti, ai nostri fedeli la tua predica è piaciuta molto, anche perché hanno capito tutto e adesso le vicende della vita di Gaspare, Baldassarre e Melchiorre le racconteranno anche ad altri».

Quell'episodio mi ha fatto capire una grande verità: il Vangelo è il racconto di un fatto, di un avvenimento, di una notizia; cioè comunica la «Buona Notizia» e usa un linguaggio estremamente concreto, che invita a cambiare vita, a convertirci. Gesù parla con parabole, cioè racconta dei fatti che avrebbero potuto anche essere veri, per dare un'indicazione morale. Non fa come in certe prediche di noi sacerdoti, che la gente non ascolta o non capisce, perché disincarnate dalla vita quotidiana. Essere cristiani significa vivere la vita di Cristo e offrire agli uomini degli esempi concreti di vite spese per Dio e per il prossimo. Quello che convince o scuote e fa riflettere i non credenti o i non praticanti non sono i ragionamenti o le dimostrazioni filosofiche o teologiche (ci vogliono anche queste, ma a luogo e tempo debito)., sebbene i buoni esempi delle vite di Gesù, di Maria e dei santi. E anche dei Re Magi che venivano dall'Oriente!

Anche la nostra vita cristiana deve diventare, agli occhi di chi non crede, un annunzio di salvezza, una testimonianza di fede e di bontà. Nessuno riesce mai a essere un vero cristiano, perché il modello di Gesù è infinitamente al di là delle nostre piccole persone: ma quel che importa è la sincera volontà di camminare per la via che Cristo ci ha indicato. Non preoccupiamoci troppo delle nostre cadute, quando sono sinceramente combattute e detestate, quando ripetiamo ogni giorno al Signore il nostro pentimento e la volontà di togliere il peccato dalla nostra vita. «La santità», diceva Santa Teresina del Bambino Gesù, «non è una salita verso la perfezione, ma una discesa verso la vera umiltà» .

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5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 09/04/2012

RACCONTO

28. Quando le croci sono troppe   6

Giovanni Francile

Un uomo viaggiava, portando sulle spalle tante croci pesantissime. Era ansante, trafelato, oppresso e, passando un giorno davanti ad un Crocifisso, se ne lamentò con il Signore così: "Ah! Signore, io ho imparato nel catechismo che tu ci hai creato per conoscerti, amarti e servirti... ma invece mi sembra di essere stato creato soltanto per portare le croci! Me ne hai data tante e così pesanti che io non ho più la forza di portarle".

Il Signore però gli disse: "Vieni qui, figlio mio, posa queste croci per terra ed esaminiamole un poco. Ecco, questa è la più grossa e la più pesante; guarda che cosa c'è scritto sopra".
Quell'uomo guardò e lesse questa parola: sensualità.

"Lo vedi?" disse il Signore, "questa croce non te l'ho data io, ma te la sei fabbricata da solo. Hai avuto troppa smania di godere, sei andato in cerca di piaceri, golosità, di divertimenti... e di conseguenza hai avuto malattie, povertà, rimorsi".

"Purtroppo è vero, soggiunse l'uomo, questa croce l'ho fabbricata io! E' giusto che io la porti!".

Sollevò da terra quella croce e se la pose di nuovo sulle spalle.

Il Signore continuò: "Guarda quest'altra croce. C'è scritto sopra: ambizione. Anche questa l'hai fabbricata tu, non te l‘ho data Io. Hai avuto troppo desiderio di salire in alto, di occupare i primi posti, di stare al di sopra degli altri... e di conseguenza hai avuto odio, persecuzione, calunnie, disinganni".

"E' vero, è vero! anche questa croce l'ho fabbricata io! E' giusto che io la porti!". Sollevò da terra quella seconda croce e se la mise sulle spalle.

Il Signore additò altre croci, e disse: "Leggi. Su questa è scritto: gelosia, su quell'altra: avarizia, su
quest'altra..."

"Ho capito, ho capito, Signore, è troppo giusto quello che tu dici".

E prima che il Signore avesse finito di parlare, il povero uomo aveva raccolto da terra tutte le sue croci e se l'era poste sulle spalle. Per ultima era rimasta per terra una crocetta piccola piccola e quando l'uomo la sollevò per porsela sulle spalle esclamò: "Oh! Com'è piccola questa! E pesa poco". Guardò quello che c'era scritto sopra e lesse queste parole: "La croce di Gesù".

Vivamente commosso, sollevò lo sguardo verso il Signore ed esclamò: "Quanto sei buono!" Poi baciò quella croce con grande affetto.

E il Signore gli disse: "Vedi figlio mio, questa piccola croce te l'ho data io, ma te l'ho data con amore di Padre; te l'ho data perché voglio farti acquistare merito con la pazienza; te l'ho data perché tu possa somigliare a me e starmi vicino per giungere al Cielo, perché io l'ho detto: Chi vuole venire dietro a me prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Ma ho detto anche: il mio giogo è soave e il mio peso è leggero".

L'uomo delle croci riprese silenzioso il cammino della vita; fece ogni sforzo per correggersi dei suoi vizi e si diede con ogni premura a conoscere, amare e servire Dio.

Le croci più grosse e più pesanti caddero, una dopo l'altra dalle sue spalle e gli rimase soltanto quella di Gesù. Questa se la tenne stretta al cuore fino all'ultimo giorno della sua vita, e quando arrivò al termine del viaggio, quella croce gli servì da chiave per aprire la porta del Paradiso.

sofferenzapazienzafedefiduciacrocepeccato

4.6/5 (5 voti)

inviato da Lisa, inserito il 07/04/2012

TESTO

29. L'esperienza del deserto   1

Klaus Berger, Gesù, pp. 134-137

Nel deserto non c'è altro che sabbia e vento, nuvole e sole.
E' il paesaggio della Bibbia e lì si possono fare esperienze bibliche.
Il deserto, infatti, ha a che fare con noi e con Dio, perché li esistiamo soltanto noi e la vastità.
Fino a che punto un essere umano deve fare silenzio per sentire davvero parlare di Dio?
Nel deserto è questione di vita o di morte, della prima domanda della filosofia, come sia possibile che esista qualcosa e non piuttosto il nulla.
Grazie a Gesù sappiamo che dove inizia il silenzio non c'è soltanto Dio, ma anche il diavolo, che rappresenta la pura disperazione e la meschina assurdità.
E chi percepisce soltanto la sabbia sotto di sé e il cielo sopra di sé comprende la frase apocrifa di Gesù, secondo cui egli avrebbe detto: Chi vuole entrare in contatto con Dio ha bisogno di dieci cose, nove parti di silenzio e una di solitudine.
Il silenzio è indispensabile per non confondere la parola di Dio con la propria.
Nella preghiera solitaria, infatti, Gesù non tiene una comizio a Dio, ma tace, finché non lo sente parlare.
Con i misteri del deserto, infatti, è così: chi si avventura nel deserto è già diventato un altro.
Il deserto e le esperienze che si fanno in esso vivono di contrasti estremi.
Il freddo della notte si trova in contrasto stridente con il calore del giorno.
Il silenzio del paesaggio rimbomba come un tuono.
E dato che le cose esterne sono sempre uguali, quanto è decisivo avviene nell'interno, nell'intimo dell'essere umano.
Proprio per questo qui la monotonia è estremamente emozionante, perché il nostro cuore popola la vastità, in essa, innanzitutto, riesce finalmente a riconoscersi.
E così attraverso i contrasti del deserto, impariamo a capire in modo nuovo che cosa sia la vita.
Il fascino del deserto sta nella tensione tra ciò che ci si è portati dietro e la vastità, tra la nostra piccolezza e l'immensità esterna.
Chi prega in solitudine sta direttamente davanti a Dio, nulla lo distrae, niente si frappone, così come si è direttamente messi a confronto con la morte.
Lì impara a riflettere nel tempo sull'eternità e a non essere triste nel fare questo, ma molto più ricco di quanto sia la maggior parte degli altri.

desertosolitudineinterioritàpreghieraascoltosilenzio

5.0/5 (3 voti)

inviato da Cesarina Volontè, inserito il 14/03/2012

PREGHIERA

30. Ho preso la parola, Signore

Michel Quoist, Preghiere, Marietti, Torino 1963, p. 72.74

Ho preso la parola, Signore, e sono stizzito,
Sono stizzito perché mi sono agitato, speso, con il gesto e con la voce.
Ce l'ho messa tutta nelle mie frasi, nelle mie parole,
E temo di non aver dato l'essenziale.
Perché l'essenziale non è in mio potere, Signore, e le parole sono troppo strette per contenerlo.

Ho preso la parola, Signore, e son inquieto,
Ho paura di parlare, perché è grave;
E' grave disturbare gli altri, farli uscire da loro, immobilizzarli sulla soglia di casa loro;
E' grave trattenerli lunghi minuti, a mani tese, cuore teso, alla ricerca di un lume o di un po' di coraggio per vivere e per agire.

Se io li rimandessi a mani vuote, Signore!

Eppure debbo parlare.
Mi hai donato la parola per alcuni anni, e debbo servirmene.
Son debitore della mia anima agli altri, e sulle mie labbra le parole attendono per trasportarla presso gli altri in lunghi convogli serrati.
Perché l'anima non saprebbe esprimersi se le fosse tolta la parola.
Non si sa nulla del bimbo racchiuso nella sua carne
E la famiglia tutta esulta quando, a sillabe, a parole, a frasi, la sua anima appare davanti alla nostra anima.
Ma la famiglia si raccoglie disperata al capezzale del morente, ascoltando religiosamente le ultime parole, che egli pronuncia.
Egli se ne va, chiudendosi nel silenzio, ed i parenti non conosceranno più la sua anima quando pietosamente ne avranno chiuso gli occhi e serrato le labbra.

La parola è una grazia, Signore, e non ho il diritto di tacere per orgoglio, viltà, negligenza o paura dello sforzo.
Gli altri hanno diritto alla mia parola, alla mia anima, perché ho un messaggio da trasmettere da parte Tua. E nessun altro che me, Signore, sarebbe in grado di dirlo loro.
Ho una frase da pronunciare, breve, forse, ma ripiena della mia vita.
Non mi posso sottrarre.
Ma le parole che lancio debbono essere parole vere.
Sarebbe abuso di fiducia captare l'attenzione altrui se sotto la scorza delle parole non dessi la verità dell'anima.
Le parole che spando debbono essere parole vive, ricche di quanto la mia anima unica ha colto del mistero del mondo e del mistero dell'uomo.
Le parole che dono debbono essere portatrici di Dio, perché le labbra, che mi hai donato, Signore, sono fatte per dire la mia anima, e la mia anima Ti conosce e ti tiene avvinto.

Perdonami, Signore, per aver parlato tanto male;
Perdonami per aver spesso parlato per non dir nulla;
Perdonami i giorni in cui ho prostituito le mie labbra
pronunciando parole vuote,
parole false,
parole vili,
parole in cui Tu non hai potuto infiltrarti.
Sorreggimi quando debbo prendere la parola in un'assemblea, intervenire in una discussione, conversare con un fratello.
Fa soprattutto, o Signore, che la mia parola sia un seme
E che quanti ricevono le mie parole possano sperare una bella messe.

parlareparolacomunicazionecomunicareannuncio

inviato da Maria Fassone, inserito il 20/02/2012

TESTO

31. Voglio adottarvi come genitori   3

Michel Quoist

Ascoltami ancora, si dice infatti che dalla bocca dei bambini viene la verità; se sono un bambino sfuggito dal carnaio notturno, trattenuto da un filo d'amore lanciato da chissà dove.

Se sono un bambino caduto dal nido, abbandonato da padre e madre, rapiti o mortalmente feriti alle sbarre della loro gabbia.

Se sono un bambino nudo, senza panni d'amore o con panni imprestati, ma col diritto di vivere, perché sono vivo.

E se nello stesso istante persone innamorate piangono davanti a una culla vuota, consumati nel desiderio di accarezzare un bambino.

Se sono ricchi d'amore che ritengono sprecato, e vogliono gratuitamente donarlo, perché cresca e fiorisca ciò che non hanno piantato.

Allora voglio che vengano silenziosamente a chiedermi se desidero adottarli come miei genitori. Ma non voglio dei fanatici del bambino, come collezionisti d'arte che cercano il pezzo raro che manca alla loro vetrina. Non voglio clienti che hanno fatto l'ordinazione e, pagata la fattura reclamano il loro bebè prefabbricato. Perché non sono fatto per salvare genitori dalle membra amputate, ma loro sono stati fatti, misterioso percorso, magnifico progetto, per salvare dei bambini dal cuore malato, forse anche condannato. E sarà come addormentarci l'un l'altro.

Io berrò il latte di cui ignoravo il sapore, ascolterò musiche sconosciute, imparerò nuove canzoni, sulle vostre dita, sulle vostre labbra genitori adottati, decifrerò lentamente l'alfabeto della tenerezza.

E l'amore sconosciuto per me prenderà il volo alla luce dei vostri occhi. Voi innesterete le vostre vite sulla mia crescita e grazie a voi io rinascerò una seconda volta.

Così sarò ricco di quattro genitori, due lo saranno della mia carne e due del mio cuore e della mia carne cresciuta. Voi non giudicherete i miei genitori sconosciuti, li ringrazierete e mi aiuterete a rispettarli. Perché dovrò riuscire lo so, ad amarli nell'ombra, se un giorno vorrò poterli amare nella luce.

E se in una sera di tempesta, adolescente focoso, impacciato di me stesso, io vi rimprovererò di avermi accolto, non vi addolorate, ma amatemi ancor di più: lo sapete, perché un innesto prenda ci vuole una ferita e, chiusa la ferita, rimane la cicatrice.

Ma io sogno. Io sogno perché non sono che un bambino in viaggio, lontano dalla terra ferma, la mia parola è muta e il canto senza musica.

Ciò che vi dico piano non potrò urlarlo, se non il giorno in cui, avendomi voi adottato, mi avreste messo in cuore tanto amore e autentica libertà, sulle mie labbra parole sufficienti, perché possa dire: papà, mamma, io vi scelgo e vi adotto allora saprete che il vostro amore è dono, e che è riuscito.

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inviato da Emanuela Pandini, inserito il 11/01/2012

TESTO

32. Ave Maria   3

Carlo Carretto, Beata te che hai creduto

Una sera tentai il discorso con Maria.
Mi era così facile!
Le volevo così bene!
Maria, dimmi come è andata? Raccontalo a me come l'hai raccontato a Luca l'evangelista.

Tu lo sai, mi disse, perché conosci il Vangelo.
È stato tutto molto bello!
lo vivevo a Nazaret in Galilea e la mia vita era la vita di tutte le ragazze del popolo: lavoro, preghiera, povertà, molta povertà, gioia di vivere e soprattutto speranza nelle sorti di Israele.
Abitavo con Anna, mia madre, in una casetta molto semplice che aveva un cortile davanti ed un gran muro di cinta fatto apposta perché noi donne ci sentissimo in libertà ed intimità.
Lì sostavo sovente per lavorare e pregare. In me l'una e l'altra cosa si mescolavano ed ero piena di pace e di gioia.
Quel giorno ero sola nel piccolo cortile e una gran luce mi avvolgeva.
Pregavo, seduta su uno sgabello. Tenevo gli occhi socchiusi e sentivo una gioia invadermi tutta.
La luce aumentava ed io incominciai a socchiudere le palpebre che avevo chiuso per non restare abbacinata.
Ero contenta di lasciarmi riempire di quella luce. Mi pareva il segno della presenza di Dio che mi avvolgeva come un manto. Ad un tratto quella luce prese l'aspetto di un angelo. Ho sempre pensato agli angeli così come lo vidi in quel momento.
Tu sai com'è la questione della fede. Non sai mai se la visione è dentro o fuori.
È certamente dentro perché se fosse solo fuori potresti dubitare come fosse un'illusione.
Ma dentro l'illusione non c'è, è così, sai che è così: ne è testimone Dio.
lo stavo molto ferma per paura che tutto scomparisse.
E invece l'Angelo parlò. Anche qui: non sai mai se la voce la senti nell'orecchio o più in profondo.
Certamente in profondo perché se fosse solo nell'orecchio potresti illuderti.
La voce la senti là dove lo stesso Dio è il testimone.
E che ti disse?
Mi disse: Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te.
E tu che provasti?
È evidente che ne fui turbata. Era come se fossi visitata da cose troppo grandi per me e per la mia dimensione così piccola.
Tu puoi pensare alle cose di Dio con immenso desiderio ma quando ti toccano non puoi non spaventarti.
Difatti mi disse subito.
«Non temere, Maria» (Luca 1,30).
Mi feci coraggio perché la stessa frase l'avevo sentita alla Sinagoga quando si leggeva la storia di Abramo.
«Non temere, Abramo. lo sono il tuo scudo» (Genesi 15, 1).
Poi l'Angelo mi diede l'annuncio della maternità con poche parole ma così chiare che avevo l'impressione mi stessero nascendo dentro. Non mi era mai capitato di sentire parole come fossero avvenimenti.
Dimmi, Maria, sei stata colta di sorpresa? Non avevi mai pensato prima che tu... proprio tu...
Oh sì! Ci avevo pensato. Noi ragazze ebree non pensavamo ad altro. Sentivamo che i tempi erano quelli e quando pregavamo nella Sinagoga, l'aria era satura di attesa del Messia.
Che hai capito quando l'angelo ti disse che eri tu la scelta e che il Messia sarebbe nato da te?
Capii esattamente cosa voleva dirmi, e rimasi soltanto stupita della straordinarietà della cosa. Com'era possibile se io ero vergine?
L'Angelo mi spiegò le cose e mi fu facile accettarle perché mi sentivo immersa in Dio come in quella luce vivissima del mezzogiorno.
Confusamente capii anche che pasticci ce ne sarebbero stati, che non sarei riuscita a spiegarmi con mia madre, specialmente col mio fidanzato Giuseppe, ma non avrei potuto fermarmi tanta era forte la presa di Dio su di me e tanta era la certezza che mi veniva dalle parole dell'Angelo.
«Nulla è impossibile a Dio
nulla è impossibile a Dio
nulla è impossibile a Dio» (Luca 1,37). Adagio, adagio la luce diminuì e non vidi più l'Angelo.
Vidi mia madre Anna attraversare il cortile e mi venne voglia di parlarle, ma non ne fui capace perché non trovai le parole adatte.
Capii subito che non c'erano parole con cui potevo spiegare le cose.
Così nei giorni che seguirono, anzi, più andavo avanti e più diventavo silenziosa.

Fu più difficile il discorso con Giuseppe, mio fidanzato.
Tu sai come avvenivano le cose nelle nostre tribù. La sposa veniva promessa molto presto. Era come un patto tra famiglie.
Ma essendo così giovane la futura sposa continuava a vivere in famiglia in attesa della maturità.
Allora con grande festa, di notte, si compiva lo sposalizio e lo sposo accompagnato dai suoi amici veniva con tante luci e canti e gioia a prendere la sua sposa ed a condurla a casa. Da quel momento si era veramente sposati.
Quando l'Angelo mi apparve per annunciarmi la maternità, io ero ancora in casa. Ero stata promessa a Giuseppe ma non ero ancora andata ad abitare con lui.
Bastarono pochi mesi perché tutto divenisse complicato agli occhi degli uomini. lo non potevo nascondere la mia maternità e il mio ventre mi denunciava.
Capii allora cos' era la fede oscura, dolorosa.
Come potevo spiegarmi con mia madre?
Come potevo discutere col mio fidanzato Giuseppe?
Vissi tempi veramente dolorosi e l'unico conforto mi veniva nel ripetere: «Tutto è possibile a Dio, tutto è possibile a Dio».
Toccava a Lui spiegarsi ed io avevo tanta confidenza. Ma ciò non toglieva la mia sofferenza che in certi momenti mi straziava l'anima.
Come potevo trovare le parole per dire che quel bimbo che portavo in seno era il figlio dell'Altissimo?
Intanto non osavo più uscire di casa ed una volta vidi una vicina guardarmi da sopra il muro del cortile con evidente attenzione puritana.
Ci furono dei momenti terribili ed io tremai al pensiero di essere denunziata come adultera.
Ci voleva così poco. Bastava che Giuseppe andasse alla Sinagoga a spiegare la cosa e non gli sarebbero mancati gli zelanti che l'avrebbero seguito con le pietre per lapidarmi. Non era la prima volta che a Nazaret veniva uccisa un'adultera.
Ma è vero: «Dio può tutto». E si spiegò lui.
Si spiegò con Giuseppe per primo che mi disse di avere avuto un sogno veramente straordinario e che non aveva perduto la confidenza in me e che mi avrebbe sposata lo stesso.
Che gioia quando me lo disse!
Ma che paura avevo provato! Che oscurità!
Sì, il fatto mi aveva spiegato che la fede è di quella natura e che dobbiamo abituarci a vivere nell'oscurità.

Ci fu anche un fatto straordinario che alleviò le mie pene in quei mesi.
Tu sai che l'Angelo mi aveva dato un segno per aiutare la mia debolezza. Mi aveva detto che mia cugina Elisabetta era al sesto mese di una maternità straordinaria perché tutti noi della famiglia sapevamo che era sterile.
Dovevo andare a trovarla in Giudea ad Ain-Karim dove abitava.
Non mi feci pregare a partire.
L'idea venne a mia madre perché era preoccupata che la gente del paese mi vedesse con quel ventre grosso e non voleva dicerie.
Partii di notte, ma così contenta di allontanarmi da Nazaret dove c'erano troppi occhi indiscreti e non potevo raccontare a tutti le mie faccende.
Trovai mia cugina già vicina al parto e così felice, poverina! Aveva aspettato tanto un figlio!
Il Signore si era spiegato anche perché quando giunsi fu come se sapesse
tutto!
tutto!
tutto!
Si mise a cantare per la gioia ed io cantavo con lei.
Sembravamo due pazze, ma pazze di amore.
E c'era un terzo che sembrava impazzito di gioia.
Era il piccolino, il futuro Giovanni che danzava nel ventre di Elisabetta come per fare festa a Gesù che era nel mio.
Furono giorni indimenticabili.
Ma Elisabetta, che se ne intendeva di fede e di fede oscura e che aveva tanto sofferto nella vita, mi disse una cosa che mi fece piacere e che fu come il premio a tutta la mia solitudine di quei mesi.
«Beata te che hai creduto» (Luca 1,44). E me lo ripeteva tutte le volte che mi incontrava e mi toccava il ventre, come per toccare Gesù, il nuovo Mosè che stava per venire al mondo.

Il fuoco con cui avevo cotto il pane si stava spegnendo. La notte era già alta e mi sentii solo.
La presenza di Maria ora era nel rosario che avevo in mano e che mi invitava a pregare.
Sentivo freddo e mi avvolsi nel «bournous» (Mantello arabo di lana di pecora) che avevo con me.
L'oscurità divenne totale ma non avevo nessuna voglia di addormentarmi.
Volevo gustare la meditazione che Maria mi aveva regalata.
Soprattutto volevo entrare con dolcezza e forza nel mistero della fede, la vera, quella dolorosa, oscura, arida.
Oh no! Non è facile credere, è più facile ragionare.
Non è facile accettare il mistero che ti supera sempre e che ti allarga sempre i limiti della tua povertà.
Povera Maria!
Dover credere che quel bimbo che portava in seno era figlio dell'Altissimo. Sì, è stato semplice concepirlo nella carne, estremamente più impegnativo concepirlo nella fede! Quale cammino!
Eppure non ne esiste un altro. Non c'è altra scelta.
Vuoi tu, Maria, spaventata dal credere, tornare indietro, pensare che non è vero, che è inutile tentare, che è una illusione quella di un Dio che si fa uomo, che non c'è Messia di salvezza, che tutto è un caos, che sul mondo domina l'irrazionale, che sarà la morte a vincere sul traguardo e non la vita?
No!
Se credere è difficile, non credere è morte certa.
Se sperare contro ogni speranza è eroico, il non sperare è angoscia mortale.
Se amare ti costa il sangue, non amare è inferno.
Credo, Signore!
Credo perché voglio vivere.
Credo perché voglio salvare qualcuno che affoga: il mio popolo.
Credo perché quella del credere è l'unica risposta degna di te che sei il Trascendente, l'Infinito, il Creatore, la Salvezza, la Vita, la Luce, l'Amore, il Tutto.
Che cosa strana per non dire meravigliosa: appena ho detto con tutte le viscere la parola «credo» ho visto la notte farsi chiara.
Ora chiudo gli occhi perché è proprio lei la notte che mi abbaglia con la sua luce al di là di ogni luce.
Sì, nulla è più chiaro di questa notte oscura, nulla è più visibile dell'invisibile Dio, nulla è più vicino di questo infinitamente lontano, nulla è più piccolo di questo infinito Iddio.
Difatti è riuscito a stare nel tuo piccolo seno di donna, Maria, e tu l'hai potuto scaldare col tuo corpicino bello.
Maria! Sorella mia!
Beata te che hai creduto, ti dico stasera con entusiasmo, come te lo disse tua cugina Elisabetta, in quel vespero caldo ad AinKarim.

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inviato da Qumran2, inserito il 09/12/2011

RACCONTO

33. Sei tu Gesù?   3

Un gruppo di venditori furono invitati ad un Convegno. Tutti avevano promesso alle proprie famiglie che sarebbero arrivati in tempo per la cena il venerdì sera. Il convegno terminò un po' più tardi del previsto, ed arrivarono in ritardo all'aeroporto. Entrarono tutti con i loro biglietti e portafogli, correndo tra i corridoi dell'aeroporto.

All'improvviso, e senza volerlo, uno dei venditori inciampò in un banco che aveva un cesto di mele. Le mele caddero e si sparsero per terra. Senza trattenersi, né guardando indietro, i venditori continuarono a correre, e riuscirono a salire sull'aereo. Tutti meno uno. Quest'ultimo si trattenne, respirò a fondo, e sperimentò un sentimento di compassione per la padrona del banco di mele.

Disse ai suoi amici di continuare senza di lui e chiese ad uno di loro che all'arrivo avvertisse sua moglie e le spiegasse che sarebbe arrivato con un altro volo un po' più tardi, visto che non era sicuro di riuscire ad avvisarla in tempo.

Dopo tornò al Terminal e si trovò con tutte le mele sparse a terra. La sorpresa fu enorme, quando si rese conto che la padrona delle mele era una bambina cieca. La trovò piangendo, con grandi lacrime che scorrevano sulle sue guance. Toccava il pavimento, cercando, invano, di raccogliere le mele, mentre moltitudini di persone passavano senza fermarsi; senza che a nessuno importasse nulla dell'accaduto.

L'uomo inginocchiatosi con lei, mise le mele nella cesta e l'aiutò a montare di nuovo il banco. Mentre lo faceva, si rese conto che molte cadendo si erano rovinate. Le prese e le mise nella cesta. Quando terminò, tirò fuori il portafoglio e disse alla bambina: "Prendi, per favore, questi cento euro per il danno che abbiamo fatto. Tu stai bene?".

Lei, sorridendo, annuì con la testa. Lui continuò dicendole: "Spero di non aver rovinato la tua giornata".

Il venditore cominciò ad allontanarsi e la bambina gridò: "Signore...". Lui si fermò e si girò a guardare i suoi occhi ciechi. Lei continuò: "Sei tu Gesù...?".

Lui si fermò immobile, girandosi un po' di volte, prima di dirigersi per andare a prendere il volo, con questa domanda che gli bruciava e vibrava nell'anima: "Sei tu Gesù?".

E a te, la gente, ti confonde con Gesù? Perché è questo il nostro destino, non è così? Sarebbe così bello il mondo se tutti assomigliassimo sempre così tanto a Gesù al punto da non riuscire più a notarne la differenza.

Cerchiamo allora, con tutte le nostre forze, di assomigliare sempre più a Gesù, in un mondo che è cieco davanti al suo amore, alla sua vita e alla sua grazia, per la nostra felicità e per quella del nostro prossimo. Se decidiamo di conoscere Gesù, dovremmo vivere e agire come lui. Vivere la sua parola ogni giorno.

Tu sei la pupilla dei suoi occhi, anche quando sei stato colpito per le cadute. Lui ha lasciato tutto e ha preso te e me nel Calvario; e ha pagato la nostra frutta rovinata.

Cominciamo a cercare di vivere come se già valessimo il prezzo che lui ha pagato! Cominciamo oggi!

Gesùcaritàamoresolidarietàcondivisioneaiutosensibilitàfretta

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inserito il 08/07/2011

TESTO

34. Ghiaccio pericoloso

Don Luciano, web

Qualche anno fa ci fu un incidente aereo all'aeroporto "Catullo" di Verona. Lo ricordo ancora adesso, a distanza di tempo, per la causa che provocò il disastro. L'aereo apparteneva alla compagnia di bandiera rumena ed era diretto a Bucarest, ma precipitò subito dopo il decollo. La causa? Ghiaccio sulle ali. Era inverno e la ripulitura delle ali dal ghiaccio è parte della procedura ordinaria di manutenzione dell'aereo a terra prima del decollo. Ma, per tagliare le spese, la compagnia aerea si era rifiutata di pagare per questo servizio. Per quanto possa essere sorprendente, uno strato di ghiaccio sulle ali aggiunge quel tanto di peso che basta per impedire all'aereo di volare. Interrompe il flusso d'aria che mantiene l'aereo in volo, e comincia a perdere quota. Per risparmiare un po' di soldi non si è fatta un'operazione di sicurezza indispensabile, lasciando che si formasse del ghiaccio sulle ali - sapendo che si andava facilmente incontro a un disastro!

Non c'è bisogno che ci sia davvero molto ghiaccio sulle ali per provocare la perdita di quota di un aereo. Non c'è bisogno che ci sia molto ghiaccio sulla tua anima perché tu cominci a perdere quota - cominci a precipitare spiritualmente.

La Parola di Dio ci indica chiaramente alcuni comportamenti e reazioni che provocano uno strato di ghiaccio sul tuo cuore. In Efesini 4, 26 e seguenti, l'apostolo Paolo dice: «Nell'ira, non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira». Basta che si accumuli un po' di ira, di risentimento sul tuo cuore - problemi con gli altri che non si vogliono affrontare e risolvere immediatamente - e scatta il pericolo. Quanto pericolo? Tanto quanto uno strato di ghiaccio sulle ali di un aeroplano. Fa precipitare il tuo rapporto con Dio e con gli altri. Senti come Dio continua: «E non date occasione al diavolo». Una rabbia che non si vuole risolvere, basta che duri anche solo un giorno, è sufficiente per aprire la porta al diavolo e farti precipitare!

Poi Dio ti parla della manutenzione, ossia ti dice che azioni radicali devi prendere per sconfiggere quei sentimenti distruttivi: «Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto, parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano... Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità». In altre parole, Dio ti dice di farla finita con quel gelo spirituale che si è addensato sulla tua vita! Spazzali via - il risentimento che hai permesso che crescesse dentro di te... la gelosia... la mancanza di perdono... l'invidia... la rabbia.

Ma Dio sa bene che non puoi rimuovere il ghiaccio dalla tua anima senza rimpiazzarlo con qualcosa che dà calore. Così lui ti dice di trattare le persone che ti fanno arrabbiare o ti feriscono, esattamente nella maniera opposta con cui ti verrebbe spontaneo trattarle. Dio ti dice: «Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo».

Le ultime parole sono la chiave di tutto: «Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo». Devi prendere la convinta decisione di rimuovere tutti i muri fra te e gli altri, trattandoli non come loro hanno trattato te - ma con pazienza e misericordia. Fino a quando non chiedi intensamente a Dio la grazia di perdonare quella persona... di trattarla con compassione e gentilezza - continuerai a perdere quota. E alla fine il peso del ghiaccio sul tuo cuore ti farà precipitare.

Sii vigilante in modo che non si formi ghiaccio sul tuo cuore, come è successo sulle ali di quell'aereo a Verona. Non permettere nemmeno per un solo giorno che se ne formi uno strato! Se lo fai, alla fine quella pellicola di gelo farà precipitare il rapporto che hai con qualcuno, il tuo matrimonio, la famiglia, le attività, un servizio che stai facendo. Farà precipitare il tuo rapporto con Dio. Ed è un prezzo troppo alto da pagare per un sottile strato di ghiaccio!

pace

inviato da Lisa, inserito il 06/07/2011

TESTO

35. Io voglio servire Gesù

Shahbaz Bhatti, Cristiani in Pakistan. Nelle prove la speranza, Marcianum Press, Venezia 2008, pp. 39-43

Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia.

Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l'amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.

Mi sono state proposte alte cariche al governo e mi è stato chiesto di abbandonare la mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa: «No, io voglio servire Gesù da uomo comune».

Questa devozione mi rende felice. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora - in questo mio sforzo e in questa mia battaglia per aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan - Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese.

Molte volte gli estremisti hanno cercato di uccidermi e di imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Gli estremisti, qualche anno fa', hanno persino chiesto ai miei genitori, a mia madre e mio padre, di dissuadermi dal continuare la mia missione in aiuto dei cristiani e dei bisognosi, altrimenti mi avrebbero perso. Ma mio padre mi ha sempre incoraggiato. Io dico che, finché avrò vita, fino all'ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri.

Voglio dirvi che trovo molta ispirazione nella Sacra Bibbia e nella vita di Gesù Cristo. Più leggo il Nuovo e il Vecchio Testamento, i versetti della Bibbia e la parola del Signore e più si rinsaldano la mia forza e la mia determinazione. Quando rifletto sul fatto che Gesù Cristo ha sacrificato tutto, che Dio ha mandato il Suo stesso Figlio per la nostra redenzione e la nostra salvezza, mi chiedo come possa io seguire il cammino del Calvario. Nostro Signore ha detto: «Vieni con me, prendi la tua croce e seguimi». I passi che più amo della Bibbia recitano: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi». Così, quando vedo gente povera e bisognosa, penso che sotto le loro sembianze sia Gesù a venirmi incontro.

Per cui cerco sempre d'essere d'aiuto, insieme ai miei colleghi, di portare assistenza ai bisognosi, agli affamati, agli assetati.

Shahbaz Bhatti, ucciso a Islamabad il 2/03/2011

testimonianzamartiriopersecuzione

inviato da Qumran2, inserito il 08/03/2011

RACCONTO

36. Il Girasole   15

Bruno Ferrero, Tutte Storie, ed. Elledici

In un giardino ricco di fiori di ogni specie, cresceva, proprio nel centro, una pianta senza nome. Era robusta, ma sgraziata, con dei fiori stopposi e senza profumo. Per le altre piante nobili del giardino era né più né meno una erbaccia e non gli rivolgevano la parola. Ma la pianta senza nome aveva un cuore pieno di bontà e di ideali.

Quando i primi raggi del sole, al mattino, arrivavano a fare il solletico alla terra e a giocherellare con le gocce di rugiada, per farle sembrare iridescenti diamanti sulle camelie, rubini e zaffiri sulle rose, le altre piante si stiracchiavano pigre.

La pianta senza nome, invece, non si perdeva un salo raggio di sole. Se li beveva tutti uno dopo l'altro. Trasformava tutta la luce del sole in forza vitale, in zuccheri, in linfa. Tanto che, dopo un po', il suo fusto che prima era rachitico e debole, era diventato uno stupendo fusto robusto, diritto, alto più di due metri.

Le piante del giardino cominciarono a considerarlo con rispetto, e anche con un po' d'invidia. «Quello spilungone è un po' matto», bisbigliavano dalie e margherite.

La pianta senza nome non ci badava. Aveva un progetto. Se il sole si muoveva nel cielo, lei l'avrebbe seguito per non abbandonarlo un istante. Non poteva certo sradicarsi dalla terra, ma poteva costringere il suo fusto a girare all'unisono con il sole. Così non si sarebbero lasciati mai.

Le prime ad accorgersene furono le ortensie che, come tutti sanno, sono pettegole e comari. «Si è innamorato del sole», cominciarono a propagare ai quattro venti. «Lo spilungone è innamorato del sole», dicevano ridacchiando i tulipani. «Ooooh, com'è romantico!», sussurravano pudicamente le viole mammole.

La meraviglia toccò il culmine quando in cima al fusto della pianta senza nome sbocciò un magnifico fiore che assomigliava in modo straordinario proprio al sole. Era grande, tondo, con una raggiera di petali gialli, di un bel giallo dorato, caldo, bonario. E quel faccione, secondo la sua abitudine, continuava a seguire il sole, nella sua camminata per il cielo. Così i garofani gli misero nome «girasole». Glielo misero per prenderlo in giro, ma piacque a tutti, compreso il diretto interessato.

Da quel momento, quando qualcuno gli chiedeva il nome, rispondeva orgoglioso: «Mi chiamo Girasole». Rose, ortensie e dalie non cessavano però di bisbigliare su quella che, secondo loro, era una stranezza che nascondeva troppo orgoglio o, peggio, qualche sentimento molto disordinato. Furono le bocche di leone, i fiori più Coraggiosi del giardino, a rivolgere direttamente la parola al girasole.

«Perché guardi sempre in aria? Perché non ci degni di uno sguardo? Eppure siamo piante, come te», gridarono le bocche di leone per farsi sentire. «Amici», rispose il girasole, «sono felice di vivere con voi, ma io amo il sole. Esso è la mia vita e non posso staccare gli occhi da lui. Lo seguo nel suo cammino. Lo amo tanto che sento già di assomigliargli un po'. Che ci volete fare? il sole è la mia vita e io vivo per lui...».

Come tutti i buoni, il girasole parlava forte e l'udirono tutti i fiori del giardino. E in fondo al loro piccolo, profumato cuore, sentirono una grande ammirazione per «l'innamorato del sole».

cristianoseguire Gesùamare Diovivere per Diocontemplare Dio

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inviato da Anna Barbi, inserito il 12/09/2010

TESTO

37. Che cos'è un sacerdote? Meditazione dettata in occasione di una prima messa

Karl Rahner, Sul sacerdozio

Nella prima messa si compie un sacrificio tutto particolare dell'eterno rendimento di grazie. Celebriamo infatti il momento in cui un uomo, consacrato prete di Gesù Cristo, compie per la prima volta ciò che d'ora in poi, con sublime, divina monotonia, dovrà compiere tutti i giorni della sua vita...

Come popolo dei redenti in Gesù Cristo, noi presentiamo sugli altari della Chiesa il sacrificio della Nuova Alleanza. Anche in un giorno come questo, non possiamo far niente di più di quello che facciamo sempre. Si compie infatti qualcosa che è così alto da non essere suscettibile di reale accrescimento: si fa presente in mezzo a noi il Signore di tutti i secoli, il cuore del mondo e, insieme, l'azione del suo amore che muove le stelle e tutto accoglie nella gloria di Dio.

E tuttavia nella prima messa si compie un sacrificio tutto particolare dell'eterno rendimento di grazie. Celebriamo infatti il momento in cui un uomo, consacrato prete di Gesù Cristo, compie per la prima volta ciò che d'ora in poi, con sublime, divina monotonia, dovrà compiere tutti i giorni della sua vita, finché un giorno la sua vita intera sarà consumata in quel sacrificio, che egli celebra ogni giorno e nella cui accettazione soltanto tutta la realtà terrena trova la propria accettazione nell'infinita maestà di Dio. Perché celebriamo solennemente questo giorno? Forse che la Chiesa vuol indurre i suoi fedeli a concedere, per così dire, anticipati allori ad un giovane, il quale non ha fatto ancora niente altro che offrire a Dio il suo cuore e la sua vita, mentre sarebbe lecito glorificare solo il sacrificio interamente compiuto? No, noi non celebriamo un uomo: celebriamo solo il sacerdozio di Gesù Cristo. Celebriamo la Chiesa, tutta la Chiesa di tutti i redenti, i santificati, i chiamati alla vita eterna: quella di cui noi tutti facciamo parte, sia che siamo preti o 'soltanto' credenti e santificati. Poiché noi tutti apparteniamo all'unico Corpo del Cristo in modo tale che ciò che ad uno viene concesso di grazia, dignità e potenza è grazia ed elevazione per tutti, ed in maniera tale che nel servizio e nella vocazione di uno si manifesta la santa dignità di tutti.

Che cos'è un sacerdote?

Egli è un uomo
Quando Paolo, nella lettera agli Ebrei, parla del prete, la prima cosa che dice è che il prete è scelto fra gli uomini. A tal punto che perfino l'eterno sommo sacerdote Gesù Cristo, nato da donna, soggetto alla legge, pellegrino attraverso la valle di questa realtà peritura, volle essere il figlio dell'uomo, un uomo, trovato in tutto simile a noi. Il prete è un uomo. Non è fatto, dunque, di un legno diverso da quello di cui tutti siete fatti: è vostro fratello. Egli continua a condividere la sorte dell'uomo anche dopo che la destra di Dio, attraverso la mano del vescovo, si è posata su di lui: la sorte dei deboli, la sorte di quelli che sono stanchi, scoraggiati, inadeguati, peccatori. Gli uomini, però, se l'hanno a male, se uno si presenta nel nome di Dio, pur essendo soltanto un uomo: vogliono messaggeri più splendi, araldi più convincenti, cuori più ardenti. Accoglierebbero volentieri dei vittoriosi, di quegli uomini che hanno sempre una risposta a tutto e un rimedio per tutto. Terribile illusione! Quelli che vengono sono deboli, in timore e tremore, uomini che devono anch'essi continuamente pregare: Signore, io credo, aiuta la mia incredulità! che devono anch'essi continuamente battersi il petto: Signore, abbi pietà di me, povero peccatore! Eppure essi proclamano la fede che vince il mondo e portano la grazia, che trasforma i peccatori e i perduti in santi e redenti. Sono uomini quelli che vengono. Vengono e dicono, con la loro povera umanità: vedete, Dio ha misericordia di uomini come noi; vedete, per i poveri e per gli stolti, per i disperati e per i moribondi è sorta la stella della grazia. Dicono, come messaggeri umani dell'eterno Dio: non vi adirate contro di noi! Noi sappiamo di portare il tesoro di Dio in vasi di argilla; sappiamo che la nostra ombra offusca continuamente la divina luce che dobbiamo portarvi. Siate misericordiosi verso di noi, non giudicate, abbiate pietà della debolezza sulla quale Dio ha posato il fardello troppo pesante della sua grazia. Considerate come una promessa per voi stessi il fatto che noi siamo uomini: riconoscete da ciò che Dio non ha orrore degli uomini. Voi avrete un giorno paura e orrore di voi stessi, quando avrete sperimentato anche in voi che cosa è l'uomo, che cosa c'è nell'uomo. Beati voi, allora, che non vi siete scandalizzati dell'uomo che è nel prete. Egli è un uomo, affinché voi crediate che la grazia di Dio può essere concessa all'uomo, al pover'uomo, così com'è.

Il sacerdote è un messaggero della verità di Dio
Nella verità di Dio c'è qualcosa di inquietante e insieme di beato. Essa è del tutto semplice, e non fa progressi così rapidi come la verità degli uomini, che diventano tanto sapienti da arrivare, da ultimo, alla fabbricazione delle bombe atomiche. Spesso la verità di Dio penetra nei cuori degli uomini, senza che essi lo sappiano: solo in piccola parte la sua venuta si manifesta, per esempio nell'umiltà silenziosa del cuore, in un'oscura nostalgia dello spirito, nella rassegnazione con cui uno accetta le tacite e mai autogiustificantesi disposizioni del destino. Ma quando viene, per quanto piccola, con la forza dello Spirito Santo, essa è tutta presente, e vi è già in essa anche l'inizio dell'amore e della vita eterna. E tutta questa semplice, unica verità di Dio, per mezzo della quale Dio afferma se stesso nel più profondo del cuore dell'uomo, è la Verità, che è presente nel mondo, perché stillata dal cuore trafitto del Cristo Dio. Perciò questa verità vuole farsi carne nella parola umana; vuole penetrare in tutti i pensieri e le parole degli uomini; vuole divenire il tema permanente di una sinfonia infinita, che risuona attraverso tutti gli spazi del cosmo; vuole essere spiegata e proclamata; vuole entrare attraverso le porte dell'udito nel cuore degli uomini; vuole salire e sorgere dal cuore degli uomini, sua più intima dimora, per penetrare anche in tutti i settori della vita umana, per essere predicata da tutti i tetti, per congiungersi, infine, con ogni verità umana, correggendola e purificandola, salvandola e portandola a compimento. Perciò vi sono messaggeri di questa verità, messaggeri umani. Essi vengono con parole umane, ma queste sono ripiene di verità divina. E dicono una cosa antichissima e tuttavia non mai ancora compresa: dicono la verità, che sola non avvizzisce, sola non si logora, sola non si consuma. Dicono Dio: il Dio dell'eterna gloria, il Dio della vita eterna; dicono che Dio stesso è la nostra vita; proclamano che la morte non è la fine; che l'astuzia del mondo è stoltezza e miopia; che vi è un giudizio, una giustizia ed una vita eterna. Dicono sempre la stessa cosa, monotonamente, infinite volte. La dicono a se stessi ed agli altri, poiché gli uni e gli altri devono confessare di non aver ancora mai compreso ciò che viene predicato: Dio, il Dio vivente, il vero Dio, il Dio rivelato, Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo; Dio, che riversa prodigalmente la propria infinità nel nostro cuore, senza che noi ce ne accorgiamo; Dio, che fa della nostra spaventosa precarietà l'inizio della vita eterna - e noi non vogliamo crederlo. Questo dicono i messaggeri. Per questo hanno studiato e meditato; tutto questo si sono sforzati, spesso disperatamente, di far penetrare anche nella meschinità del proprio spirito e nell'angustia del proprio cuore. Eppure non ci sono ancora riusciti: sono ancora apprendisti di Dio. E tuttavia, Dio ordina loro di mettersi a parlare di ciò che essi stessi hanno compreso soltanto a metà. Ed essi cominciano. Balbettano, sono impacciati, sanno bene che tutto ciò che hanno da dire suona così strano, così inverosimile, sulla bocca di un uomo. Ma vanno e parlano. E, oh meraviglia! trovano perfino degli uomini che, attraverso il loro strano discorso, percepiscono la Parola di Dio; uomini nel cui cuore la Parola penetra, giudicando, salvando e portando la serenità, la consolazione e la forza nella debolezza, sebbene siano essi a dirla, e sebbene portino così male il messaggio. Ma Dio è con loro. Con loro, nonostante la loro miseria e il loro peccato. Essi non predicano se stessi, ma Gesù Cristo, predicano nel suo nome, e sono confusi fino in fondo al cuore per ciò che egli ha detto loro: «Chi ascolta voi, ascolta me; chi disprezza voi, disprezza me». Ma egli ha detto proprio così. E dunque essi vanno e parlano. Sanno che si può essere un bronzo sonante e un cembalo tintinnante, e che ci si può perdere dopo aver predicato agli altri: ma non si sono scelti da sé. Sono stati chiamati e inviati, e così devono andare e predicare, opportunamente e importunamente. Vanno per i campi del mondo e spargono il seme di Dio: sono pieni di riconoscenza quando un poco ne germoglia, e implorano per sé la misericordia di Dio, affinché non ne rimanga sterile troppo per colpa loro. Seminano fra le lacrime, e per lo più un altro raccoglie ciò che essi hanno seminato. Ma essi lo sanno: la parola di Dio deve diffondersi dovunque e portar frutto, perché essa è la felice Verità di Dio, la luce dei cuori, la consolazione nella morte e la speranza della vita eterna.

Il sacerdote è il dispensatore dei divini misteri
La parola, che Dio ha posto sulla bocca del prete, non è una semplice parola generica, che viene pronunciata nel vago. È la parola di Dio, deve perciò riguardare anche i singoli, nella loro individualità originale e nella loro irrepetibile storicità. Deve essere detta a ciascun uomo in particolare: al mattino della vita, quando egli comincia a creare nel tempo una eternità; nei molti monotoni giorni del suo pellegrinaggio, in cui egli deve cercare faticosamente se stesso, attraverso tutte le vallate e gli errori di una vita umana; nella cupa disperazione della colpa; in quel sacro istante, in cui sembra che, dalla pienezza del tempo che muore, debba venir fuori per sempre il frutto dell'eternità nella morte. In tali istanti, il prete deve dire la parola di Dio, la parola potente e creatrice di Dio, la parola che non dice, bensì opera, la parola sacramentale: io ti battezzo; io ti assolvo dai tuoi peccati; questo è il mio Corpo. Tali parole, pronunziate nel nome del Cristo, il pret le dice applicandole alla concreta situazione dell'uomo. Ed esse apportano ciò che proclamano, operano quello che annunziano, perché sono parole di Dio. Grazie a queste parole sacramentali, il prete è, al tempo stesso, l'uomo più privo di potenza e il più potente, poiché esse non sono assolutamente più parole sue, ma parole interamente del Cristo: egli, però, ha il diritto di dirle, di ripeterle continuamente, di dirle con pazienza e con fede, instancabilmente. Tutte le altre parole, che egli deve pur dire, nella predica e nell'insegnamento, non sono altro che un'eco, una spiegazione, un commento, aggiunto alle eterne parole fondamentali della sua esistenza sacerdotale, che egli pronunzia nell'amministrare i sacramenti, accompagnandole col gesto santo, che utilizza i poveri elementi della terra per celarvi la beatitudine del cielo, fecondandoli con la parola del Cristo. Munito dunque della parola efficace del Cristo, egli dispensa i misteri del Cristo, i sacramenti. Gli uomini, per lo più, vogliono da lui qualcos'altro: il pane, la soluzione dei problemi sociali, ricette per poter essere felici su questa terra. Si irritano e si annoiano, se si continua a ripetere loro sempre soltanto parole, che si devono credere, che producono effetto solo nella divina eternità e il cui valore non si può negoziare sui mercati del mondo. Ma il prete continua a ripetere la sua parola, la parola dei sacramenti. Il loro effetto non si può provare nei laboratori degli uomini, che vogliono riconoscere come reale solo ciò che si manifesta concretamente. Ma l'effetto c'è. E così, da quella parola, ha inizio il destino dei figli di Dio, si compie il perdono dei peccatori, si celebra il banchetto della vita eterna, scaturisce dalle tenebrose profondità della morte la luce che non conosce tramonto. Col suo dono e con la sua offerta dei misteri di Dio, il prete se ne sta, come uno che sia estraneo al mondo, agli angoli delle vie, dinanzi ai quali passa in fretta il corteo interminabile degli uomini e della loro storia, precipitando non si sa bene se verso la morte o verso la vita. Chi si arresta, chi accetta l'offerta di questo viandante tra due mondi che è il prete, costui riceve i misteri di Dio, per lui si realizza nel tempo l'eternità, dalla morte la vita, dalle tenebre la luce, e si fa manifesta la presenza di Dio. E colui che ha il potere di penetrare nella situazione sempre unica del singolo queste parole della presenza e dell'efficacia sacramentale del Dio vivente nello spazio della santa Chiesa, noi lo chiamiamo il prete.

Al sacerdote è affidato il sacrificio
Abbiamo cominciato a parlare dell'opera del prete nel mondo; dobbiamo intraprendere la trattazione, più esplicita di quanto finora sia stata, del mistero che nel Corpo della Chiesa è paragonabile al cuore, in quanto apporta al regolare battito del polso dei singoli membri la forza nutritiva del sangue. Il prete è l'uomo a cui è affidata l'offerta sacrificale della Chiesa, la ripetizione liturgica della Cena del Cristo, e poiché proprio questo è l'aspetto più intimo e supremo dell'esistenza sacerdotale, noi celebriamo solennemente l'inizio di tale vita non già con un battesimo che egli celebri per la prima volta, o con la parola dell'assoluzione che pronunzi per la prima volta, bensì col sacrificio della messa che egli celebra per la prima volta e noi con lui. Qui, in questo momento, tutto si raccoglie: gli uomini, la Chiesa, Dio, il Cristo, il sacrificio della Croce, i vivi e i morti, l'angoscia terrena e la beatitudine celeste. Qui, infatti, il Signore glorioso è in mezzo alla sua comunità: la comunità dei santificati e redenti, che il prete, per mandato ricevuto dal Cristo, con pieni poteri che provengono dall'alto, e non dal basso, conduce dinanzi al trono della Grazia, affinché essa comunità offra il Signore, reso presente mediante la parola del prete, come offerta di tutta la Chiesa, all'eterno Padre, in lode del suo nome e per la salvezza di tutti quelli che celebrano il sacrificio e in esso sono ricordati con amore e fedeltà. Avendone ricevuto facoltà dal Cristo stesso, che ama la sua Chiesa e a lei ha fatto dono del proprio sacrificio, il prete può celebrare in nome di tutti, con tutti e per tutti, il sacrificio dell'eterna riconciliazione. E se è vero che in questa vocazione egli è stato da Dio sollevato più in alto di tutti gli altri, è anche vero che egli è divorato e consumato al massimo, in un puro servizio di Dio, per gli uomini. Egli acquista, in questo momento, il diritto di portare il Corpo del Signore e di prendere il calice della salvezza, riempito del prezzo del riscatto del mondo, non già per essere lui, il prete, innalzato, bensì perché ne venga salvezza per tutto il popolo di Dio. E ciò che, nel giorno della sua prima messa, egli fa', circondato dalla gioia degli altri, lo farà tutti i giorni. Tutti i giorni, nella giovinezza e nella vecchiaia, nelle grigie mattine di ogni giorno, e nelle ore terribili, che non sono risparmiate a nessuna vita. E sempre questa piccola, povera celebrazione racchiuderà in sé il contenuto, e al tempo stesso la soluzione, di tutti gli enigmi dell'esistenza: il Corpo, che venne immolato, e il Sangue, che fu versato per il perdono dei peccati. Sempre, tutto ciò sarà contenuto in questa piccola mezz'ora, perché in essa è presente, come il Sacrificato e il Vittorioso insieme, colui che è in sé l'unità reale dell'enigma e della sua soluzione, l'unità della terra e del cielo, l'unità dell'uomo e di Dio, nella celebrazione di quell'istante unico in cui, sulla Croce, l'estrema lontananza tra loro divenne inseparabile vicinanza.

Conclusione
È uomo, il prete, messaggero della Verità di Dio, dispensatore dei divini misteri, capace di rendere presente il sacrificio unico del Cristo. Sorte felice! Certo, ogni uomo ha da Dio la sua vocazione, la sorte a lui assegnata dalla eternità, il suo compito anche nel Corpo del Cristo, che è la Chiesa. Non vi è esistenza profana, per nessuno. Ma ciò che per la maggior parte è quasi soltanto la presenza della divina realtà nel profondo della loro più intima coscienza e nel silenzioso segreto della loro sfera privata, per il prete, chiamato da Dio, erompe da quella profondità per abbracciare tutta la estensione della vita. Tutto, in quella vita, Dio deve consumare e ridurre al servizio della sua signoria onnipotente. Questo è il destino del prete: vivere interamente nella manifesta vicinanza di Dio. Un destino beato e terribile a un tempo. Beato, perché Dio solo è la beatitudine; terribile, perché solo difficilmente l'uomo resiste in mezzo al tremendo splendore di Dio. Nessuna meraviglia, dunque, che il progetto più sublime rimanga sempre anche il più frammentario. Nessuna meraviglia, che l'alta vocazione nasconda in sé anche il pericolo delle cadute estreme: il pericolo che esser prete voglia dire non dovere esser più uomo; il pericolo della perdita della pietà per gli uomini, dell'inaridirsi della sostanza umana; il pericolo della fuga lontano da Dio, verso la più familiare vicinanza degli uomini; il pericolo del compromesso miserabile, del tentativo di soddisfare l'altissimo prezzo richiesto dall'esistenza sacerdotale con una mediocrità a buon mercato. Se si esamina attentamente questo destino beato e terribile del prete, si potrebbe rimanere colpiti, e quasi ammutolire per lo spavento, in questa festa, perché qui ha inizio ciò che nessun uomo, da solo, può portare a compimento. Ma noi confidiamo nella grazia di Dio: essa, non già noi, porterà a compimento ciò che ha iniziato. È fedele, infatti, colui che ha chiamato il prete, e non si pente dei doni di grazia che concede. E noi, in questa celebrazione del santo sacrificio, vogliamo pregare per la Chiesa sulla terra, che Dio mandi operai alla sua messe, perché gli operai sono pochi. Preghiamo per i nostri preti, che essi comincino nel timore e nella gioia del Signore e perseverino in fedele servizio sino alla beata fine, che noi tutti attendiamo, e in cui è il termine unico e beato di tutte le vocazioni, nell'infinita celebrazione del sacrificio eterno, in cui il Figlio, e noi in lui, tutto rimettiamo al Padre, affinché Dio sia tutto in tutti. Amen.

tratto da www.donboscoland.it

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inviato da Qumran2, inserito il 03/09/2010

ESPERIENZA

38. Missione è amare

Giuseppe Rizzo, SMA

A volte noi pensiamo che la carità sia darsi da fare, cercare tutti i modi per riempire i poveri e gli ammalati di attenzioni. Partiamo cioè con un'idea un po' troppo precisa di quello che serve a chi ci chiede aiuto.

L'avevo conosciuta un anno prima, come tanti giovani, aveva l'AlDS. Con l'infermiere della Caritas siamo riusciti a ridarle un po' di energia con alcuni farmaci. Dopo diversi anni di allontanamento da Dio e di una vita senza regole, era ritornata a partecipare alla messa della domenica per ringraziare Dio di quello che lei chiamava il miracolo della guarigione.

Ma un anno dopo, puntuale come un compleanno e senza scampo, arriva una forte crisi e lei è in fin di vita. Mi fa chiamare e mi precipito appena so che si tratta di lei. Arrivato in casa sua, non le chiedo niente, perché mi accorgo della situazione disperata. Prendo la macchina, vado al dispensario e con l'infermiere ritorno da lei. Iniezioni, flebo, pastiglie, gocce. La portiamo all'ospedale, ma anche lì ci dicono che non c'è più niente da fare. Ritornati a casa cerchiamo di fare tutto il possibile per salvarla, offriamo tutte le medicine di cui disponiamo.

Ad un certo momento lei, che fino a quel momento non aveva detto una parola, mi guarda. Poi il silenzio. Provate ad immaginarlo: un silenzio infinito, di quelli che normalmente porgono alla vita come un minuscolo boato, che diventerà un ricordo indimenticabile: "Io ti ho chiamato perché volevo confessarmi! Ti ringrazio per tutto ciò che hai fatto finora, ma in questo momento l'unica cosa di cui ho bisogno, è il perdono di Dio".

È stato come prendere contatto con la realtà. Dieci minuti di confessione: un dialogo d'amore tra lei e Dio. lo l'ho ascoltata e le ho dato il dono dell'assoluzione. Solo ora lei ha chiuso gli occhi con la serenità di aver avuto quello che cercava. Dopo averle preso le mani nelle mie, ci siamo immersi di nuovo in quel meraviglioso silenzio. È passato qualche minuto e lei non respirava più: era fra le braccia di quel Dio che ha voluto incontrare a modo suo, avendo la pazienza di aspettare che il padre se ne rendesse conto.

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inviato da Don Raffaele Gobbi, inserito il 11/08/2010

PREGHIERA

39. Maria, donna del silenzio   1

Tonino Bello

Santa Maria,
donna del silenzio,
riportaci alle sorgenti della pace.
Liberaci dall'assedio delle parole.
Da quelle nostre, prima di tutto.
Ma anche da quelle degli altri.
Figli del rumore,
noi pensiamo di mascherare l'insicurezza
che ci tormenta
affidandoci al vaniloquio del nostro interminabile dire:
facci comprendere che,
solo quando avremo taciuto noi,
Dio potrà parlare.
Coinquilini del chiasso,
ci siamo persuasi di poter esorcizzare
la paura alzando il volume dei nostri transistor:
facci capire che Dio si comunica all'uomo
solo sulle sabbie del deserto,
e che la sua voce non ha nulla da spartire
con i decibel dei nostri baccani.
Spiegaci il senso profondo di quel brano della Sapienza,
che un tempo si leggeva a Natale
facendoci trasalire di meraviglia:
«Mentre un profondo silenzio avvolgeva tutte le cose,
e la notte era a metà del suo corso,
la tua Parola onnipotente dal cielo,
dal tuo trono regale, scese sulla terra...».
Riportaci, ti preghiamo,
al trasognato stupore del primo presepe,
e ridestaci nel cuore la nostalgia di quella "tacita notte".
Santa Maria, donna del silenzio,
raccontaci dei tuoi appuntamenti con Dio.
In quali campagne ti recavi nei meriggi di primavera,
lontano dal frastuono di Nazaret, per udire la sua voce?
In quali fenditure della roccia ti nascondevi adolescente,
perché l'incontro con lui non venisse profanato dalla violenza degli umani rumori?
Su quali terrazzi di Galilea,
allagati dal plenilunio,
nutrivi le tue veglie di notturne salmodie,
mentre il gracidare delle rane,
laggiù nella piana degli ulivi,
era l'unica colonna sonora ai tuoi pensieri di castità?
Che discorsi facevi, presso la fontana del villaggio,
con le tue compagne di gioventù?
Che cosa trasmettevi a Giuseppe quando al crepuscolo, prendendoti per mano,
usciva con te verso i declivi di Esdrelon,
o ti conduceva al lago di Tiberiade nelle giornate di sole?
Il mistero che nascondevi nel grembo glielo
confidasti con parole o con lacrime di felicità?
Oltre allo Shemàh Israel
e alla monotonia della pioggia nelle grondaie,
di quali altre voci risonava la bottega del falegname
nelle sere d'inverno?
Al di là dello scrigno del cuore,
avevi anche un registro segreto
a cui consegnavi le parole di Gesù?
Che cosa vi siete detto, per trent' anni,
attorno a quel desco di povera gente?
Santa Maria, donna del silenzio,
ammettici alla tua scuola.
Tienici lontani dalla fiera dei rumori
entro cui rischiamo di stordirei,
al limite della dissociazione.
Preservaci dalla morbosa voluttà di notizie,
che ci fa sordi alla "buona notizia".
Rendici operatori di quell'ecologia acustica,
che ci restituisca il gusto della contemplazione
pur nel vortice della metropoli.
Persuadici che
solo nel silenzio maturano le cose grandi della vita:
la conversione, l'amore, il sacrificio, la morte.
Un'ultima cosa vogliamo chiederti, Madre dolcissima.
Tu che hai sperimentato, come Cristo sulla croce,
il silenzio di Dio,
non ti allontanare dal nostro fianco nell'ora della prova.
Quando il sole si eclissa pure per noi,
e il cielo non risponde al nostro grido,
e la terra rimbomba cava sotto i passi,
e la paura dell'abbandono rischia di farei disperare,
rimanici accanto.
In quel momento, rompi pure il silenzio:
per direi parole d'amore!
E sentiremo sulla pelle i brividi della Pasqua.

Mariasilenziovita quotidianarumore

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inviato da Barbara Battilana, inserito il 30/07/2010

RACCONTO

40. Quel Gesù che non ti aspetti

Nardo Masetti

Ogni volta che veniva fuori il discorso fra amici, Giovanni ripeteva che lui in un ricovero per vecchi non ci sarebbe finito. Aveva lavorato tutta una vita con immensi sacrifici, per allevare i figli e li aveva anche sistemati discretamente da un punto di vista economico. Un giorno s'ammalò; niente di grave, una semplice bronchite. Le nuore i figli gli fecero capire che non avevano né il tempo di curarlo convenientemente, e gli dissero che era meglio che andasse nel capoluogo, in una specie di ospedale per un periodo di cura. Ne parlò anche con don Antonio. Il sacerdote gli raccomandò di pregare molto e di stare vicino a Gesù che non abbandona nessuno. Ottavio, che non ne era mai stato praticante, non tenne in alcun conto il consiglio ricevuto. Lo portarono in un grande fabbricato: "Villa Serena", un ricovero per anziani. Non si sarebbe mai aspettato dai suoi figli, un atto del genere.

Da qualche settimana si dava da fare, per attirarsi la simpatia della patronessa delle dame di carità, che visitava spesso l'ospizio: sentiva la necessità di un sorriso, di una parola affettuosa, di qualcuno che avesse il tempo di ascoltare le sue disgrazie. Anche quel giorno la signora si fermò a chiacchierare con gli ospiti della stanza numero quindici. Giovanni aspettava con l'ansia di un bimbo; giunta vicino a lui, uscì senza proferire una parola. Gli altri gli spiegarono che la signora familiarizzava con quelli che andavano a Messa la domenica e al Rosario tutti giorni. Non si sarebbe mai aspettato, da una patronessa della carità un atto del genere.

L'onorevole, data l'imminenza delle elezioni politiche, aveva fatto una calorosa visita all'ospizio. Aveva salutato tutti personalmente e a tutti aveva proclamato che, se un giorno avessero avuto bisogno di lui, non avrebbero dovuto fare altro che salire le scale che portano al suo ufficio. Giovanni era commosso, prima di tutto perché aveva la medesima fede politica dell'onorevole, e poi perché qualcuno lo aveva ascoltato, gli aveva sorriso egli aveva stretto la mano. E un giorno salì quelle scale, poiché sentiva il bisogno di un altro sorriso. L'onorevole gli allungò dieci euro e l'accompagnò alla porta. Rimase tanto sorpreso che non ebbe nemmeno la forza di gettargli in faccia quel biglietto di banca, che ora gli bruciava fra le mani non meno delle lacrime che gli scendevano dagli occhi. Non si sarebbe mai aspettato, da uno del suo partito, un atto del genere.

Nel tornare all'ospizio, passò davanti ad una Chiesa; la porta era spalancata e dentro s'intuiva una frescura invitante. Entrò e, poiché nessuno lo fermò, si trovò proprio davanti all'altare maggiore e al tabernacolo, illuminato da una fioca luce. Si mise a sedere su una panca di legno e si fermò in attesa di calmarsi, poiché, non voleva farsi vedere in quello stato dai colleghi di Villa Serena. Si mise a pensare e a parlare piano… ebbe la sensazione che "Qualcuno" lo ascoltasse con interesse e che non fosse per niente annoiato dalle sue parole. Gli parve, addirittura, che un misterioso personaggio gli aprisse le braccia, per incoraggiarlo ad avvicinarsi ulteriormente; il cuore gli si gonfiò di gioia. Non sapeva nemmeno lui quanto tempo si fosse fermato ma, quando uscì, era certo che uno gli aveva sorriso. Ogni giorno tornò in chiesa e si fermò sempre più a lungo: non si sentiva più solo. Non si sarebbe mai aspettato, da Gesù, un atto del genere.

Gesù vero amico

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inviato da Nardo Masetti, inserito il 30/07/2010

PREGHIERA

41. Da uomo vero, vorrei essere prete   1

Giuseppe Mancini

Da uomo vero, vorrei essere prete
per annunciare il Vangelo non tanto con le parole
ma con ogni pezzo della vita che mi è stata donata!
Vorrei essere prete per dare speranza a chi non più ce l'ha:
a quell'uomo e quella donna che hanno disgregato la propria famiglia;
a quel bambino senza casa e senza genitori;
a quella mamma che ha ucciso la propria creatura in grembo;
a quel giovane che non ha più nessun orizzonte di vita;
a quell'uomo senza lavoro che va alla ricerca di una busta di alimenti;
a quell'uomo che colpito dalla malattia fisica sopravvive;
a quell'uomo disperato che vede solo nella morte l'unica soluzione;
a quell'uomo che fa del denaro e del sesso l'unica ragione di vita;
a quel prete che ha dimenticato Cristo presente in tutte queste persone.
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per risolvere i problemi e le sofferenze della gente e del mondo
ma per condividere i problemi e le sofferenze della gente e del mondo.
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per realizzare i miei desideri e i miei sogni,
ma l'unico vero desiderio e sogno di Dio che non ha bisogno delle mie miserie:
essere una delle sue tante candele per dare la sua luce nel tempo stabilito;
poi una volta consumata buttata via perché ci sarà un'altra candela!
Da uomo vero, vorrei essere prete
per dire "sì" con libertà al suo grande amore!
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per avere una poltrona comoda,
ma per essere una poltrona per quell'uomo buttato a terra;
non per avere un bel computer dove scrivere delle belle parole per ore e ore,
ma per essere una sola parola per quell'uomo che ha bisogno d'ascolto in una di quelle ore;
non per avere una macchinetta che faccia un buon caffè per ogni giorno,
ma per preparare un buon pasto quotidiano a quell'uomo che ha fame;
non per avere una automobile con tutti i comfort,
ma per essere conforto per quell'uomo che ha consumato i suoi piedi vagando senza meta.
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per parlare al cellulare spesso o sempre, anche quando prego
ma per essere preghiera vivente che sa anche fare del silenzio preghiera.
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per essere servito ma per servire.
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per parlare della Croce ma per abbracciare la Croce.
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per parlare della Fede, della Speranza e della Carità
ma per vivere la Fede, la Speranza e la Carità essendone uno specchio fedele.
Da uomo vero, vorrei essere prete
non per parlare della Risurrezione nei giorni di festa
ma per vivere la Risurrezione nei giorni feriali, in ogni istante dall'altare alla strada.
Da uomo vero, vorrei essere prete non per me stesso
ma "per, con e in" Cristo e la sua Chiesa!
Da uomo vero, vorrei essere prete!

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5.0/5 (1 voto)

inviato da Giuseppe Mancini, inserito il 22/12/2009

TESTO

42. Cari amici, vedo in voi le sentinelle del mattino   2

Giovanni Paolo II, Tor Vergata, 19 agosto 2000, XV Giornata Mondiale della Gioventù

Cari giovani,

questa sera vi consegnerò il Vangelo. E' il dono che il Papa vi lascia in questa veglia indimenticabile. La parola contenuta in esso è la parola di Gesù. Se l'ascolterete nel silenzio, nella preghiera, facendovi aiutare a comprenderla per la vostra vita dal consiglio saggio dei vostri sacerdoti ed educatori, allora incontrerete Cristo e lo seguirete, impegnando giorno dopo giorno la vita per lui!

In realtà, è Gesù che cercate quando sognate la felicità; è lui che vi aspetta quando niente vi soddisfa di quello che trovate; è lui la bellezza che tanto vi attrae; è lui che vi provoca con quella sete di radicalità che non vi permette di adattarvi al compromesso; è lui che vi spinge a deporre le maschere che rendono falsa la vita; è lui che vi legge nel cuore le decisioni più vere che altri vorrebbero soffocare. E' Gesù che suscita in voi il desiderio di fare della vostra vita qualcosa di grande, la volontà di seguire un ideale, il rifiuto di lasciarvi inghiottire dalla mediocrità, il coraggio di impegnarvi con umiltà e perseveranza per migliorare voi stessi e la società, rendendola più umana e fraterna.

Carissimi giovani, in questi nobili compiti non siete soli. Con voi ci sono le vostre famiglie, ci sono le vostre comunità, ci sono i vostri sacerdoti ed educatori, ci sono tanti di voi che nel nascondimento non si stancano di amare Cristo e di credere in lui. Nella lotta contro il peccato non siete soli: tanti come voi lottano e con la grazia del Signore vincono!

Cari amici, vedo in voi le "sentinelle del mattino" (cfr Is 21,11-12) in quest'alba del terzo millennio. Nel corso del secolo che muore, giovani come voi venivano convocati in adunate oceaniche per imparare ad odiare, venivano mandati a combattere gli uni contro gli altri. I diversi messianismi secolarizzati, che hanno tentato di sostituire la speranza cristiana, si sono poi rivelati veri e propri inferni. Oggi siete qui convenuti per affermare che nel nuovo secolo voi non vi presterete ad essere strumenti di violenza e distruzione; difenderete la pace, pagando anche di persona se necessario. Voi non vi rassegnerete ad un mondo in cui altri esseri umani muoiono di fame, restano analfabeti, mancano di lavoro. Voi difenderete la vita in ogni momento del suo sviluppo terreno, vi sforzerete con ogni vostra energia di rendere questa terra sempre più abitabile per tutti.

Cari giovani del secolo che inizia, dicendo «sì» a Cristo, voi dite «sì» ad ogni vostro più nobile ideale. Io prego perché Egli regni nei vostri cuori e nell'umanità del nuovo secolo e millennio. Non abbiate paura di affidarvi a lui. Egli vi guiderà, vi darà la forza di seguirlo ogni giorno e in ogni situazione.

fedefiduciaGesùgiovaniimpegnoresponsabilitàidealisviluppopace

5.0/5 (2 voti)

inviato da Sandra Aral, inserito il 08/12/2009

TESTO

43. Beatitudini degli sposi   5

Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,3).
Beati voi coniugi, quando siete capaci di fare grandi rinunzie per amore dell'altro; beati voi, quando, consapevoli della vostra inadeguatezza di fronte ai problemi della vita, li deponete insieme ai piedi del Signore.

Beati gli afflitti, perché saranno consolati (Mt 5,4).
Beati voi, quando la prova vi trova uniti, quando la preghiera comune diventa lo strumento per affrontarla, quando vi lasciate illuminare dallo Spirito per gioire e crescere nella conoscenza del progetto di Dio su di voi. La sua consolazione sarà la vostra forza.

Beati i miti, perché erediteranno la terra (Mt 5,5).
Beati voi, quando non date sfogo alla vostra aggressività, quando abbandonate il linguaggio prepotente dell'offesa e della rivendicazione dei meriti, del giudizio o della spartizione fredda dei compiti e assumete le vesti della mitezza inerme e generosa, della tenerezza ospitale e gratuita, del dono disarmato di voi stessi.

Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati (Mt 5,6).
Beati voi, quando vi lasciate guidare dalla Parola di Dio per distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è, quando lo insegnate ai vostri figli, quando desiderate che a tutto il mondo arrivi il messaggio di speranza contenuto nel Vangelo. Beati voi, quando la vostra vita diventa testimonianza viva della Parola che salva.

Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia (Mt 5,7).
Beati voi, quando avrete imparato a perdonarvi, ad accettarvi nella vostra debolezza e fragilità, beati voi, quando della crisi fate un momento di crescita personale e comune, quando la vostra riconciliazione diventa pedagogia d'amore per i vostri figli.

Beati i puri di cuore perché vedranno Dio (Mt 5,8).
Beati voi sposi, quando sgombrate gli occhi e la mente dalle lusinghe del mondo e guardate a ciò che è essenziale, cercandolo nella Parola di Dio. Beati voi, quando la Parola diventa stile di vita, quando vi riconosceranno discepoli di Cristo, pur restando in silenzio.

Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio (Mt 5,9).
Beati voi, uniti nel Sacro Vincolo del Matrimonio, quando coltivate la pace nelle relazioni all'interno della vostra famiglia, beati voi quando, usciti fuori dell'appartamento, sentite insopprimibile il desiderio di creare ponti, di collegare cuori con l'infinita misericordia di Dio.

Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,10).
Beati voi, quando decidete di andare contro corrente e rimanete sordi alle logiche del mondo. Beati voi, quando mostrate la bellezza del progetto di Dio sulla famiglia e lo sostenete con la tenacia e la forza che solo il Signore può dare. Beati voi quando, attaccati da ogni parte, continuate a mostrare la gioia del mattino di Pasqua.

matrimoniosposicoppiafamigliabeatitudini

4.5/5 (2 voti)

inviato da Antonietta, inserito il 08/12/2009

PREGHIERA

44. Non vi sono che due amori   2

Michel Quoist

Non vi sono che due amori, o Signore,
l'amore di me, l'amore di te e degli altri,
ed ogni qualvolta mi amo, è un po' meno di amore per te e per gli altri,
una perdita d'amore,
perché l'amore è fatto per uscire da me e volare verso gli altri.
Ogni qualvolta ripiega su me, intisichisce; marcisce e muore.
L'amore di me, o Signore, è un veleno che sorbisco ogni giorno,
l'amore di me mi offre una sigaretta e non ne dà al mio vicino,
l'amore di me sceglie la parte migliore e tiene il posto migliore,
l'amore di me accarezza i miei sensi e ruba il pane sulla mensa degli altri,
l'amore di me parla di me e mi rende sordo all'altrui parola,
l'amore di me sceglie ed impone la scelta all'amico,
l'amore di me mi traveste e mi trucca, vuol farmi brillare eclissando gli altri;
l'amore di me mi compatisce e trascura la sofferenza altrui,
l'amore di me diffonde le mie idee e disprezza quelle altrui,
l'amore di me mi trova virtuoso, mi chiama persona per bene,
l'amore di me mi incita a guadagnar denaro, a spenderlo per il mio piacere, ad ammucchiarlo per il mio avvenire,
l'amore di me mi suggerisce di dare ai poveri per addormentare la mia coscienza e vivere in pace.
L'amore di me m'infila le pantofole e mi adagia in poltrona,
l'amore di me è soddisfatto di me e mi addormenta dolcemente.
La cosa più grave, o Signore, si è che l'amore di me è un amore rubato.
Era destinato agli altri, ne avevano bisogno per vivere, per perfezionarsi, ed io l'ho distolto.
Così l'amore di me crea la sofferenza umana,
così l'amore degli uomini per loro stessi crea la miseria umana,
tutte le miserie umane,
tutte le sofferenze umane,
la sofferenza del ragazzo che la madre batte senza motivo e quella dell'uomo che il padrone riprende davanti agli operai;
la sofferenza della ragazza brutta abbandonata nel ballo e quella della sposa che il marito non abbraccia più;
la sofferenza del bambino che si lascia a casa perché ingombra e quella del nonno deriso dai bambini perché troppo vecchio;
la sofferenza dell'uomo ansioso che non s'è potuto confidare e quella dell'adolescente inquieto di cui s'è messo in ridicolo il tormento;
la sofferenza del disperato che si butta in acqua e quella del bandito che si sta per fucilare;
la sofferenza del disoccupato che vorrebbe lavorare e quella del lavoratore che rovina la sua salute per una paga irrisoria;
la sofferenza del padre che raduna la famiglia in una sola stanza accanto ad un villino vuoto e quella della mamma i cui bambini hanno fame mentre si buttano via i resti di un banchetto;
la sofferenza di chi muore solo, mentre i famigliari nella stanza vicina attendono il momento fatale prendendo il caffè.
Tutte le sofferenze,
tutte le ingiustizie, le amarezze, le umiliazioni, le pene, gli odi, le disperazioni,
tutte le sofferenze sono una fame non saziata,
una fame di amore.
Così gli uomini hanno edificato, lentamente a forza di egoismi, un mondo snaturato che schiaccia gli uomini;
così gli uomini trascorrono sulla terra il loro tempo a rimpinzarsi del loro amore avvizzito,
mentre attorno ad essi gli altri muoiono di fame tendendo loro le braccia.
Hanno rovinato l'amore,
ho rovinato il tuo amore, o Signore.
Questa sera ti chiedo di aiutarmi ad amare.
Concedimi, o Signore, di spargere l'amore vero nel mondo.
Fa' che per mezzo mio e dei tuoi figli penetri un po' in tutti gli ambienti, in tutte le società, in tutti i sistemi economici e politici, in tutte le leggi, i contratti, i regolamenti;
fa' che penetri gli uffici, le officine, i quartieri, le case, i cine, i balli;
fa' che penetri il cuore degli uomini e che mai io dimentichi che la lotta per un mondo migliore è una lotta di amore, al servizio dell'amore.
Aiutami ad amare, o Signore,
a non sprecare le mie potenze di amore,
ad amarmi sempre meno per sempre più amare gli altri,
affinché attorno a me nessuno soffra o muoia
per aver io rubato l'amore che ad essi occorreva per vivere.

Figliuolo, mai giungerai a mettere amore a sufficienza nel cuore dell'uomo e nel mondo,
perché l'uomo ed il mondo hanno fame di un amore infinito,
e Dio solo può amare di amore senza limiti.
Ma se vuoi, figliuolo, ti do la mia vita.
Prendila in te.
Io ti do il mio cuore, lo dono ai miei figli:
ama col mio cuore, figliuolo,
e tutti insieme sazierete il mondo, e lo salverete.

amoreuomosofferenzaingiustiziapovertàegoismochiusuraaltruismoamore di sé

5.0/5 (1 voto)

inviato da Giovanna Martinetti, inserito il 07/12/2009

ESPERIENZA

45. Osiamo dire: Padre nostro...

Alessandro Pronzato, L'uomo riconciliato. Pellegrinaggio nel quotidiano per celebrare la festa della vita, Ed. Gribaudi

Ricordo una Messa celebrata all'ergastolo di Porto Azzurro.
Sentivo avvicinarsi questo momento con un senso di paura.
"...Padre nostro!".

Mi sono fermato. Li ho guardati in faccia, a uno a uno. Oltre cinquecento uomini, a cui avevano ucciso la speranza, condannati a vita. Loro dicono, con un'espressione incisiva: "Ci hanno fermato l'orologio!".

Ho detto: "Scusatemi, ma io non riesco a continuare. Se non mi aiutate voi, io, da solo, a questo incrocio pericoloso della Messa, non ce la faccio ad andare avanti. Sarei costretto a dire una parola che, se prima non si realizza qualcosa di importante tra di noi, suonerebbe come una bestemmia: "Padre nostro...".

"Ho bisogno che mi accettiate come uno di voi, un fratello, niente altro. Soltanto se mi fate questo regalo, se ci scambiamo questa fraternità, se ammettiamo da ambo le parti questa parentela, se mi considerate come uno dei vostri, oseremo dire insieme "Padre nostro!". Altrimenti io non ho il coraggio di pronunciare quella frase. Dio non è soltanto 'mio' Padre. Lui vuol esserlo di tutti. E se non mi presento davanti a lui insieme a tutti voi, nessuno ecluso, mi sento un traditore, un illegittimo... E se voi non mi riconoscete come fratello, Dio se ne va. Non si fa trovare...".

Mai come in quel momento ho scoperto la forca sconvolgente dell'espressione: "Osiamo dire".
Sì, soltanto adesso che ci siamo riconosciuti, accettati come fratelli, possiamo dire, senza paura di bestemmiare: "Padre nostro" (anzi: "Papà", Abbà!).

Siamo mal ridotti, Papà, ma siamo insieme.
Laceri, sporchi, non troppo presentabili, ma ci riconosciamo fratelli.
Ci sentiamo colpevoli "insieme".
Abbamo tutti qualcosa da farci perdonare.
Nessuno di noi è giudice dell'altro.
Nessuno di noi condanna le colpe dell'altro.
Siamo uniti da una comune solidarietà di miseria.
Soltanto per questo "osiamo dire".
E tu, siamo sicuri, ci guardi con benevolenza. Perché noi ci guardiamo senza durezza.
Tu, abbiamo la certezza, ci accetti. Perché noi ci accettiamo vicendevolmente.
Tu non ti vergogni di noi, nonostante tutto. Perché noi non rifiutiamo nessuno.
Ecco, Signore, soltanto dopo che ci siamo caricati sulle spalle questo colossale peso di tutti i nostri fratelli, osiamo dire "Padre nostro!".
E, stavolta, è preghiera.

messapadre nostrocarceresolidarietàfratellanzafraternità

5.0/5 (2 voti)

inviato da Giovannagioia, inserito il 06/12/2009

TESTO

46. La famiglia   1

Chiara Lubich

Natale è la festa della famiglia.

Ma dov'è nata la più straordinaria famiglia se non nella grotta di Betlemme? E' lì, con la nascita del Bambino, che essa ha avuto origine. E' lì che si è sprigionato per la prima volta nel cuore di Maria e di Giuseppe l'amore per un terzo membro: il Dio fatto bambino.

La famiglia: ecco una parola che contiene un immenso significato, ricco, profondo, sublime e semplice, soprattutto reale. La famiglia o c'è o non c'è.

Atmosfera di famiglia è atmosfera di comprensione, di distensione serena; atmosfera di sicurezza, di unità, di amore reciproco, di pace che prende i suoi membri in tutto il loro essere.

Vorrei che questo Natale incidesse a caratteri di fuoco nei nostri animi questa parola: famiglia.

Una famiglia i cui membri, partendo dalla visione soprannaturale, e cioè vedendo Gesù gli uni negli altri, arrivano fino alle espressioni più concrete e semplici, caratteristiche di una famiglia. Una famiglia i cui fratelli non hanno un cuore di pietra ma di carne, come Gesù, come Maria, come Giuseppe.

Vi sono fra essi coloro che soffrono per prove spirituali? Occorre comprenderli come e più di una madre. Illuminarli con la parola o con l'esempio. Non lasciar mancare, anzi accrescere attorno a loro il calore della famiglia.

Vi sono tra essi coloro che soffrono fisicamente? Siano i fratelli prediletti. Bisogna patire con loro. Cercare di comprendere fino in fondo i loro dolori.

Vi sono coloro che muoiono? Immaginate di essere al loro posto e fate quanto desiderereste fosse fatto a voi fino all'ultimo istante.

C'è qualcuno che gode per una conquista o per un qualsiasi motivo? Godete con lui, perché la sua consolazione non sia contristata e l'animo non si chiuda, ma la gioia sia di tutti.

C'è qualcuno che parte? Non lasciarlo andare senza avergli riempito il cuore di una sola eredità: il senso della famiglia, perché lo porti con sé.

E dove si va per portare l'Ideale di Cristo, nulla si potrà fare di meglio che cercare di creare con discrezione, con prudenza, ma con decisione, lo spirito di famiglia.

Esso è uno spirito umile, vuole il bene degli altri, non si gonfia....è la carità vera, completa.

Insomma, se io dovessi partire da voi, lascerei che Gesù in me vi ripetesse: "Amatevi a vicenda... affinché tutti siano uno".

famiglianataleGesùMariaGiuseppegenitorifiglicondivisionesanta famiglia

5.0/5 (1 voto)

inviato da Franco Canzian, inserito il 24/11/2009

PREGHIERA

47. Per la mamma   1

Liana Paciaroni

Signore,
con questa preghiera vogliamo ringraziarti per il regalo più bello che ci hai fatto.
Dopo le stelle nel cielo di notte, la luce e il calore del sole germe di vita, la profondità degli oceani,
l'armonia del canto degli uccelli, i mille colori del mondo, il profumo dei fiori più rari,
la vastità dell'orizzonte lontano...
dopo tutto questo, hai dato ad ognuno di noi un pezzetto del tuo cuore:
l'amore della mamma.
Lei ci tiene sotto al suo cuore per nove mesi già con tanto amore.
Mamma,
è la prima parola che ogni figlio del cielo pronuncia
e l'ultima che ogni figlio sussurra prima che al cielo torni.
Quando la pronunciamo per la prima volta ancora non ne conosciamo il senso,
ma sorridiamo quando lei si avvicina.
Mamma,
sei l'unica al mondo che dona tutto senza chiedere nulla
come Gesù, sai soltanto amare.
Sei la nostra ancora di salvezza, lo spiraglio di luce in mezzo a un cielo scuro,
un guerriero pieno d'amore che combatte per noi, una dolce melodia che consola il dolore,
la spinta giusta per scavalcare ogni barriera,
sei il riparo dal freddo e dalle tempeste, il camino che nelle notti gelide riscalda il cuore.
Sei l'angelo custode della nostra esistenza.
Un angelo al quale il Signore ha donato un corpo e un anima
e ti ha avvolta nel fuoco dello Spirito Santo per esserne sempre illuminata.
Ci accompagni per le ripide strade della vita,
schiarendoci il cammino col bagliore dei tuoi sorrisi carichi di un amore eterno ed immortale
e ci segui passo dopo passo col tuo cuore,
anche quando cominciamo a volare da soli.
Ci hai dato la luce, tu, che la luce sei.
Ci dai sicurezza con la tua dolcezza, serenità con la tua bontà,
stabilità con il tuo amore per il papà, l'unica che sa adorare i nostri difetti
e il tuo saper perdonare ci insegna ad amare.
Vivi in simbiosi con noi nei pensieri, ci vedi anche se ci nascondiamo,
ci senti anche se stiamo zitti, in segreto asciughi le nostre lacrime,
incoraggi i nostri passi, correggi i nostri errori,
e ci consoli quando siamo inconsolabili.
Sei l'arbitro indiscusso della difficile partita della vita di ogni figlio.
Ci insegni ad essere migliori, non i migliori.
In ogni tuo respiro, sguardo, sorriso, in ogni tuo gesto si legge sempre una grande felicità dell'essere mamma,
la mamma di figli come noi, forti o fragili, belli o brutti, bravi o stolti, sani o malati,
in ogni angolo di te si legge che siamo il tuo bene più prezioso,
pur sapendo che non siamo di tua proprietà.
Mamma,
non ci siamo scelti
ma Dio ti scelse per ognuno di noi perché voleva anticiparci il Paradiso.
Sei il filo sottile dell'immortalità, che lega lo spirito al corpo.
Come il Signore, anche tu operi il mistero della creazione.
Sei la serva fedele al progetto di Dio.
Nel suo progetto d'amore per te c'eravamo noi,
nel suo progetto di vita per noi
c'eri tu.
In questo momento della Santa Comunione vogliamo ringraziare il Signore,
per questo dono inestimabile,
e pregare lo Spirito Santo, che in te li ha risposti tutti i suoi sette doni,
perché ogni figlio sappia sempre curarlo e custodirlo come merita.
Amen

mammamadrematernità

5.0/5 (2 voti)

inviato da Liana Paciaroni, inserito il 21/11/2009

TESTO

48. Le beatitudini oggi   1

Tonino Bello, Alle porte del regno

Ce l'hanno spiegata con mille sfumature, e vien quasi da pensare che ogni biblista abbia un suo modo di leggere questa pagina delle beatitudini: l'unica che vorremmo salvare, se di tutti i libri della terra si dovesse sottrarre all'incendio solo il Vangelo e di tutto il Vangelo si dovesse preservare dalle fiamme soltanto una sequenza di venti righe.

Si intuisce subito che queste parole pronunciate da Gesù nascondono promesse ultraterrene.

Alludono a quegli appagamenti di gioia completa che andiamo inseguendo da tutta una vita, senza essere riusciti mai ad afferrare per intero. Fanno riferimento a quel senso di benessere pieno di gioia totalizzante che esiste solo nei nostri sogni. Traducono, come nessun altro frasario umano, le nostre nostalgie di futuro, e ci proiettano verso quei cieli nuovi e terre nuove in cui la settimana si accorcia a tal punto da conoscere solo il sabato eterno.

Imprigionano il "non ancora" - sempre abbozzato e mai esploso pienamente - di quel "risus paschalis" che ora sperimentiamo solo nella smorfia delle nostre troppo rapide convulsioni di letizia per cedere subito il posto all'amarezza del pianto.

Non ci vuol molto a capire, insomma, che sotto queste sentenze veloci del discorso della montagna c'è qualcosa di grande. E che, di quel misterioso "regno dei cieli", la cosa più ovvia che si possa dire è che rappresenta il vertice della felicità. Sì, Gesù vuol dare una risposta all'istanza primordiale che ci assedia l'anima da sempre. Noi siamo fatti per essere felici. La gioia è la nostra vocazione. E' l'unico progetto, dai nettissimi contorni, che Dio ha disegnato per l'uomo. Una gioia raggiungibile, vera, non frutto di fabulazioni fantastiche, e neppure proiezione utopica del nostro decadentismo spirituale.

Beati: provocazione all'impegno

Che cosa significhi il termine "beati" è difficile spiegarlo.

C'è chi ha voluto specularci sopra, capovolgendo addirittura il senso delle parole del Signore per utilizzarle a scopi di imbonimento sociale. Quasi Gesù avesse inteso dire: state buoni, poveri, perché la misura della vostra felicità futura sarà inversamente proporzionale alla misura della vostra felicità presente. Anzi, quante più sofferenze potete collezionare in questa vita, tanto più vi garantite il successo nell'altra.

E' questo un modo blasfemo di leggere le beatitudini, perché spinge i poveri all'inerzia, narcotizza i diseredati della terra con le lusinghe dei beni del cielo, contribuisce a mantenere in vigore un ordine sociale ingiusto e, in un certo senso, legittima la violenza di chi provoca il pianto degli oppressi dal momento che a costoro, proprio per mezzo delle lacrime, viene offerto il prezzo per potersi pagare, in contanti, il regno di Dio. C'è invece, chi ha visto nella formulazione delle beatitudini un incoraggiamento rivolto ai poveri, agli afflitti, agli umili, ai piangenti, ai perseguitati... per sostenerli con la speranza dei beni del cielo. Quasi Gesù avesse inteso dire: se a un certo punto vi sentite sfiniti per le ingiustizie che patite, tirate avanti lo stesso e consolatevi con le promesse della felicità futura. Guardate a quel che vi toccherà un giorno, e questo miraggio di beatitudine vi spronerà a camminare, così come il desiderio del riposo accelera e sostiene i passi di chi, stanchissimo, sta tornando verso casa.

Anche questo è un modo stravolto di leggere le beatitudini. Meno delittuoso del primo, ma pur sempre alienante e banale. Perché punta sull'idea della compensazione. Perché con la lusinga della meta, non spinge la gente a mutare le condizioni della strada. Perché se non proprio a rassegnarsi, induce a relativizzare la lotta, ad arrendersi senza troppa resistenza, a vedere i segni della ineluttabilità perfino dove sono evidenti le prove della cattiveria umana e a leggere i soprusi dell'uomo come causa di forza maggiore.

E c'è finalmente, il modo legittimo di leggere le beatitudini. Che consiste, essenzialmente, nel felicitarsi con i senzatetto e i senza pane, come per dire: complimenti, c'è una buona notizia! Se tutti si son dimenticati di voi, Dio ha scritto il vostro nome sulla palma della sua mano, tant'è che i primi assegnatari delle case del regno siete voi che dormite sui marciapiedi, e i primi a cui verrà distribuito il pane caldo di forno siete voi che ora avete fame.

Felicitazioni a voi che, a causa della vostra mitezza, vi vedete sistematicamente scavalcati dai più forti o dai più furbi: il Signore non solo non vi scavalca nelle sue graduatorie ma vi assicura i primi posti nella classifica generale dei meriti.

Auguri a tutti voi che state sperimentando l'amarezza del pianto e la solitudine dei giorni neri: c'è qualcuno che non rimane insensibile al gemito nascosto degli afflitti, prende le vostre difese, parteggia decisamente per voi, e addirittura si costituisce parte lesa ogni volta che siete perseguitati a causa della giustizia.

Rallegratevi voi che, in un mondo sporco di doppi sensi e sovraccarico di ambiguità camminate con cuore incontaminato, seguendo una logica che appare spesso in ribasso nella borsa valori della vita terrena ma che sarà un giorno la logica vincente.

Su con la vita voi che, sfidando le logiche della prudenza carnale, vi battete con vigore per dare alla pace un domicilio stabile anche sulla terra: non lasciatevi scoraggiare dal sorriso dei benpensanti, perché Dio stesso avalla la vostra testardaggine.

Gioia a voi che prendete batoste da tutte le parti a causa della giustizia: le vostre cicatrici splenderanno un giorno come le stimmate del Risorto!

Perché di essi sarà...

Il significato preciso della parola "beati", comunque, lasciamolo spiegare agli studiosi. Così pure lasciamo agli studiosi la fatica di spiegarci il significato dei destinatari delle beatitudini.

Se i miti, i misericordiosi, i puri di cuore, gli oppressi, gli operatori di pace... siano categorie distinte di persone o variabili dell'unica categoria dei "poveri", ci interessa fino a un certo punto.

E neppure ci interessa molto sapere se i poveri "in spirito" siano una sottospecie aristocratica di miserabili o coincidano con quei poveri banalissimi che ci troviamo ogni giorno tra i piedi.
Tre cose, comunque, ci sembra di poter dire con sicurezza.

Anzitutto, che il discorso delle beatitudini ha a che fare col discorso della felicità. Non solo perché sembra quasi che ci presenti le uniche porte attraverso le quali è possibile accedere nello stadio del regno.

Sicché chi vuole entrare nella "gioia" per realizzare l'anelito più profondo che ha sepolto nel cuore, deve necessariamente passare per una di quelle nove porte: non ci sono altri ingressi consentiti nella dimora della felicità Ma anche perché la croce, la sofferenza umana, la sconfitta... vengono presentate come partecipazione all'esperienza pasquale di Cristo che, attraverso la morte, è entrato nella gloria.

E allora; se il primo titolare delle beatitudini è lui, se è il Cristo l'archetipo sul quale si modellano tutti i suoi seguaci, è chiaro che il dolore dei discepoli, come quello del maestro, è già contagiato di gaudio, il limite racchiude in germe i sapori della pienezza, e la morte profuma di risurrezione!

La seconda cosa che ci sembra di poter affermare è che, in fondo, queste porte, pur differenti per forma, sono strutturate sul medesimo telaio architettonico, che è il telaio della povertà biblica. A coloro che fanno affidamento nel Signore, e investono sulla sua volontà tutte le "chances" della loro realizzazione umana, viene garantita la felicità da una cerniera espressiva che non lascia dubbi interpretativi: "...perché di essi sarà..."

Quel "...perché di essi sarà..." rappresenta il titolo giuridico di possesso incontestabile, che garantisce tutti i poveri nel diritto nativo di avere non solo la "legittima" ma l'intero asse patrimoniale del regno. E' un passaggio indicatore di una disposizione testamentaria così chiara che nessuno può avere il coraggio di impugnare. E', insomma, il timbro a secco che autentica in modo indiscutibile il contenuto di uno straordinario rogito notarile.

La terza cosa che possiamo dire è che, se vogliamo avere parte all'eredità del regno, o dobbiamo diventare poveri, o, almeno, i poveri dobbiamo tenerceli buoni, perché un giorno si ricordino di noi.

Insomma, o ci meritiamo l'appellativo di "beati" facendoci poveri, o ci conquistiamo sul campo quello di "benedetti", amando e servendo i poveri.

Ce lo suggerisce il capitolo venticinque di Matteo, con quel "Venite, benedetti dal Padre mio: ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo".

E' la scena del giudizio finale, pilastro simmetrico a quello delle beatitudini, che sorregge quell'arcata di impegno che ha la chiave di volta nell'opzione dei poveri.

Beati o benedetti

Veniamo a sapere, dunque, che, come titolo valido per l'usufrutto del regno, esiste un'alternativa al titolo di "povertà": quello della "solidarietà" con i poveri. Diventare, cioè, così solidali con loro da esserne il prolungamento. Fare tutt'uno con loro, così da esserne considerati quasi la protesi.

Se si vuole entrare nel regno della felicità perciò occorre vistare il passaporto o col titolo di "beati" o col titolo di "benedetti".

E' splendida l'esortazione che al termine della messa nuziale viene pronunciata sugli sposi: "Sappiate riconoscere Dio nei poveri e nei sofferenti, perché essi vi accolgano un giorno nella casa del Padre".
"Beati... perché di essi sarà...".
"Venite, benedetti, nel regno preparato per voi..."

Non potrà mai dimenticare lo stupore di Mons. Gasparini, vescovo missionario nel Sidamo, quando un giorno, indicandomi un gruppo di bambini etiopi, dagli occhi sgranati per fame, dalle gambe filiformi, devastati dalle mosche sul corpo scheletrito, mi disse quasi sottovoce: "Vedi: che questi bambini siano figli di Dio non mi sorprende più di tanto. E neppure che siano fratelli di Gesù Cristo. Ma ciò che mi sconcerta e mi esalta è che questi poveri siano eredi del paradiso! Sembra un assurdo. Ma è proprio per annunciare quest'assurdo, che sono felice di aver speso tutta la mia vita in mezzo a questa gente". "Beati... perché di essi..."
"Venite, benedetti, nel regno preparato per voi...".

Il Signore ci conceda che, nel mazzo delle carte d'identità racchiuse da quei due pronomi personali, un giorno, col visto d'ingresso, poco importa se con la sigla "beati" o con la sigla "benedetti", egli possa trovare anche la nostra.
E ci riconosca. Alle porte del regno.

beatitudiniregno di Diobeatipovertàsolidarietà

inviato da Qumran2, inserito il 06/08/2009

TESTO

49. Il Dio in cui non credo   1

Arias Juan

Sì, io non crederò mai in:
Il Dio che «sorprenda» l'uomo in un peccato di debolezza.
Il Dio che condanni la materia.
Il Dio incapace di dare una risposta ai problemi gravi di un uomo sincero e onesto che dice piangendo: «non posso».
Il Dio che ami il dolore.
Il Dio che metta la luce rossa alle gioie umane. Il Dio che sterilizza la ragione dell'uomo.
Il Dio che benedica i nuovi Caini dell'umanità.
Il Dio mago e stregone.
Il Dio che si faccia temere.
Il Dio che non si lasci dare del tu.
Il Dio nonno di cui si possa abusare.
Il Dio che si faccia monopolio di una Chiesa, di una razza, di una cultura, di una casta.
Il Dio che non abbia bisogno dell'uomo.
Il Dio lotteria con cui si vinca solo a sorte.
Il Dio arbitro che giudichi sempre col regolamento alla mano.
Il Dio solitario.
Il Dio incapace di sorridere di fronte a molte monellerie degli uomini.
Il Dio che «giochi» a condannare.
Il Dio che «mandi» all'inferno.
Il Dio che non sappia aspettare.
Il Dio che esiga sempre dieci agli esami.
Il Dio capace di essere spiegato da una filosofia.
Il Dio che adorano quelli che sono capaci di condannare un uomo.
Il Dio incapace di amare quello che molti disprezzano.
Il Dio incapace di perdonare tante cose che gli uomini condannano.
Il Dio incapace di redimere la miseria.
Il Dio incapace di capire che i «bambini» debbono insudiciarsi e sono smemorati.
Il Dio che impedisca all'uomo di crescere, di conquistare, di trasformarsi, di superarsi fino a farsi «quasi un Dio».
Il Dio che esiga dall'uomo, perché creda, di rinunciare a essere uomo.
Il Dio che non accetti una sedia nelle nostre feste umane.
Il Dio che è capito soltanto dai maturi, i sapienti, i sistemati.
Il Dio che non è temuto dai ricchi alla cui porta sta la fame e la miseria.
Il Dio capace di essere accettato e compreso dagli egoisti.
Il Dio onorato da quelli che vanno a messa e continuano a rubare e a calunniare.
Il Dio asettico, elaborato in un gabinetto scientifico da tanti teologi e canonisti.
Il Dio che non sappia scoprire qualcosa della sua bontà, della sua essenza là dove vibra un amore per quanto sbagliato.
Il Dio a cui piaccia la beneficenza di chi non pratica la giustizia.
Il Dio per cui è il medesimo peccato compiacersi alla vista di due belle gambe, distrarsi nelle preghiere, calunniare il prossimo, frodare del salario gli operai o abusare del potere.
Il Dio che condanni la sessualità.
Il Dio del «me la pagherai».
Il Dio che si penta, qualche volta di aver regalato la libertà all'uomo.
Il Dio che preferisca l'ingiustizia al disordine.
Il Dio che si accontenti che l'uomo si metta in ginocchio anche se non lavora,
il Dio muto e insensibile nella storia di fronte ai problemi angosciosi della umanità che soffre.
Il Dio a cui interessino le anime e non gli uomini.
Il Dio morfina per il rinnovamento della terra e speranza soltanto per la vita futura.
Il Dio che crei discepoli che disertano i compiti del mondo e sono indifferenti alla storia dei loro fratelli.
Il Dio di quelli che credono di amare Dio, perché non amano nessuno.
Il Dio che è difeso da quanti non si macchiano mai le mani, non si affacciano mai alla finestra, non si gettano mai nell'acqua.
Il Dio a cui piacciano quelli che dicono sempre: «tutto va bene».
Il Dio di quelli che pretendono che il sacerdote cosparga di acqua benedetta i sepolcri imbiancati delle loro sporche manovre.
Il Dio che predicano i preti che credono che l'inferno è pieno e il cielo quasi vuoto.
Il Dio dei preti che pretendono che si possa criticare tutto e tutti all'infuori di loro.
Il Dio che giustifichi la guerra.
Il Dio che ponga la legge al di sopra della coscienza.
Il Dio che sostenga una chiesa statica, immobile, incapace di purificarsi, di perfezionarsi e di evolversi.
Il Dio dei preti che hanno risposte prefabbricate per tutto.
Il Dio che neghi all'uomo la libertà di peccare.
Il Dio che non continui a scomunicare i nuovi farisei della storia.
Il Dio che non sappia perdonare qualche peccato.
Il Dio che preferisca i ricchi.
Il Dio che «causi» il cancro, che «invii» la leucemia, che «renda sterile» la donna o che «si porti via» il padre di famiglia che lascia cinque creature nella miseria.
Il Dio che possa essere pregato solo in ginocchio, che si possa incontrare solo in chiesa.
Il Dio che accetti e dia per buono tutto ciò che i teologi dicono di lui.
Il Dio che non salvi quanti non lo hanno conosciuto ma lo hanno desiderato e cercato.
Il Dio che «mandi» all'inferno il bambino dopo il suo primo peccato.
Il Dio che non dia all'uomo la possibilità di potersi condannare.
Il Dio per cui l'uomo non sia la misura di tutto il creato.
Il Dio che non vada incontro a chi lo ha abbandonato.
Il Dio incapace di far nuove tutte le cose.
Il Dio che non abbia una parola diversa, personale, propria per ciascun individuo.
Il Dio che non abbia mai pianto per gli uomini.
Il Dio che non sia la luce.
Il Dio che preferisca la purezza all'amore.
Il Dio insensibile di fronte a una rosa.
Il Dio che non possa scoprirsi negli occhi di un bambino o di una bella donna o di una madre che piange.
Il Dio che non sia presente dove vibra l'amore umano.
Il Dio che si sposi con una politica.
Il Dio di quanti pregano perché gli altri lavorino.
Il Dio che non possa essere pregato sulle spiagge.
Il Dio che non si riveli qualche volta a colui che lo desidera onestamente.
Il Dio che distrugga la terra e le cose che l'uomo ama di più invece di trasformarle.
Il Dio che non abbia misteri, che non fosse più grande di noi.
Il Dio che per renderci felici ci offra una felicità separata dalla nostra natura umana.
Il Dio che annichilisca per sempre la nostra carne invece di risuscitarla.
Il Dio per cui gli uomini valgono non per ciò che sono ma per ciò che hanno o che rappresentano.
Il Dio che accetti come amico chi passa per la terra senza far felice nessuno.
Il Dio che non poserà la generosità del sole che bacia quanto tocca, i fiori e il concime.
Il Dio incapace di divinizzare l'uomo facendolo sedere alla sua tavola e dandogli la sua eredità.
Il Dio che non sappia offrire un paradiso in cui noi ci sentiamo fratelli e in cui la luce non venga solo dal sole e dalle stelle ma soprattutto dagli uomini che amano.
Il Dio che non sia l'amore e che non sappia trasformare in amore quanto tocca.
Il Dio che abbracciando l'uomo già qui sulla terra non sappia comunicargli il gusto, la gioia, il piacere, la dolce sensazione di tutti gli amori umani messi insieme.
Il Dio incapace di innamorare l'uomo.
Il Dio che non si sia fatto vero uomo con tutte le sue conseguenze.
Il Dio che non sia nato dal ventre di una donna.
Il Dio che non abbia regalato agli uomini la sua stessa madre.
Il Dio nel quale io non possa sperare contro ogni speranza.
Sì, il mio Dio è l'altro Dio.

Diocrederefede

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inviato da Busato Don Paolo, inserito il 19/07/2009

RACCONTO

50. L'elemosina   6

Bruno Ferrero, Cerchi nell'acqua

Un giorno di molto tempo fa, in Inghilterra, una donnetta infagottata in un vestito lacero percorreva le stradine di un villaggio, bussando alle porte delle case e chiedendo l'elemosina. Molti le rivolgevano parole offensive, altri incitavano il cane a farla scappare. Qualcuno le versò in grembo tozzi di pane ammuffito e patate marce. Solo due vecchietti fecero entrare in casa la povera donna.

«Siediti un po' e scaldati», disse il vecchietto, mentre la moglie preparava una scodella di latte caldo e una grossa fetta di pane. Mentre la donna mangiava, i due vecchietti le regalarono qualche parola e un po' di conforto.

Il giorno dopo, in quel villaggio, si verificò un evento straordinario. Un messo reale portò in tutte le case un cartoncino che invitava tutte le famiglie al castello del re. L'invito provocò un gran trambusto nel villaggio, e nel pomeriggio tutte le famiglie, agghindate con gli abiti della festa, arrivarono al castello. Furono introdotti in una imponente sala da pranzo e ad ognuno fu assegnato un posto.

Quando tutti furono seduti, i camerieri cominciarono a servire le portate. Immediatamente si alzarono dei borbottii di disappunto e di collera. I solerti camerieri infatti rovesciavano nei piatti bucce di patata, pietre, tozzi di pane ammuffito. Solo nei piatti dei due vecchietti, seduti in un angolino, venivano deposti con garbo cibi raffinati e pietanze squisite. Improvvisamente entrò nella sala la donnetta dai vestiti stracciati. Tutti ammutolirono. «Oggi - disse la donna - avete trovato esattamente ciò che mi avete offerto ieri».

Si tolse gli abiti malandati. Sotto indossava un vestito dorato. Era la Regina.

Un riccone arrivò in Paradiso. Per prima cosa fece un giro per il mercato e con sorpresa vide che le merci erano vendute a prezzi molto bassi. Immediatamente mise mano al portafoglio e cominciò a ordinare le cose più belle che vedeva.
Al momento di pagare porse all'angelo, che faceva da commesso, una manciata di banconote di grosso taglio. L'angelo sorrise e disse: "Mi dispiace, ma questo denaro non ha alcun valore".
"Come?", si stupì il riccone.
"Qui vale soltanto il denaro che sulla terra è stato donato", rispose l'angelo.

Oggi, non dimenticare il tuo capitale per il Paradiso.

darecondivisionedonoamoregratuitàserviziocaritàdonareelemosinavita eternaparadiso

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inviato da Davide Bonadeo, inserito il 18/07/2009

TESTO

51. Confessio Fidei - Narratio amoris   1

Bruno Forte, Confessare la fede narrando l'Amore

Una confessione di fede cristiana non è altro che la «sanctae Trinitatis relata narratio» (Concilio XI di Toledo: DS 528): il racconto dell'amore del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, cui abbiamo creduto sulla parola dei testimoni delle nostre origini, trasmessa nella vivente tradizione ecclesiale («relata narratio»). Chi confessa la fede, parla di Dio raccontando l'Amore, così come si è rivelato nell'evento trinitario di Pasqua:

Credo in te, Padre,
Dio di Gesù Cristo,
Dio dei nostri Padri e nostro Dio:
tu, che tanto hai amato il mondo
da non risparmiare
il tuo Figlio Unigenito
e da consegnarlo per i peccatori,
sei il Dio, che è Amore.
Tu sei il Principio senza principio dell'Amore,
tu che ami nella pura gratuità,
per la gioia irradiante di amare.
Tu sei l'Amore che eternamente inizia,
la sorgente eterna da cui scaturisce
ogni dono perfetto.
Ti ci hai fatti per te,
imprimendo in noi la nostalgia del tuo Amore,
e contagiandoci la tua carità
per dare pace al nostro cuore inquieto.

Credo in te, Signore Gesù Cristo,
Figlio eternamente amato,
mandato nel mondo per riconciliare
i peccatori col Padre.
Tu sei la pura accoglienza dell'Amore,
Tu che ami nella gratitudine infinita,
e ci insegni che anche il ricevere è divino,
e il lasciarsi amare non meno divino
che l'amare.
Tu sei la Parola eterna uscita dal Silenzio
nel dialogo senza fine dell'Amore,
l'Amato che tutto riceve e tutto dona.
I giorni della tua carne,
totalmente vissuti in obbedienza al Padre,
il silenzio di Nazareth, la primavera di Galilea,
il viaggio a Gerusalemme,
la storia della passione,
la vita nuova della Pasqua di Resurrezione,
ci contagiano il grazie dell'amore,
e fanno di noi, nella sequela di te,
coloro che hanno creduto all'Amore,
e vivono nell'attesa della Tua venuta.

Credo in te, Spirito Santo,
Signore e datore di vita,
che ti libravi sulle acque
della prima creazione,
e scendesti sulla Vergine accogliente
e sulle acque della nuova creazione.
Tu sei il vincolo della carità eterna,
l'unità e la pace
dell'Amato e dell'Amante,
nel dialogo eterno dell'Amore.
Tu sei l'estasi e il dono di Dio,
Colui in cui l'amore infinito
si apre nella libertà
per suscitare e contagiare
amore.
La tua presenza ci fa Chiesa,
popolo della carità,
unità che è segno e profezia
per l'unità del mondo.
Tu ci fai Chiesa della libertà,
aperti al nuovo
e attenti alla meravigliosa varietà
da te suscitata nell'amore.
Tu sei in noi ardente speranza,
tu che unisci il tempo e l'eterno,
la Chiesa pellegrina e la Chiesa celeste,
tu che apri il cuore di Dio
all'accoglienza dei senza Dio,
e il cuore di noi, poveri e peccatori,
al dono dell'Amore, che non conosce tramonto.
In te ci è data l'acqua della vita,
in te il pane del cielo,
in te il perdono dei peccati
in te ci è anticipata e promessa
la gioia del secolo a venire.

Credo in te, unico Dio d'Amore,
eterno Amante, eterno Amato,
eterna unità e libertà dell'Amore.
In te vivo e riposo,
donandoti il mio cuore,
e chiedendoti di nascondermi in te
e di abitare in me.
Amen!

credoDioamore di DiofedePadreFiglioSpirito Santo

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inviato da Qumran2, inserito il 15/07/2009

TESTO

52. Digiuno, elemosina e preghiera   1

san Giovanni Maria Vianney, Omelia per la VII Domenica dopo Pentecoste

Leggiamo nella Sacra Scrittura che il Signore diceva al suo popolo, parlandogli della necessità di fare delle opere buone per piacergli e per far parte del numero dei santi: «Le cose che vi chiedo non sono al di sopra delle vostre forze; per farle, non è necessario innalzarvi fino alle nubi, né attraversare i mari. Tutto ciò che vi comando è, per così dire, a portata di mano, nel vostro cuore e attorno a voi». Posso ripetere la stessa cosa: è vero, non avremo mai la fortuna di andare in cielo se non facciamo opere buone; ma non ci spaventiamo: ciò che Gesù Cristo ci chiede, non sono cose straordinarie, né al di sopra delle nostre capacità; non chiede a noi di stare tutto il giorno in chiesa, neanche di fare grandi penitenze, cioè fino a rovinare la nostra salute, e neppure di dare tutto il nostro avere ai poveri (benché sia verissimo che siamo obbligati a dare ai poveri quanto possiamo, e che lo dobbiamo fare per piacere a Dio che ce lo comanda e per riscattare i nostri peccati). È pur vero che dobbiamo praticare la mortificazione in molte cose, domare le nostre inclinazioni...

Ma, mi direte voi, ce ne sono più d'uno che non possono digiunare, altri che non possono dare l'elemosina, altri che sono talmente occupati che spesso riescono a stento a fare la loro preghiera al mattino e alla sera; come dunque potranno salvarsi, dal momento che bisogna pregare di continuo e bisogna necessariamente fare opere buone per conquistare il cielo?

Visto che tutte le vostre opere buone si riducono alla preghiera, al digiuno e all'elemosina, potremo fare facilmente tutto questo, come vedrete.

Sì, anche se avessimo una cattiva salute o fossimo addirittura infermi, c'è un digiuno che possiamo facilmente fare. Fossimo pure del tutto poveri, possiamo ancora fare l'elemosina e, per quanto grandi fossero le nostre occupazioni, possiamo pregare il buon Dio senza essere disturbati nei nostri affari, pregare alla sera e al mattino, e persino tutto il giorno. Ed ecco come.

Noi pratichiamo un digiuno che è assai gradito a Dio, ogni volta che ci priviamo di qualche cosa che ci piacerebbe fare, perché il digiuno non consiste tutto nella privazione del bere e del mangiare, ma nella privazione di ciò che riesce gradito al nostro gusto; gli uni possono mortificarsi nel modo di aggiustarsi, gli altri nelle visite che vogliono fare agli amici che hanno piacere di vedere, gli altri, nelle parole e nei discorsi che amano tenere; questi fa un grande digiuno ed è molto gradito a Dio allorché combatte il suo amor proprio, il suo orgoglio, la sua ripugnanza a fare ciò che non ama fare, o stando con persone che contrariano il suo carattere, i suoi modi di agire...

Vi trovate in una occasione nella quale potreste soddisfare la vostra golosità? Invece di farlo, prendete, senza farlo notare, ciò che vi piace di meno... Sì, se volessimo applicarci bene, non soltanto troveremmo di che praticare ogni giorno il digiuno, ma ancora ad ogni momento della giornata.

Ma, ditemi, c'è ancora un digiuno che sia più gradito a Dio del fare e del soffrire con pazienza certe cose che spesso vi sono molto sgradevoli? Senza parlare delle malattie, delle infermità e di tante altre afflizioni che sono inseparabili dalla nostra miserabile vita, quante volte non abbiamo l'occasione di mortificarci, accettando ciò che ci incomoda e ci ripugna? Ora è un lavoro che ci annoia, ora una persona antipatica, altre volte è un'umiliazione che ci costa di sopportare. Ebbene, se accettiamo tutto questo per il buon Dio, e unicamente per piacergli, questi sono i digiuni più graditi a Dio...

Diciamo che c'è una specie d'elemosina che tutti possono fare.

Vedete bene che l'elemosina non consiste soltanto nel nutrire chi ha fame, e nel dare vestiti a chi non ne ha; ma sono tutti i favori che si rendono al prossimo, sia per il corpo, sia per l'anima, quando lo facciamo in spirito di carità. Quando abbiamo poco, ebbene, diamo poco; e quando non abbiamo, diamo in prestito, se lo possiamo. Colui che non può provvedere alle necessità degli ammalati, ebbene, può visitarli, dir loro qualche parola di consolazione, pregare per loro, affinché facciano buon uso della loro malattia. Sì, tutto è grande e prezioso agli occhi di Dio, quando agiamo per un motivo di religione e di carità, perché Gesù Cristo ci dice che un bicchiere d'acqua non rimane senza ricompensa. Vedete dunque che, benché siamo assai poveri, possiamo facilmente fare l'elemosina.

Dico che, per grandi che siano le nostre occupazioni, c'è una specie di preghiera che possiamo fare di continuo, anche senza distoglierci dalle nostre occupazioni, ed ecco come si fa. Consiste, in tutto quello che facciamo, nel non fare altro che la volontà di Dio. Ditemi, vi pare molto difficile lo sforzarsi di fare soltanto la volontà di Dio in tutte le nostre azioni, per quanto piccole esse siano?

digiunaredigiunopreghieraelemosinaquaresima

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inviato da Parrocchia S. Giovanni M. Vianney - Roma, inserito il 26/06/2009

TESTO

53. Vegliare

John Henry Newman

E' necessario studiare da vicino la parola "vegliare"; bisogna studiarla perché il suo significato non è così evidente come si potrebbe credere a prima vista e perché la Scrittura la adopera con insistenza. Dobbiamo non soltanto credere, ma vegliare; non soltanto amare, ma vegliare; non soltanto obbedire, ma vegliare.

Vegliare perché? Per questo grande evento: la venuta di Cristo.

Cos'è dunque vegliare? Credo lo si possa spiegare così. Voi sapete cosa significa attendere un amico, attendere che arrivi e vederlo tardare? Sapete cosa significa essere in compagnia di gente che trovate sgradevole e desiderare che il tempo passi e scocchi l'ora in cui potrete riprendere la vostra libertà? Sapete cosa significa essere nell'ansia per una cosa che potrebbe accadere e non accade; o di essere nell'attesa di qualche evento importante che vi fa battere il cuore quando ve lo ricordano e al quale pensate fin dal momento in cui aprite gli occhi?

Sapete cosa significa avere un amico lontano, attendere sue notizie e domandarvi giorno dopo giorno cosa stia facendo in quel momento e se stia bene?

Sapete cosa significa vivere per qualcuno che è vicino a voi a tal punto che i vostri occhi seguono i suoi, che leggete nella sua anima, che vedete tutti i mutamenti della sua fisionomia, che prevedete i suoi desideri, che sorridete del suo sorriso e vi rattristate della sua tristezza, che siete abbattuti quando egli è preoccupato e che vi rallegrate per i suoi successi?

Vegliare nell'attesa di Cristo è un sentimento di rassomiglianza a questo, per quel tanto che i sentimenti di questo mondo sono in grado di raffigurare quelli dell'altro mondo.

Veglia con Cristo chi non perde di vista il passato mentre sta guardando all'avvenire, e completando ciò che il suo Salvatore gli ha acquistato, non dimentica ciò che egli ha sofferto per lui.

Veglia con Cristo chi fa memoria e rinnova ancora nella sua persona la croce e l'agonia di Cristo, e riveste con gioia questo mantello di afflizione che il Cristo ha portato quaggiù e ha lasciato dietro a sé quando è salito al cielo.

avventoattesavegliavegliamorterapporto con Dio

5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 22/06/2009

PREGHIERA

54. Preghiera a Maria per i sacerdoti   1

Vergine Madre, figlia del tuo Figlio, donna dell'Ascolto e del Servizio, a te ci rivolgiamo per preparare con la nostra preghiera l'anno dedicato alla santificazione dei sacerdoti.

Ti affidiamo ciascuno di loro, come Gesù sulla croce ti ha affidato il discepolo Giovanni. Ti chiediamo di accompagnarli con la tua bontà materna, perché ogni giorno ripetano il loro "sì" a Dio, come tu stessa hai fatto a Nazaret e in tutta la tua vita, fin sotto la croce e oltre.

Tu eri presente con gli apostoli nel cenacolo e con loro hai invocato e poi accolto il dono dello Spirito, che li ha resi coraggiosi testimoni del tuo Figlio, crocifisso e risorto, e li ha sostenuti nell'annunciare il Vangelo ad ogni creatura. Tu stessa li hai accompagnati con la tua preghiera, e la tenerezza di Madre.

Accompagna anche i nostri sacerdoti, soprattutto quando intraprendono strade nuove e non facili per annunciare anche nel nostro tempo la bellezza dell'amore del Padre. Aiutali ad essere autentici e fedeli, generosi e misericordiosi, puri di cuore e solleciti verso ogni persona.

Sostienili nelle giornate difficili, e aiutali a rialzarsi quando sperimentano la debolezza della loro risposta.

Fa' che siano attenti ascoltatori della Parola del tuo Figlio e annunciatori instancabili di questo tesoro che il Cristo ha affidato alla Chiesa perché sia seme gettato nei solchi dell'umanità.

Sostieni chi fatica ad essere fedele, e dona la consolazione che aiuta a superare i momenti difficili. Invoca con loro e per loro lo Spirito perché siano servitori della comunità sull'esempio e con la forza del Figlio tuo, che si è fatto servo per amore e ha indicato nel servizio uno dei modi per renderlo presente e vivo in mezzo ai suoi.

Aiutali a spezzare per tutti il Pane della Parola e dell'Eucaristia e ad essere compagni di viaggio per tutti coloro che cercano nel Vangelo la risposta alle tante domande della vita, il sollievo alle tante sofferenze che spesso ci rendono tristi.

Accompagnali tutti con il tuo amore di Madre; o clemente, o pia, o dolce Vergine Maria!

mariasacerdotisacerdoziopretipresbiteri

1.0/5 (1 voto)

inviato da Don Remigio Menegatti, inserito il 19/06/2009

TESTO

55. Sete di risurrezione   1

Mariangela Forabosco

E' arrivata la Primavera ed ogni anno, in natura, si ripete puntuale il miracolo della rinascita, e tutte le creature rinnovano in sé l'energia vitale per dimostrare e donare, ad un mondo distratto ed indifferente, la potenza creatrice e amorosa del Creatore.

Passeggiando in giardino, davanti al mistero di una piccolissima gemma che diventa un turgido bocciolo, quasi geloso di svelare la meraviglia dei suoi petali, mi afferra uno stupore crescente.

C'è un giardino, però, in cui non è necessario aspettare la primavera per vedere realizzati i miracoli della creazione ed è il " cuore dell'uomo".

Dio ha creato l'uomo e la donna per "sete d'amore", perché, essendo lui amore, non poteva fare a meno di amare e di essere amato. Ed ecco il miracolo: uomo e donna, creati a sua immagine, ricevono il suo amore e sono chiamati a diventarne messaggeri e testimoni, per diffonderlo a chi sta loro accanto e al mondo intero.

Le vite che si donano diventano, così, veicolo dell'Amore di Dio e vanno a saziare l'incontenibile e misteriosa sete d'amore delle creature, come un fiore sbocciato e donato sazia la sete di bellezza e di armonia.

L'uomo, però, non ha accolto il dono dell'Amore di Dio, che significa donarsi, perdonarsi, compatirsi, comprendersi, ed ha messo al primo posto l'amore per se stesso e per gli idoli creati dalle sue stesse mani, diventandone schiavo (Salmo 113 B, 4-8). Allora Dio, non potendo fare a meno di amare l'uomo e di essergli fedele, ha giocato l'ultima carta per salvarlo ed è sceso in terra nella Persona del Figlio, Gesù Cristo, facendosi "peccato" ( cfr. 2 Corinzi 5,21 ) lui stesso, Innocente, per liberare l'umanità dal peccato e dalla morte. Gesù, sulla terra, ha camminato con gli uomini ed ha parlato del Padre che è nei Cieli come del "nostro Padre" ( Matteo 6,9 ) che, dalla creazione, non vuole forzare i figli ad amarlo, avendoli resi liberi di accettare o rifiutare il suo amore. Il Padre, però, non smette mai di aspettare che i figli tornino per lasciarsi amare da lui, per poter dire loro parole d'amore e fare festa ( Luca 15, 11-24 )! Gli uomini, ancora una volta, non hanno saputo e voluto rispondere con l'amore alla richiesta d'amore del loro Creatore e così l'hanno ucciso: hanno crocifisso l'amore, pensando di poter togliere di mezzo l'imbarazzante "Rabbì " che parlava di cose troppo scomode per le coscienze: pace, perdono, conversione, riconciliazione, giustizia, dignità umana, strane beatitudini che fanno "vincere" i poveri, gli ultimi, gli affamati, i perseguitati..., amore addirittura per i nemici, misericordia, dono totale di se stessi agli altri fino a perdere la propria vita...
"Il mondo non lo riconobbe" (Giovanni 1,10).

Ognuno di noi c'era, quel venerdì che chiamiamo Santo, sul Calvario, ed ognuno di noi, con la parte del proprio cuore in cui vince l'avidità, la gelosia, l'invidia, la lussuria, il risentimento, la rabbia, ha battuto i chiodi nelle mani e nei piedi dell'Innocente. "Dio è morto", ha scritto qualcuno. Si, Dio è morto facendo suo il peccato e la morte dell'uomo, ma non poteva finire così, con il buio di quel venerdì e col silenzio di quel sabato. Se Dio fosse morto, tutta la creazione sarebbe morta, io sarei morta, la primavera sarebbe morta.

No! Dio ha trascinato in sé la morte e l'ha distrutta, trasformandola in vita, nella sua vita, che è immortale, incorruttibile (Corinzi 15, 20-27, 53-55). Essendo vero uomo, Gesù ha, con la sua Passione, Morte e Risurrezione, innalzato a sé ogni uomo, ogni vita umana (Giovanni 3,14-17) donando ognuno di noi all'abbraccio misericordioso del Padre, che dalla creazione non aspetta altro che ritorniamo a lui, bisognosi del suo perdono e, a nostra volta, capaci di perdonare.

La sete d'amore di Dio lo ha portato a farsi lui stesso creatura, affinché nel cuore dell'uomo si continuasse a compiere il miracolo per cui era stato creato: l'amore vissuto, rinnovato, donato, gratuito, generoso, spassionato, umile, felice, sofferto, offerto, coraggioso, sorridente, radicale, ingenuo, totale.

La capacità di amarsi viene solo da Dio e se ci allontaniamo da lui, nostra unica fonte del vero amore, perdiamo la capacità di amare e accadono le cose che quotidianamente tutti vediamo e di cui ci lamentiamo. "La società va male", diciamo, "è tutta colpa della società...".

No, sono io, siamo noi che abbiamo perso il contatto con la fonte della vera vita, diventando schiavi dei vitelli d'oro che ci siamo costruiti.

L'uomo, però, ha fame d'amore, continua a cercare qualcuno o qualcosa da amare, perché è Dio stesso che ha posto nel nostro cuore il seme del suo amore.

Che fare? Perché non provare a diventare "distributori" consapevoli di amore? Perché abbiamo così tanta paura di amare? Perché temiamo di assecondare il nostro bisogno di Risurrezione? Perché non ci opponiamo alla tentazione di seguire la corrente, che ci invita a privilegiare i pensieri e le scelte di morte?

Noi cristiani siamo tali perché crediamo in Cristo, il Vivente, il Risorto, Colui grazie al quale siamo destinati, a nostra volta, ad essere eternamente viventi e risorti: perché, allora, non scegliere di vivere secondo la Sua Parola, che è Parola di vita eterna? (Giovanni 6, 67-69)

Se i genitori, ad esempio, avessero il coraggio di raccontare ai loro figli le meraviglie che ogni giorno compie in noi l'Amore di Dio, se vivessero la Risurrezione nelle scelte di vita quotidiane, se trasmettessero loro la Speranza che deriva dalla Risurrezione di Cristo, allora ogni giorno sarebbe Pasqua, ogni giorno l'amore vincerebbe e non saremmo sconvolti da tante notizie che parlano di delitti in famiglia, di ragazzi che filmano violenze sui coetanei più deboli, di famiglie distrutte da odi e rancori, di stragi del sabato sera...L'elenco non finirebbe mai, ma io propongo che ognuno di noi, nel suo piccolo, anziché soffermarsi sulle cose negative, faccia l'elenco di tutte le cose belle che ogni giorno ci vengono donate. Cerchiamo poi di arricchire l'elenco con le cose belle, dettate dall'amore, che nel nostro quotidiano possiamo fare. Facciamo crescere, nel giardino del nostro cuore, la parte divina che Dio ha preso da sé e ci ha donato.

Scegliamo consapevolmente di soddisfare la nostra "sete di Risurrezione", affinché il Signore, nostro Dio, possa dirci parole di bene e d'Amore per l'eternità.

risurrezioneamoreparolafamiglia

inviato da Mariangela Forabosco, inserito il 02/06/2009

TESTO

56. Farmaco d'immortalità   2

Suor M. Gioia Agnetta

Farmaco d'immortalità: l'Eucaristia

Composizione JHS non è una formula chimica, ma sigla che marca il Pane Eucaristico, Pane di frumento, consacrato nella Messa, dallo Spirito Santo di Dio, nelle mani del sacerdote e divenuto Corpo e Sangue vivo di Cristo Gesù; destinato ad essere mangiato dai battezzati convocati in Assemblea alla Celebrazione e conservato per gli invitati assenti.

JHS tre lettere dell'alfabeto latino, iniziali di tre parole:
Jesus = Gesù;
Hominum = degli uomini;
Salvator = Salvatore.
Gesù Salvatore degli uomini.

Come si presenta: allo sguardo appare un dischetto bianco di pane e nel calice un po' di vino. In effetti è il corpo e il sangue del Signore Gesù, vivo e presente per noi. Apparenza umile, silenziosa. Solo chi possiede la parola del Signore può capire il silenzio dell'Eucaristia.

Indicazioni: Anemia spirituale, perdita del gusto delle cose di Dio, disorientamento nella guida della propria vita e della propria famiglia, indifferenza, idolatria. Facilità di giudizio di condanna su tutto e su tutti, irascibilità, indebolimento della decisionalità a partire dal Vangelo. Disidratazione, sterilità di opere, causate dal poco bere linfa della Vite di cui si è tralci. Farmaco indicato non appena le conoscenze e le informazioni del proprio credo appaiono dei fantasmi, come numerose piante di un bosco nel quale si esita ad addentrarsi; difficoltà di dialogo, senso di emarginazione, di orfanezza, percezione di isolamento. Nausea per il sacro.

Controindicazioni: Nessuna, per nessuno al mondo, nonostante una Bimillennaria sperimentazione del suo Principio Attivo; l'JHS è risultato l'unico farmaco omopato-compatibile

Posologia: Bambini: ½ ora / 45 minuti alla settimana sotto vigile osservazione e gustosa scorta dei genitori a Messa.

Adulti: la cura va da 1 ora alla settimana (Messa-Domenicale), a un'aggiunta di ½ ora al giorno. Il dosaggio si intensifica con 1 ora al giorno, quando l'attrazione di Gesù interessa le pulsazioni del cuore, si rende sintomatico l'invaghimento per Dio e si sta bene con lui. La frequenza battiti in consonanza a quelli del cuore di Cristo, i pensieri a quelli di lui, e così i sogni e progetti, sono test di dosaggio equo. N.B. Il farmaco agisce solamente se si combina alla volontà di volere guarire.

Effetti indesiderati - Reazioni negative possono apparire non in chi assume il farmaco ma in parenti e amici che possono definire l'assenza (del paziente, di mezz'ora o di un'ora) un danno per la famiglia. Derisioni e insulti, attribuzione di bigottismo e di debolezza. Altri effetti indesiderati da JHS: Assuefazione, indifferenza o nei casi più gravi, acquisizione del magico.

Precauzioni - Non agitarsi prima dell'uso, prima di decidersi a fare questo passo. La notizia che l'assunzione del farmaco fa cambiar vita e può attivare la guarigione della memoria, della volontà, della capacità di giudicare e di progettare, di fraternizzare,... farla circolare nell'ambiente con cautela, ma senza prorogarla. La fede si rafforza donandola. Nel caso di un convincimento debole, frequentare opportune catechesi parrocchiali o gruppi e movimenti ecclesiali. Esporsi al rischio di far parte della comunità di fede a tutti gli effetti. Le forze del male non prevarranno.

Scadenza - Mt 28,20 - Il prodotto, in sé corruttibile, veicola e deposita germi positivi di incorruttibilità e di risurrezione. Viene confezionato ogni giorno e adempie la promessa di Gesù: "Sarò con voi sempre, fino alla fine del mondo".

eucaristiacorpocomunione

inviato da Suor M.Gioia Agnetta, inserito il 02/06/2009

RACCONTO

57. Il pane della fratellanza   3

Si racconta di una anziana contadina, di nome Giulia, che viveva in una fattoria con i suoi tre figli, Roberto, Michele e Francesco. Il marito le era morto durante la guerra. I tre figli, di cuore buono, erano però sempre pronti a litigare. Si volevano bene ma, bastava una parola in più ed erano litigi senza fine. A quel punto interveniva Mamma Giulia e ben presto i figli ritrovavano pace.

La mamma divento vecchia, allora i figli si preoccuparono: "Mamma, cerca di star sempre bene e di non morire, perché quando litighiamo chi rimetterà la pace fra noi?". "Ma io dovrò pur morire prima o poi", rispose la mamma. "Allora, chiesero i figli inventa qualcosa perché quando tu non ci sarai più noi potremo rifare pace e volerci bene".

Mamma Giulia pensò a lungo alla cosa e un giorno prese un foglio, vi scrisse come dovevano essere divisi i campi fra i tre figli e aggiunse alcune raccomandazioni perché andassero sempre d'accordo. La mamma un giorno si ammalò gravemente e dal suo letto chiamò i figli, consegnò loro il suo testamento, poi prese un pane, ne fece tre parti, ne diede una a ciascuno e raccomandò: "Mangiate e cercate di volervi bene". I figli, commossi, mangiarono il pane della mamma, bagnandolo con le loro lacrime. Di lì a pochi giorni Giulia morì.

Roberto, Michele e Francesco si divisero serenamente i campi e ognuno si mise a lavorare il suo. Ma un giorno Roberto e Michele scoprirono che il confine fra i loro campi non era chiaro. Ben presto si misero a litigare. Stavano per fare a botte, quando arrivò Francesco. Egli si mise in mezzo a loro: "Non ricordate la mamma? Perché non facciamo come quel giorno che ci ha chiamati al suo capezzale?". Presero un pane, ne fecero tre parti, ne presero una per ciascuno e si misero a mangiare. Mentre mangiavano nella mente di Roberto e Michele si riaccese l'immagine della mamma; il suo volto e le sue parole scendevano nel loro cuore come una medicina.
Scoppiarono in un pianto dirotto e fecero pace.

La pace non durava molto, perché occasioni di litigio ne incontravano spesso. Però avevano imparato la soluzione: ogni volta che si creava un'occasione per litigare, i tre fratelli si sedevano attorno ad un tavolo, prendevano un pane, lo mangiavano insieme; ben presto scompariva la rabbia e tornava la pace.

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inserito il 20/05/2009

TESTO

58. La paura del silenzio

Pier Angelo Piai

Oggi qualsiasi evento è oggetto di discussione, dibattito, polemiche, confronto. Pare proprio che il silenzio non venga preso molto in considerazione. Ma cosa significa realmente fare silenzio?

La mentalità comune pensa che silenzio sia semplicemente la mancanza di parola. Ma ogni parola espressa è il nostro pensiero mediato dalla voce.

Essa è estremamente importante per la nostra società ma ha anche dei limiti: non arriverà mai ad esprimere perfettamente ciò che vorremmmo perché ogni fonema, per quanto sia molto utile, è sempre una cristallizzazione del nostro retaggio culturale.

Ecco perché il vero silenzio interiore può contribuire a farci percepire meglio la ricchezza e la povertà di ogni parola.

Nel comunicare usiamo molti luoghi comuni che riecheggiano dall'ambiente esterno, dalle persone che frequentiamo e dai mass-media. Essi non sono in realtà il frutto del nostro pensiero più genuino, ma riflessi condizionati che si ripercuotono nei muscoli della lingua.

Siamo costantemente immersi nei luoghi comuni e per chi se ne accorge la frequentazione sociale è spesso pesante e monotona proprio per questo.

Bisogna considerare, allora, un altro tipo di silenzio che è molto più interiore di quello che si pensa.

Se nel silenzio siamo realmente attenti a come funziona la nostra mente ci accorgiamo di non saper osservare senza associare all'oggetto della nostra osservazione parole già pre-confezionate. Questo snatura la nostra coscienza originale perché ci serviamo di concetti già filtrati dalla mentalità comune e quindi la nostra riflessione non è realmente creativa e perde la sua originalità.

E' nel silenzio che noi riusciamo a trascendere ogni forma di linguaggio stereotipato. In esso entriamo nella dimensione del meta-linguaggio, il quale ci aiuta a padroneggiare meglio la situazione per non scadere nei luoghi comuni e lasciarci condizionare dalla mentalità corrente.

Ciò naturalmente richiede grande attenzione e spirito di osservazione.

Il vero silenzio interiore, quindi, consiste nel porre tra parentesi concetti, immagini, e persino fonemi acquisiti sin dall'infanzia. Ci vuole sagacia, avvedutezza e coraggio perché la nostra mente è avida di contenuti e teme il vuoto. Anticamente andare nel deserto significava rientrare in se stessi per fronteggiare meglio le situazioni sociali. I monasteri di clausura usano ancora l'espressione "fare deserto".

La mentalità comune naviga perfettamente al contrario e teme il silenzio. Si aderisce a ideologie, partiti, istituzioni ecc. anche perché si vuole delegare il pensiero ad altri. Scaltri oratori parlano molto per dire nulla in molti campi.

L'umanità oggi è ancora in pericolo perché non sa cosa significhi fare il vero silenzio interiore, il quale è il motore del vero progresso civile ed etico.

In esso si eviterebbero guerre e conflitti vari, ingiustizie sociali ed economiche, plagi e mistificazioni, errori madornali.

E qui calza a proposito un aforisma del grande poeta e scrittore francese Alfred de Vigny: "Solo il silenzio è grande; il resto è debolezza".

silenziointerioritàesterioritàlinguaggiocondizionamenticultura

inviato da Pier Angelo Piai, inserito il 03/05/2009

TESTO

59. Lettera sulla preghiera   7

Bruno Forte, Messaggio per la Quaresima 2007

Mi chiedi: perché pregare? Ti rispondo: per vivere.

Sì: per vivere veramente, bisogna pregare. Perché? Perché vivere è amare: una vita senza amore non è vita. È solitudine vuota, è prigione e tristezza. Vive veramente solo chi ama: e ama solo chi si sente amato, raggiunto e trasformato dall'amore. Come la pianta che non fa sbocciare il suo frutto se non è raggiunta dai raggi del sole, così il cuore umano non si schiude alla vita vera e piena se non è toccato dall'amore. Ora, l'amore nasce dall'incontro e vive dell'incontro con l'amore di Dio, il più grande e vero di tutti gli amori possibili, anzi l'amore al di là di ogni nostra definizione e di ogni nostra possibilità. Pregando, ci si lascia amare da Dio e si nasce all'amore, sempre di nuovo. Perciò, chi prega vive, nel tempo e per l'eternità. E chi non prega? Chi non prega è a rischio di morire dentro, perché gli mancherà prima o poi l'aria per respirare, il calore per vivere, la luce per vedere, il nutrimento per crescere e la gioia per dare un senso alla vita.

Mi dici: ma io non so pregare! Mi chiedi: come pregare? Ti rispondo: comincia a dare un po' del tuo tempo a Dio. All'inizio, l'importante non sarà che questo tempo sia tanto, ma che Tu glielo dia fedelmente. Fissa tu stesso un tempo da dare ogni giorno al Signore, e daglielo fedelmente, ogni giorno, quando senti di farlo e quando non lo senti. Cerca un luogo tranquillo, dove se possibile ci sia qualche segno che richiami la presenza di Dio (una croce, un'icona, la Bibbia, il Tabernacolo con la Presenza eucaristica...). Raccogliti in silenzio: invoca lo Spirito Santo, perché sia Lui a gridare in te "Abbà, Padre!". Porta a Dio il tuo cuore, anche se è in tumulto: non aver paura di dirGli tutto, non solo le tue difficoltà e il tuo dolore, il tuo peccato e la tua incredulità, ma anche la tua ribellione e la tua protesta, se le senti dentro.

Tutto questo, mettilo nelle mani di Dio: ricorda che Dio è Padre - Madre nell'amore, che tutto accoglie, tutto perdona, tutto illumina, tutto salva. Ascolta il Suo Silenzio: non pretendere di avere subito le risposte. Persevera. Come il profeta Elia, cammina nel deserto verso il monte di Dio: e quando ti sarai avvicinato a Lui, non cercarlo nel vento, nel terremoto o nel fuoco, in segni di forza o di grandezza, ma nella voce del silenzio sottile (cf. 1 Re 19,12). Non pretendere di afferrare Dio, ma lascia che Lui passi nella tua vita e nel tuo cuore, ti tocchi l'anima, e si faccia contemplare da te anche solo di spalle.

Ascolta la voce del Suo Silenzio. Ascolta la Sua Parola di vita: apri la Bibbia, meditala con amore, lascia che la parola di Gesù parli al cuore del tuo cuore; leggi i Salmi, dove troverai espresso tutto ciò che vorresti dire a Dio; ascolta gli apostoli e i profeti; innamorati delle storie dei Patriarchi e del popolo eletto e della chiesa nascente, dove incontrerai l'esperienza della vita vissuta nell'orizzonte dell'alleanza con Dio. E quando avrai ascoltato la Parola di Dio, cammina ancora a lungo nei sentieri del silenzio, lasciando che sia lo Spirito a unirti a Cristo, Parola eterna del Padre. Lascia che sia Dio Padre a plasmarti con tutte e due le Sue mani, il Verbo e lo Spirito Santo.

All'inizio, potrà sembrarti che il tempo per tutto questo sia troppo lungo, che non passi mai: persevera con umiltà, dando a Dio tutto il tempo che riesci a darGli, mai meno, però, di quanto hai stabilito di poterGli dare ogni giorno. Vedrai che di appuntamento in appuntamento la tua fedeltà sarà premiata, e ti accorgerai che piano piano il gusto della preghiera crescerà in te, e quello che all'inizio ti sembrava irraggiungibile, diventerà sempre più facile e bello. Capirai allora che ciò che conta non è avere risposte, ma mettersi a disposizione di Dio: e vedrai che quanto porterai nella preghiera sarà poco a poco trasfigurato.

Così, quando verrai a pregare col cuore in tumulto, se persevererai, ti accorgerai che dopo aver a lungo pregato non avrai trovato risposte alle tue domande, ma le stesse domande si saranno sciolte come neve al sole e nel tuo cuore entrerà una grande pace: la pace di essere nelle mani di Dio e di lasciarti condurre docilmente da Lui, dove Lui ha preparato per te. Allora, il tuo cuore fatto nuovo potrà cantare il cantico nuovo, e il "Magnificat" di Maria uscirà spontaneamente dalla tue labbra e sarà cantato dall'eloquenza silenziosa delle tue opere.

Sappi, tuttavia, che non mancheranno in tutto questo le difficoltà: a volte, non riuscirai a far tacere il chiasso che è intorno a te e in te; a volte sentirai la fatica o perfino il disgusto di metterti a pregare; a volte, la tua sensibilità scalpiterà, e qualunque atto ti sembrerà preferibile allo stare in preghiera davanti a Dio, a tempo "perso". Sentirai, infine, le tentazioni del Maligno, che cercherà in tutti i modi di separarti dal Signore, allontanandoti dalla preghiera. Non temere: le stesse prove che tu vivi le hanno vissute i santi prima di te, e spesso molto più pesanti delle tue. Tu continua solo ad avere fede. Persevera, resisti e ricorda che l'unica cosa che possiamo veramente dare a Dio è la prova della nostra fedeltà. Con la perseveranza salverai la tua preghiera, e la tua vita.

Verrà l'ora della "notte oscura", in cui tutto ti sembrerà arido e perfino assurdo nelle cose di Dio: non temere. È quella l'ora in cui a lottare con te è Dio stesso: rimuovi da te ogni peccato, con la confessione umile e sincera delle tue colpe e il perdono sacramentale; dona a Dio ancor più del tuo tempo; e lascia che la notte dei sensi e dello spirito diventi per te l'ora della partecipazione alla passione del Signore. A quel punto, sarà Gesù stesso a portare la tua croce e a condurti con sé verso la gioia di Pasqua. Non ti stupirai, allora, di considerare perfino amabile quella notte, perché la vedrai trasformata per te in notte d'amore, inondata dalla gioia della presenza dell'Amato, ripiena del profumo di Cristo, luminosa della luce di Pasqua.

Non avere paura, dunque, delle prove e delle difficoltà nella preghiera: ricorda solo che Dio è fedele e non ti darà mai una prova senza darti la via d'uscita e non ti esporrà mai a una tentazione senza darti la forza per sopportarla e vincerla. Lasciati amare da Dio: come una goccia d'acqua che evapora sotto i raggi del sole e sale in alto e ritorna alla terra come pioggia feconda o rugiada consolatrice, così lascia che tutto il tuo essere sia lavorato da Dio, plasmato dall'amore dei Tre, assorbito in Loro e restituito alla storia come dono fecondo. Lascia che la preghiera faccia crescere in te la libertà da ogni paura, il coraggio e l'audacia dell'amore, la fedeltà alle persone che Dio ti ha affidato e alle situazioni in cui ti ha messo, senza cercare evasioni o consolazioni a buon mercato. Impara, pregando, a vivere la pazienza di attendere i tempi di Dio, che non sono i nostri tempi, ed a seguire le vie di Dio, che tanto spesso non sono le nostre vie.

Un dono particolare che la fedeltà nella preghiera ti darà è l'amore agli altri e il senso della chiesa: più preghi, più sentirai misericordia per tutti, più vorrai aiutare chi soffre, più avrai fame e sete di giustizia per tutti, specie per i più poveri e deboli, più accetterai di farti carico del peccato altrui per completare in te ciò che manca alla passione di Cristo a vantaggio del Suo corpo, la chiesa. Pregando, sentirai come è bello essere nella barca di Pietro, solidale con tutti, docile alla guida dei pastori, sostenuto dalla preghiera di tutti, pronto a servire gli altri con gratuità, senza nulla chiedere in cambio. Pregando sentirai crescere in te la passione per l'unità del corpo di Cristo e di tutta la famiglia umana. La preghiera è la scuola dell'amore, perché è in essa che puoi riconoscerti infinitamente amato e nascere sempre di nuovo alla generosità che prende l'iniziativa del perdono e del dono senza calcolo, al di là di ogni misura di stanchezza.

Pregando, s'impara a pregare, e si gustano i frutti dello Spirito che fanno vera e bella la vita: "amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé" (Gal 5,22). Pregando, si diventa amore, e la vita acquista il senso e la bellezza per cui è stata voluta da Dio. Pregando, si avverte sempre più l'urgenza di portare il Vangelo a tutti, fino agli estremi confini della terra. Pregando, si scoprono gli infiniti doni dell'Amato e si impara sempre di più a rendere grazie a Lui in ogni cosa. Pregando, si vive. Pregando, si ama. Pregando, si loda. E la lode è la gioia e la pace più grande del nostro cuore inquieto, nel tempo e per l'eternità.

Se dovessi, allora, augurarti il dono più bello, se volessi chiederlo per te a Dio, non esiterei a domandarGli il dono della preghiera. Glielo chiedo: e tu non esitare a chiederlo a Dio per me. E per te. La pace del Signore nostro Gesù Cristo, l'amore di Dio Padre e la comunione dello Spirito Santo siano con te. E tu in loro: perché pregando entrerai nel cuore di Dio, nascosto con Cristo in Lui, avvolto dal Loro amore eterno, fedele e sempre nuovo. Ormai lo sai: chi prega con Gesù e in Lui, chi prega Gesù o il Padre di Gesù o invoca il Suo Spirito, non prega un Dio generico e lontano, ma prega in Dio, nello Spirito, per il Figlio il Padre. E dal Padre, per mezzo di Gesù, nel soffio divino dello Spirito, riceverà ogni dono perfetto, a lui adatto e per lui da sempre preparato e desiderato. Il dono che ci aspetta. Che ti aspetta.

preghierapregare

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inviato da Qumran2, inserito il 30/04/2009

RACCONTO

60. Il male esiste?   2

Aneddoto attribuito ad Albert Einstein

Germania, primi anni del XX secolo.

Durante una conferenza tenuta per gli studenti universitari, un professore ateo dell'Università di Berlino lancia una sfida ai suoi alunni con la seguente domanda:
"Dio ha creato tutto quello che esiste?"
Uno studente diligentemente rispose: "Sì certo!".

"Allora Dio ha creato proprio tutto?" - Replicò il professore.
"Certo!", affermò lo studente.

Il professore rispose: "Se Dio ha creato tutto, allora Dio ha creato il male, poiché il male esiste e, secondo il principio che afferma che noi siamo ciò che produciamo, allora Dio è il Male".

Gli studenti ammutolirono a questa asserzione. Il professore, piuttosto compiaciuto con se stesso, si vantò con gli studenti che aveva provato per l’ennesima volta che la fede religiosa era un mito.

Un altro studente alzò la sua mano e disse: "Posso farle una domanda, professore?".
"Naturalmente!" - Replicò il professore.

Lo studente si alzò e disse: "Professore, il freddo esiste?".

"Che razza di domanda è questa? Naturalmente, esiste! Hai mai avuto freddo?". Gli studenti sghignazzarono alla domanda dello studente.

Il giovane replicò: "Infatti signore, il freddo non esiste. Secondo le leggi della fisica, ciò che noi consideriamo freddo è in realtà assenza di calore. Ogni corpo od oggetto può essere studiato solo quando possiede o trasmette energia ed il calore è proprio la manifestazione di un corpo quando ha o trasmette energia. Lo zero assoluto (-273 °C) è la totale assenza di calore; tutta la materia diventa inerte ed incapace di qualunque reazione a quella temperatura. Il freddo, quindi, non esiste. Noi abbiamo creato questa parola per descrivere come ci sentiamo... se non abbiamo calore".
Lo studente continuò: "Professore, l’oscurità esiste?".
Il professore rispose: "Naturalmente!".

Lo studente replicò: "Ancora una volta signore, è in errore, anche l’oscurità non esiste. L’oscurità è in realtà assenza di luce. Noi possiamo studiare la luce, ma non l’oscurità. Infatti possiamo usare il prisma di Newton per scomporre la luce bianca in tanti colori e studiare le varie lunghezze d’onda di ciascun colore. Ma non possiamo misurare l’oscurità. Un semplice raggio di luce può entrare in una stanza buia ed illuminarla. Ma come possiamo sapere quanto buia è quella stanza?

Noi misuriamo la quantità di luce presente. Giusto? L’oscurità è un termine usato dall’uomo per descrivere ciò che accade quando la luce... non è presente".

Finalmente il giovane chiese al professore: "Signore, il male esiste?".

A questo punto, titubante, il professore rispose, “Naturalmente, come ti ho già spiegato. Noi lo vediamo ogni giorno. E’ nella crudeltà che ogni giorno si manifesta tra gli uomini. Risiede nella moltitudine di crimini e di atti violenti che avvengono ovunque nel mondo. Queste manifestazioni non sono altro che male".

A questo punto lo studente replicò "Il male non esiste, signore, o almeno non esiste in quanto tale. Il male è semplicemente l’assenza di Dio. E’ proprio come l’oscurità o il freddo, è una parola che l’uomo ha creato per descrivere l’assenza di Dio. Dio non ha creato il male. Il male è il risultato di ciò che succede quando l’uomo non ha l’amore di Dio presente nel proprio cuore. E’ come il freddo che si manifesta quando non c’è calore o l’oscurità che arriva quando non c’è luce".

Il giovane fu applaudito da tutti in piedi e il professore, scuotendo la testa, rimase in silenzio.

Il rettore dell'Università si diresse verso il giovane studente e gli domandò: "Qual è il tuo nome?".

"Mi chiamo, Albert Einstein, signore!" - Rispose il ragazzo.

benemaleDiofreddoamoretenebrebuioluceesistenza di Diovitasenso della vita

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inviato da Mesiti Pasquale, inserito il 25/01/2009

TESTO

61. Deboli come la Parola

Dietrich Bonhoeffer, Sequela

L'inquietudine attivistica del gruppo dei discepoli, che non vuol riconoscere limiti alla propria operatività, e lo zelo che non tiene conto della resistenza, scambiano la parola del vangelo con un'idea capace di imporsi.

L'idea esige dei fanatici, che non conoscono e non badano ad alcuna resistenza.

L'idea è forte. La parola di Dio invece è così debole da lasciarsi disprezzare e respingere dagli uomini.

Per la parola ci sono cuori induriti e porte chiuse; la parola prende atto della resistenza che incontra, e la patisce. È duro a riconoscersi: per l'idea non c'è niente di impossibile, per il vangelo ci sono invece cose impossibili. La parola è più debole dell'idea. Per cui anche i testimoni della parola nel portare questa parola sono più deboli dei propagandisti di un'idea. Ma in questa debolezza sono liberi dall'inquietudine morbosa dei fanatici, essi patiscono appunto assieme alla parola.

I discepoli possono anche cedere, fuggire, purché cedano e fuggano solo con la parola, purché la loro debolezza sia la debolezza della parola stessa, purché essi, nella loro fuga, non abbandonino la parola.

Essi, infatti, non sono altro che servitori e strumenti della parola e non vogliono essere forti, là dove la parola vuole essere debole.

Se volessero imporre al mondo la parola con qualsiasi mezzo, a qualsiasi condizione, trasformerebbero la parola viva di Dio in idea, e a buon diritto il mondo si difenderebbe da un'idea che non può giovarli.

Ma proprio nella loro debole testimonianza, essi sono tra coloro che non cedono, che mantengono le posizioni - naturalmente, solo là dove c'è la parola.

I discepoli che non si rendessero conto affatto di questa debolezza della parola, non riconoscerebbero il mistero dell'abbassamento di Dio.

Questa debole parola, che è capace di patire l'opposizione dei peccatori, è in effetti la sola parola forte e misericordiosa, che converte i peccatori nella profondità del cuore. La sua forza è nascosta nella debolezza; se la parola si presentasse scopertamente nella sua forza si avrebbe il giudizio finale.

È un grande compito di cui viene fatto carico ai discepoli, quello di riconoscere i limiti del loro incarico. Ma l'abuso della parola si ritorcerà contro di loro.

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inviato da Giovanni Vacca, inserito il 07/09/2008

TESTO

62. Il prete e i mille "se"

Il prete e la sua gente: una storia piena di "se...se....se.."

Se sta da solo in Chiesa, "si chiude nel suo intimismo".
Se esce, "va sempre in giro, e non si trova mai".
Se va a benedire le case (o meglio, le famiglie), "non è mai in Chiesa".
Se non va, "non fa nulla per conoscere i suoi parrocchiani".
Se qualche volta accetta di andare al bar "è uomo di mondo".
Se non accetta, "vive isolato".
Se si ferma in strada a parlare con la gente, è "pettegolo".
Se non si ferma "è scostante".
Se parla con le vecchiette, "perde il tempo".
Se dialoga con le giovani è "un donnaiolo".
Se sta insieme e gioca con i ragazzi "forse è di tendenze equivoche".
Se non li frequenta, "trascura di compiere il suo principale dovere".
Se accoglie in casa certe persone, "è imprudente".
Se non le accoglie, "non si comporta da cristiano sensibile".
Se in chiesa afferma verità scottanti, "fa politica".
Se tace è "menefreghista".
Se predica un minuto in più diventa "interminabile".
Se parla o predica poco "non ha autorità" o "è impreparato".
Se si occupa dei malati "dimentica i sani".
Se accetta inviti a pranzo o a cena "è un mangione e un beone".
Se rifiuta, "non sa vivere in società".
Se organizza incontri e riunioni "sta sempre a scocciare".
Se tace e ascolta, "si lascia sopraffare da quelli che comandano".
Se cerca di fare qualche aggiornamento, "butta via tutto quello che c'è da conservare".
Se ritiene valide alcune tradizioni, "non capisce i tempi attuali".
Se è d'accordo con il vescovo, "si lascia strumentalizzare e non ha personalità".
Se non condivide tutto quello che il vescovo propone, "è fuori della Chiesa".
Se chiede la collaborazione dei fedeli, "è lui che non vuol far niente".
Se agisce da solo, "non lascia spazio agli altri".
Se si occupa degli immigrati (o extracomunitari) "è imprudente".
Se non si interessa, "è un grande egoista che non vuole rogne".
Se organizza gite, pellegrinaggi, "pensa solo a far soldi".
Se non organizza, "è indolente e non ha iniziative".
Se fa il bollettino parrocchiale, "spreca tempo e soldi".
Se non lo fa', "non informa i fedeli sulle attività della parrocchia".
Se si ferma a casa, "non è mai reperibile in ufficio".
Se inizia la santa Messa in orario, "il suo orologio è sempre avanti".
Se comincia un attimo dopo, "fa quello che vuole e non rispetta gli altri".
Se a tutti ricorda e sottolinea il dovere della partecipazione e della solidarietà, "è sempre arrabbiato e nervoso; e, in ogni occasione, bussa a quattrini".
Se indossa la veste talare "è un sorpassato".
Se veste da borghese, "nasconde la sua identità".

Se... se... se...

Signore, dimmi tu: ma come dovrebbe essere il prete?
Risposta del Capo (alias Gesù Cristo):
"Un innamorato di Dio".
E non dovrebbe dimenticare che: "il discepolo non è da più del maestro
né un apostolo è più grande di chi l'ha mandato...".
Se hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi;
se hanno osservato la mia Parola, osserveranno anche la vostra" (Gv 15).
"Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo" (Mt 28).

pretepresbiterosacerdoteparroco

inviato da Maria Caffagnini, inserito il 07/09/2008

RACCONTO

63. La Pasqua di Sara   2

Miriam Soter

(Sara, 12 anni, figlia di Giairo, capo della Sinagoga di Cafarnao, cfr. Mc. 5,21-43)

"...Gesù!"

Il tuo nome è l'ultima parola che ho afferrato prima di morire. "Vado a chiamare Gesù", così ripeteva mio papà, lasciandomi per venire a cercarti.

"È arrivato tardi", mormoravano a bocca stretta, i miei vicini di casa; ero già morta, infatti, quando sei arrivato. Avevo dodici anni. "La bambina dorme, ora la sveglio", ti sentirono dire, chiusi nel loro silenzio, ti disprezzarono.

Tenendomi la mano, tu hai detto: "Talità kum!". "Fanciulla, io te lo ordino, alzati!" Non so dove la tua voce mi ha raggiunto; non so come hai fatto a trovarmi. Come un gigante tu hai attraversato, vittorioso, il buio della mia morte. Ho dischiuso gli occhi e ho visto il tuo volto: forte e sorridente.

Ma una ruga ti si formò in mezzo alla fronte, all'improvviso, come una ferita! Tu hai detto: "Datele da mangiare"; contenti ti hanno obbedito; ma io non avrei mai distolto i miei occhi dai tuoi.

Così ho ricominciato a vivere: grazie a te. "E' grazie a Gesù - spiegavo a tutti - se sono di nuovo viva". Mio papà e io non ti abbiamo più lasciato: due anni incredibili vissuti vicino a te. Quanta strada abbiamo fatto insieme a te; quante parole, quanti silenzi, quanti malati guariti, quanti lebbrosi sanati, quanti peccatori perdonati, quanti afflitti consolati, quanti sorrisi restituiti: e ogni volta sul tuo bel volto, una ruga, una ferita in più.

Mi sono sentita perduta il giorno che ti hanno arrestato. Perché farti del male, a te che hai fatto sempre del bene? Perché far del male al mio Gesù? Perché ti hanno flagellato? Perché coprire di sputi il tuo volto così bello? Perché ti hanno preso a schiaffi? Ti hanno messo perfino una corona di spine: perché trattare così il mio Re?

Papà mi ha detto che ti hanno inchiodato a una croce; che ci hai perdonato; che tua mamma era presente; che, prima di morire, anche tu hai chiamato tuo Padre; che il tuo viso era tutto una ferita.

Li ho visti, quel venerdì sera, i tuoi discepoli; vergognosi, tornavano dal Calvario impauriti, sconvolti, disperati. "E' la fine", dicevano, "è la fine". Ma io non potevo rassegnarmi; non potevo dimenticare, io: la mia carne ricordava. Io sapevo, io, che il tuo amore è più forte della morte.

M'hanno detto che sei risuscitato, che ti hanno incontrato: prima alcune donne, poi Pietro, Giovanni e tanti altri. Sono felici! Sembrano rinati! Come li capisco!

Io non ti ho ancora visto; sei salito in cielo: forse non ti vedrò più; ma non importa: le mie notti e i miei giorni sono fatti di te. Eppure, quanta voglia di ascoltarti, di abbracciarti, di vederti.

E' curioso: a volte mi sorprendo a pensare a te, a parlare con te, tanto è grande il desiderio che ho di te; allora chiudo gli occhi per ritrovare il tuo volto; è così grande il desiderio che... vorrei morire... per essere sempre con te, mio Gesù.

pasquacalvariorisurrezioneresurrezionerisortomortevitavita eterna

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inviato da Marcello Rosa, inserito il 04/03/2008

TESTO

64. Maria donna in cammino

Tonino Bello, Nigrizia, novembre 1990, p. 53

Se i personaggi del vangelo avessero avuto una specie di contachilometri incorporato, penso che la classifica dei più infaticabili camminatori l'avrebbe vinta Maria. Gesù a parte, naturalmente. Ma si sa, egli si era identificato a tal punto con la strada, che un giorno ai discepoli invitati a mettersi alla sua sequela confidò addirittura: «Io sono la via». La via. Non un viandante!

Siccome allora Gesù è fuori concorso, a capeggiare la graduatoria delle peregrinazioni evangeliche è lei: Maria. La troviamo sempre in cammino, da un punto all'altro della Palestina, con uno sconfinamento anche all'estero. Viaggio di andata e ritorno da Nazaret verso i monti di Giuda, per trovare la cugina. Viaggio fino a Betlem. Di qui a Gerusalemme, per la presentazione al tempio.

Espatrio clandestino in Egitto. Ritorno guardingo in Giudea e poi di nuovo a Nazaret. Finalmente, sui sentieri del Calvario, ai piedi della Croce, dove la meraviglia espressa da Giovanni con la parola stabat, più che la pietrificazione del dolore per una corsa fallita, esprime l'immobilità statuaria di chi attende sul podio il premio della vittoria.

Icona del camminare, la troviamo seduta solo al banchetto del primo miracolo. Seduta, ma non ferma. Non sa rimanersene quieta. Non corre col corpo, ma precorre con l'anima. E se non va lei verso l'ora di Gesù, fa venire quell'ora verso di lei, spostandone indietro le lancette, finché la gioia pasquale non irrompe sulla mensa degli uomini.

Sempre in cammino. E per giunta in salita. Da quando si mise in viaggio verso la montagna, fino al giorno del Golgota, anzi fino al crepuscolo dell'Ascensione, quando salì anche lei con gli apostoli «al piano superiore» in attesa dello Spirito, i suoi passi sono sempre scanditi dall'affanno delle alture.

Avrà fatto anche discese, e Giovanni ne ricorda una quando dice che Gesù, dopo le nozze di Cana, discese a Cafarnao insieme con sua madre. Ma l'insistenza con cui il Vangelo accompagna con il verbo "salire" i suoi viaggi a Gerusalemme, più che alludere all'ansimare del petto o al gonfiore dei piedi, sta a dire che la peregrinazione terrena di Maria simbolizza tutta la fatica di un esigente itinerario spirituale.

Santa Maria, donna della strada, come vorremmo somigliarti nelle nostre corse trafelate, ma non abbiamo traguardi. Siamo pellegrini come te, ma senza santuari verso cui andare. Camminiamo sull'asfalto, e il bitume cancella le nostre orme. Forzati del camminare, ci manca nella bisaccia di viandanti la cartina stradale che dia senso alle nostre itinerante.

E con tutti i raccordi anulari che abbiamo a disposizione, la nostra vita non si raccorda con nessun svincolo costruttivo, le ruote girano a vuoto sugli anelli dell'assurdo, e ci ritroviamo inesorabilmente a contemplare gli stessi panorami.

Santa Maria, donna della strada, fa' che i nostri sentieri siano, come lo furono i tuoi, strumenti di comunicazione con la gente e non nastri isolanti entro cui assicuriamo la nostra aristocratica solitudine. Liberaci dall'ansia della metropoli e donaci l'impazienza di Dio. L'impazienza di Dio ci fa allungare il passo per raggiungere i compagni di strada. L'ansia della metropoli, invece, ci rende specialisti del sorpasso. Ci fa guadagnare tempo, ma ci fa perdere il fratello che cammina accanto a noi.

Santa Maria, donna della strada, segno di sicura speranza e di consolazione per il peregrinante popolo di Dio, facci capire come, più che sulle mappe della geografia, dobbiamo cercare sulle tavole della storia le carovaniere dei nostri pellegrinaggi.

È su questi itinerari che crescerà la nostra fede. Prendici per mano e facci scorgere la presenza sacramentale di Dio sotto il filo dei giorni, negli accadimenti del tempo, nel volgere delle stagioni umane, nei tramonti delle onnipotenze terrene, nei crepuscoli mattinali di popoli nuovi, nelle attese di solidarietà che si colgono nell'aria.

Verso questi santuari dirigi i nostri passi. Per scorgere sulle sabbie dell'effimero le orme dell'eterno. Restituisci sapori di ricerca interiore alla nostra inquietudine di turisti senza meta.

Se ci vedi allo sbando, sul ciglio della strada, fermati, Samaritana dolcissima, per versare sulle nostre ferite l'olio della consolazione e il vino della speranza. E poi rimettici in carreggiata. Dalle nebbie di questa valle di lacrime, in cui si consumano le nostre afflizioni, facci volgere gli occhi verso i monti da dove verrà l'aiuto. E allora sulle nostre strade fiorirà l'esultanza del magnificat.

Come avvenne in quella lontana primavera, sulle alture della Giudea, quando ci salisti tu.

stradacamminomariamadonnapellegrinaggio

5.0/5 (1 voto)

inserito il 11/01/2008

TESTO

65. Maria, donna accogliente

Tonino Bello, Nigrizia, giugno 1991, p. 58

La frase si trova in un testo del Concilio Vaticano II, ed è splendida per dottrina e concisione. Dice che, all'annuncio dell'Angelo, Maria «accolse nel cuore e nel corpo il Verbo di Dio».

Nel cuore e nel corpo
Fu, cioè, discepola e madre del Verbo. Discepola, perché si mise in ascolto della Parola e la conservò per sempre nel cuore. Madre, perché offrì il suo grembo alla Parola e la custodì per nove mesi nello scrigno del corpo.
Forse per capire fino in fondo la bellezza di questa verità, il vocabolario non basta. Bisogna ricorrere alle espressioni visive. E allora non c'è di meglio che rifarsi ad una celebre icona orientale, che raffigura Maria con il divin Figlio Gesù inscritto sul petto. È indicata come "la Madonna del segno", ma potrebbe essere chiamata "la Madonna dell'accoglienza", perché, con gli avambracci levati in alto, in atteggiamento di offertorio o di resa, essa appare il simbolo della più gratuita ospitalità.

Accolse nel cuore
Fece largo, cioè, nei suoi pensieri ai pensieri di Dio. ma non si sentì, per questo, ridotta al silenzio. Offrì volentieri il terreno vergine della sua intimità alla germinazione del Verbo, ma non si considerò espropriata di nulla. Gli cedette con gioia il suolo più inviolabile della sua vita, ma senza dover ridurre gli spazi della sua libertà. Diede alloggio al Signore nella sua casa, ma non ne sentì, la presenza come violazione di domicilio. Gli aprì le porte delle stanze più segrete, ma senza subirne lo sfratto.

Accolse nel corpo
Sentì, cioè, il peso fisico di un altro essere che prendeva dimora nel suo grembo di madre. Adattò, quindi, i suoi ritmi a quelli dell'ospite. Modificò le sue abitudini in funzione di un compito che non le alleggeriva certo la vita. Consacrò i suoi giorni alla gestazione di una creatura che non le avrebbe risparmiato preoccupazioni e fastidi. E poiché il frutto benedetto del seno suo era il Verbo di Dio che s'incarnava per la salvezza dell'umanità, capì di aver contratto con tutti i figli di Eva un debito di accoglienza che avrebbe pagato con cambiali di lacrime.

Quell'ospitalità fondamentale la dice lunga sullo stile di Maria e delle sue mille altre accoglienze di cui il vangelo non parla, ma che non ci è difficile intuire. Nessuno fu mai respinto da lei. Tutti trovarono riparo sotto la sua ombra. Dalle vicine di casa, alle antiche compagne di Nazaret. Dai parenti di Giuseppe, agli amici di gioventù di suo figlio. Dai poveri della contrada, ai pellegrini di passaggio. Da Pietro, in lacrime dopo il tradimento, a Giuda che, forse, quella notte non riuscì a trovarla in casa.

Santa Maria, donna accogliente, aiutaci ad accogliere la Parola nell'intimo del cuore. A capire, cioè, come hai saputo fare tu, le irruzioni di Dio nella nostra vita. Egli non bussa alla porta per intimarci lo sfratto, ma per riempire di luce la nostra solitudine. Non entra in casa per metterci le manette, ma per restituirci il gusto della vera libertà.

Lo sappiamo: è la paura del nuovo a renderci spesso inospitali nei confronti del Signore che viene. I cambiamenti ci danno fastidio. E siccome lui scombina sempre i nostri pensieri, mette in discussione i nostri programmi e manda in crisi le nostre certezze, ci nascondiamo come Adamo nell'Eden, ogni volta che sentiamo i suoi passi. Facci comprendere che Dio, se ci guasta i progetti, non ci rovina la festa; se disturba i nostri sonni, non ci toglie la pace. E una volta che l'avremo accolto nel cuore, anche il nostro corpo brillerà della sua luce.

Santa Maria, donna accogliente, rendici capaci di gesti ospitali verso i fratelli. Sperimentiamo tempi difficili, in cui il pericolo di essere defraudati dalla cattiveria della gente ci fa vivere dietro porte blindate e sistemi di sicurezza. Non ci fidiamo più l'uno dell'altro. Vediamo agguati dappertutto. Il sospetto è diventato organico nei rapporti con il prossimo. Il terrore di essere ingannati ha preso il sopravvento sugli istinti di solidarietà che pure ci portiamo dentro. E il cuore se ne va a pezzi, dietro i cancelli dei nostri recinti.

Disperdi, ti preghiamo, le nostre diffidenze. Facci uscire dalla trincea degli egoismi corporativi. Sfascia le cinture delle leghe. Allenta le nostre ermetiche chiusure nei confronti di chi è diverso da noi. Abbatti le nostre frontiere. Quelle culturali, prima di quelle geografiche. Queste ultime cedono ormai sotto l'urto dei popoli "altri", ma le prime restano tenacemente impermeabili. Visto allora che siamo costretti ad accogliere stranieri nel corpo della nostra terra, aiutaci ad accoglierli anche nel cuore della nostra civiltà.

Santa Maria, donna accogliente, ostensorio del corpo di Gesù deposto dalla croce, accoglici sulle tue ginocchio, quando avremo reso lo spirito anche noi. Dona alla nostra morte la quiete fiduciosa di chi poggia il capo sulla spalla della madre e si addormenta sereno. Tienici per un poco sul tuo grembo, così come ci hai tenuti nel cuore per tutta la vita. Compi su di noi i rituali delle ultime purificazioni. E portaci, finalmente, sulle tue braccia davanti all'Eterno.

Perché solo se saremo presentati da te, sacramento della tenerezza, potremo trovare pietà.

mariamadonnaaccoglienzastranieriospitalitàmigrazione

inviato da Giovanni Graziano Tassello, inserito il 11/01/2008

TESTO

66. Il primo presepe

Johann Jorgensen

La santa sera tutto era pronto, a Greccio, come frate Francesco aveva desiderato; verso l'ora di mezzanotte, tutto il popolo di quei pressi era convenuto intorno al presepe per festeggiare la nascita del Signore. Come ci racconta Tomaso da Celano: «Greccio era diventata una nuova Betlemme; la foresta risuonava di voci melodiose e le rocce echeggiavano ai canti della folla». Ognuno portava torce accese, mentre, vicino al presepe, stavano i frati coi loro ceri; tanto che i boschi erano rischiarati come fosse pieno giorno. Sulla mangiatoia che serviva d'altare, un prete lesse la messa, perché il divino fanciullo fosse presente, sotto le specie del pane e del vino, al modo stesso che lo era stato corporalmente a Betlemme. Ci fu pure un istante in cui Giovanni Vellita ebbe l'impressione di vedere un vero bambino coricato nella mangiatoia, ma che sembrava morto, o, per lo meno, addormentato. Ed ecco che frate Francesco si avvicina al bambino e lo prende teneramente tra le braccia; ed ecco che anche il bambino si sveglia, sorride a frate Francesco, e, con le sue piccole mani, gli accarezza le guance barbute e la stoffa grigia della sottana! Visione che, del resto, non aveva nulla di stupefacente per messer Vellita: poiché egli conosceva già parecchi cuori, in cui, allo stesso modo, Gesù era stato morto, o per lo meno addormentato, fino al giorno in cui frate Francesco, con la sua parola e il suo esempio, non l'aveva risvegliato e risuscitato.

Dopo la lettura del Vangelo, frate Francesco, in veste di diacono, si avanzò verso la folla. «Sospirando profondamente, ci dice Celano, accasciato sotto la pienezza della sua pietà, e traboccante di meravigliosa gioia, il santo di Dio si drizzò presso la mangiatoia. E la sua voce, la sua voce forte e dolce, la sua voce chiara e sonora, trascinò gli uditori a ricercare il bene supremo».

Frate Francesco predica alla folla. «Con parole d'una dolcezza squisita, parla del povero re nato quella notte che è il Signore Gesù, nella città di David. E, ogni volta che vuole pronunciare il nome di Gesù, ecco che egli è tutto arso dal fuoco del suo amore, e che, invece di dirgli questo nome, lo chiama teneramente il Bambino di Betlemme! E, questa parola Betlemme, la dice col tono d'un agnello belante; e quando ha proferito il nome di Gesù, lascia scivolare la lingua sulle labbra, come per assaporare la dolcezza che quel nome ha sparso dietro di sé, passando su quelle labbra. E non fu che molto tardi che terminò quella santa notte di vigilia, e che ciascuno, con il cuore pieno di gioia, se ne ritornò alla sua casa».

«In seguito, questo luogo, dove era stato piantato il presepe, fu consacrato al Signore con l'erezione di un tempio; e sopra la mangiatoia fu alzato un altare in onore del nostro beato Padre Francesco: così che, là dove poco prima le bestie senza ragione mangiavano il fieno dalla greppia, oggi gli uomini, per la salute delle loro anime e del loro corpo, ricevono l'Agnello immacolato, Nostro Signore Gesù Cristo, che, spinto da ineffabile amore, ha dato la sua carne per la vita del mondo, e che, col Padre e lo Spirito Santo, vive e regna in somma grandezza per tutti i secoli dei secoli. Così sia!».

natalepresepepresepioSan Francesco

inviato da Franco Canzian, inserito il 19/12/2007

RACCONTO

67. Quando le croci sono troppe

Giovanni Francile

Un uomo viaggiava, portando sulle spalle tante croci pesantissime. Era ansante, trafelato, oppresso e, passando un giorno davanti ad un crocifisso, se ne lamentò con il signore così:

"Ah, signore, io ho imparato nel catechismo che tu ci hai creato per conoscerti, amarti e servirti... Ma invece mi sembra di essere stato creato soltanto per portare le croci! Me ne hai date tante e così pesanti che io non ho più forza per portarle...".

Il Signore però gli disse: "ieni qui, figlio mio, posa queste croci per terra ed esaminiamole un poco... Ecco, questa è la croce più grossa e la più pesante; guarda cosa c' è scritto sopra...".
Quell'uomo guardò e lesse questa parola: sensualità.

"Lo vedi?", disse il Signore, "questa croce non te l'ho data io, ma te la sei fabbricata da solo. Hai avuto troppa smania di godere, sei andato in cerca di piaceri, di golosità, di divertimenti... E di conseguenza hai avuto malattie, povertà, rimorsi".

"Purtroppo è vero, soggiunse l'uomo, questa croce l'ho fabbricata io! E' giusto che io la porti!". Sollevò da terra quella croce e se la pose di nuovo sulle spalle.

Il Signore continuò: "Guarda quest' altra croce. C'è scritto sopra: ambizione. Anche questa l'hai fabbricata tu, non te l'ho data io. Hai avuto troppo desiderio di salire in alto, di occupare i primi posti, di stare al di sopra degli altri... E di conseguenza hai avuto odio, persecuzione, calunnie, disinganni".

"E' vero, è vero! Anche questa croce l'ho fabbricata io! E' giusto che io la porti!". Sollevò da terra quella seconda croce e se la mise sulle spalle.

Il Signore additò altre croci, e disse: "Leggi. Su questa è scritto gelosia, su quell'altra: avarizia, su quest'altra...".

"Ho capito, ho capito Signore, è troppo giusto quello che tu dici...".

E prima che il Signore avesse finito di parlare, il povero uomo aveva raccolto da terra tutte le sue croci e se le era poste sulle spalle.

Per ultima era rimasta per terra una crocetta piccola piccola e quando l'uomo la sollevò per porsela sulle spalle, esclamò:

"Oh! Come è piccola questa! E pesa poco!". Guardò quello che c'era scritto sopra e lesse queste parole: "La croce di Gesù".

Vivamente commosso, sollevò lo sguardo verso il Signore ed esclamò: "Quanto sei buono!". Poi baciò quella croce con grande affetto.

E il Signore gli disse: "Vedi, figlio mio, questa piccola croce te l'ho data io, ma te l'ho data con amore di padre; te l'ho data perché voglio farti acquistare merito con la pazienza; te l'ho data perché tu possa somigliare a me e starmi vicino per giungere al cielo, perché io l'ho detto: 'Chi vuole venire dietro a me prenda la sua croce ogni giorno e mi segua...', ma ho detto anche: 'il mio giogo è soave e il mio peso è leggerò".

L'uomo delle croci riprese silenzioso il cammino della vita; fece ogni sforzo per correggersi dei suoi vizi e si diede con ogni premura a conoscere, amare e servire Dio.

Le croci più grosse e più pesanti caddero, una dopo l'altra dalle sue spalle e gli rimase soltanto quella di Gesù.

Questa se la tenne stretta al cuore fino all'ultimo giorno della sua vita, e quando arrivò al termine del viaggio, quella croce gli servì da chiave per aprire la porta del paradiso.

crocedifficoltàviziegoismoconversionecroci

5.0/5 (1 voto)

inviato da Cosimo Di Lella, inserito il 15/11/2007

TESTO

68. Trenta consigli per genitori frettolosi   4

Bruno Ferrero, Bollettino Salesiano 2006

Qualche semplice regola che può migliorare la vita familiare e l'educazione.

1. I primi anni di vita sono importanti: è in questo periodo che si posano le strutture fondamentali della persona.

2. I bambini sono persone con carattere, temperamento, bisogni, desideri, cambiamenti di umore proprio come voi. Lasciate che anche i vostri figli qualche volta diano in escandescenze.

3. I bambini imitano quello che fate voi. Non faranno mai quello che ordinate. Soprattutto non fate prediche. I bambini imparano solo quello che vivono.

4. I due genitori devono avere la stessa idea di educazione. Questo non significa che devono fare le stesse cose o apparire un muro di cemento armato.

5. Non entrate in conflitto con i vostri figli. Ogni volta che entrerete in conflitto con i vostri figli voi avrete già perso.

6. Siate pazienti. Anche con voi stessi. Nessuno ha mai detto che sia facile essere un genitore.

7. I genitori non sono i soli educatori: c'è anche la società in cui i figli sono immersi.

8. Dite "no". In questo modo i vostri figli sapranno che li proteggete anche dai loro errori. Insegnate ai vostri figli che non possono avere tutto e subito. È prudente, perciò, usare con cautela il sistema di assecondare: i bambini devono imparare a manovrare le frustrazioni, perché la vita dell'adulto ne è piena. È pura assurdità partire dal principio che il bambino sarà in grado di affrontarle quando sarà più grande; che cosa, infatti, c'è di magico nella crescita per fornire una capacità che si dovrebbe rivelare fin dai primi anni di vita?

9. Riservate del tempo per ridere insieme e divertitevi insieme. Vivete i vostri valori nella gioia. Se fate la morale tutto il giorno ai vostri figli verrà voglia di scappare.

10. Scambiatevi dei regali.

11. Imparate a relativizzare i problemi, ma risolveteli.

12. Accogliete in casa gli amici dei vostri figli.

13. L'incoraggiamento è l'aspetto più importante nella pratica di educazione del bambino. E' tanto importante, che la mancanza di esso si può considerare quale causa fondamentale di certe anomalie del comportamento. Un bambino che si comporta male è un bambino scoraggiato.

14. Consentite ai vostri figli di non avere il vostro parere. E soprattutto ascoltateli veramente. Fa parte del nostro pregiudizio comune sui bambini pretendere di capire quello che vogliono dire senza in realtà ascoltarli. I figli hanno una diversa prospettiva e spesso soluzioni intelligenti da proporre. Il nostro orgoglio ci impedisce di ascoltarli.

Quante volte potremmo approfittare della loro sensibilità se li trattassimo alla pari e li ascoltassimo davvero.

15. Sottolineate i lati positivi dei vostri figli. I bambini non ne sono sempre coscienti. I complimenti piacciono a tutti, anche ai vostri figli.

16. Consentite loro di prendere parte alle decisioni della famiglia. Spiegate bene i motivi delle vostre scelte. Rispondete ai loro «perché».

17. Mantenete la parola. Siate coerenti. Attenetevi alle decisioni prese. Non promettete o minacciate a vanvera.

18. Riconoscete i vostri errori e scusatevi. Abbiate il coraggio di essere imperfetti e consentite ai vostri figli di esserlo.

19. Giocate con i vostri figli.

20. Quando dovete fare un "discorso serio" con i vostri figli, aspettate che siano in posizione orizzontale. Non fatelo mai quando sono in posizione verticale.

21. Ricordate che ogni bambino è unico. Non esiste l'educazione al plurale.

22. Alcuni verbi non hanno l'imperativo. Non potete dire: «Studia!», «Metti in ordine!», «Prega!» e sperare che funzioni.

23. Spiegate ai vostri figli che cosa provate. Raccontate come eravate voi alla loro età.

24. Aiutateli a essere forti e a riprendersi quando le cose vanno male.

25. Raccogliete la sfida della TV. La televisione non è tanto pericolosa per quello che fa quanto per quello che non fa fare.

26. Non siate iper/protettivi. Cercate le occasioni giuste per tirarvi indietro e consentire ai vostri figli di mettere alla prova la loro forza e le loro capacità.

27. Un bambino umiliato non impara nulla. Eliminate la critica e minimizzate gli errori. Sottolineando costantemente gli errori, noi scoraggiamo i nostri figli, mentre dobbiamo ricordarci che non possiamo costruire sulla debolezza, ma soltanto sulla forza.

28. Non giudicate gli altri genitori dai loro figli e non mettetevi in competizione per i figli con parenti e amici.

29. Date loro il gusto della lettura.

30. Raccontate loro la storia di Gesù. Tocca a voi.

famigliafigligenitorieducatorieducazione

5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 20/08/2007

ESPERIENZA

69. Lo slancio degli altri muove la carrozzina

Avvenire del 26/1/2006

«Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13, 34) sarà la celebrazione Diocesana del prossimo anno. Ma cosa ha significato l'amore degli altri nella mia vita? Posso dirvi che da ragazzino avevo bisogno di fare una terapia particolare, essendo disabile, in cui sarei stato impiegato per diverse ore al giorno e soprattutto mi avrebbero dovuto aiutare molte persone. Mentre tornavo a casa dallo studio del dottore mi domandavo con i miei genitori come avrei potuto farcela... Sono figlio unico con pochi parenti. Ne abbiamo parlato al parroco che subito ha detto: «Ho grande fiducia nella Provvidenza... lo dirò ad alcuni... se i cristiani non si amano in questi casi, non sono cristiani!». Questa espressione un po' forte di un sacerdote che era come un padre per me, mi ha fatto pensare. E così è stato. In pochi giorni, avevo riempito i "turni" con più di 90 persone alla settimana, 15 volontari al giorno. Si erano resi disponibili persone di tutte le età, moltissimi i giovani.

Frequentavo anche la Facoltà Teologica a Torino, e non potevo scrivere bene e prendere sufficienti appunti alle lezioni. I miei compagni di corso seminaristi mi aiutavano passandomi i loro appunti, senza gridare o facendo proclami, ma servendo in silenzio. Ecco due fatti della mia vita personale, ma potrebbero essere molti, in cui ho provato con mano, sulla mia pelle, l'amore! L'ho sperimentato non come una parola generica, una parola che si confonde molte volte con piacere, ma una parola viva e vera perché Gesù ci ha dato l'esempio, «amatevi anche voi gli uni gli altri».

Ecco io mi sento amato da Dio, pur nella fatica, che deve diventare il trampolino di lancio per la mia vita di fede. Sono convinto che, con il tema della GMG 2007 celebrata a livello Diocesano, Benedetto XVI riuscirà ad avvicinare molti giovani a quell'unico comandamento che solo in Gesù trova la realizzazione: l'amore da rendere come servizio, l'amore da scambiarci «gli uni gli altri». Lo scambio di un amore reciproco si pone in continuità con l'adorazione. Così infatti ha gia sottolineato il Papa a Colonia: «La parola latina "adorazione" è ad-oratio - contatto bocca a bocca, bacio, abbraccio e quindi in fondo amore. La sottomissione diventa unione, perché colui al quale ci sottomettiamo è Amore».

Claudio

solidarietàamorecondivisione

inviato da Qumran2, inserito il 06/11/2006

RACCONTO

70. Il miracolo di Natale   1

Suor Angela Benedetta, clarissa

Nella valle incantata, in una fattoria felice, viveva un bue di nome Barny. Grande e grosso, con due occhi buoni e sinceri, lavorava tutto il giorno spingendo l'aratro. Questo bue era l'amico di tutta la fattoria: i contadini con i quali lavorava gli volevano un gran bene e i bambini non si stancavano mai di giocare con lui. Nonostante fosse così grande e grosso non faceva paura a nessuno, perché era l'animale più buono che potesse esserci. Alla sera quando tramontava il sole e si stendevano le prime ombre, tutti gli animali si radunavano intorno a lui per sentirlo narrare le sue tante storie. Appena finiva di raccontarne una, subito gli chiedevano: "Dai, dai, raccontane un'altra"; lui continuava fino al crepuscolo e allo spuntare delle prime stelle, poi diceva: "Ora andiamo a dormire, domani ci aspetta una lunga giornata di lavoro". Allora tutti gli animali andavano a dormire e nella fattoria scendeva un grande silenzio.

Il bue Barny era simpatico a tutti: alle pecore e alle oche, alle anatre e agli agnellini, alle mucche e ai maialini, alle galline e al vecchio cane da guardia, al padrone della fattoria e ai suoi bambini, ma il suo migliore amico era il piccolo asinello Tim con cui condivideva la stalla, la paglia e il duro lavoro. Quando arrivava la notte e si coricavano vicini, si guardavano a lungo senza dirsi nulla e poi si addormentavano, stanchi ma felici.

Il bue aveva un piccolo segreto nel cuore che conosceva solo l'asinello: gli piaceva danzare. Un giorno l'asinello gli disse: "Perché non ci provi, tanto non ci vede nessuno: ti prometto che questo segreto rimarrà in questa stalla". Tra veri amici anche i desideri più assurdi si possono realizzare e da quel giorno il bue incominciò ad improvvisare dei semplici balletti. L'asinello si divertiva tantissimo. Poi toccò a Tim realizzare il suo desiderio: a lui piaceva moltissimo cantare. E siccome tra amici anche i desideri più assurdi si possono realizzare, l'asinello, tutte le domeniche, inventava delle allegre canzoncine che mai nessuno aveva ascoltato all'infuori dell'amico bue.

Quei momenti, quegli scherzi, quelle risate erano tutta la vita e il divertimento dei due amici, che sapevano rendere grazie a Dio per ogni nuovo giorno loro donato. Appena sorgeva l'alba i due amici iniziavano il loro lavoro: il bue spingeva l'aratro e l'asinello trasportava la legna. Fino a sera non si vedevano più, ma non c'era istante della giornata in cui non sentivano l'uno la presenza e il sostegno dell'altro.

Tim era tutto per il bue Barny: fin dal giorno del suo arrivo nella fattoria gli era sempre stato accanto con il suo affetto e con la sua amicizia. Gli aveva insegnato le prime cose e si era preso cura di lui come un fratello, gli aveva fatto conoscere tutti gli animali della fattoria e l'aveva incoraggiato nei momenti di fatica. Anche Barny, sin dall'inizio, aveva ricambiato l'affetto per l'asino Tim e con il passare degli anni erano divenuti sempre più uniti, quasi una cosa sola. Quante difficoltà, quante sofferenze, ma il calore della loro amicizia aveva reso tutto più leggero, più bello.

Una sera, mentre tutti gli animali erano riuniti intorno al bue per ascoltare le sue storie, l'anatra chiese al bue: "Perché non ci racconti la tua storia, la storia della tua famiglia?". Il bue per un attimo esitò, ma poi iniziò il suo racconto.

"In verità non ho molto da dire", disse il bue, inizialmente un po' imbarazzato dall'argomento. "Nella fattoria dove sono nato eravamo tanti vitellini: gli altri sono stati scelti per diventare dei tori e io invece per essere un bue e fare lavori pesanti. Poiché nella mia fattoria non serviva un trasportatore di aratro sono stato venduto e sono finito qui. Io sono molto contento, sapete, non mi lamento, ma ringrazio ogni giorno il buon Dio di essere utile per il duro lavoro della terra e di alleviare il peso dei contadini. Ma i miei fratelli, ahimé, si vergognano di avere un fratello bue, loro, così famosi in tutto il mondo: partecipano alle più importanti corride, gareggiano con i toreri più famosi, figurano su tutti i quotidiani e per questo mi disprezzano. Ma io non li invidio affatto, io non vorrei essere come loro: non fanno altro che fomentare la violenza e l'odio delle persone che assistono alle loro gare, nelle quali, pensate un po', anche morire fa parte dello spettacolo".

Il bue concluse così il suo racconto. Gli animali erano ammutoliti e nessuno osava più domandare nulla. L'asinello prese la parola rompendo il grande silenzio che aveva seguito il racconto del bue e disse: "Anch'io ho dei cugini molto famosi: sono cavalli da corsa. Partecipano alle gare e la gente scommette fior di quattrini sulle loro vittorie. Si vergognano di avere un lontano parente asino e si vantano di avere avuto antenati che hanno portato sulla loro groppa i più coraggiosi cavalieri partecipando alle più cruenti guerre. Sì, io sono un asino da soma e perciò disprezzato, ma non ho mai fatto guerra a nessuno". "Bravo! Giusto!", incominciarono a commentare gli animali, infervorati dal racconto dell'asinello.

Ormai era notte inoltrata quando gli animali della fattoria sciolsero la seduta. Incominciava a far freddo poiché l'autunno stava per fini e l'inverno era alle porte.

Il giorno successivo iniziò con un gran trambusto nella fattoria. Alle prime luci dell'alba era infatti giunto nella valle incantata un gran numero di persone. C'erano il parroco del paese, le autorità e personalità molto importanti. "Chissà chi cercano", iniziarono a chiedersi curiosi gli animali.

Ben presto tutti iniziarono a fare castelli in aria. "Sicuramente cercano me - disse la mucca con presunzione - avranno bisogno del mio latte". "No! - ribatté l'anatra - è me che cercano: avranno bisogno della mia carne pregiata per un pranzo succulento". "No! - interruppe il maiale - il Natale si avvicina e certamente staranno cercando me per il cenone con il gustoso cotechino". "Siete tutti in errore - dissero le galline - certamente è delle nostre uova che avranno bisogno".

Barny e Tim ascoltarono un po' divertiti le dispute dei loro amici, poi si avviarono ad iniziare il loro lavoro, alquanto indifferenti alla questione: di sicuro non era loro due che cercavano. Mentre camminavano, all'improvviso si sentirono chiamare. "Barny, Tim venite qui - gridò il padrone della fattoria - vi stanno cercando". I due amici non credevano alle loro orecchie. Tim avanzò un po' timoroso e Barny lo seguì, restando leggermente indietro. Quando giunsero davanti a tutta quella folla di persone, l'enigma fu presto risolto. "Stiamo preparando per la prima volta un presepe vivente nel nostro paese", disse il parroco sorridendo ai due buffi amici. "E' un evento importante - continuò il sindaco - verrà la gente anche dai paesi vicini per poter rivivere dal vero la nascita del nostro Salvatore". Barny e Tim guardavano i due interlocutori un po' stupiti: cosa c'entravano loro in tutto questo discorso? "Voi saprete che il Bimbo divino fu scaldato nella gelida notte da un bue e un asinello - disse il parroco, concludendo il discorso - abbiamo bisogno di voi per preparare la grotta di Betlemme. Accettate il nostro invito?". "Noi?" disse Tim, talmente stupito da non riuscire quasi a reggersi in piedi, "Accettiamo con gioia immensa - disse Barny - è un dono senza misura poter scaldare Gesù Bambino".

Così nella fattoria iniziarono i preparativi per il grande evento. Tutti gli animali si sentivano onorati della parte assegnata a Tim e Barny e per questo venne loro l'idea di formare una piccola banda musicale per accompagnare il bue e l'asinello in paese la notte di Natale. Le oche suonavano la tromba, le galline i tamburi, i maiali la grancassa, le pecore i piatti, le mucche il trombone e il grosso cane da guardia era nientepopodimeno che il direttore d'orchestra. Intanto anche i bambini iniziarono ad ornare la fattoria con gli addobbi natalizi e tutto si colorò di attesa e di festa, Non c'era sera in cui, dopo il lavoro, gli animali non si riunissero per suonare i brani natalizi, preparati ed eseguiti dalla loro banda, mentre il bue e l'asinello provavano la loro parte nell'immaginaria grotta di Betlemme.

Passarono i giorni e presto giunse il momento tanto atteso: la vigilia di Natale. Gli animali non stavano più nella pelle dalla gioia. Poche ore prima della mezzanotte tutti gli amici si predisposero per scendere in paese suonando. Al cenno del cane da guardia la banda attaccò: prima le oche intonarono con le trombette le dolci melodie, accompagnate dai tromboni; si unirono ad essi i piatti e i tamburi che intervallavano la musica con dei bei ritmi. Ultimi seguivano la banda Tim e Barny, gli ospiti d'onore. E così, passo dopo passo, la processione arrivò in paese. Gli abitanti, usciti dalle case per attendere la nascita di Gesù, non credevano ai loro occhi: mai si era visto uno spettacolo così bello. Finito di suonare, gli animali fecero venire avanti Tim e Barny che presero posto nella grotta.

Eccoli dunque pronti per il fatidico momento. Allo scoccare della mezzanotte, iniziarono a suonare le campane: Gesù era nato. Mentre tutti cantavano "Gloria a Dio su nel cielo e pace in terra agli uomini di buona volontà", il sacerdote pose il bimbo di gesso nella grotta e i due amici commossi si chinarono per scaldarlo con il loro fiato, come era stato loro detto. Ma all'improvviso, il piccolo bimbo di gesso si animò, aprì gli occhi e guardando il bue e l'asinello disse: "Non è il calore del vostro fiato a scaldarmi in questa gelida notte, ma l'amore che regna tra voi, l'amore della vostra amicizia. Tutte le volte che continuerete a volervi bene, così come avete sempre fatto, io sarò tra voi, come in questa notte".

Questione di pochi attimi e il bimbo ritornò immobile, di gesso. La funzione finì e Barny e Tim ritornarono nella loro fattoria.

Era stato un sogno, uno scherzo della loro fantasia, o davvero un miracolo di Gesù Bambino? E chi lo sa! I due amici non raccontarono mai a nessuno l'episodio, che tennero conservato nel loro cuore fino alla morte. Ma nei loro occhi, da quella notte, ci fu una luce nuova che non passò inosservata agli amici della fattoria: la certezza che quel loro piccolo amore e quella loro semplice amicizia, era qualcosa di grande agli occhi di Dio.

nataleamicizia

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inviato da Marcello, inserito il 23/05/2006

ESPERIENZA

71. Marocchino

Mi sto dirigendo verso l'ospedale di Borgomanero, provo a parcheggiare l'auto dove non parcheggio di solito. Appena sceso, mi si fa incontro un marocchino sulla cinquantina molto cordiale e per nulla insistente, che mi richiede del farmaco antinfiammatorio per un insistente mal di schiena che lo affligge da tempo. Con me non ne ho e rispondo, forse anche per acquietarmi la coscienza, che lo avrei cercato nei reparti verso cui mi stavo dirigendo all'interno dell'ospedale.

Terminata la mia visita al reparto oncologico, mi appresto a tornare verso l'auto. Naturalmente mi ero scordato di quella richiesta fattami in precedenza e quindi il farmaco non era in mio possesso.

Non so al suo apparire cosa dire. Mi viene spontaneo, era lunedì, garantirgli un mio nuovo passaggio da quelle parti il mercoledì o il giovedì seguenti, ma dovevo ripassarci appositamente e quindi non mi era per nulla "comodo". Decisi, a tal punto, di tornare solo quando si fosse presentata l'occasione buona, magari anche dopo quindici giorni.

Lungo il viaggio di ritorno a casa, mi sovvenne alla memoria una frase, letta e meditata, nella quale, si diceva che S. Chiara, "contava" gli atti di amore compiuti in un giorno. Inoltre mi ricordavo come sia estremamente importante rispettare la parola data, sempre.

E allora, chi era per me in quel dato momento quel marocchino se non Gesù in persona affetto da mal di schiena che chiedeva a "me" quella data medicina, per di più difficile da reperire in quanto distribuita da un'azienda poco presente sul territorio nazionale?

Non so come fare, decido di passare comunque il mercoledì seguente anche se devo allungare la strada. Ma la pomata di quella data marca...?

Il giorno seguente sono all'ospedale di Busto Arsizio. Dopo il mio solito giro mi dirigo all'ora di pranzo verso casa anche per costatare le condizioni di mia moglie. Dirigendomi verso l'auto, passo sotto i portici ove è sito il bar presso il quale i colleghi si fermano per una spuntino. Passo vicino ad un tavolino.Mi arresto di colpo, mi volto e... trovo proprio quel collega di quella data ditta che produce la pomata che mi serve.Faccio presente che quel collega in un anno lo vedrò si e no sette, otto volte. Mi faccio consegnare i campioni di antinfiammatorio, pronto per correre il giorno seguente a Borgomanero. Arrivato intravedo il marocchino, abbasso il finestrino, consegno quanto dovuto ricevendo un grande sorriso ed un "grazie amico". Con rinnovata gioia nel cuore riprendo il mio "solito" giro.

coerenzasolidarietàcarità

inviato da Don Ambrogio Villa, inserito il 05/02/2006

RACCONTO

72. Ambra: tra globalizzazione e universalismo

M. Mezzini, C. Rossi, Gli specchi rubati. Percorsi multiculturali nella scuola elementare

In un paese né grande né piccolo, da qualche parte in Italia, vive una bambina che si chiama Ambra, nome derivato dalla parola anbar che in arabo significa "preziosa".

Al mattino Ambra si alza presto e fa colazione con i corn-flakes, prodotti a base di cereali e di mais, originario del Messico. Poi si veste indossando una felpa di cotone, pianta originaria dell'India, introdotta in Europa dagli arabi alla metà del IX secolo. L'etichetta della felpa dichiara: "made in Taiwan".

Ambra va a scuola e risolve problemi utilizzando numeri indiani, portati in Europa dagli arabi. Durante la ricreazione mangia una banana cresciuta ai tropici e fa una partita a scacchi, gioco di antichissima origine, probabilmente indiana. Racconta poi alla sua amica Sara - che porta il nome di origine ebraica, della santa protettrice degli zingari - come ha trascorso la domenica. Utilizza parole quali computer, videogame, film, judo, chimono, rispettivamente prese a prestito dall'inglese e dal giapponese.

Alla mensa scolastica mangia spaghetti al pomodoro, e forse non sa che la pasta è stata inventata dai cinesi e che il pomodoro, sconosciuto in Europa fino al '500, fu importato dalle Americhe.

Nel pomeriggio l'insegnante d'inglese parla di Halloween, la festa più amata dai bambini americani e Ambra si ricorda di aver sentito raccontare qualcosa di molto simile dalla sua nonna, originaria della Calabria.

Tornata a casa si concede un po' di tempo davanti alla TV. Mentre guarda i suoi cartoni animati giapponesi e un documentario sui Masai sgranocchia una barretta di cioccolato, ottenuta dalla lavorazione del cacao, coltivato esclusivamente nelle zone tropicali.

Per sfuggire la presenza di sua sorella che si sta impasticciando i capelli con l'henné, polvere naturale colorante usata tradizionalmente dalle donne del Medio Oriente e del Maghreb, Ambra si rifugia nell'angolo preferito della sua stanza, su un tappeto pakistano, probabilmente fabbricato da un suo coetaneo.

Fantastica di praterie, cavalli e "tepee", indiani, masticando una caramella balsamica all'eucalipto, pianta originaria australiana.

Nel frattempo anche papà è tornato. A tavola Ambra ascolta confusa un suo commento alle notizie del telegiornale: «Tutti questi stranieri minacciano la nostra tradizione e non hanno proprio niente da insegnarci».

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inviato da Maddalena Rotolo, inserito il 05/01/2006

TESTO

73. Il Segno della Croce

Matteo Salvatti

Che dono, che grande dono, il Segno della Croce! Non dovremmo mai stancarci di ringraziare il Signore per questo gesto di amore verso di noi. Un dono eterno, che mai si esaurisce e che sempre possiamo sfruttare a nostro beneficio.

Con il segno della santa croce noi veniamo inglobati, subito, all'istante, nel grande vortice del paradiso. Siamo già in paradiso, siamo già con Lui! Non c'è istante della vita in cui non possa essere composta questa melodia del cielo. Non c'è problema che non sia immediatamente alleviato da quel gesto. Un gesto universale, perché non esiste preghiera tanto semplice e tanto bella. Una preghiera così universale che ingloba tutti, che si esprime con il solo linguaggio dell'amore, che travalica, supera ogni lingua, così che davanti a quel gesto tutte le nazioni, tutti i continenti si scoprono davvero fratelli.Ogni volta che tracciamo il segno della croce su di noi, ci tocchiamo prima il capo: simbolo della ragione, perché la ragione è essenziale per giungere a Dio, la cui conoscenza non è gioco cieco, avventura spericolata. Poi ci tocchiamo il cuore, perché la fede è l'amore, è l'amore di Dio, è il Suo dono gratuito, senza il quale non possiamo credere, è fondamentale la sua grazia. E infine ci tocchiamo le spalle, perché è il nostro corpo, la nostra responsabilità, la nostra singolarità di persone che alla fine deve accettare Dio. Ognuno lo deve accettare singolarmente, con una adesione personale.

Ma il segno della croce non testimonia solo la fede: il segno della croce testimonia anche la carità. Noi ci tocchiamo il capo, perché dobbiamo conoscere Dio con le parole, tramite la Sua rivelazione, tramite la Sua parola rivelata, ma ci tocchiamo anche il cuore, perché poi dobbiamo saper meditare, come Maria, tutto nell'amore, e infine ci tocchiamo per due volte le spalle: perché tutto deve trasformarsi in carità operosa, altrimenti tutto diventa sterile.

Il segno della santa croce: tracciamo su di noi il segno della croce di Gesù, il vessillo glorioso, la nostra salvezza. Con quel gesto noi abbracciando noi stessi con le nostre stesse braccia abbracciamo Gesù e ci doniamo completamente e totalmente a Lui, accettiamo apertamente la Sua Croce.

Il segno della Santa Croce: l'orgoglio dei cristiani: quel gesto da compiere tutti i giorni, più volte al giorno, in tutte le circostanze. Anche quando la malattia impedisce la parola o neppure ci si può alzare dal letto, quel gesto fatto con fede quanta pace dona, quanta gioia, quanti miracoli ottiene!

crocesegno di croce

inviato da Matteo Salvatti, inserito il 09/12/2005

TESTO

74. Terza Lettera a Timoteo   2

Francesco Lambiasi

La seguente lettera è uno "pseudoepigrafo paolino", sulla conversione missionaria del prete; è una simpatica e profonda lettera rivolta da un vescovo ai preti di oggi.

Carissimo fratello Timoteo,

da circa un mese sei parroco in Santa Maria del terzo Millennio. Come non ricordare la solenne e commovente "presa di possesso"? L'unica pecca che stava per guastare la festa fu proprio quella bruttissima espressione - "presa di possesso" - che il cancelliere vescovile voleva implacabilmente inserire nel verbale da conservare nell'archivio Diocesano e in quello parrocchiale. Ti ho letto nel lampo degli occhi che stavi per scattare - per dire con la vostra brutalità giovanile che non ti sentivi affatto un vassallo in atto di prendere possesso del suo ambìto feudo. Intervenni io, un po' a gamba tesa, e spiegai alla tanta gente in festa che tu, la parrocchia, non l'avresti mai e poi mai vista come un "tuo" possesso, ma solo come un dono immeritato e preziosissimo, e a quel punto mi permisi un'autocitazione, presa dalla mia seconda lettera ai cristiani di Corinto: noi non intendiamo far da padroni sulla vostra fede; siamo invece i collaboratori della vostra gioia.

Mi telefonasti la sera dopo, e mi dicesti: "Che bella parrocchia! E c'è anche la luna!". Da allora non ti ho più visto né sentito, ma dato che siamo al primo... "trigesimo" di quel felice inizio, ho pensato bene di scriverti questa breve lettera, perché vorrei che la tua gioia di essere parroco crescesse di giorno in giorno.

Sì, lo so: questo miracolo della beatitudine è purtroppo un po' raro tra noi pastori, ma non è improbabile e niente affatto impossibile. Ed è proprio di questo che vorrei parlarti. Stai sereno, non ti rifilo un trattato di ascetica e mistica sulla carità pastorale. Ti vorrei parlare solo di una condizione assolutamente irrinunciabile - "sine qua non", si diceva ai miei tempi - perché il miracolo si avveri. Sarai un parroco felice nella misura in cui sarai un vero missionario. Non si scappa: o missionari o... dimissionari.

E' una conversione profonda, che bisogna rinnovare ogni giorno. Ogni mattina, prima di mettere i piedi fuori dal letto, beato te se dirai: "Grazie, Signore, per avermi creato, fatto cristiano, e grazie per avermi fatto questi piedi belli per il vangelo". Scrivi sullo specchio in sagrestia, o almeno in quello del bagno: "Non sono un professionista del sacro, né un insegnante della fede: sono un annunciatore del vangelo". Quando ero a Corinto io avevo scritto sulla porta della stanzetta nella casa di Aquila e Priscilla: Non sono stato mandato qui a battezzare, ma ad evangelizzare.
Ricordi la grammatica di base del missionario, che ti ho insegnato quando prima di essere tuo vescovo, ti ho fatto da rettore in seminario? E' una grammatica costruita su un quadrilatero di certezze che devono rimanere solide più delle fondamenta della tua splendida chiesetta romanica:

- La parola di Dio è come l'acqua e la neve, se cade...
- La Parola non è lontana, ma molto vicina al cuore, anzi è dentro. Basta trovare il modo per far scattare il contatto...
- "Come agnelli tra i lupi" non è per farci sbranare, ma per far accogliere il messaggio: quanto più siamo deboli umanamente...
- A noi tocca il compito di annunciare. E' il Signore che veglia sulla sua parola perché si realizzi...

Stai attento, Timoteo: devi essere severo nel vigilare che questo spirito missionario non venga aggredito da virus micidiali, quali l'IO-latria del prete che pensa: "Come me non c'è nessuno: prima di me e dopo di me, non ci sarà nessuno uguale a me!". Perciò niente cose alla "W il parroco!". Un altro virus che fa strage in casa nostra è quello dello stress da pastorale: correre, competere, confliggere e alla fine... l'eterno riposo! Ma non c'è da scherzare neanche con la depressio clericalis (si chiama così anche quando infetta i laici): la si vede come un messaggio scritto sulla maglietta in quei "nostri" che vanno in giro con l'aria fritta di chi sembra dire: "fateme 'na flebo". Ti ripeto: devi essere severo. E se lo sarai con te, potrai vigilare anche sullo spirito missionario dei "vicini". Per esempio i gruppi - dal coro a quello liturgico, a quello catechistico e caritativo, dall'AC ai carismatici - non devono essere luoghi di potere o gradini per emergere (è un pericolo sempre in agguato), ma sviluppare il servizio al vangelo. Allora la tua - la vostra - parrocchia non sarà una scuola in cui si spiega il cristianesimo o, peggio ancora, un ufficio di controllo della fede dei parrocchiani, ma riuscirete a far circolare la parola di Dio per le strade, in modo che la gente la incontri.

E con gli altri? Quelli che si servono della parrocchia per continuare abitudini e consuetudini sociali; quelli che la ignorano: cosa puoi esigere se non hanno le motivazioni? Allora ringrazia Dio tutte le volte che càpitano a messa. Tutte le volte che ti portano i figli al catechismo. Tutte le volte che ti chiedono i sacramenti, per sé o per i figli, o il funerale per il caro estinto. Anche se per le loro motivazioni non proprio di fede. Tutte le volte! Non è una disgrazia: è un dono di Dio che vengano, quando saresti tu che dovresti andare a cercarli.

Accogliendoli così come sono, non farai finta che abbiano le tue motivazioni. Quindi non li rimproveri e non li ricatti, non imponi loro dei compiti come se avessero le tue motivazioni, non parli loro e non fai prediche come se avessero la fede. Ti comporti da missionario: entri nella loro situazione, cerchi di capire le loro domande e i loro interessi, parli la loro lingua, proponi con libertà e chiarezza il messaggio, non imponi loro dei fardelli che nemmeno tu riesci a portare.
Per finire, permettimi di ricordarti alcune regole che ti potranno servire per misurare il tuo spirito missionario.

1. Non maledire i tempi correnti: è arrivato al capolinea il cristianesimo dell'abitudine e sta rinascendo il cristianesimo per scelta, per innamoramento.
2. Non anteporre nulla all'annuncio di Gesù Cristo, morto e risorto. Afferra ogni situazione, ogni problema, ogni interesse e riportalo lì, al centro di tutta la fede.
3. Annuncia il cristianesimo delle beatitudini e non vergognarti mai del vangelo della croce: Cristo non toglie nulla e dà tutto!
4. Il vangelo è da proporre, non da imporre. Non imporlo mai a nessuno, neanche ai bambini, soprattutto ai bambini: gli resterebbe un ricordo negativo per tutta la vita.
5. Non amareggiarti per l'indifferenza dei "lontani" e non invocare mai il fuoco dal cielo perché li consumi, ma fa' festa anche per uno solo di loro che si converte.
6. Ricorda: il kerygma non è come un chewing-gum che più si mastica e più perde sapore. Il messaggio cristiano non è da ripetere meccanicamente, è da reinterpretare nella mentalità e nella lingua della gente: vedi s. Paolo. Scusami: guarda me...
7. Sogna una parrocchia che sia segno e luogo di salvezza, non club di perfetti.
8. Non credere di comunicare il vangelo da solo! Almeno in 2, meglio in 12, molto meglio in 72! Creare un gruppo di parrocchiani veri per evangelizzare i presunti tali.
9. Ricordati che i laici non vanno usati come ausiliari utili, ma vanno aiutati a diventare collaboratori corresponsabili.
10. Non ridurti mai a vigile del traffico intraparrocchiale: tu non sei il coordinatore delle attività o il superanimatore di gruppi, ma sei una vera guida, sei il primo evangelizzatore.

Ti auguro di credere sempre nella presenza forte e dolce dello Spirito Santo e ti raccomando di ravvivare il dono di Dio che è in te per l'imposizione delle mie mani.

Caro Timoteo, ti ripeto quanto ti scrissi nella mia prima Lettera: Custodisci con cura tutto quanto ti è stato affidato. Evita le chiacchiere contrarie alla fede. E ti raccomando pure quanto ti scrissi nella seconda Lettera: Ti scongiuro davanti a Dio e a Cristo Gesù: annuncia la parola, insisti in ogni occasione opportuna e inopportuna, rimprovera, raccomanda e incoraggia con tutta la tua pazienza.

La grazia sia con te e con tutti i fedeli della tua comunità, anche con quelli che ancora non sei riuscito ad incontrare!

Paolo, missionario di Gesù Cristo

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inserito il 01/10/2005

TESTO

75. Catechismo e carità

San Luigi Orione, Nel nome della Divina Provvidenza, Ed.Piemme

L'Opera della Divina Provvidenza è cominciata sette anni fa in un giorno di quaresima, e propriamente con un po' di Catechismo ad un ragazzo che piangeva, fuggito d'in chiesa.

Quel figliolo divenne poi buono e più cristiano, ed ora, benché soldato, ricorda ancora con piacere quel giorno tempestoso e felice per li.

Ma e dopo lui quanti figliuoli col Catechismo e colla grazia del Signore divennero più buoni e più cristiani!

Ah l'efficacia del Catechismo! Sapete o figliuoli, che cosa sia e che cosa importi il Catechismo?

Gesù trasformò da capo a fondo la società: la trasformò nelle idee, nei costumi, nelle leggi, in tutto.

E con qual mezzo visibile? Con un mezzo semplicissimo. Udite. Chiamò intorno a sé dodici poveri pescatori e, dopo avere per tre anni scritto il Catechismo nella loro mente e nel loro cuore, disse: "Andate, ammaestrate tutti i popoli: insegnate loro ciò che io ho insegnato a voi, e i vostri successori proseguano l'opera vostra fino al termine de' tempi".
E così fecero, e il mondo divenne cristiano. (...)

Volete forse il segreto per guadagnarvi l'affetto e trascinarvi dietro le turbe dei ragazzi? Eccovelo, il grande segreto: vestite la carità di Gesù Cristo!

Per piantare e tenere viva l'opera del Catechismo una cosa sola basta: la carità viva di Gesù! Tutti gli ostacoli cadono, tutto si ottiene, quando chi fa il Catechismo ha la carità di Gesù Cristo.

Se sarete scelti dall'alto privilegio di aiutare il vostro parroco a fare il Catechismo, domandate al Signore che vi dia carità grande.

Quella carità paziente e benigna, umile, garbata, che tutto soffre, tutto spera, tutto sostiene, e non viene mai meno.

Ripieni di questa carità, andate in cerca dei fanciulli che la domenica specialmente vanno errando per le vie e per le piazze, guadagnateli con questa carità: non stancatevi mai, dissimulate i difetti, sappiate soffrire e compatire tanto.

Abbiate un sorriso, una parola soave, amabile per tutti, senza differenze, o figli miei, fatevi tutti a tutti per portare tutte le anime a Gesù. Siate pronti per un'anima a dare la vita e a dare mille vite per un'anima! Colla dolcezza di Gesù voi, o cari figliuoli, vincerete e guadagnerete tutti i fanciulli del vostro paese.

La carità del Signore Nostro Crocifisso, ecco il segreto, anime dei miei figli e de' miei fratelli, ecco l'arte di tirare a noi, di toccare i cuori, di convertire, di illuminare e di educare i fanciulli, speranza dell'avvenire e delizia del Cuore di Dio!

Carità viva! Carità grande! Carità sempre! E rinnoveremo la gioventù! Oh quanti poveri figliuoli ho conosciuto sviati, disonesti, arrabbiati contro noi preti... che ci odiavano senza conoscerci,... giovani creduti incorreggibili..., eppure non avevano bisogno che d'una buona parola, d'una parola santa di carità, di uno sguardo dolce per essere vinti!

Carità viva! Carità grande! Carità sempre! Colla carità faremo tutto, senza la carità faremo niente!

Oh vieni! O carità santa e ineffabile di Gesù e vinci e guadagna il cuore i tutti e vivi grande e affocata nella povera anima mia!

caritàcatechismoragazzigioventùeducareeducatori

inviato da Sabrina Murzi, inserito il 19/06/2005

TESTO

76. Gesù bussa al tuo cuore   1

Vito Mangia

Forse siamo tutti un po' come Giovanni Battista in carcere: quando sorgono i dubbi, le ansie, abbiamo bisogno di conferme.

Noi facciamo il nostro dovere: lavoriamo, studiamo, intratteniamo relazioni, diamo qualcosa di noi stessi agli altri; poi sentiamo bisogno di qualcos'altro, qualcosa di cui non sappiamo dire il nome...

Sarà troppo, sarà esagerato pensare che quel "qualcosa", quel "qualcuno" è Dio? Si tratta di un'esigenza profonda, intima, viscerale.

Quando non capiamo cosa sia, riempiamo, copriamo, quasi annebbiamo questa esigenza.

La "imbottiamo" - per tenerla buona e al suo posto - e la ricopriamo di cose da fare. A volte la riconosciamo, questa benedetta esigenza di Dio, ma è troppo impegnativo seguire le sue indicazioni.

Meglio rimandare a domani, alla prossima settimana, o meglio: alla prossima adorazione, al prossimo ritiro, al prossimo incontro associativo e di gruppo, al prossimo rosario, alla prossima condivisione spirituale, alla prossima confessione, al prossimo silenzio. Cioè lontano, dopo, mai.

In fondo il "poi" è o non è - nei proverbi e nella realtà - parente del "mai"? È la nostra natura, siamo fatti così...

Signore, ci devi proprio capire, noi abbiamo bisogno di segni, di essere scossi, di vederti... sennò non ti seguiamo.

"Hai capito, Signore?", diciamo dentro di noi. E il Signore non capisce. Fa il testardo lui.

Noi gli chiediamo se ne vale davvero la pena e lui risponde a modo suo. Arriva, passa, bussa al cuore, continua a camminare.

A volte ci destiamo, facciamo in tempo ad alzarci dalle comode poltrone dei nostri interessi, a spoltrirci dai comodi divani dei nostri divertimenti e narcisismi; a volte facciamo in tempo ad affacciarci dalla finestra del nostro cuore e lo vediamo. Lui, Gesù, che ci passa accanto ed opera prodigi: alcuni vedono con occhi diversi la realtà, altri sentono finalmente la sua Parola, i poveri in spirito si dicono beati, chi si dimenava negli stagni fangosi del peccato trova il coraggio e la forza di rialzarsi, di ripulirsi, di andare oltre.

A volte ci viene la tentazione di andare alla porta, spalancarla, uscire per strada e gridare: "Aspetta, Gesù, aspettami! Faccio ancora in tempo a seguirti?".

E lui si volta da lontano, guarda con tenerezza infinita dentro i nostri occhi. E si ferma.

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inviato da Don Vito Mangia, inserito il 21/02/2005

ESPERIENZA

77. L'esperienza che si fa messaggio

Tonino Bello

Carissimi catechisti,

è autentica. Ieri sera stavo amministrando l'eucarestia, durante la messa solenne, quando si è presentato un papà con la figlioletta in braccio. Il Corpo di Cristo. Amen. E gli ho fatto la comunione.

La bambina allora, che osservava con occhi colmi di stupore, si è rivolta a suo padre e gli ha chiesto: «È buona?». Sono rimasto letteralmente bruciato da quell'interrogativo. A tal punto, che mi son dovuto fermare. Poi, con la pisside in mano, mi son fatto largo fra la gente, ho raggiunto quel signore che si era già allontanato, e ho sentito il bisogno di dare un bacio alla sua bambina.

Quella domanda mi è parsa splendida. E siccome nell'omelia avevo detto che in fatto di fede possiamo trasmettere agli altri solo ciò che sperimentiamo noi stessi, ho pensato che il Signore, con la battuta ingenua di una bambina e nel linguaggio spontaneo dei semplici, avesse voluto restituirmi la sintesi del mio lungo discorso.

In effetti, ciò che rende credibili sulle nostre labbra di annunciatori la trasmissione del messaggio di Gesù è soltanto l'esperienza che noi per primi facciamo della sua verità. Una verità che non passa, se chi la trasmette non ne pregusta un assaggio e non se ne nutre in abbondanza.

La domanda di quella bambina, perciò, ci stringe d'assedio, perché chiama in causa non tanto il nostro sapere religioso, quanto lo spessore del nostro vissuto concreto.

«È buona?». Perché, se la mensa di cui tu parli ti riempie di forze, desidero sedermi anch'io alla tua tavola. Spezzane un po' anche per me di quel pane che tu gusti avidamente. Fammi bere alla stessa brocca, se è vero che quell'acqua toglie la sete e ti placa l'arsura dell'anima.

«È buona?». Perché se l'hai già provato tu che la legge del Signore è perfetta e rinfranca l'anima, come dicono i salmi, o che gli ordini del Signore fanno gioire il cuore, e le sue parole sono più dolci del miele e di un favo stillante... fa' assaporare pure a me queste delizie del palato e non escludermi da condivisioni di così squisita bontà.

Carissimi catechisti, io non so bene cosa ieri sera, a messa, avesse voluto da me il Signore, il quale per dirla ancora con le Scritture, si esprime spesso con la bocca dei bimbi e dei lattanti.

Ha voluto provocarmi a uscire dall'assuefazione ad un cibo troppo distrattamente consumato? Ha inteso rimproverarmi la sistematica assenza di gratitudine per il Suo Pane disceso dal cielo? Ha voluto farmi prendere coscienza con quanto poco stupore accolgo la ricchezza dei suoi doni?

Non lo so.

Certo è che, se quella bambina avesse potuto capirmi e io mi fossi sentito meno indegno di accreditarmi certi meriti, avrei risposto per conto del suo papà, rimasto muto, e avrei voluto dirle: «Sì che è buona l'eucarestia. Così come è buona la sua Parola. Così come è buona la sua amicizia. Così come è buona la sua croce. Te lo dico io che non posso più resistere senza quell'ostia. Che non so più fare a meno della sua Parola di vita eterna. Che sperimento la sua amicizia, sia nel gaudio di quando Lui mi è accanto, come nella nostalgia quando mi manca. Te lo dico io che ho una croce leggera sul petto, e una pesante sulle spalle. Quest'ultima, però, da quando ho capito che è una scheggia di quella portata da Lui, da simbolo delle mie sconfitte, si è tramutata in fontana di speranza. Per me e per gli altri. Parola di uomo!».

eucaristiatestimonianzacristianesimo

inviato da Michelangelo Dessì Sdb, inserito il 08/12/2004

RACCONTO

78. La donna   2

Quando il Signore fece la donna era il suo sesto giorno di lavoro, facendo straordinari. Apparve un angelo e disse: «Perché usi tanto tempo nel fare questo?»

E il Signore rispose: «Hai visto il formulario delle specifiche che possiede? Deve essere completamente lavabile ma non di plastica, ha duecento parti mobili e tutte sostituibili, funziona a caffè e resti di pranzo, ha un grembo nel quale stanno due bambini allo stesso tempo, possiede un bacio che può curare qualsiasi cosa, da un ginocchio sbucciato ad un cuore rotto ed ha sei paia di mani».

L'angelo era sorpreso da tutti i requisiti che la donna possedeva. «Sei paia di mani! Non è possibile!»
«Il problema non sono le mani, sono i tre paia di occhi che le madri devono avere», rispose il Signore.
«Tutto questo nel modello standard?», chiese l'Angelo.

Il Signore assentì con il capo. «Sì, un paio d'occhi servono affinché possa vedere attraverso una porta chiusa chiedendo ai figli cosa stanno facendo, nonostante lo sappia. Un altro paio sono nella parte posteriore della testa per vedere cose che ha bisogno di conoscere nonostante nessuno pensi che sia necessario.Il terzo paio sono nella parte anteriore della testa. Questi servono quando vede i figli smarriti e guardandoli dice loro che li capisce e li ama comunque senza bisogno di dire una parola».

L'Angelo cercò di fermare il Signore: «Questo è un carico troppo grande per la donna!».
«Ascolta il resto delle specifiche!», protestò il Signore. «Si cura da sola quando è ammalata, può alimentare una famiglia con qualsiasi cosa e può far sì che un bambino di nove anni resti sotto la doccia».

L'Angelo si avvicinò e toccò la donna: «Però, l'hai fatta tanto morbida, Signore!».
«Lei è morbida e dolce» disse il Signore, «però allo stesso tempo l'ho fatta forte. Non hai alcuna idea di quanto possa essere resistente e di quanto possa sopportare».
«Potrà pensare?» chiese l'Angelo.
Il Signore rispose: «Non solo sarà capace di pensare ma anche di ragionare e di negoziare».

L'Angelo notò qualcosa, si stirò e toccò la guancia della donna.
«Oh! Sembra che questo modello abbia una perdita. Gliel'ho detto che stava cercando di metterci troppe cose!».
«Questa non è una perdita, obiettò il Signore, questa è una lacrima!».
«E a cosa servono le lacrime?» chiese l'Angelo.
Il Signore disse: «Le lacrime sono la forma nella quale esprime la sua allegria, il suo dolore, il disincanto, la solarità, il suo orgoglio».

L'Angelo era impressionato. «Sei un genio Signore! Hai davvero pensato a tutto, visto che le donne sono veramente meravigliose!».

E il Signore aggiunse: «Le donne hanno una forza che meraviglia gli uomini. Crescono i figli, sopportano le difficoltà, portano carichi pesanti, tacciono quando vorrebbero gridare. Cantano quando vorrebbero piangere. Piangono quando sono felici e ridono quando sono nervose. Litigano per ciò in cui credono. Si sollevano contro le ingiustizie. Non accettano un NO come risposta quando credono che esista una soluzione migliore. Se sono in ristrettezze comprano le scarpe nuove per i figli e non per se stesse. Accompagnano dal medico un amico spaventato. Amano incondizionatamente. Trionfano. Hanno il cuore rotto quando muore un amico. Soffrono quando perdono un membro della famiglia ma riescono ad essere forti quando non c'è più nulla da cui trarre energia. Sanno che un abbraccio ad un bacio possono aggiustare un cuore rotto. Le donne sono fatte di tutte le misure, le forme ed i colori. Amministrano, volano, camminano o ti mandano e-mail per dirti quanto ti amano. Le donne fanno più che trasmettere luce, portano allegria e speranza, compassione ed ideali. Le donne hanno infinite cose da dire e da dare. Sì, il cuore delle donne è meraviglioso».

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5.0/5 (1 voto)

inviato da Giovanna Carosini, inserito il 29/07/2004

TESTO

79. Lucciole d'amore, scarafaggi di rabbia   1

"L'uomo è stato creato da Dio perché ami". Questa affermazione riassume in sé tutto quanto sia necessario dire. Certo, poi si possono dare spiegazioni, si può approfondire e discutere. Ma in ogni caso quella frase contiene tutto il necessario. Capita a volte di stupirsi per la gratuità dell'amore che riceviamo. Capita a volte che una persona abbia una semplice gentilezza verso un altro individuo, che dica una parola buona, che abbia anche solo uno sguardo di dolcezza o risponda un "grazie" di cuore, anche quando esso non sia dovuto. Queste sono piccolezze, ma ciascuna è una piccola gemma d'amore, una piccola luce... una lucciola d'amore. Ciò che le caratterizza è la loro semplicità da una parte e la loro assoluta, completa gratuità dall'altra. È un'esperienza bellissima accorgersi poi di come a volte possa instaurasi un vero e proprio circolo virtuoso grazie alla presenza di queste piccole, semplici lucciole d'amore. Se qualcuno lancia a un altro una piccola lucciola d'amore, chi la riceve ne sarà felice. Non è davvero la felicità entusiasta e sfrenata che si può provare nel vedere, per esempio, realizzato un proprio grande desiderio... è tuttavia pur sempre una piccola felicità, un senso di benessere, una piccola lucciola che, a volte, è sufficiente ad illuminare quella che altrimenti sarebbe stata solo una grigia e fredda giornata di noie, di malumori e di preoccupazioni. Forse, allora, capiterà che chi riceve una piccola lucciola d'amore si accorga della sua gratuità e del benessere che gli deriva dal ricevere questo piccolo gesto. Forse capiterà anche che si fermi un momento a riflettere e a gustare quel piccolo benessere. E forse, a questo punto, gli sorgerà il desiderio di fare altrettanto verso altre persone: donare piccole e gratuite lucciole d'amore. Se, poi, questo individuo davvero proverà a donarne alcune, allora si accorgerà con grande, meraviglioso stupore di quanto sia facile lanciare agli altri lucciole d'amore, di quanta poca fatica costi, e di quanta gioia porti non solo agli altri ma anche a lui per primo! Già, perché la fatica che occorre per lanciare piccole lucciole d'amore è davvero poca: un sorriso, una parola gentile, un gesto semplice, una cortesia da nulla, una risposta garbata ad una do-manda... sono molti gli esempi, le occasioni capitano mille volte al giorno! Chi riceve una lucciola d'amore sa quanto essa possa far bene, quanto scaldi il cuore!

Esistono a volte, invece, situazioni opposte: malumori e grattacapi possono chiudere il cuore degli uomini, e questi si riducono allora a scortesie, a risposte sgarbate, a dimenticare un "grazie" o un saluto... e questi comportamenti sono gratuiti e inaspettati, altrettanto quanto le lucciole d'amore. Sono scarafaggi di rabbia, che intristiscono il cuore, oscurano la giornata e rischiano, a volte, di innescare veri e propri circoli viziosi, in cui chi riceve uno scarafaggio di rabbia si incupisce al punto da lanciarne a sua volta ad altre persone, e così via...

Ma talvolta accade qualcosa di meraviglioso: capita infatti che qualcuno riceva uno di questi scarafaggi di rabbia e risponda ad esso con una piccola lucciola d'amore, diretta proprio verso chi gli aveva mandato la scortesia. Forse una sola lucciola in quel momento non basterà a rischiarare un cuore incupito, forse neppure due o tre... ma a volte capita di vedere persone che non si scoraggiano, e che portano dentro sé una luce tanto grande da potersi permettere di intestardirsi nel "bombardare" quel cuore cupo con lucciole d'amore. Oggi una, domani un'altra, dopodomani ancora... e dai e dai, a un certo punto anche nel cuore cupo compare un raggio di luce. E questa persona, che fino ad ieri era cupa, accenna timidamente a lanciare a sua volta a un'altra persona una piccola, minuscola, timidissima lucciola d'amore. Che gioia, che stupore, che meraviglia quando questo accade! Che meraviglia scoprire che c'è un altro cuore che si è rischiarato, e quanta gioia c'è nel vedere che questo cuore ci prende gusto, che assapora la felicità di donare lucciole d'amore, ancora e ancora... diventa quasi una droga!

A volte capita però che le persone siano esauste, che rientrino a casa sfinite da una giornata di duro lavoro, di impegni, di scadenze, di fatiche... è come se, a volte, nel rientrare a casa venisse lasciata fuori dalla porta tutta la luce che avevano albergato in cuore fino a quel momento. Si comportano con le persone più care, con i famigliari, con la moglie, con il marito come se, adesso che sono finalmente a casa, "pretendessero" di ricevere a tutti i costi qualche lucciola d'amore da essi. Se è vero che le lucciole d'amore donate dalle persone più care e dalla persona amata sono le più luminose e le più lenitive nei confronti di un animo stanco ed esausto, è anche vero purtroppo che la pretesa che lucciole ci vengano donate è in se stessa un vero e proprio scarafaggio di rabbia. E uno scarafaggio di rabbia diretto verso la persona amata morde e graffia molto di più che non uno scarafaggio lanciato da un semplice conoscente o addirittura da uno sconosciuto! Le lucciole d'amore non devono essere mai pretese: altrimenti, si spengono. L'unico modo per mantenerle sempre luminose e vive è donarle, e le più preziose sono quelle che rispondono ad un piccolo scarafaggio di rabbia, perché a volte hanno il potere di tramutarlo in una bellissima lucciola!

generositàamoregratuitàdono di séamare i nemici

5.0/5 (1 voto)

inviato da Isabella, inserito il 29/07/2004

TESTO

80. Chi è Gesù

Autori vari

Credo che l'uomo più grande esistito finora sulla terra sia Gesù Cristo, e che nulla di quanto gli uomini hanno pur detto di più nuovo e concreto, o anche di più utile, dopo di lui, sia stato detto in contrasto con lui.
Elio Vittorini, scrittore

Gesù è la non violenza allo stato puro; è quella parte di noi che fa dono di sé e che si scontra con il negativo della vita. (...) Gesù evoca istantaneamente un' idea di fratellanza disarmata, di protesta pacifica contro ogni autoritarismo e volontà di sopraffazione. Forse per questo molti giovani oggi nel mondo sono portati a vedere in Gesù il fratello...
Nelo Risi, regista

Onestamente, non vi so dire chi sia per me Cristo, oggi. Per me è quello che era ieri, il più sublime caso di estremismo che io conosca.
Pier Paolo Pasolini, scrittore e regista

Invece di cercare libri e pitture sul Nuovo Testamento, ho aperto il Vangelo e vi ho trovato non già la storia di una persona con i capelli divisi sulla fronte e con le mani congiunte in atto di preghiera, bensì un essere straordinario, dalle labbra tonanti e dai gesti bruschi e decisi che rovesciava tavole, cacciava demoni e passava col selvaggio mistero del vento dal mistero della montagna ad una paurosa demagogia. (...) La letteratura su Cristo è stata, e forse saggiamente, dolce e remissiva. Ma la parola di Gesù è stranamente gigantesca: piena di cammelli che saltano attraverso le crune degli aghi e di montagne scaraventate in mare.
G.K. Chesterton, scrittore

«L'immediatezza con la quale Gesù insegna, non ha paralleli nel giudaismo contemporaneo. ed essa è tale che egli osa perfino opporre alla lettura della legge la diretta e presente volontà di Dio».
«Ognuna delle scene narrate nei Vangeli descrive la straordinaria padronanza di Gesù nell'affrontare le diverse situazioni, a seconda dei tipi di persone che incontra».
«Il suo modo di comportarsi e il suo metodo vengono a trovarsi ogni volta in contrasto con quello che gli uomini si aspettano da lui e con ciò che dal loro punto di vista sperano per sé».
«Bisognerebbe una buona volta mettere vicini tutti i passi dei vangeli nei quali si parla di questo discernimento di Gesù, senza lasciarsi prendere dal timore che si tratti di un impegno meramente sentimentale».
«I vangeli chiamano questa manifesta immediatezza del potere sovrano di Gesù la sua "autorità"».
«L'aiuto che Gesù dà ha il carattere di una partecipazione genuina, che prende in mano con passione la situazione...».
«Essenziale è l'indissolubile connessione fra quanto è stato qui detto e il messaggio di Gesù intorno alla realtà di Dio, del suo Regno e della sua volontà... Rendere presente la realtà di Dio: ecco il mistero essenziale di Gesù».
G. Bornkamm, Gesù di Nazareth

Gesù Cristo

inviato da Luca Peyron, inserito il 28/07/2004

TESTO

81. Fare spreco di generosità

Tonino Bello, Ti voglio bene, omelia pronunciata il 19 marzo 1993 durante il rito di Ammissione di due giovani seminaristi tra i candidati agli Ordini Sacri

... La cosa più importante che vi voglio dire è quello di fare veramente con il Signore spreco di generosità. Guardate, non impressionatevi per i problemi che ci sono nel mondo, per le difficoltà che dovete incontrare per arrivare alla meta del sacerdozio. È difficile che oggi dei giovani scelgano di seguire Gesù Cristo con totalità, con libertà, con amore, lusingati come sono da tante seduzioni: le seduzioni della strada, della piazza, del successo, non dico del denaro, perché forse, grazie a Dio, nonostante la promessa di povertà, di fame non morrete nella Chiesa. Però dovete rimanere poveri, nella condizione di dipendenza da Dio, sentirvi poveri davanti a lui.

Ci sono lusinghe, le lusinghe della ricchezza, che vi attraggono, che attraggono tanti giovani: voi resistete a queste lusinghe e andate avanti con gioia perché volete seguire il Signore. Ma è difficile, oggi.

Ci sono le lusinghe bellissime, dolcissime, nella cui trama di rugiada, carica di luce, che sa di cancelli che immettono nell'aldilà, nell'ulteriorità, è facile abbandonarsi: la lusinga dell'amore, dell'amore per una donna. Pure dentro di voi batte il cuore per queste cose sante, pure e nobili. Eppure voi con grazia, con garbo, accantonate e mettete da parte con la stessa delicatezza con cui accarezzate il volto di Gesù Cristo. Mettete da parte tutta questa potenziale esperienza che potete avere per dire: "Signore, io seguo Te più da vicino, in modo più stretto. Voglio vivere in un legame più forte per poter essere più pronto a darti una mano, più agile perché i miei piedi che annunciano la pace sui monti possano essere salutati con gioia da chi sta a valle".
"Beati i piedi di coloro che sui monti annunciano la pace".

Coraggio, non lasciatevi lusingare oppure tirar dietro: guardate avanti con grande fierezza, con grande gioia perché il Signore è vicino. Il Signore ha bisogno di voi.

Il tempo si è fatto breve. Tantissimi giovani hanno bisogno di Lui, hanno bisogno di sentir parlare di Lui. I figli chiedono il pane e non c'è chi lo spezza per loro - dice un salmo; voi fate questa prova di gettarvi a capofitto in questo abisso di luce che è Gesù Cristo. Egli poi vi dà la forza di andare avanti. Vi sostiene. Vi dà l'entusiasmo, il gusto di vivere in mezzo al popolo, non lontano, non astratti dal mondo.

Io vi auguro che non stiate mai in testa e neppure in coda, ma possiate stare in mezzo al popolo, come Gesù: "Gesù, allora si sedette in mezzo ai dottori, aprì la bocca e disse...". Si sedette in mezzo. Gesù che si siede in mezzo...

Anche voi, sedetevi in mezzo alla gente, sentite il sapore e il profumo del popolo, inebriatevi di questo grande ideale di annunciare Gesù Cristo.

È splendido: dà significato alla vostra vita. Parola di uomo. È così. Il Signore Gesù è in grado di renderci felici al punto tale che questa felicità sentite il bisogno di trasferirla agli altri, a tutti coloro che vi accostano.

...Chiedete ogni giorno a Dio che vi dia un cuore umano che batta secondo i suoi ritmi. Quanti saranno i battiti di Gesù Cristo?

Come vorrei che il mio cuore battesse come il suo, in sintonia col suo per poter trascinare tutti quanti in un vortice di amore, di tenerezza, di bontà!

Chiedete al Signore che vi dia un cuore umano perché possiate essere capaci di capire la povertà della gente, la tristezza della gente, il pianto della gente; nessuno legge più questi "audiovisivi". Sono degli audiovisivi il pianto, la sofferenza, il dolore.

Il Signore si prende gioco della morte. Cos'è la morte davanti a Lui? Cos'è la malattia davanti a Lui? Cos'è un tumore davanti a Lui? Cosa volete che sia! Come facciamo a non vivere nella gioia, nel gaudio, nella speranza del Signore? Della morte lui si prende gioco. Il Signore non ci abbandona mai.

Il Signore vi dà la mano stasera, e la tiene sempre inevitabilmente stretta. E a meno che non siate voi a dichiarare il divorzio, state tranquilli che Lui da voi non si allontanerà più. È l'augurio che vi faccio ed è anche l'offertorio che presentiamo al Signore.

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inviato da Sandra Aral, inserito il 27/07/2004

ESPERIENZA

82. Il mio cammino con Gesù crocifisso e abbandonato

E.l.

E' iniziato così il mio cammino con Gesù Crocifisso e abbandonato.

Ero seduta di fronte al mio neurologo che con il volto preoccupato leggeva i risultati degli accertamenti da me eseguiti perché da tempo avevo dei proplemi alla vista e alle articolazioni, tanto da non riuscire a camminare bene. Mi aveva accompagnato una mia carissima amica.

Il neurologo mi guardava e comincia a parlare con termini medici a me poco chiari. Allora lo interrompo e gli dico: "Senti, parlami chiaramente, non ho problemi ad accettare qualunque sia la diagnosi". Mi guarda ancora quasi impacciato e mi dice: "Purtroppo è una forma di sclerosi multipla".

La mia amica rimane quasi senza respiro, io non faccio certo salti di gioia, ma in quel momento guardo un piccolo crocifisso posto nel muro dietro la scrivania del dottore. Non ascolto più le sue parole, il mio dialogo è con Gesù crocifisso e abbandonato che in quel momento mi chiama a condividere con Lui la croce della sofferenza, come il Cireno che sulla strada del Calvario prende la croce di Gesù.

Quella sera non dissi niente a mia figlia e mio marito, ma ho preso il Vangelo e leggo il discorso della montagna che Gesù fa alla folla e dice: "...beati i poveri, beati gli afflitti, beati gli operatori di pace, beati i poveri di spirito perché di loro sarà il regno de cieli...". Con quete parole ho messo nelle mani di Gesù le mie preoccupazioni, la mia sofferenza e la croce è diventata "un giogo leggero e soave" perché Gesù dice ancora: "venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi ed io vi ristorerò".

Questo dialogo con Gesù scaturisce dalla preghiera e meditazione della sua Parola, mi aiuta a liberare lo spirito da ogni cosa che mi impedisce di entrare in comunione con il Padre sempre pronto ad ascoltarci e risollevarci. L'apostolo Luca nella prima domenica di avvento ci dice "vegliate e pregate, alzate il capo non lasciatevi appessantire dagli eventi della vita". Ma gettiamo ogni preoccupazione nelle mani di Dio ed egli ci soleverà. Solo così si può accogliere Gesù che per amore nostro nasce nella povertà e umiltà, Dio mi ama e ci ama di un amore infinito, sono felice di averlo incontrato, in modo particolare, in questo momento di prova.

Ogni giorno offro a Lui la mia malattia, la mia sofferenza per tutti gli ammalati, chi si sente solo, i giovani, affinché possiamo riscoprire la tenerezza dell'amore di un Padre che non ci abbandona mai.

doloresofferenzacrocesacrificio

inviato da E.l., inserito il 22/12/2003

TESTO

83. A coloro che soffrono nel corpo

Tonino Bello, Pietre di scarto, ed. La Meridiana 1993

Carissimi, non scrivo per consolarvi. Anche perché so bene quanto fastidio vi diano le declamazioni di coloro che sentendosi sempre in dovere di spendere qualche parola con voi, ricorrono ai prontuari dei più indisponenti fraseggi. Non è di compatimento che avete bisogno. Prima di tutto, perché il compatimento è una spartizione fittizia del dolore. Poi, perché vi toglie la fierezza di rimaner soli sulla croce. E infine, perché rischia di fermarsi alla soglia delle parole. Al paraplegico che sta inchiodato su una sedia a rotelle, che sollievo può dare il sermone di circostanza fatto da chi magari, subito dopo, deve correre in palestra per una partita di basket? All'handicappato che ti interpella sui grandi perché della vita, e vuole rendersi conto delle ragioni misteriose che stanno all'origine della sfortuna, che conforto possono recare i luoghi comuni tratti dai repertori della compassione? A chi è ridotto all'impotenza da una malattia irreversibile o da un improvviso declino della salute, o da un fatale incidente sulla strada, e ti pone la scomoda domanda del «che ci sto a fare più sulla terra?», quale aiuto possono dare maldestre citazioni bibliche?

Davanti a chi soffre l'atteggiamento più giusto sembrerebbe il silenzio. Però anche il silenzio può essere frainteso o come segno di imbarazzo, o come tentativo di rimozione del problema. E allora tanto vale parlarne. Semmai con pudore, chiedendovi scusa per ogni parola di troppo.

Dire che con il vostro dolore contribuite alla salvezza del mondo, può sembrarvi letteratura consolatoria. Ricorrere alle frasi fatte degli occhi che vedono bene solo attraverso le lacrime, può essere inteso come insulto gratuito, almeno come un ritrovato sterile della saggezza umana. Accennarvi che, in fondo, ognuno si porta dentro il suo carico di dolori e che, tutto sommato, non siete poi così soli come sempre, potrebbe accrescere il vostro sdegno. Aggiungere che un giorno sarete schiodati pure voi dalla croce, può apparire uno scampolo di quell'eloquenza mistificatoria che non convince nessuno.

Ma dirvi che sulla croce un giorno ci è salito un uomo innocente, e che sul retro della croce c' è un posto vuoto dove un altro innocente è chiamato a fare compagnia ai rantoli di Cristo, appartiene al messaggio inquietante, e pur dolcissimo, che un Ministro della parola non può né accorciare, né mettere tra parentesi.

Chiamalo, il tuo Signore: è un nome breve. Non può non sentirti: è inchiodato appena dietro di te. Forse un giorno quel posto sarà mio. O lo è già da adesso, ed è solo l'esemplarità del vostro martirio più grande che me ne rende agevole il tormento.

Il mattino di Pasqua, nella corsa verso il sepolcro, voi sarete più veloci di tutti, e ci precederete come Giovanni. E forse vi fermerete sulla soglia, per farci vedere le bende per terra e il sudario piegato in disparte.

È l'ultima carità che ci aspettiamo da voi. Un abbraccio.

crocehandicapsofferenzaCristodolore

5.0/5 (1 voto)

inviato da Anna Barbi, inserito il 20/12/2003

TESTO

84. Una giornata del silenzio contro rumori e parole gridate

Vittorino Andreoli, Avvenire, 2 aprile 2002

Il silenzio nel tempo presente è morto, e nessuno sembra disperarsene, avvertirne la perdita. Il silenzio anzi spaventa e lo si cancella al solo pensiero che possa avvolgerci.

Si sente invece il fascino del rumore, di quella presenza continua che forma lo scenario, vero habitat dell'uomo del terzo millennio. La scelta allora non è tra rumore e silenzio, ma tra i mille rumori possibili. Svariate persone ricercano combinazioni multiple: i rumori impuri o la ridda di questi al cui confronto un terremoto apocalittico appare quasi un suono d'arpa.

Nelle discoteche non si ascolta musica, ma il baccano ed inutile è mettere in guardia dai decibel o dal rischio di lesione all'orecchio: il rumore piace. È uno stimolante come una pozione magica. Le spiagge dell'Adriatico gremite d'estate come un formicaio, non rappresentano una condizione del destino, ma una scelta piacevole: uno vicino all'altro, ciascuno dentro i rumori dell'altro: uno scambio di rumori che uniscono gli ombrelloni e fa sentire un'unica famiglia di urlanti.

La montagna era luogo di silenzio con gli spazi infiniti, con la roccia che si continua con il cielo e con l'eterno, ora è un folle concentrarsi di macchine e di corpi lungo le strade, vicino alle auto parcheggiate con le radio accese, le bocche che urlano. A pochi passi di distanza dalla strada non c'è nessuno e quel silenzio sembra sprecato. Si cerca il rumore. L'identità di questa civiltà è il rumore. La civiltà del rumore. Il televisore in casa è sempre acceso. Ci sono persone che non lo spengono nemmeno la notte. Hanno bisogno di quel sottofondo rassicurante e il video ha sostituito persino il sogno, che ormai è fuori di noi e parla degli altri.

Non è più specchio dei nostri segreti interiori, del mistero che bolle in noi. È stato svelato, sostituito meglio, da un rumore.

Gli studenti leggono Aristotele con il rock, per la matematica è preferibile la musica metal. La sinfonica è troppo dolce, occorrerebbe riscriverla sostituendo ai violini i fiati, i tromboni in particolare, e i timpani.

Nelle case ci sono tanti rumori, poche parole e - comunque - silenzio mai. E l'accenno vale per il silenzio fisico, dato dalla mancanza di suoni o rumori che si può rilevare con l'orecchio umano, ma obiettivamente pure con un fonografo. Eppure c'è anche un silenzio interiore, che coincide con il senso di svuotamento del mondo esterno che penetra dentro di noi, e che ci consente di cogliere meglio cosa c'è in noi.

Il silenzio della meditazione: è morto anch'esso. Basta vedere la funzione di un telefono portatile. Uno strumento della sopravvivenza, un oggetto della follia. In treno uno è obbligato a stare fermo, potrebbe pensare, percepirsi, ma non ce la fa e allora chiama qualcuno, non importa chi e perché, importa rompere il silenzio e fare un po' di rumore di cui tutti sono alla fine felici.

Insomma c'è un silenzio fuori di noi, quello del deserto, quando il vento è immobile, o di un canyon sperduto. E c'è un silenzio dentro di noi, che si lega alla pace interiore. L'uno è certamente condizionato dall'altro, ma non in maniera proporzionale: c'è chi sa astrarsi dal mondo, fuggirlo.

Dell'Africa ricordo il silenzio e il buio che non esistono più nella civiltà tecnologica. Anche il buio è parte dell'archeologia: ora c'è sempre una lampadina che illumina. E le stelle hanno perso il proprio fascino. I suoni che rompono il silenzio in Africa sembrano voci del mistero. E anche un coyote parla degli dei che così abitano dentro la testa dell'uomo. Ricordo certe notti nei villaggi d'Africa quando un uomo nella notte si riduceva a due occhi appesi al nulla.

Si è riempiti di rumore fino a non sentire che quel rumore e perdere se stessi, il proprio silenzio. Il mondo dentro di me può esser sopraffatto da quello attorno a me, e il mio silenzio espropriato e ciascun uomo è anche silenzio, forse è soprattutto silenzio.

Io me li ricordo gli esercizi spirituali d'un tempo e li ricordo come silenzio esteriore per sentire qualche voce bambina e qualche balbettio dentro di me. Ma ricordo, più tardi, anche il bisogno di silenzio per pensare, per seguire un percorso di idee, per entrare nel profondo di una meditazione concentrata. Ricordo le passeggiate in montagna, ricordo i monasteri che regalavano silenzio.

Ma c'è - attenzione - una grande differenza tra silenzio e mutismo. Chi è muto non parla all'altro, chi è silenzioso parla a se stesso. Senza silenzio l'uomo è un folle che gira per la strada senza sapere dove va e perché mai si muove. Ha perduto ogni direzione e segue le tracce dei rumori senza sapere da dove provengono, un rumore non ha nulla dentro, è solo rumore, segnale di qualche cosa, ma non di che cosa.

L'uomo del tempo presente è perso dentro i rumori che cerca di tradurre in parole che non hanno più senso. La parola nelle civiltà antiche e nelle culture animiste è forza vitale: dà la forza. È mistero. La parola nella magia agisce: "male dicere" provoca disgrazia, "bene dicere" dà coraggio e felicità. La parola non va mai sprecata. E l'uomo saggio parla poco e vive di silenzio.

Nel cristianesimo la Parola irrompe nella storia e diventa liturgia, quindi crea un contesto sacro. Mentre il mondo lancia raffiche di parole, senza senso, che feriscono o uccidono come obici d'artiglieria pesante.

Si crede che le parole abbiano significato, mentre sono flatus vocis senza una combinazione, che non è quella della sintassi, ma del senso dell'uomo, della esistenza.

La parola come senso, non come rumore. Una parola oggi non ha più storia, non si lega ad un prima, e non è l'incipit per un poi. Si usa la parola che nel momento appare più rumorosa, e può essere antitetica a quella appena usata: si può sempre dire di essere stati fraintesi, così la parola non ha senso o ha tutti i sensi possibili. La parola è rumore. La parola gridata è più efficace. L'oratore è colui che dice tante parole fino a comporre un suono senza senso, ammaliare senza trasmettere nulla.

Il senso dell'uomo e del mondo è nel silenzio che non è vuoto, ma la condizione per un lungo viaggio dentro il proprio esistere e la propria angoscia di esistere, avendo un senso e una coerenza. Il silenzio genera anche la parola che è però pensiero, è intuizione non spot, è colloquio con sé o con il mistero, non un quiz né un quizzone.

Ci sono le malattie del parlare. Da un lato il maniacale che parla continuamente e non sa che cosa dice. Parla a una velocità che è propria dell'articolazione della gola, ma non della mente. Parla a prescindere dalla testa, senza pensare. Dall'altra parte, il depresso, non fa parola perché teme che ogni espressione sia un errore.

Ma c'è anche il silenzio della normalità, di colui che sa quanto sia difficile pronunciare frasi sensate, e quanto sia facile offendere con parole che si penserebbero invece neutre, e allora medita e prende tempo prima di pronunciarsi.

"Non ha la parola pronta": è considerato un difetto mentre può essere il segno della prudenza che è una grandissima virtù.

"È di poche parole": e si crede che abbia bisogno di uno psicologo o di uno psichiatra, mentre si muove dentro i sensi del proprio io, dentro la propria "anima".

L'importante è parlare. Il politico deve parlare e magari non dire niente: fa l'ostruzionismo della parola. Il presentatore deve parlare sempre, per dire semplicemente buona sera e nessuno finisce per coglierlo. Ormai ad abbaiare è l'uomo.

I condomini sono permeabili ai rumori, a quelli del water ma anche alle parole. Le strade sono un massacro di auto e di parole. Le orecchie sono piene di auricolari che portano i rumori del mondo intero, non bastano più quelli della propria dimora o paese: la globalizzazione del rumore e la follia delle parole. Un manicomio assordante.

Arrivo a proporre una giornata del silenzio. Ma forse la specie si estinguerebbe. In una occasione in cui una grande città è stata senza corrente elettrica per due giorni, e quindi hanno perso la parola i televisori e le radio, la gente è impazzita, è entrata in una crisi di astinenza da parole e rumore che aveva espressioni e sintomi peggiori di quella da eroina.

Questa settimana ho preso in mano un settimanale femminile: di 623 pagine. Parole e parole. I giornali ordinano parole senza pensare al senso. Ore di televisione, parole su mille canali. Una follia vociante, parlante. Moriremmo di parole.

Una infinità di parole, senza un pensiero, senza nemmeno l'ombra di un'idea. Il comando è rumore come quei potenti che credono di essere forti se lanciano bombe o missili che distruggono. O come quei gaudenti che si riempiono il ventre di piacere e scoprono di essere vivi solo dalle flatulenze: flatus vocis. Anche le preghiere sono troppo rumorose e troppo vocianti: penso a san Francesco che, alla Porziuncola, dice: Signore non so dire nulla se non ba ba ba. Il mio silenzio - a questo punto lo ammetto - è ancora più confuso perché non ho ancora trovato il mio interlocutore nel cielo. Forse è tempo di cercarlo nel silenzio e forse nel silenzio si sentono parole di "vita eterna". Il dolore parla solo nel silenzio il resto è telenovela. La fatica non ha parole. Ho bisogno di silenzio per sentire quel vuoto che si può riempire di quiete.

Così terminano, almeno per un po', anche le mie parole su "Avvenire". Ho iniziato dicendo che scrivevo per cercare, ora ho voglia di silenzio, devo cercare ancora ma senza fare rumore. Voglio dare ai miei lettori un po' di silenzio che auguro sia silenzio di pace.

silenziointerioritàrumoredeserto

inviato da Giosuè Lombardo, inserito il 27/08/2003

PREGHIERA

85. Ai suoi amici il Signore dà il pane nel sonno   1

Tonino Bello

Eccoci, Signore, davanti a te. Col fiato grosso, dopo aver tanto camminato .Ma se ci sentiamo sfiniti, non è perché abbiamo percorso un lungo tragitto, o abbiamo coperto chi sa quali interminabili rettilinei. E' perché, purtroppo, molti passi, li abbiamo consumati sulle viottole nostre, e non sulle tue: seguendo i tracciati involuti della nostra caparbietà faccendiera, e non le indicazioni della tua Parola; confidando sulla riuscita delle nostre estenuanti manovre, e non sui moduli semplici dell'abbandono fiducioso in te. Forse mai, come in questo crepuscolo dell'anno, sentiamo nostre le parole di Pietro: "Abbiamo faticato tutta la notte, e non abbiamo preso nulla".

Ad ogni modo, vogliamo ringraziarti ugualmente. Perché, facendoci contemplare la povertà del raccolto, ci aiuti a capire che senza di te non possiamo far nulla. Ci agitiamo soltanto.

Grazie, perché obbligandoci a prendere atto Dei nostri bilanci deficitari, ci fai comprendere che, se non sei tu che costruisci la casa, invano vi faticano i costruttori. E che, se tu non custodisci la città, invano veglia il custode. E che alzarsi di buon mattino, come facciamo noi, o andare tardi a riposare per assolvere ai mille impegni giornalieri, o mangiare pane di sudore, come ci succede ormai spesso, non è un investimento redditizio se ci manchi tu. Il Salmo 127, avvertendoci che, il pane, tu ai tuoi amici lo dai nel sonno, ci rivela la più incredibile legge economica, che lega il minimo sforzo al massimo rendimento. Ma bisogna esserti amici. Bisogna godere della tua comunione. Bisogna vivere una vita interiore profonda. Se no, il nostro è solo un tragico sussulto di smanie operative, forse anche intelligenti, ma assolutamente sterili sul piano spirituale.

Grazie, Signore, perché, se ci fai sperimentare la povertà della mietitura e ci fai vivere con dolore il tempo delle vacche magre, tu dimostri di volerci veramente bene, poiché ci distogli dalle nostre presunzioni corrose dal tarlo dell'efficientismo, raffreni i nostri desideri di onnipotenza, e non ci esponi al ridicolo di fronte alla storia: anzi, di fronte alla cronaca.

Ma ci sono altri motivi, Signore, che, al termine dell'anno, esigono il nostro rendimento di grazie. Grazie, perché ci conservi nel tuo amore. Perché ancora non ti è venuto il voltastomaco per i nostri peccati. Perché continui ad aver fiducia in noi, pur vedendo che tantissime altre persone ti darebbero forse ben diverse soddisfazioni. Grazie, perché non solo ci sopporti, ma ci dai ad intendere che non sai fare a meno di noi. Perché ci infondi il coraggio di celebrare i santi misteri, anche quando la coscienza della nostra miseria ci fa sentire delle nullità e ci fa sprofondare nella vergogna. Grazie, perché ci sai mettere sulla bocca le parole giuste, anche quando il nostro cuore è lontano da te. Perché adoperi infinite tenerezze, preservandoci da impietosi rossori, e non facendoci mancare il rispetto dei fedeli, la comprensione dei collaboratori, la fiducia dei poveri. Grazie, perché continui a custodirci gelosamente, anzi, a nasconderci, come fa la madre con i figli più discoli. Perché sei un amico veramente unico, e ti sei lasciato così sedurre dall'amore che ci porti, che non ti regge l'animo di smascherarci dinanzi alla gente, e non fai venir meno agli occhi degli uomini i motivi per i quali, nonostante tutto, continuiamo a essere reverendi. Grazie, Signore, perché non finisci di scommettere su di noi. Perché non ci avvilisci per le nostre inettitudini. Perché, al tuo sguardo, non c'è bancarotta che tenga. Perché, a dispetto delle letture deficitarie delle nostre contabilità, non ci fai disperare. Anzi, ci metti nell'anima un così vivo desiderio di ricupero, che già vediamo il nuovo anno come spazio della Speranza e tempo propizio per sanare i nostri dissesti. Spogliaci, Signore, d'ogni ombra di arroganza. Rivestici dei panni della misericordia e della dolcezza. Donaci un futuro gravido di grazia e di luce e di incontenibile amore per la vita. Aiutaci a spendere per te Tutto quello che abbiamo e che siamo. E la Vergine tua madre ci intenerisca il cuore. Fino alle lacrime.

preghierarapporto con Diomisericordia di Diomagnanimitàfine annonuovo annocapodannoapostolato

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inviato da Don Giosuè Lombardo, inserito il 28/06/2003

TESTO

86. I colori della pace

Gianni Fanzolato

Dio ha creato l'acqua
la terra e il cielo,
e li ha adornati
con una creatura
che gli assomigliava.
La pace invece
l'ha affidata al Vento
e il Vento l'ha deposta fra gli alberi,
ed era un libro,
fatto di Parole,
ed era la Parola.
Passò una donna
e lo vide fra le margherite,
sospinta dal Vento
se lo strinse al seno
e abbracciò un bambino,
un libro di Parole,
un bimbo di colori.
E sfogliò quel libro
quella donna,
ogni pagina un colore.
La prima pagina è bianca,
come le nevi eterne delle cime,
perché la pace è in alto,
è pura e immacolata,
perché la pace è Dio.
Rossa è la seconda pagina
come la fiamma del roveto ardente,
perché la pace è fuoco,
brucia, riscalda e fonde,
perché la pace è Dio.
La terza pagina ha il color del prato,
verde come una gemma preziosa,
perché la pace è fatta di speranze,
è ornata da piccoli gesti d'amore,
è come un vasto campo d'erba,
ricamato dai fiori dai mille colori,
perché la pace è Dio.
Azzurra è la quarta pagina del libro,
chiara come l'acqua di sorgente,
serena come un cielo di maggio,
profonda come l'acqua dell'Oceano,
perché la pace sfonda gli abissi
e solca l'infinito,
perché la pace è Dio.
Gialla è la quinta pagina,
come un ricamo d'oro fino,
perché la pace è dono,
è preziosa e vale molto,
è uno scrigno di valori ,
perché la pace è Dio.
La pace è arancione,
un colore vivo,
perché la pace è vita,
acceso, perché la pace è forza,
solare, perché la pace è luce,
perché la pace è Dio.
Di color violetto è la settima pagina,
un colore tra il rosso ed il turchino
tra l'indaco e l'arancio,
perché la pace è festa di colori,
è gioco di luce, è comunione di valori,
perché la pace è Dio.
Chiude il libro la donna
e tra le dita si ritrova
un bimbo di colori,
fiorisce fra le sue mani
la pace vera,
perché è l'Emmanuele,
il Dio con noi.

paceNataleincarnazione

inviato da Padre Gianni Fanzolato, inserito il 15/04/2003

PREGHIERA

87. Preghiera per la pace

Carlo Maria Martini

O Dio nostro Padre, ricco di amore e di misericordia, noi vogliamo pregarti con fede per la pace, addolorati e umiliati come siamo a causa degli episodi di violenza che hanno insanguinato e insanguinano Gerusalemme, città il cui nome evoca subito il mistero di morte e di risurrezione del tuo Figlio, di Gesù che ha donato la sua vita per riconciliare ogni uomo e ogni donna di questo mondo con te, con se stessi, con tutti i fratelli. Città santa, città dell'incontro eppure città da sempre contesa, da sempre crocifissa e sulla quale il tuo Figlio, i profeti e i santi hanno invocato la pace.

Noi vogliamo pregarti con fede per la pace in tanti altri paesi del mondo, per i numerosi focolai di lotte e di odio; vogliamo pregarti per gli aggressori e per gli aggrediti, per gli uccisi e gli uccisori, per tutti i bambini che non hanno potuto conoscere il sorriso e la gioia della pace.

E' vero, Signore, che noi stessi siamo responsabili del venire meno della pace, e per questo ti supplichiamo di accogliere il nostro accorato pentimento, di donarci una volontà umile, forte, sincera per ricostruire nella nostra vita personale e comunitaria rapporti di verità, di giustizia, di libertà, di carità, di solidarietà. Ti confessiamo i nostri peccati personali e sociali: il nostro attaccamento al benessere, i nostri egoismi, le infedeltà e i tradimenti a livello familiare, la pigrizia e lo sciupio delle energie vitali per cose vane e frivole, dannose, il nostro voltare la faccia di fronte alle miserie di chi ci sta vicino o di chi viene da lontano. Vivendo così, non abbiamo forse pensato di renderci responsabili della distruzione di quell'edificio invisibile che è la pace. La pace terrestre è riflesso della tua pace che tu ci doni e ci affidi, nasce dal tuo amore per l'uomo e dal nostro amore per te e per tutti i fratelli.

Cambia il nostro cuore, Signore, perché siamo noi i primi ad avere bisogno di un cuore pacifico. Purificaci, per il mistero pasquale del tuo Figlio, da ogni fermento di ostilità, di partigianeria, di partito preso; purificaci da ogni antipatia, da ogni pregiudizio, da ogni desiderio di primeggiare.

Facci comprendere, o Padre, il senso profondo di una preghiera vera di pace, di una preghiera di intercessione e di espiazione simile a quella di Gesù su Gerusalemme. Preghiera di intercessione che ci renda capaci di non prendere posizione nei conflitti, ma di entrare nel cuore delle situazioni insanabili diventando solidali con entrambe le parti in contesa, pregando per l'una e per l'altra. Noi vogliamo abbracciare con amore tutte le parti in causa, fiduciosi soltanto nella tua divina potenza. Se noi preghiamo perché tu dia vittoria all'uno o all'altro, questa preghiera tu non l'ascolti; se ci mettiamo a giudicare l'uno o l'altro, la nostra supplica tu non l'ascolti.

Manda il tuo santo Spirito su di noi per convertirci a te! Non ci illudiamo di superare le nostre inquietudini interiori, i rancori che ci portiamo dentro verso un popolo o verso un altro se non lasciamo spazio allo Spirito di gioia e di pace che vuole pregare in noi con gemiti inenarrabili. E' lo Spirito che ci fa accogliere quella pace che sorpassa ogni nostra veduta e diventa decisione ferma e seria di amare tutti i nostri fratelli, in modo che la fiamma della pace risieda nei nostri cuori e nelle nostre famiglie, nelle nostre comunità e si irradi misteriosamente sul mondo intero sospingendo tutti verso una piena comunione di pace. E' lo Spirito che ci aiuta a penetrare nella contemplazione del tuo Figlio crocifisso e morto sulla croce per fare di tutti un popolo solo.

E tu, Maria, Regina della pace, intercedi affinché il sorriso della pace risplenda su tanti bambini sparsi nelle varie parti del mondo, segnate dalla violenza e dalla guerriglia; veglia sulla tua terra, su Gerusalemme, suscita nei suoi abitanti desideri profondi e costruttivi di pace, desideri di giustizia e di verità. Noi ti promettiamo di non temere le difficoltà e i momenti oscuri e difficili, purché tutta l'umanità cammini nella pace e nella giustizia, così che si avveri pienamente la parola del profeta Isaia: "Ho visto le vostre vie e voglio sanarle [...] Pace, pace ai lontani e ai vicini, dice il Signore, io guarirò tutti".

paceamoreperdonoconflittidialogogiustiziaingiustizia

inviato da Gianmarco Marzocchini, inserito il 01/04/2003

TESTO

88. Vuoi onorare il corpo di Cristo?   2

San Giovanni Crisostomo

Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra, cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: "Questo è il mio corpo", confermando il fatto con la parola, ha detto anche: "Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare" e "ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei più piccoli fra questi, non l'avete fatto neppure a me".

Il corpo di Cristo che sta sull'altare non ha bisogno di mantelli, ma di anime pure; mentre quello che sta fuori ha bisogno di molta cura. Impariamo dunque a pensare e a onorare Cristo come egli vuole. Infatti l'onore più gradito, che possiamo rendere a colui che vogliamo venerare, è quello che lui stesso vuole, non quello escogitato da noi.

Che vantaggio può avere Cristo se la mensa del sacrificio è piena di vasi d'oro, mentre poi muore di fame nella persona del povero? Prima sazia l'affamato, e solo in seguito orna l'altare con quello che rimane. Gli offrirai una calice d'oro e non gli darai in bicchiere d'acqua? che bisogno c'è di adornare con veli d'oro il suo altare, se poi non gli offri il vestito necessario? che guadagno ne ricava egli? Dimmi: se vedessi uno privo del cibo necessario e, senza curartene, adornassi d'oro solo la sua mensa, credi che ti ringrazierebbe, o piuttosto non s'infurierebbe contro di te? e se vedessi uno coperto di stracci e intirizzito dal freddo, e, trascurando di vestirlo, gli innalzassi colonne dorate, dicendo che lo fai in suo onore, non si riterrebbe forse di essere beffeggiato e insultato in modo atroce?

Pensa la stessa cosa di Cristo, quando va errante e pellegrino, bisognoso di un tetto. Tu rifiuti di accoglierlo nel pellegrino e adorni invece il pavimento, le pareti, le colonne e i muri dell'edificio sacro. Attacchi catene d'argento alle lampade, ma non vai a visitarlo quando lui è incatenato in carcere. Dico questo non per vietarvi di procurare tali addobbi e arredi sacri, ma per esortarvi a offre, insieme a questi, anche il necessario aiuto ai poveri, o, meglio, perché questo sia fatto prima di quello. Nessuno è mai stato condannato per non aver cooperato ad abbellire il tempio, ma chi trascura il povero è destinato alla geenna, al fuoco inestinguibile e al supplizio con i demoni. Perciò, mentre adorni l'ambiente per il culto, non chiudere il tuo cuore al fratello che soffre. Questo è il tempio vivo più prezioso di quello.

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inviato da Eleonora Polo, inserito il 14/12/2002

RACCONTO

89. Alla ricerca dell'amore perduto di mamma e papà

Mamma e papà di Paola non si amavano più. Paola buona e mite, capiva tutto. Papà e mamma erano pieni d'ira e si voltavano la schiena. Papà, una volta, aveva rotto un bicchiere dando un pugno sulla tavola e mamma aveva schiaffeggiato Paola, perché non osava ancora schiaffeggiare papà.

Paola andava dall'uno all'altra, e diceva delle parole piacevoli per farli ridere, raccontava tutte le cose buffe che le erano capitate e quello che era successo a scuola, tentava di riconciliarli.

Un giorno, che la cosa sembrava particolarmente grave, Paola aveva addirittura finto di essersi avvelenata con la benzina per smacchiare. Voleva che i genitori facessero la pace al suo capezzale.

Tre mesi dopo, tutto era ricominciato. Paola continuava il suo lavoro di formica. E non disperava. Di notte, nel suo lettino, stringeva forte forte al cuore il suo tigrotto di stoffa', che si chiama Titì, e che era spelacchiato e malconcio per i tanti abbracci, baci, Nutella e lacrime che in nove anni Paola gli aveva rovesciato addosso. Dalla camera di papà e mamma filtravano spesso strilli e imprecazioni soffocate, e il rumore degli attaccapanni sbattuti di malagrazia. Paola si premeva forte le mani sulle orecchie e pregava: «Signore, per piacere, falli smettere!».

Quando arrivava un estraneo e osservava gli occhi gonfi di mamma, e papà afono per aver troppo gridato, Paola preveniva le critiche e diceva: «Vedi, è colpa delle cipolle». Oppure: «Non conosce una medicina per papà? Ha il mal di gola e non può più parlare».

Una strana voce nella notte

Una notte, Paola fu svegliata dalla solita baruffa. Dormiva abbracciata a Titì e sentì chiaramente: «Basta! Non possiamo continuare così!», diceva mamma.
«Sei tu che vuoi sempre avere ragione!» ribatté papà.
«Che cosa suggerisci, sapientona?».

«Ci... dividiamo. Ognuno per conto suo e... non se ne parli più!».
La casa si riempì di silenzio.

Ma qualcuno con un buon udito avrebbe potuto sentire il piccolo cuore di Paola che batteva all'impazzata: «Tum... tum... tum...», mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime. «Non voglio! Non voglio!». Mormorava piano piano.
«E allora parti!», disse una voce.
Paola trattenne il fiato per la sorpresa.
«Chi ha parlato? Chi c'è qui?», domandò un tantino inquieta.
«Sono io. Titì», riprese fiera la vocina.

Paola accese la luce del comodino ed esaminò il tigrotto di stoffa.
«Tu, parli?».
Gli occhi di vetro di Titì brillarono come fossero veri.

«Quando ci vuole, ci vuole», bofonchiò. «Chi ama tanto, può far parlare anche le pietre, se è solo per questo. Ora ascoltami bene: posso parlare solo una volta nella vita, anche se la vita di un animale di stoffa è piuttosto lunga e non mi posso lamentare. E certo che la vita con te è piuttosto... umida».
«Scusami», sussurrò Paola.

«Non c'è di che. Quando avevi tre mesi mi inondavi con ben altro... Ecco quello che devi fare: vai a riprendere l'amore perduto di mamma e papà».
«Dove?».
«C'è un posto dove si trovano tutti gli amori perduti.

Non perdere tempo; bisogna riportarli finché sono ancora vivi, caldi e luminosi; altrimenti non c'è niente da fare... Puoi andare soltanto tu. Prenditi lo zainetto: l'amore di un papà e una mamma è pesante».

«Ma non conosco la strada». Protestò Paola mentre si vestiva e indossava il fedele zainetto scolastico.
«La troverai. Parti diritto avanti a te».
«Ma c'è il muro!».
«Fidati di me. Tira diritto!».

Paola chiuse gli occhi e... passò attraverso il muro.

La polvere luccicante

Si trovò in un giardino intersecato da molti sentieri. Ne imboccò uno. Dopo un po', scorse su una panchina qualcosa che brillava. Si avvicinò e vide che era un pezzettino dell'amore di mamma e papà. Naturalmente lo riconobbe subito, perché i figli sono fatti con l'amore di mamma e papà. Poco più in là, vicino a una grande quercia, vide un altro pezzettino, appena uno spolverio, dell'amore di mamma e papà. Si avvicinò e vide che, in un angolino del tronco rugoso, erano incise alcune parole: «Riccardo e Ornella, per sempre».

«Sono mamma e papà», mormorò Paola. Raccolse la polvere luccicante e la infilò nello zainetto con il pezzetto che aveva già trovato. «Di questo passo, ci metterò un sacco di tempo» si disse.

Proprio in quel momento alzò gli occhi e vide il cartello indicatore: «Deposito amori perduti. Di qua».

«Grazie», sussurrò e cominciò a camminare. Il paesaggio cominciò a cambiare e prese a soffiare un vento gelido e, tagliente. Paola si strinse rabbrividendo dentro il «pile». Solo la polvere d'amore che aveva trovato mandava un lieve tepore. La pista ghiaiosa finiva stroncata in una palude triste e minacciosa. Un cartello festonato di ragnatele polverose indicava: «Palude del Mio-mio».

«Sempre diritto!», fece Paola ad alta voce. Strinse i pugni e si incamminò nel fango.

Ogni passo le costò fatica e lacrime. Il fango della palude era vischioso e cercava di trattenerla. Ma Paola arrivò dall'altra parte. La strada riprendeva con una ripida salita e dopo alcuni tornanti si interrompeva bruscamente.

Paola era stanca e quando scorse che cosa l'attendeva, si accasciò avvilita.

«Oh, no!». Quello che aveva davanti era il peggiore dei precipizi che avesse mai visto. E per di più lei pativa le vertigini. Incastrato sull'orlo del dirupo faceva capolino il solito cartello scheggiato: «Salto della fiducia».

La parola «salto» non diceva niente di buono a Paola, ma la prospettiva di tornare ad affrontare la palude era altrettanto tremenda. Si affacciò sul ciglio del precipizio, chiuse gli occhi, strinse i pugni e saltò.

Il sentiero di rose

Atterrò sul soffice. Si trovò su uno strato di rose enormi, profumate, colorate, morbide come seta. Si rialzò e ricominciò a camminare con decisione. Troppa decisione. Le sue gambe affondarono e le spine, spine enormi come le rose, la ferirono.
«Ahi!», gridò Paola.

Un'ape che ronzava come un elicottero con il suo canestrino per raccogliere nettare, la rimbrottò severamente.

«Devi essere delicata, se vuoi camminare sulle rose. Non lo sai?».

«Grazie, signora ape. È che sto cercando l'amore perduto di mamma e papà».

«Sei quasi arrivata. Vai sempre diritto. E mi raccomando... Delicatezza e rispetto!».

Paola riprese a camminare, facendo molta attenzione a dove poggiava i piedi. Il sentiero di rose si fece sempre più solido e sicuro. Finalmente, dopo una collinetta color tramonto, Paola arrivò a una strana costruzione. Il cartello non lasciava dubbi: «Deposito degli amori perduti. Fare lo scontrino alla cassa».

La gioia di Paola si velò di preoccupazione. Aveva esattamente cinquecento e cinquanta lire in una tasca dello zainetto. Quanto poteva costare lo scontrino per ritirare un amore perduto?

C'erano altre persone che facevano la coda davanti a un burbero cassiere, che teneva in mano una bilancia a due piatti: su uno poneva l'amore perduto richiesto, sull'altro il prezzo che il richiedente era disposto a pagare.

A quanto pareva nessuno riusciva a pagare la somma richiesta. E il cassiere, inflessibile, li rimandava indietro.

Davanti a Paola c'era un uomo triste e grigio. Mise sul piatto della bilancia un miliardo. Mille milioni uno sull'altro. Ma il piatto della bilancia non si mosse neanche un po'. L'amore perduto pesava molto, molto di più. L'uomo se ne andò, più triste e più grigio di prima.

Paola era davvero preoccupata. Stringendo in pugno le sue due monete, guardò il cassiere e disse con la sua voce da passerotto: «Vorrei l'amore perduto di mamma e papà».

Il cassiere aprì un armadio e ne tirò fuori un grosso amore che sistemò sul piatto della bilancia.
«È ancora caldo e luminoso, meno male», pensò Paola.
«Come paghi?», chiese severo il cassiere.

Paola allungò esitante la mano con le monete, poi con un'improvvisa ispirazione, si sedette sull'altro piatto della bilancia. I due piatti scattarono e si fermarono in perfetta parità.
«O.K. Il prezzo è giusto!», disse il cassiere.

Paola lo abbracciò felice. Prese l'amore di mamma e papà e... si trovò a casa.

«Anche noi dobbiamo fare un viaggio»

Quando mamma e papà furono seduti a tavola per fare colazione, Paola arrivò in pigiama e senza parlare posò in mezzo al tavolo l'amore che aveva ritrovato. Un'ondata di calore e di felicità, di baci e di voglia di cantare, invase la casa. Mamma e papà guardarono la loro bambina con occhi che brillavano di una luce tenera. Paola aspettava.

Mamma e papà sorrisero. Per le sue misteriose vie, l'amore era tornato al suo posto.
«Grazie, Paoletta», disse mamma. «Abbiamo capito».

«E ora dobbiamo fare un viaggio. Anche noi...», continuò papà.

Paola li abbracciò tutti e due con un lungo e riconoscente sospiro di sollievo.

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inviato da Sergio B., inserito il 11/12/2002

TESTO

90. Che dite che io sia? (Mt 16,15)

Madre Teresa di Calcutta

Chi è Gesù per me?
Gesù è il Verbo fatto uomo.
Gesù è il pane della vita.
Gesù è la vittima offerta
per i nostri peccati sulla croce.
Gesù è il sacrificio offerto per i miei
e per i peccati del mondo.
Gesù è la parola che va proclamata.
Gesù è la verità, che deve essere narrata.
Gesù è la vita, che deve essere percorsa.
Gesù è la luce, che deve essere fatta splendere.
Gesù è la vita, che deve essere vissuta.
Gesù è l'amore, che deve essere amato.

Gesù è la gioia, che deve essere condivisa.
Gesù è il sacrificio, che deve essere offerto.
Gesù è la pace, che deve essere data.
Gesù è il pane della vita, che deve essere mangiato.
Gesù è l'affamato, che deve essere nutrito.
Gesù è l'assetato, che deve essere dissetato.
Gesù è l'ignudo, che deve essere rivestito.
Gesù è il senza tetto, che deve essere ospitato.
Gesù è il malato, che deve essere sanato.
Gesù è l'uomo solo, che deve essere consolato.
Gesù è il non voluto, che deve essere voluto. Gesù è il lebbroso, che deve essere lavato nelle sue ferite.
Gesù è il mendicante, che deve essere gratificato di un sorriso.
Gesù è l'ubriaco, che bisogna ascoltare .
Gesù è il malato di mente che bisogna proteggere.
Gesù è il piccolo che bisogna abbracciare.
Gesù è il cieco, che bisogna guidare.
Gesù è il muto, cui bisogna parlare.
Gesù è lo zoppo, con cui bisogna camminare.
Gesù è il drogato, che bisogna aiutare.
Gesù è la prostituta, da sottrarre al pericolo e da sostenere.
Gesù è il prigioniero, che bisogna visitare.
Gesù è il vecchio, che deve essere servito.

Per me
Gesù è il mio Dio
Gesù è il mio sposo
Gesù è la mia vita
Gesù è il mio solo amore
Gesù è il mio tutto di tutto.
La mia pienezza.

Gesù,
ecco chi amo con tutto il cuore,
con tutto il mio essere.
Gli ho dato tutto,
persino i miei peccati.
E lui m'ha sposata a se stesso.
In tenerezza e amore.
Ora e per la vita.
Sono al sposa del mio sposo crocifisso.
Amen.

Gesù Cristocaritàamoresolidarietàtestimonianza

inviato da Rossella Di Cosmo, inserito il 07/12/2002

TESTO

91. San Paolo, non un pazzo qualsiasi

Scout d'Europa, Foggia 2

Vi sono solo due notizie di dominio pubblico su san Paolo.
Uno: è caduto da cavallo.

Due: le sue lettere (tre volte su quattro la seconda lettura domenicale) sono incomprensibili. Beh, almeno difficili.

Fino a poco tempo fa anch'io la pensavo così: Paolo di Tarso? Pessimo cavallerizzo e criptico scrittore. Ora ho qualche notizia in più su costui. Per esempio so che era pazzo.

Non una comune follia, ma una follia lucida, rigorosamente logica e metodica. Era un ebreo. Colto. Ricco. Rispettato. Discendeva dall'elite d'Israele, aveva cultura e autorità: tutte le carte in regola per fare carriera. In effetti, la stava facendo. Stava sterminando una setta giudaica per conto della gerarchia di Gerusalemme, e questo era un ottimo trampolino di lancio. Poi Paolo di Tarso impazzisce. Molla tutto e si mette con quelli che stava catturando. Matto. Completamente andato.

Eppure Paolo ci credeva a quello che faceva. Ci credeva più di tutti gli altri ebrei. Forse ci credeva troppo. Insomma, non è molto simpatico quando inizi a incatenare tutti quelli che la pensano un po' diversamente da te. Il fatto che Paolo sia passato proprio alla fazione opposta ci dice una cosa importante: e cioè che Paolo non era un fossile. Certo, aveva delle idee, e ci teneva parecchio. Ma si lasciava interrogare dai fatti. E, a costo di venire apostrofato "traditore" e "voltabandiera" sapeva cambiare. Anche se questo andava contro il sistema. Era un tipo dinamico, e quando qualcuno gli ha aperto gli occhi sulla realtà non ha avuto paura di dire: "Ok, ragazzi, si cambia registro. Ho fatto qualche errore, ma non rinnego il mio passato. Io sono io, ma adesso che so ho il dovere di agire di conseguenza". Detto fatto.

Paolo ha o non ha avuto una visione sulla strada di Damasco? E' caduto da cavallo? Ha davvero sentito la voce di Gesù che gli parlava? O è solo un genere letterario, una metafora per dire che Paolo ha fatto il salto di qualità?
A dire il vero, non è molto importante.
L'importante sono i fatti.

Quali sono i fatti? Il primo fatto è la pazzia di Paolo: abbia visto o meno il Signore, è fuori discussione che con lui aveva un rapporto intimissimo. I loro pensieri coincidevano, e poiché Dio la pensa un po' diversamente dall'uomo, Paolo parve un pazzo agli occhi di moltissimi.

Paolo si faceva dei grandi viaggi. Materialmente, intendo dire. Per portare quell'annuncio sconvolgente che gli aveva scardinato la vita girò tutto il mondo conosciuto allora. Dall'Oriente all'Occidente, mai stanco, sempre avanti, sempre, attraverso tutte le difficoltà. Viaggiare non era una cosa di piacere, allora. Significava muoversi per lo più a piedi, a cavallo, con carovane, navi. Itinerari lunghi, difficili, sotto un cielo straniero, ma sempre con un motore spirituale a farlo andare avanti. "Non sono ancora giunto abbastanza lontano. C'è ancora gente afflitta ed oppressa che attende una parola di liberazione". San Paolo non va in vacanza, non si prende periodi di riposi, perché se lo facesse... ah! Guai a lui! Sa qual è il compito della sua vita.

Predica in tutti i modi possibili. Non si accontenta di andare di persona nelle città, come gli altri apostoli, ma scrive. Scrive lettere per le comunità che ha cresciuto, aiutato. Sono lettere bellissime, piene di fuoco, di passione, di fervore. Paolo si tiene sempre informato di come stanno i suoi, li sorregge, li conforta. Chiarisce i loro dubbi, li guida con dolcezza. Ma se c'è qualcosa che non funziona, va giù dritto. Ha le idee chiare. Dice sempre quello che pensa, senza guardare in faccia nessuno. Non si lascia zittire dalle minacce. Oh, perché di minacce ne ha avute: dava fastidio a troppa gente in alto. Ma la sua testardaggine non si piegava alle bastonate, ed il suo ardore non si spegneva nemmeno nelle carceri. Non scendeva a compromessi neppure a costo della propria vita.
Paolo è pazzo.
E' pazzo perché è un innovatore.

E' pazzo perché sfida tutte le mentalità del tempo. Paolo ha una mentalità aperta, ha viaggiato, conosce gli uomini. In un mondo di discriminazioni razziali e tra i sessi annuncia che non c'è differenza tra uomo e donna, tra schiavo e padrone, tra ebrei e pagani, che tutti sono uguali, tutti figli di Dio, tutti amati. Paolo fa saltare tutte le caste ed i sistemi di catalogazione degli uomini. Porta un messaggio di tolleranza, anzi di più: un messaggio di amore per tutti gli uomini. "Se non ho l'Amore non sono nulla". Avanti, sempre. Farsi tutto a tutti. Tendere la mano. Proporre e non imporre.

San Paolo è pazzo. Vive di ideali grandi, che sembrano quasi utopie. Sono utopie? Chissà. Ma sempre meglio che razzolare nella mediocrità. Le persone con la vista corta non arrivano lontano. Sopravvivono, ma non Vivono veramente.
Paolo è pazzo.

Ma sono questi pazzi che costruiscono il mondo nuovo.

San Paoloconversionecoerenzamissioneevangelizzazioneapostoli

inviato da Eleonora Polo, inserito il 27/11/2002

TESTO

92. Quel catino di acqua sporca   1

don Giuseppe Salvioni

Accanto al fonte della vita nuova, la Pasqua ci consegna anche un catino d'acqua sporca. ne ha fatto uso il maestro e nessuno ancora lo ha tolto dalla a tavola curandosi di svuotarlo. I discepoli intimoriti, tornando al cenacolo, si sono abbracciati attorno a questa icona del servizio lasciandola lì nel bel mezzo delle loro incerte discussioni.

Anche noi potremmo immaginare quel recipiente sul nostro altare tra le tovaglie ben stirate, i fiori freschi e il cero pasquale: è la memoria dell'ultimo gesto stravagante del nostro giovane Rabbi.

Quando mi domando come sia possibile far innamorare un giovane a Gesù Cristo mi viene in mente la reliquia del catino...

Quel catino è la freschezza di un uomo che quando è a tavola non ce lo si può trattenere seduto a lungo. L'ultima cena non si è risolta nell'ultima abbuffata: quell'Eucarestia ha nutrito i cuori ma non ha appesantito i corpi perché Gesù si è alzato per lavare i piedi come un servo. Il catino con l'acqua sporca ci invita chiaramente a metterci scomodi prendendoci cura degli altri senza indugiare alla "tavola delle lunghe discussioni", senza intrattenerci in quei festeggiamenti dello "stiamo bene tra noi" che odorano di tradimento.

Solo chi è scattante e sa alzarsi da tavola impara a lasciare il posto ad altri, ai più giovani perché è convinto che di pane ce n'è per tutti.

Quel catino è la scioltezza e l'equilibrio di mani allenate ad accarezzare. Ad uno ad uno tutti i piedi dei discepoli hanno provato il ristoro di quel tratto di cui solo l'artista che li ha plasmati è capace. Un corpo agile e disinvolto quello del maestro abituato a nutrire di intelligenza le sue parole ma anche di armoniosa sapienza i suoi movimenti.

Questo equilibrio ci vuole nel chinarsi e rialzarsi senza rovesciare a terra il contenuto di quella bacinella. Il catino con l'acqua sporca ci racconta di poche parole e di tanti piccoli gesti precisi e geniali... insomma un bene fatto bene senza le lentezze e gli appesantimenti delle abitudini. Solo chi è allenato alla scioltezza e alla fermezza dell'amore incondizionato impara ad accarezzare senza trattenere, a ristorare senza possedere... in una danza gioiosa fatta di genuflessioni e umili abbracci.

Quel catino è il coraggio di smascherare la propria bellezza. Sotto la crosta polverosa della sporcizia Gesù ha ridato vigore e candore ai piedi dei suoi messaggeri. Il Cristo ha confermato ad uno ad uno i suoi lavandone i piedi. Il catino con l'acqua sporca ci risveglia alla straordinaria potenza del perdono che non fa conto dell'inadeguatezza ma riporta il cuore allo splendore originario.

Solo chi guarda in faccia all'acqua sporca smette di giudicare e ritrova quel coraggio che non confonde. Solo chi vede il maestro piegato sui propri piedi non ha più dubbi.

La paura di sbagliare non è l'ultima parola, perché ciò che da bellezza è il perdono e l'accoglienza.

Spesso i ragazzi che crescono accanto a noi mettono a fuoco domande, slanci, dubbi, provocazioni... forse ci invitano ad essere una comunità di discepoli che va per il mondo col catino in mano.

serviziocaritàamoremaestrogiovedì santolavanda dei piedi

inviato da Mariangela Molari, inserito il 25/11/2002

RACCONTO

93. La meravigliosa storia dell'elefante   1

Un tempo antico in un paese dell'Arabia regnava il califfo Omar, ricco e benvoluto perché era saggio. Era di larghe vedute e non si arrestava all'apparenza delle cose. Prima di esprimere dei giudizi si sforzava sempre di comprendere le relazioni e i legami che ci sono tra i fatti anche se a prima vista potevano apparire isolati e diversi. Egli era perciò rattristato per la grettezza di spirito dei suoi ministri che non vedevano più in là del loro naso.

"Va in giro per il mio regno" disse un giorno il califfo ad un servo fidato "e trova, se ti riesce, tutti gli uomini sfortunati dalla nascita che non hanno mai potuto vedere e che non hanno mai sentito parlare degli elefanti".

Il servo fedele eseguì l'ordine e dopo qualche tempo ritornò con alcuni ciechi fin dalla nascita. Essi erano cresciuti sperduti in piccoli villaggi tra le montagne perciò degli elefanti non avevano mai sentito parlare e non ne supponevano nemmeno l'esistenza. Il califfo fece un gran ricevimento con tutti i suoi ministri e alla fine del banchetto fece entrare un grosso elefante da una porta di bronzo e i ciechi da un'altra porta più piccola.

"Mi sapreste dire che cosa è un elefante?" chiese il califfo ai ciechi.
"No, mai sentita questa parola", risposero i ciechi.

"Ebbene, davanti a voi c'è un elefante: toccatelo, cercate di comprendere di che cosa si tratta. Colui che darà la risposta esatta riceverà in premio 100 monete d'oro".

I ciechi si affollarono intorno all'animale e cominciarono a toccarlo con attenzione soffermandosi sulle sensazioni che ricevevano. Un cieco stava lisciando da cima a fondo una zampa, la pelle dura e rugosa gli sembrava pietra e la forma era di un lungo e grosso cilindro. "L'elefante è una colonna!" esclamò soddisfatto.

"No, è una tromba!" disse il cieco che aveva toccato solo la proboscide.

"Niente affatto, è una corda!" esclamò il cieco che aveva toccato la coda.

"Ma no, è un grosso ventaglio" ribattè chi aveva toccato l'orecchio.

"Vi sbagliate tutti: è un grosso pallone gonfiato!" urlò il cieco che aveva toccato la pancia.

Tra loro c'era il più grande scompiglio e disaccordo perché ciascuno, pur toccando soltanto una parte credeva di conoscere l'intero elefante.

Il califfo, soddisfatto, si rivolse ai suoi ministri: "Chi non si sforza di avere della realtà una visione più ampia possibile, ma si accontenta degli aspetti separati e parziali senza metterli in relazione tra loro, si comporta come questi ciechi. Egli potrà conoscere a fondo tutte le righe della zampa dell'elefante, ma non vedrà mai l'animale intero, anzi, non saprà mai che esiste un siffatto animale".

apparenzalarghezza di vedutenon giudicaregiudizio

4.7/5 (3 voti)

inviato da Furetto, inserito il 23/11/2002

TESTO

94. La fede è l'intelligenza nella sua riuscita

C. Tresmontant

È all'intelligenza che Gesù fa costantemente appello. E la sollecita. Il rimprovero costante sulla sua bocca è: non comprendete, non avete intelligenza? Non credete ancora? aggiunge anche. La fede che sollecita non ha nulla a che vedere con la credulità. Questa fede è precisamente l'accesso dell'intelligenza a una verità, il riconoscimento di questa verità, il sì dell'intelligenza convinta e non una rinuncia all'intelligenza, un sacrificio dell'intelletto. L'opposizione tra fede e ragione è una opposizione profondamente non cristiana, non evangelica. Bisogna dimenticare questa dialettica troppo celebre, troppo famosa per comprendere ciò che nel Nuovo Testamento si intende per fede, che è l'intelligenza stessa nel suo atto, nella sua riuscita, e la conoscenza stessa della verità insegnata, il riconoscimento del Maestro: il credere nei Vangeli è questa scoperta, questa intelligenza della verità che è proposta. Al ragazzo cui si insegna a nuotare, si spiega che in virtù di leggi naturali non deve aver paura, nuoterà se farà alcuni movimenti molto semplici. Il ragazzo ha paura, si irrigidisce, e non crede. Viene il momento in cui fa esperienza che ciò che gli è stato detto è possibile, crede, nuota. Non si dirà che la fede, in questo caso, si oppone alla ragione, se ne differenzia. Essa è per lui piuttosto identica; anche se la fede è un'altra cosa dell'intelligenza, il sì dell'intelligenza alla verità che essa vede, l'adesione alla verità vista e riconosciuta. Questo è il significato della parola pistis, pisteuein, nei Vangeli. Nel quarto Vangelo, la fede e la conoscenza sono costantemente associate come inseparabili: "Essi hanno conosciuto ed hanno creduto che tu sei il figlio del Dio vivente". È appunto alla nostra intelligenza che Gesù si indirizza e non alla nostra credulità. Contrariamente a quanto alcuni vorrebbero farci credere, la credulità e la debolezza di giudizio non sono affatto un omaggio gradito a Dio. La verità non richiede che l'uomo si abbassi ad animale, né che umilii la ragione, che gli è, al contrario, necessaria per attingere la conoscenza di Dio. Noi subiamo in Occidente da parecchi secoli una tradizione che pretende fondare la conoscenza di Dio sul deprezzamento della ragione, su una frustrazione dell'esigenza di razionalità e di intelligibilità. Questa cattiva coscienza nei riguardi della ragione non è giustificata nella tradizione biblica ed evangelica.

federagioneintelligenzafiduciaabbandono in Dio

5.0/5 (1 voto)

inviato da Eleonora Polo, inserito il 18/11/2002

TESTO

95. Quattro buoni motivi per leggere il vangelo   1

Nazzareno Marconi, pagina web

Primo motivo: Il Vangelo è il libro più famoso del mondo.

Se una mattina trovaste annunciato da tutti i giornali e tutte le trasmissioni televisive che uno sceneggiato ha avuto il più alto indice di ascolto di tutti i tempi, non vi verrebbe una grande curiosità di dare almeno un'occhiata alla seconda puntata? Il vangelo è il libro più stampato del mondo ed anche il più letto, in tutte le lingue e culture conosciute. Ma qual è il segreto del suo successo? Un numero incredibile di persone hanno scoperto che questo testo ha un potere unico: aiuta a conoscersi meglio e a rinnovare la propria vita. Dà una mano per prendere decisioni importanti e scoprire che senso abbia ciò che facciamo, ciò che pensiamo, ciò che desideriamo. Nel corso della sua storia l'umanità vi ha scoperto una fonte misteriosa ed inesauribile di speranza, di incoraggiamento, un intenso senso di pace.

Secondo motivo: Il Vangelo è un libro molto prezioso.

Se ti capitasse tra le mani un libro che: è stato copiato e diffuso con fatica per duemila anni, che spesso è stato combattuto e proibito da grandi poteri politici e militari, eppure è stato sempre difeso e conservato a costo della vita. Non gli dedichereste almeno un po' della vostra attenzione? La storia dei cristiani è punteggiata di storie di persecuzioni e martiri. Fin dall'inizio i nemici di Gesù hanno tentato di cancellare il suo ricordo, impedendo che i suoi amici parlassero di Lui alla gente. Ma questi non hanno taciuto, hanno parlato e scritto a costo della vita, e molti altri nel corso delle storia hanno fatto lo stesso. Solo grazie a questa catena di testimoni questo piccolo libro è potuto giungere tra le tue mani. Non credi che tanto sacrificio meriti un po' della tua attenzione?

Terzo motivo: Il Vangelo ha un mittente molto importante.

Se una mattina trovaste tra la vostra posta una lettera che viene da una grandissima autorità politica o economica, non la leggereste per prima e con molta attenzione? Oltre un miliardo e mezzo di persone nel mondo sono convinte che questo piccolo libro sia come una lettera che viene da Dio. Attraverso di esso il Creatore ha voluto mandarci un messaggio molto importante, tanto importante che questa "lettera" ci è stata "recapitata" da Gesù: il Figlio di Dio. Un messaggio con una tele "mittente" ed un tale "portalettere" non merita forse una attenta lettura?

Quarto motivo: Il Vangelo ha un destinatario molto importante.

Se una mattina trovaste tra la vostra posta una lettera indirizzata a voi e con su scritto "strettamente personale", non l'aprireste per prima e con molta attenzione? La fede dei cristiani ritiene che il Vangelo non contenga un messaggio generale, che riguardi soltanto principi e valori molto vaghi. Crediamo invece che il Vangelo è un messaggio che Dio invia a Te. Tra le sue parole ogni giorno puoi trovare qualcosa che misteriosamente, ma efficacemente, parla al tuo cuore e guida la tua vita. I cristiani, quando aprono il vangelo, si chiedono: "cosa mi dice oggi il Signore?". Non vale la pena di provare?

VangeloParola di DioSacra ScritturaBibbia

inviato da Eleonora Polo, inserito il 16/11/2002

TESTO

96. Lettera alla Parrocchia

Centro di Orientamento Pastorale [COP], a conclusione della 52ma Settimana di aggiornamento pastorale a Bergamo; Settimana, luglio 2002

Cara parrocchia,

sappiamo che più o meno consapevolmente molti, anche tra i cristiani, non ti ritengono oggi un riferimento necessario per la loro vita e che in certe zone d'Italia non sei più il centro dell'esperienza di un popolo.

Sappiamo che, per molti, rischi di essere soltanto una stazione di servizio distributrice di sacramenti e di elemosine e che, per alcuni gruppi, sei poco più di una base logistica.

Sappiamo tuttavia che molte associazioni, gruppi e movimenti trovano in te non solo un luogo di accoglienza e di ospitalità, ma la casa e la scuola dove crescere nella fede, per essere missionari nella città degli uomini.

Sappiamo che la fatica del rinnovamento nella fedeltà al Vangelo può togliere anche a te un po' di respiro ed entusiasmo.

Sappiamo che vorresti essere una comunità di celebrazione, di carità e di annuncio, ma che, a volte, ti mancano persone, parole di incoraggiamento e gesti di sostegno.

Sappiamo, infine, che potresti essere una delle molte comunità che sono senza pastore, ma noi non ti molliamo, anzi scommettiamo sulla tua grande capacità di rigenerarti, come hai fatto tante volte nella storia.

Non siamo nostalgici, vogliamo - con te e per te - essere creativi.

Non possiamo fare a meno di te, perché è nel tuo essere Chiesa tra le case, porzione di quella grande comunità che è la Chiesa universale, che noi apprendiamo a fare comunione; è tra le tue mura, chiese, cappelle, tessuti di relazione che incontriamo la comunità, sacramento cui è affidata la Parola che genera per tutti salvezza.

Non possiamo fare a meno di te, se vogliamo compiere oggi il percorso necessario di Parola, rito e carità che ci unisce a Cristo.

Non possiamo fare a meno di te, perché è nella celebrazione eucaristica che troviamo il sostegno decisivo per la nostra fede, la sorgente per la nostra sete di senso, la forza per una convivenza nella giustizia e nella pace.

Non possiamo fare a meno di te, se vogliamo imparare, da laici, consacrati e da preti, come si fa a essere laici, consacrati e preti in mezzo alla gente.

Siamo convinti che ancora molte persone si accostano a te con domande semplici di umana comprensione, di pietà e di condivisione e tu hai ancora per ciascuno parole e gesti di speranza e di fiducia.

Siamo convinti che con te si viene ancora a misurare l'incredulità fragile di molti uomini e donne, la loro nostalgia di Dio, il loro stesso rancore per l'inganno e le trappole in cui sono caduti e tu hai sempre un percorso di fede da ricominciare.

Siamo convinti che il Vangelo che proponi (e come lo proponi) in fedeltà allo Spirito che guida la Chiesa è la risposta ultima alle grandi domande dell'uomo.

Ti vogliamo aiutare a farti cantiere di formazione nei tuoi gesti solenni e quotidiani, nella tua assemblea domenicale, nell'accompagnare con il sacramento la vita che nasce, muore, esplode nella gioia, si affatica nel lavoro, si misura nella malattia.

Ti vogliamo aiutare a farti scuola di comunione anche nelle varie forme associative (pensiamo ad esempio, all'Azione Cattolica) generate da quella fantasia cristiana che tanta ricchezza di crescita spirituale, di fede e di apostolato ha portato alla vita delle nostre comunità. Ti vogliamo aiutare a farti punto di speranza nella capacità di incontrarti con le domande anche più petulanti e disperate, perché le sappia far diventare percorsi di vita e di fede.

Ti vogliamo aiutare a farti segno di quel "totalmente altro" che chiede di mescolarci nella società e di essere presenti nelle istituzioni abitandole da cristiani capaci di mostrare il Volto di Cristo, crocifisso e risorto, figlio dell'uomo e figlio di Dio, che tu ci aiuti a contemplare.

Ti vogliamo aiutare a vivere pienamente, con responsabilità e con gioia la dimensione Diocesana, ad aprirti alla collaborazione con tutte le altre parrocchie, superando ogni autosufficienza.

Ti vogliamo aiutare a confrontarti con un territorio che cambia per l'arrivo di altre culture e altre religioni, a portare al tuo interno per offrirla sull'altare dell'Eucaristia la vita quotidiana dei tuoi fedeli vita di famiglia, vita di lavoro e di disoccupazione, vita di italiani e di stranieri, vita culturale, politica, apertura al mondo intero.

Ti vogliamo aiutare a osare nella verità il dialogo con ogni ricerca di Dio e per questo ti chiediamo di essere esigente con noi stessi perché l'accoglienza e l'ascolto siano il frutto di una fede pensata. Cara parrocchia chiedici di più, sapremo darti anche di più e soprattutto lascia sempre trasparire sul tuo volto l'immagine beatificante del Volto di Dio.

parrocchialaicicollaborazioneresponsabilitàcorresponsabilitànuova evangelizzazione

inviato da Anna Barbi, inserito il 24/09/2002

RACCONTO

97. Una banconota da 50 euro   1

Giorgio, con la faccia triste e abbattuta, si ritrova con la sua amica Linda in un bar per prendere un caffè. Depresso, scarica su di lei tutte le sue preoccupazioni... e il lavoro... e i soldi... e i rapporti con la ragazza... e la vocazione!...

Tutto sembra andar male nella sua vita. Linda introduce la mano nella borsa, prende un banconota da 50 euro e gli dice: "Vuoi questo biglietto?". Giorgio, all'inizio un po' confuso, gli rispondi: "Certo Linda... sono 50 euro, chi non li vorrebbe?".

Allora Linda prende il biglietto in una mano e lo stringe forte fino a farlo diventare una piccola pallina. Mostrando, poi, la pallina accartocciata a Giorgio, gli chiede di nuovo: "E adesso, lo vuoi ancora?". "Linda, che vuoi dire, continuano ad essere 50 euro. Certo che lo prendo, se me lo dai".

Linda spiegò il biglietto, lo gettò a terra e lo stropicciò ulteriormente con il piede, lo sporcò, lo segnò e riprendendolo chiese ancora: "Continui a volerlo?".

"Ascolta Linda, dove vuoi arrivare? Un biglietto da 50 euro resta tale e finché non lo rompi, conserva il suo valore".

"Caro Giorgio, devi sapere che anche se a volte qualcosa non riesce come vuoi, anche se la vita ti piega o ti accartoccia, continui a essere tanto importante come lo sei sempre stato. Ciò che devi chiederti è quanto vali in realtà e non quanto puoi essere abbattuto in un particolare momento."

Giorgio guardò Linda senza dire una parola. Linda mise il biglietto spiegazzato vicino a Giorgio, sul tavolo, e con un sorriso disse: "Prendilo, così da ricordare questo momento... però mi devi un biglietto nuovo da 50 euro che forse dovrò usarlo con il prossimo amico che ne abbia bisogno". Gli diede un bacio e si allontanò.
Giorgio guardò il biglietto, sorrise, lo guardò ancora, chiamò il cameriere per pagare il conto.

Quante volte dubitiamo del nostro valore? Certo non basta il solo proposito... Si richiede azione ed esistono molte strade da seguire.

Rispondi a queste domande:
1 - Nomina le 5 persone più ricche del mondo.
2 - Nomina le 5 ultime vincitrici del concorso Miss Universo.
3 - Nomina 10 vincitori del premio Nobel.
4 - Nomina i 5 ultimi vincitori del premio Oscar come miglior attore o attrice.
Come va? Male? Non preoccuparti. Nessuno di noi ricorda i migliori di ieri. E gli applausi se ne vanno! E i trofei s'impolverano! E i vincitori si dimenticano!

Adesso rispondi a queste:
1 - Nomina 3 professori che ti hanno aiutato nella tua formazione.
2 - Nomina 3 amici che ti hanno aiutato in tempi difficili.
3 - Pensa ad alcune persone che ti hanno fatto sentire speciale.
4 - Nomina 5 persone con cui passi il tuo tempo.
Come va? Meglio? Le persone che segnano la differenza nella tua vita non sono quelle con le migliori credenziali, con molti soldi o i migliori premi... Sono quelle che si preoccupano per te, che si prendono cura di te, quelle che ad ogni modo stanno con te.



vitafuturosperanzaottimismofiducia in se stessiesterioritàinterioritàvalorescopertaaccettazione

5.0/5 (1 voto)

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 29/08/2002

RACCONTO

98. Uno strano giovane   1

Bruno Ferrero, C'è qualcuno lassù

Il padrone di una grossa fattoria aveva bisogno di un aiutante che badasse alle stalle e al fienile. Come voleva la tradizione, il giorno della festa del paese, cominciò a cercare. Scorse un ragazzo di 16-17 anni che si aggirava tra i baracconi. Era un tipo alto e magro, che non sembrava molto forte.
«Come ti chiami giovanotto?».
«Alfredo, signore».
«Sto cercando qualcuno che voglia lavorare nella mia fattoria.. Ti intendi di lavori agricoli?».
«Sissignore. Io so dormire in una notte ventosa!».
«Che cosa?» chiese il contadino sorpreso.
«Io so dormire in una notte ventosa».
Il contadino scosse la testa e se ne andò.

Nel tardo pomeriggio, incontrò nuovamente Alfredo e gli rifece la proposta. La risposta di Alfredo fu la medesima: «Io so dormire in una notte ventosa!».

Al contadino serviva un aiutante non un giovanotto che si vantava di dormire nelle notti ventose.

Provò ancora a cercare, ma non trovò nessuno disposto a lavorare nella sua fattoria. Così decise di assumere Alfredo che gli ripeté: «Stia tranquillo, padrone, io so dormire in una notte ventosa».
«D'accordo. Vedremo quello che sai fare».

Alfredo lavorò nella fattoria per diverse settimane. Il padrone era molto occupato e non faceva molta attenzione a quello che faceva il giovane.

Poi una notte fu svegliato dal vento. Il vento ululava tra gli alberi, ruggiva giù per i camini, scuoteva le finestre.Il contadino saltò giù dal letto. La bufera avrebbe potuto spalancare le porte della stalla, spaventare cavalli e mucche, sparpagliare il fieno e la paglia, combinare ogni sorta di guai.
Corse a bussare alla porta di Alfredo, ma non ebbe risposta. Bussò più forte.
«Alfredo, alzati! Vieni a darmi una mano, prima che il vento distrugga tutto!».
Ma Alfredo continuò a dormire.

Il contadino non aveva tempo da perdere. Si precipitò giù per le scale, attraversò di corsa l'aia e raggiunse la cascina.
Ed ebbe una bella sorpresa.

Le porte delle stalle erano saldamente chiuse e le finestre erano bloccate. Il fieno e la paglia erano coperti e legati in modo tale da non poter essere soffiati via. I cavalli erano al sicuro, e i maiali e le galline erano quieti. All'esterno il vento soffiava con impeto. Dentro la cascina, gli animali erano calmi e tutto era al sicuro.

D'improvviso il contadino scoppiò in una sonora risata. Aveva capito che cosa intendeva dire Alfredo quando affermava di saper dormire in una notte ventosa.

Il giovane faceva bene il suo lavoro ogni giorno. Si assicurava che tutto fosse a posto. Chiudeva accuratamente porte e finestre e si prendeva cura degli animali. Si preparava alla bufera ogni giorno. Per questo non la temeva più.

Tu, riesci a dormire in questa lunga notte di vento che è la tua vita?

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Quando sei preparato spiritualmente, mentalmente e fisicamente, non hai niente da temere.
Puoi dormire quando il vento soffia per la tua vita?
Il bracciante agricolo nella storia è capace di dormire perché ha messo al sicuro la fattoria contro la tempesta.
Assicuriamoci contro le tempeste della nostra vita trovando equilibrio e sicurezza nella Parola di Dio.
Non c'e bisogno di capire, dobbiamo solo stringere le sue mani per avere pace anche in mezzo alla tempesta.

previdenzaresponsabilitàimpegnoquotidianitàattenzione alle piccole cose

inviato da Luca Mazzocco, inserito il 11/06/2002

RACCONTO

99. Date l'esempio!   2

C'era una volta un uomo che viveva una vita normale. Pensava di non essere stato cattivo, ma neppure di essere stato un santo. Un giorno Gesù toccò il suo cuore e quest'uomo lo accettò come suo Signore e Salvatore. Sentì tanta gioia che promise al Signore di parlare di Lui a tutte le persone che avrebbe incontrato e che avrebbe portato almeno 100 persone a questa cosa grande che aveva trovato. Ma quest'uomo subito si accorse che portare persone a Cristo non era una cosa facile da fare. La maggior parte dei suoi amici pensava che fosse impazzito e si allontanava da lui.

A volte voleva ritirarsi dalla sua promessa ma continuò a raccontare a chi gli era possibile della buona novella del vangelo e come lo aveva cambiato riempiendolo di tanta pace e gioia.

Poi un giorno quest'uomo morì e si trovò in una stanza, con tutte le cose che aveva fatto e detto durante la sua vita: tutte le cose cattive che aveva fatto, tutti i brutti pensieri che aveva avuto, ritornati a lui come un lampo in un momento di tempo. Poi vide una visione di sé, nel giorno in cui la salvezza l'aveva toccato, quando aveva promesso a Gesù che avrebbe portato a Lui almeno 100 persone. L'uomo cadde in ginocchio piangendo.

Allora Gesù si avvicinò a lui e gli disse: "Alzati figliolo e dimmi: perché piangi?". L'uomo rispose: "Signore ho commesso tutte queste cose terribili nella mia vita, e ti ho detto perfino bugie!". Il Signore lo guardò chiedendogli: "Quando mi hai detto bugie?". "Ti avevo promesso di portare 100 persone a te Signore. E anche se ho provato non sono riuscito a portarne nemmeno una alla salvezza! Non ho mantenuto la mia promessa e ho detto bugie a Te".

Allora Gesù gli sorrise, gli asciugò le lacrime sul viso, e gli disse: "Figliuolo, tu non hai rotto la tua promessa con me". "Ma Signore, non ho portato neanche una persona a te!!!". Gesù rispose: "Mio figliuolo, ti ricordi quel giorno quando ti sei seduto al ristorante e hai mangiato ringraziando il Padre per il cibo? C'era una donna seduta in quel ristorante, era malata di peccato. Anche se ho provato tante volte a toccare il suo cuore, lei mi aveva sempre ignorato. Pensava di ritornare a casa per togliere la vita a sé stessa e a quella dei suoi figliuoli. Ma questa signora ti ha visto pregare e le si è aperto il cuore. Una porta si aprì nel suo cuore e mi lasciò entrare. La signora andò a casa e invece di togliersi la vita accettò me chiedendomi di diventare il Signore della sua vita. Uno dei suoi bambini diventò un presbitero santo e guidò molte anime a me. Quindi mio figliuolo sii felice, tu hai mantenuto la tua promessa. Il tuo piccolo consistente atto di fede guidò non 100 ma 100.000 persone a me!".

L'uomo prese coraggio, ma ancora si sentiva colpevole: "Mio Dio, e tutte le altre cose brutte che ho fatto?". Gesù sorrise dicendo: "Ho pagato il prezzo io per te: vedi le mie mani e i miei piedi trafitti, il mio costato perforato, il mio capo grondante sangue per te, tutto il mio corpo flagellato? Tutti e due abbiamo mantenuto la promessa!".

Ricordiamoci che un nostro piccolo atto insignificante può toccare il cuore di altri fratelli, anche quando non ce ne accorgiamo.

Un sorriso, una dolce parola, una preghiera in pubblico, sono vie che portano luce e possono cambiare una vita.

quotidianitàtestimonianzaesempioconversionemissione

5.0/5 (1 voto)

inviato da Luca Mazzocco, inserito il 02/06/2002

TESTO

100. Un buongiorno un po' speciale...   2

Buongiorno....

Quando ti sei svegliato questa mattina ti ho osservato e ho sperato che tu mi rivolgessi la parola anche solo poche parole, chiedendo la mia opinione o ringraziandomi per qualcosa di buono che era accaduto ieri.

Però ho notato che eri molto occupato a cercare il vestito giusto da metterti per andare a lavorare. Ho continuato ad aspettare ancora mentre correvi per la casa per vestirti e sistemarti e io sapevo che avresti avuto del tempo anche solo per fermarti qualche minuto e dirmi: "Ciao". Però eri troppo occupato.

Per questo ho acceso il cielo per te, l'ho riempito di colori e di dolci canti di uccelli per vedere se così mi ascoltavi però nemmeno di questo ti sei reso conto.

Ti ho osservato mentre ti dirigevi al lavoro e ti ho aspettato pazientemente tutto il giorno. Con tutte le cose che avevi da fare, suppongo che tu sia stato troppo occupato per dirmi qualcosa.

Al tuo rientro ho visto la tua stanchezza e ho pensato di farti bagnare un po' perché l'acqua si portasse via il tuo stress. Pensavo di farti un piacere perché così tu avresti pensato a me ma ti sei infuriato e hai offeso il mio nome, io desideravo tanto che tu mi parlassi, c'era ancora tanto tempo.

Dopo hai acceso il televisore, io ho aspettato pazientemente, mentre guardavi la TV, hai cenato, però ti sei dimenticato nuovamente di parlare con me, non mi hai rivolto la parola.

Ho notato che eri stanco e ho compreso il tuo desiderio di silenzio e così ho oscurato lo splendore del cielo, ho acceso una candela, in verità era bellissimo, ma tu non eri interessato a vederlo.

Al momento di dormire credo che fossi distrutto. Dopo aver dato la buona notte alla famiglia sei caduto sul letto e quasi immediatamente ti sei addormentato. Ho accompagnato il tuo sogno con una musica, i miei animali notturni si sono illuminati, ma non importa, perché forse nemmeno ti rendi conto che io sono sempre lì per te.

Ho più pazienza di quanto immagini. Mi piacerebbe pure insegnarti ad avere pazienza con gli altri, ti amo tanto che aspetto tutti i giorni una preghiera, il paesaggio che faccio è solo per te.

Bene, ti stai svegliando di nuovo e ancora una volta io sono qui e aspetto senza niente altro che il mio amore per te, sperando che oggi tu possa dedicarmi un po' di tempo.

Buona giornata...

Tuo papà Dio.

preghieraDioamore di Diorapporto con Dio

5.0/5 (1 voto)

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 02/06/2002

PREGHIERA

101. Signore, liberami da me stesso!   1

Michel Quoist

Signore, mi senti?
Soffro tremendamente. Asserragliato in me stesso,
prigioniero di me stesso. Non sento che la mia voce,
non vedo che me stesso, e dietro di me non v'è che sofferenza.

Signore, mi senti?
Liberami dal mio corpo, che è tutto brama,
e tutto quello che tocca con i suoi innumerevoli grandi occhi,
con le sue mille mani tese, è solo per coglierlo e cercare di calmare la sua insaziabile fame.

Signore, mi senti?
Liberami dal mio cuore, tutto gonfio di amore,
ma, mentre credo di amare pazzamente, intravvedo rabbioso che ancora amo me stesso nell'altro.

Signore, mi senti?
Liberami dal mio spirito, pieno di se stesso, delle sue idee,
dei suoi giudizi; non sa dialogare, perché non lo colpisce altra parola fuorché la sua.

Solo, mi annoio, mi detesto, mi disgusto,
e mi rigiro nella mia sudicia pelle come il malato nel suo letto bruciante da cui vorrebbe scappare.
Tutto mi sembra brutto, mostruoso, senza luce,
...perché non posso veder nulla se non attraverso me.
Mi sento disposto ad odiare gli uomini ed il mondo intero,
...per dispetto, perché non li posso amare.
Vorrei uscire,
Vorrei camminare, correre verso un altro paese.
So che esiste la gioia, l'ho vista raggiare sui volti.
So che brilla la luce, l'ho vista illuminare gli sguardi.
Ma Signore, non posso uscire,
insieme amo e odio la mia prigione,
perché la mia prigione sono io
ed io mi amo,
mi amo, o Signore, e mi faccio ribrezzo.

Signore, non trovo neppure più la porta di casa mia.
Mi trascino tastoni, accecato,
urto nelle mie stesse pareti, nei miei propri limiti,
mi ferisco.
Ho male, ho troppo male, e nessuno lo sa, perché nessuno è entrato in casa mia.
Sono solo, solo.

Signore, Signore, mi senti?
Signore, indicami la mia porta,
prendi la mia mano, apri,
indicami la Via,
la via della gioia, della luce.

...Ma...
Ma, o Signore, mi senti Tu?

Figliuolo, Io ti ho sentito.
Mi fai compassione.
Da tanto tempo spio le tue imposte chiuse, aprile,
la Mia luce ti rischiarerà.
Da tanto tempo Io sono davanti al tuo uscio sprangato, aprilo,
mi troverai sulla soglia.
Io ti attendo, gli altri ti attendono,
ma bisogna aprire,
ma bisogna uscire da te.

Perché rimanere prigioniero di te stesso?
Sei libero.
Non ho chiuso Io la tua porta,
non posso riaprirla Io,
...perché sei tu dall'interno a tenerla solidamente sprangata.

peccatoconversionelibertàrapporto con Dio

inviato da Mariangela Molari, inserito il 01/06/2002

RACCONTO

102. La storia di Mark

Mark Eklund era in terza elementare e io insegnavo al Saint Mary's School a Morris, Minnesota. Ero affezionata a tutti e 34 i miei studenti, ma Mark era uno su un milione. Molto ordinato e preciso in apparenza, ma aveva quell'atteggiamento di essere-felice-di-vivere (happy-to-be-alive attitude) che faceva perfino la sua occasionale birbanteria deliziosa.

Mark parlava incessantemente. Dovevo ricordargli sempre che parlare senza permesso non era accettabile. Ciò che mi impressionava tanto, però, era la sua sincera risposta ogni volta che io dovevo correggerlo per cattivo comportamento: "Grazie per avermi corretto, Sorella!". All'inizio non sapevo cosa fare, ma dopo poco mi abituai a sentirlo molte volte al giorno.

Una mattina la mia pazienza era diventata sottile quando Mark parlò una volta di troppo, ed io commisi un errore da insegnante principiante. Guardai Mark e dissi, "Se dici ancora una parola, ti chiuderò le labbra con il nastro"! Passarono dieci secondi quando Chuck rivelò: "Mark sta parlando ancora." Io non avevo chiesto a nessuno degli studenti di aiutarmi a guardare Mark, ma dovetti punirlo davanti alla classe.

Ricordo la scena come se fosse successa questa mattina. Camminai verso la mia scrivania, aprii intenzionalmente il mio cassetto e tirai fuori un rotolo di nastro adesivo. Senza dire una parola, mi avvicinai al banco di Mark, strappai due pezzi di nastro e feci con essi una grande X sulle sue labbra. Poi tornai all'inizio della stanza. Mentre lanciai un'occhiata per vedere cosa stava facendo, lui mi strizzò l'occhio. Ciò fece! Io iniziai a ridere. La classe si rallegrò e applaudì. Tornai al banco di Mark, tolsi il nastro, e feci spallucce. Le sue prime parole furono: "Grazie per avermi corretto, Sorella."

Alla fine dell'anno, fui richiesta per insegnare alla classe di matematica della scuola media. Gli anni volarono, e presto seppi che Mark era ancora nella mia classe. Era più carino che mai e cosi educato. Poiché lui doveva mettere in lista attentamente le mie istruzioni sulla "nuova matematica", non parlò cosi tanto come aveva fatto in terza. Un venerdì le cose non andavano molto bene. Avevamo lavorato duramente su un nuovo concetto tutta la settimana e avevo la sensazione che gli studenti fossero accigliati, frustrati con se stessi e nervosi gli uni con gli altri. Dovevo fermare questo prima che mi sfuggisse di mano.

Così chiesi a loro di fare una lista con i nomi degli altri studenti nella stanza su due fogli di carta, lasciando uno spazio tra ogni nome. Poi dissi loro di pensare alla cosa più simpatica che potessero dire riguardo ad ognuno dei loro compagni di classe e di scriverla. Per finire il compito, la classe prese il resto del tempo e quando gli studenti lasciarono la stanza, ognuno mi passò il foglio. Charlie sorrise. Mark disse: "Grazie per avermi insegnato, Sorella. Buon fine settimana". Quel sabato annotai il nome di ogni studente su un foglio di carta separato, e misi in lista ciò che ognuno aveva detto di quella persona. Il lunedì diedi ad ogni studente il suo o la sua lista.
Dopo poco, l'intera classe stava sorridendo.
"Davvero?", sentii bisbigliato.
"Non sapevo di significare qualcosa per qualcuno!".
"Non sapevo di piacere cosi tanto agli altri".
Nessuno menzionò mai quei fogli ancora in classe.
Non sapevo se loro li avessero discussi dopo la classe o con i loro genitori, ma ciò non importava.
L'esercizio aveva raggiunto il suo scopo. Gli studenti erano ancora felici con se stessi e gli uni con gli altri. Il gruppo di studenti si era rimesso in marcia.

Diversi anni più tardi, dopo che tornai dalle mie vacanze, i miei genitori mi vennero incontro all'aeroporto. Quando stavamo guidando verso casa, mia Madre mi chiese le solite domande sulla gita, sul tempo, le mie esperienze in generale. Ci fu una pausa nella conversazione. Mia madre diede a mio padre un'occhiata di lato e disse semplicemente: "Papà?". Mio padre si schiarì la gola come faceva di solito prima di qualcosa importante. "Gli Eklunds hanno chiamato la notte scorsa", iniziò. "Davvero?" dissi. "Non li avevo sentiti per anni. Mark come sta?". Mio Padre rispose in modo sommesso: "Mark è stato ucciso in Vietnam", disse. "I funerali sono domani, e i suoi genitori vorrebbero che tu fossi presente". Da quel giorno posso ancora indicare il punto esatto sulla I-494 dove mio Padre mi disse di Mark.

Non avevo mai visto prima un militare in una bara militare. Mark appariva così carino, così maturo. Tutto ciò che potevo pensare in quel momento era: "Mark, darei tutto il nastro adesivo del mondo se solo tu potessi parlarmi". La chiesa era affollata di amici di Mark. La sorella di Chuck canto "L'inno di Guerra della Repubblica". Perché doveva piovere nel giorno dei funerali? Era già difficile così! Il pastore disse le solite preghiere e il trombettiere suonò i colpi. Uno dopo l'altro quelli che amavano Mark si misero in cammino verso la bara e la bagnarono con l'acqua santa. Io fui l'ultima a benedire la bara.
Mentre stavo in piedi, uno dei soldati che avevano portato la bara salì verso di me.
"Era lei l'insegnante di matematica di Mark?" mi chiese.
Io feci cenno di sì con il capo mentre continuavo a fissare la bara.
"Mark ha parlato molto di lei", lui disse.
Dopo il funerale, quasi tutti i vecchi compagni di classe di Mark si diressero alla fattoria di Chuck per il pranzo. La madre e il padre di Mark erano lì; ovviamente mi aspettavano.
"Vogliamo mostrarle qualcosa", suo padre disse, estraendo un portafoglio dalla sua tasca. "Hanno trovato questo su Mark quando fu ucciso. Pensiamo che lei possa riconoscerlo".

Aprendo il portafoglio, con attenzione tolse due pezzi logori di carta di taccuini che erano stati evidentemente legati, piegati e ripiegati molte volte. Sapevo senza guardare che i fogli erano quelli sui quali avevo messo in lista tutte le cose buone che ogni compagno di classe di Mark aveva detto su di lui.

"Grazie tanto per aver fatto ciò", disse la madre di Mark. "Come può vedere, Mark lo ha apprezzato molto".

I compagni di classe di Mark iniziarono a radunarsi intorno a noi.
Charlie sorrise in modo piuttosto imbarazzato e disse: "Io ho ancora la mia lista. E' nel primo cassetto della mia scrivania a casa".
La moglie di Chuck disse: "Chuck mi ha chiesto di mettere la sua nell'album del matrimonio".
"Anch'io ho la mia", disse Marilyn. "E' nel mio diario."
Poi Vicki, un'altra compagna di classe, raggiunse la sua borsetta, prese il suo portafogli e mostrò la sua consumata e logora lista del gruppo. "Io porto questa con me sempre", disse Vicki senza battere ciglio.
"Penso che tutti noi abbiamo salvato la nostra lista".
Qui fu quando alla fine mi sedetti e piansi.
Piansi per Mark e per tutti i suoi amici che non lo avrebbero mai più visto.

La densità delle persone nella società è cosi spessa che dimentichiamo che la vita finirà un giorno. E non sappiamo quando quel giorno sarà. Così per favore, dì alle persone che ami e a cui vuoi bene che sono molto speciali ed importanti. Diglielo, prima che sia troppo tardi.

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La storia dà anche l'idea per un'attività molto carina che si può fare con ragazzi ed adolescenti: come ha fatto l'insegnante di Mark, fate scrivere ad ognuno qualcosa di simpatico o di bello su ognuno degli altri componenti del gruppo, e poi date ad ognuno i suoi foglietti, oppure fateli leggere tutti ad alta voce.

E' un'attività che può andare molto bene sopratutto con gli adolescenti (ma può andare anche con i ragazzi) in quanto spesso hanno "crisi d'identità", o comunque non hanno una sufficiente autostima: il sentirsi dire cose simpatiche o comunque belle sul proprio conto può essere una buona iniezione di fiducia ed autostima.

Inoltre, aiuta tutti a guardare ad ognuno degli altri componenti del gruppo in modo positivo, e questo è ottimo per due motivi: innanzitutto fa fare lo sforzo di pensare a tutti gli altri, quando invece spesso qualcuno è messo da parte e non lo si considera mai; in secondo luogo, fa pensare agli altri in modo positivo, e anche questa è una cosa molto buona.

amiciziaamoreimportanza del singolocomplimentibontàconoscenzapositivopositività

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inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 24/05/2002

RACCONTO

103. Il mondo rovesciato

Nel granaio di una fattoria, in campagna, vive il pipistrello Bastiano. Di notte, Bastiano, vola sulla fattoria orientandosi con il suo udito sensibilissimo e, di giorno, si riposa stando a testa in giù, appeso per i piedi a una trave del granaio. Questa sua, curiosa abitudine gli è valsa il soprannome di "Bastian contrario" .Così lo chiamano tutti gli abitanti della fattoria.

- Bastian contrario, sei proprio un bell'originale! - gli dicono i topolini che abitano nel granaio, incuriositi dal bizzarro comportamento del loro lontano parente.

- Bastian contrario, si può sapere com'è il mondo visto rovesciato? - gli domanda una topina.

- È molto più diritto di quanto non immagini! - è la strana risposta del pipistrello.

Da qualche giorno, però, Bastiano non attira più l'attenzione degli abitanti della fattoria, perché sono tutti interessati a un'altra cosa. Al fatto che l'usignolo che vive sull'olmo, al centro del cortile, ha smesso di cantare. Nessuno ode più il suo canto melodioso e tutti si sentono molto tristi.

- La vita, nella fattoria, non è più la stessa da quando l'usignolo ha smesso di cantare! - osserva il cavallo.

- Sì, prima, quando il lavoro finiva e a ciascuno restava solo il peso della propria fatica, il canto dell'usignolo ci sollevava e leniva i nostri cuori, ora invece, la sera, c'è un senso di oppressione nell'aria - dice la mucca.

Anche l'usignolo è triste e questa mattina si è rifugiato nel granaio perché è stanco di sentirsi chiedere in continuazione: «Perché non canti più?».

Credendo di essere solo nel granaio, l'usignolo dà sfogo, alla sua amarezza:

- Hanno un bel coraggio, tutti quanti, a venirmi a chiedere perché non canto più! Possibile che non capiscano che la colpa è soltanto loro? Sono stanco di sgolarmi senza una parola di ringraziamento! Perché, devo essere sempre io a rallegrare la vita degli altri, quando nessuno sembra preoccuparsi di rallegrare la mia? Ma adesso lo vedranno; non canterò più una sola nota in questa fattoria, vedremo se incominceranno a capire, e a ringraziare!

- Forse dovresti incominciare a ringraziare tu - lo interrompe una voce che sembra provenire dall'alto.

L'usignolo solleva il capino e vede il pipistrello Bastiano appeso alla trave.

- Ah... ci sei anche tu... - dice l'usignolo imbarazzato - io credevo di essere solo, per questo mi sono sfogato così... Comunque - riprende con sicurezza - lascia che ti dica che la tua osservazione è proprio stupida... o forse non mi hai ascoltato bene...

- Ti ho ascoltato benissimo, invece - dice il pipistrello - e ripeto la mia osservazione: forse dovresti incominciare a ringraziare tu.

- Ma questo è assurdo! - replica l'usignolo con vivacità. - E' esattamente il contrario del buon senso. Insomma, tu vorresti propormi, oltre al danno, anche le beffe! Andare a ringraziarli, per che cosa, poi?
- Perché ti stanno a sentire...

- Ah, questa è bella! Scommetto che tu sei quel tipo, del quale ho sentito parlare, che tutti chiamano Bastian contrario!

- Sono proprio io e, se mi starai a sentire un pochino, forse ti insegnerò qualcosa di nuovo. Ti ho detto che devi incominciare a ringraziare tu e ciò significa che devi metterti dalla parte del torto. Il che non è poi tanto sbagliato, se ci pensi bene. Vedi, la tua tristezza non nasce dal fatto che gli altri non ti ringraziano, ma dal fatto che non ti ringraziano nel modo che tu ti aspetti. Ma, se ci rifletti bene, il fatto che tutti riconoscano che la loro vita era trasformata dal tuo canto è il più bel ringraziamento, per te. Vedi, gli altri donano a loro modo, sei tu che non sai ricevere...

- Ma questo è il mondo rovesciato! - esclama l'usignolo - Ringraziare quando si aspetta di essere ringraziati! Però, anche se mi costa, devo riconoscere che c'è qualcosa di vero nelle tue parole, allora voglio provare a fare come dici tu.

L'usignolo è tornato sul ramo dell'olmo e ha ripreso a cantare.
E il suo canto dice così:

- Grazie, amici miei, perché mi state a sentire. Grazie perché accogliete il mio canto. Io credevo di consolarvi ed eravate voi che mi consolavate.

Credevo di aiutarvi ed eravate voi che mi aiutavate. Credevo di avere bisogno del vostro grazie, mentre eravate voi che avevate diritto al mio. Grazie, amici miei, per tutto questo, grazie!

Mai il canto dell'usignolo era stato più melodioso. Perché l'uccellino ha vinto se stesso dimenticato le sue pretese per rispondere alle richieste dei suoi amici che volevano il suo canto. E la presenza silenziosa di tutti gli abitanti della fattoria sotto l'olmo, le lacrime che scorrono sul muso mansueto della mucca sono il ringraziamento più bello per l'usignolo. Il quale non si stanca di dire a tutti che il grazie più grande deve andare a Bastian contrario che lo ha aiutato a capovolgere la sua situazione.

E così, adesso, c'è sempre qualcuno che fa capolino nel granaio per chiedere consiglio a Bastiano.

Anzi, quando c'è qualche problema nella fattoria tutti dicono: «Andiamo da Bastiano perché ci aiuta a capovolgere questa situazione».
E Bastiano dice a uno:
- Forse dovresti incominciare a perdonare tu...
E a un altro:
- Forse l'unica cosa da fare è non fare nulla...

E a un altro ancora: - se vuoi essere il primo, sii l'ultimo; se vuoi essere amato, ama; se vuoi essere compreso, comprendi; se vuoi essere ascoltato, ascolta; se vuoi essere esaltato, umiliati; se sei nelle tenebre, parla agli altri della luce.

E a poco a poco, tutti incominciano a vedere le cose come le vede Bastiano, cioè rovesciate.
Che è spesso l'unico modo per vederle veramente diritte.

E l'unico modo per dare un senso a cose che a volte sembrano esserne prive.

Perché, rovesciare le cose, significa non guardarle più con il nostro occhio, non misurarle più con il nostro metro, che si chiama egoismo, ma guardarle con gli occhi degli altri e misurarle con il metro del prossimo che è la carità.

Perché, rovesciare le cose, significa avere compreso che esistono pensieri che non assomigliano ai nostri pensieri, che esistono delle vie che non sono le nostre vie.
Ma sono le uniche vie che conducono alla Pace.

gratitudineperdonofare il primo passo

inviato da Mariangela Molari, inserito il 22/05/2002

TESTO

104. Le cose che ho imparato nella vita   1

Paulo Coelho

Ecco alcune delle cose che ho imparato nella vita:

Che non importa quanto sia buona una persona, ogni tanto ti ferirà. E per questo, bisognerà che tu la perdoni.

Che ci vogliono anni per costruire la fiducia e solo pochi secondi per distruggerla.

Che non dobbiamo cambiare amici, se comprendiamo che gli amici cambiano.

Che le circostanze e l'ambiente hanno influenza su di noi, ma noi siamo responsabili di noi stessi.

Che, o sarai tu a controllare i tuoi atti, o essi controlleranno te.

Ho imparato che gli eroi sono persone che hanno fatto ciò che era necessario fare, affrontandone le conseguenze.

Che la pazienza richiede molta pratica.

Che ci sono persone che ci amano, ma che semplicemente non sanno come dimostrarlo.

Che a volte, la persona che tu pensi ti sferrerà il colpo mortale quando cadrai, è invece una di quelle poche che ti aiuteranno a rialzarti.

Che solo perché qualcuno non ti ama come tu vorresti, non significa che non ti ami con tutto se stesso.

Che non si deve mai dire a un bambino che i sogni sono sciocchezze: sarebbe una tragedia se lo credesse.

Che non sempre è sufficiente essere perdonato da qualcuno. Nella maggior parte dei casi sei tu a dover perdonare te stesso.

Che non importa in quanti pezzi il tuo cuore si è spezzato; il mondo non si ferma, aspettando che tu lo ripari.

Forse Dio vuole che incontriamo un po' di gente sbagliata prima di incontrare quella giusta, così quando finalmente la incontriamo, sapremo come essere riconoscenti per quel regalo.

Quando la porta della felicità si chiude, un'altra si apre, ma tante volte guardiamo così a lungo quella chiusa, che non vediamo quella che è stata aperta per noi.

La miglior specie d'amico è quel tipo con cui puoi stare seduto in un portico e camminarci insieme, senza dire un parola, e quando vai via senti come se è stata la miglior conversazione mai avuta.

E' vero che non conosciamo ciò che abbiamo prima di perderlo, ma è anche vero che non sappiamo ciò che ci è mancato prima che arrivi.

Ci vuole solo un minuto per offendere qualcuno, un'ora per piacergli, e un giorno per amarlo, ma ci vuole un vita per dimenticarlo.

Non cercare le apparenze, possono ingannare.

Non cercare la salute, anche quella può affievolirsi.

Cerca qualcuno che ti faccia sorridere perché ci vuole solo un sorriso per far sembrare brillante un giornataccia.

Trova quello che fa sorridere il tuo cuore. Ci sono momenti nella vita in cui qualcuno ti manca così tanto che vorresti proprio tirarlo fuori dai tuoi sogni per abbracciarlo davvero!

Sogna ciò che ti va; vai dove vuoi; sii ciò che vuoi essere, perché hai solo una vita e una possibilità di fare le cose che vuoi fare.

Puoi avere abbastanza felicità da renderti dolce, difficoltà a sufficienza da renderti forte, dolore abbastanza da renderti umano, speranza sufficiente a renderti felice.

Mettiti sempre nei panni degli altri. Se ti senti stretto, probabilmente anche loro si sentono così.

Le più felici delle persone, non necessariamente hanno il meglio di ogni cosa; soltanto traggono il meglio da ogni cosa che capita sul loro cammino.

La felicità è ingannevole per quelli che piangono, quelli che fanno male, quelli che hanno provato, solo così possono apprezzare l'importanza delle persone che hanno toccato le loro vite.

L'amore comincia con un sorriso, cresce con un bacio e finisce con un thé.

Il miglior futuro è basato sul passato dimenticato, non puoi andare bene nella vita prima di lasciare andare i tuoi fallimenti passati e i tuoi dolori.

Quando sei nato, stavi piangendo e tutti intorno a te sorridevano. Vivi la tua vita in modo che quando morirai, tu sia l'unico che sorride e ognuno intorno a te pianga.

vitaprogettosperanzaottimismo

inviato da Mariangela Molari, inserito il 22/05/2002

TESTO

105. Credo in Te   1

Credo nell'amore perché in sé racchiude tutto il significato della nostra vita: nasciamo per amore, cresciamo nell'amore e siamo chiamati ad amare, in condivisione e comunione completa con i nostri fratelli, perché elevato fino a Dio l'amore può andare oltre i limiti dell'uomo.

Credo nell'altro perché è in chi mi sta accanto che ritrovo il tuo volto.

Credo nell'amicizia perché riconosco in essa un importante punto di riferimento che mi dà sicurezza, fiducia in me e negli altri, insegnandomi a crescere e a maturare.

Credo nella vita come grande dono che Dio ci ha concesso e con il quale possiamo realizzare quel progetto che lui ha posto in noi.

Credo nella preghiera perché ci permette di entrare in intimità con un amico sempre disponibile ad ascoltarci e confortarci; perché ci consente di elevarci fino a lui dimenticando tutto ciò che ci preoccupa ed affanna e perché in essa ritroviamo la forza per fare della nostra vita una grande esperienza d'amore.

Credo nell'intelligenza perché ci permette di affrontare con consapevolezza e responsabilità le scelte della vita.

Credo nella sincerità perché rende più puri e veri i nostri sentimenti.

Credo nella fiducia perché ci consente di non rimanere mai soli.

Credo nella felicità perché ci rende vivi e capaci di donare con spontaneità e senza pretese.

Credo nel rispetto poiché non siamo nati per giudicare o condannare, ma per imparare a crescere nella scoperta del grande valore che l'altro rappresenta per noi.

Credo nella vita eterna perché consente di superare il limite umano, la materialità, dando un senso ancora più profondo alla vita terrena.

Credo nella semplicità perché Dio ha scelto la semplicità del pane e del vino per essere sempre presente e vivo in mezzo a noi.

Credo nella conversione perché solo attraverso essa posso liberare la mia anima ed avvicinarmi a Dio privo di condizionamenti e nel totale appagamento.

Credo nel silenzio perché ci consente di superare la confusione delle parole, di riflettere, di capire, ascoltare e confortare meglio di quanto possa fare qualunque parola o qualunque orecchio.

Credo nella musica come modo di comunicare universale, diretto, spontaneo; la musica ci parla della nostra vita e ci dà l'opportunità di riflettere.

Credo nella volontà perché è grazie al desiderio e allo stimolo che Dio suscita nel cuore dell'uomo che egli riesce ad affrontare di tutto per poter, alla fine, raggiungere il suo scopo e trovare la piena felicità in esso.

Credo nella Verità poiché tutti noi abbiamo bisogno di sapere la verità; l'uomo ha sete di verità.

Credo nella gratuità perché nessuna ricompensa è più grande della gioia che sa donarci la felicità espressa dal sorriso di un volto amico.

Credo nella Provvidenza perché con essa in noi nulla ci può mancare anche quando non abbiamo niente.

Credo nel camposcuola come stimolo, spinta verso un cammino di crescita che ci fa forti nella fede e ci rende testimoni della Tua misteriosa e preziosa presenza.

Credo nella perfetta letizia, nel dono di Dio di perdonare e sentirsi perdonati. Un amore senza misura che riempie il cuore di gioia e dà il coraggio di affrontare la vita.

Credo nella libertà di essere se stessi perché ci rende unici, veri, autentici e liberi.

Credo nella pace perché è nella pace che si costruisce un mondo fatto d'amore, di felicità e di quella serenità che ci rende liberi pellegrini verso te, Signore.

Credo nel creato perché ovunque Lo sento: nelle montagne, nel cielo, nelle nuvole, nelle stelle, nel sole, nel vento... Tutto ci parla di Lui.
Credo in tutto questo perché credo in te.

regola di vitacredo

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inviato da Francesco G., inserito il 21/05/2002

RACCONTO

106. Diario sconcertante   2

Turriseburnea.it

5 ottobre: oggi la mia vita è incominciata. Il babbo e la mamma non lo sanno ancora. Io sono più piccolo di una capocchia di spillo, eppure sono già un essere indipendente. Tutte le mie caratteristiche fisiche e psicologiche sono già fissate. Ad esempio io avrò gli occhi del babbo e i capelli biondi e mossi della mamma. Ed anche un'altra cosa è già stabilita: io sarò una bambina.

19 ottobre: il mio primo sangue, le mie prime vene appaiono. Però i miei organi non sono ancora completamente formati ed allora la mia mamma mi deve sostenere con il suo sangue e con la sua energia vitale. Ma quando sarò nata mi basterà soltanto, e per qualche tempo, il suo latte.

23 ottobre: la mia bocca si apre verso l'esterno. Entro un anno già potrò ridere, quando i mie genitori si chineranno sul mio lettino. Ho deciso, la mia prima parola sarà: "mamma".

P.S. Chi è quel matto che dice che io non sono un essere umano del tutto autonomo, ma che sono invece una parte del corpo di mia madre?

25 ottobre: il mio cuore ha cominciato a battere. Non si fermerà più, senza riposare, fino alla fine della mia vita. Questo è proprio un grande miracolo!

2 novembre: le mie braccia e le mie gambe cominciano a crescere. E cresceranno fino a che non saranno completamente formate: ciò durerà per un certo tempo, anche dopo la mia nascita.

12 novembre: adesso nelle mie mani stanno spuntando le dita. Con esse mi impadronirò del mondo e parteciperò alle fatiche degli uomini.

20 novembre: oggi, per la prima volta, mia madre ha appreso dal suo cuore che mi portava in seno. Chissà quanto è grande la sua gioia!!

25 novembre: adesso già si potrebbe vedere che io sono una bambina. Certamente i miei genitori stanno già pensando a come mi dovrò chiamare. Potessi già saperlo!!!

28 novembre: tutti i miei organi sono già completamente formati. Io sono molto cresciuta.

12 dicembre: mi stanno crescendo i capelli e le ciglia. Chissà come sarà contenta la mamma della sua piccola!

13 dicembre: presto potrò vedere. Però i miei occhi sono ancora cuciti con un filo. Luce, colori, fiori... deve essere magnifico! Soprattutto mi riempie di gioia il pensiero che potrò vedere la mia mamma. Oh se non ci fosse tanto da aspettare. Ancora più di sei mesi!

24 dicembre: il mio cuore è ormai perfetto. Ci devono essere bambini che vengono al mondo con un cuore malato. In questo caso bisogna affrontare terribili pene per salvarli con una operazione. Grazie a Dio il mio cuore è sano, io sarò una bambina piena di forza e di vita. Tutti saranno felici della mia nascita. Domani è Natale...

28 dicembre: oggi mia madre mi ha assassinata!

abortovitamaternità

inviato da Luca Peyron, inserito il 11/05/2002

RACCONTO

107. Il segreto del paradiso   1

Bruno Ferrero, L'importante è la rosa

Una volta un samurai grosso e rude andò a visitare un piccolo monaco. "Monaco", gli disse "insegnami che cosa sono l'inferno e il paradiso!".

Il monaco alzò gli occhi per osservare il potente guerriero e rispose con estremo disprezzo: "Insegnarti che cosa sono l'inferno e il paradiso? Non potrei insegnarti proprio niente. Sei sporco e puzzi, la lama del tuo rasoio si è arrugginita. Sei un disonore, un flagello per la casta dei samurai. Levati dalla mia vista, non ti sopporto".

Il samurai era furioso. Cominciò a tremare, il volto rosso dalla rabbia, non riusciva a spiccicare parola. Sguainò la spada e la sollevò in alto, preparandosi a uccidere il monaco.
"Questo è l'inferno", mormorò il monaco.

Il samurai era sopraffatto. Quanta compassione quanta resa in questo ometto che aveva offerto la propria vita per dargli questo insegnamento, per dimostrargli l'inferno! Lentamente abbassò la spada, pieno di gratitudine e improvvisamente colmo di pace.

"E questo è il paradiso", mormorò il monaco.

Dopo una lunga ed eroica vita, un valoroso samurai giunse nell'aldilà e fu destinato al paradiso. Era un tipo pieno di curiosità e chiese di poter dare prima un'occhiata anche all'inferno. Un angelo lo accontentò e lo condusse all'inferno.

Si trovò in un vastissimo salone che aveva al centro una tavola imbandita con piatti colmi di pietanze succulente e di golosità inimmaginabili. Ma i commensali, che sedevano tutt'intorno, erano smunti, pallidi e scheletriti da far pietà.

"Com'è possibile?", chiese il samurai alla sua guida. "Con tutto quel ben di Dio davanti!".

"Vedi: quando arrivano qui, ricevono tutti due bastoncini, quelli che si usano come posate per mangiare, solo che sono lunghi più di un metro e devono essere rigorosamente impugnati all'estremità. Solo così possono portarsi il cibo alla bocca".

Il samurai rabbrividì. Era terribile la punizione di quei poveretti che, per quanti sforzi facessero, non riuscivano a mettersi neppur una briciola sotto i denti. Non volle vedere altro e chiese di andare subito in paradiso.

Qui lo attendeva una sorpresa. Il Paradiso era un salone assolutamente identico all'inferno. Dentro l'immenso salone c'era l'infinita tavolata di gente; un'identica sfilata di piatti deliziosi. Non solo: tutti i commensali erano muniti degli stessi bastoncini lunghi più di un metro, da impugnare all'estremità per portarsi il cibo alla bocca.

C'era una sola differenza: qui la gente intorno al tavolo era allegra, ben pasciuta, sprizzante di gioia. "Ma com'è possibile?", chiese il samurai.

L'angelo sorrise. "All'inferno ognuno si affanna ad afferrare il cibo e portarlo alla propria bocca, perché si sono sempre comportati così nella vita. Qui, al contrario, ciascuno prende il cibo con i bastoncini e poi si preoccupa di imboccare il proprio vicino".
Paradiso e inferno sono nelle tue mani. Oggi.

paradisoinfernoaltruismoamoreegoismoserviziogenerositàcaritàdonare agli altri

5.0/5 (1 voto)

inviato da Marianna Sebastiani, inserito il 08/05/2002

PREGHIERA

108. Ballata della speranza

David Maria Turoldo, Il sesto angelo, Mondadori, 1976

Tempo del primo avvento
tempo del secondo avvento
sempre tempo d'avvento:
esistenza, condizione
d'esilio e di rimpianto.

Anche il grano attende
anche l'albero attende
attendono anche le pietre
tutta la creazione attende.

Tempo del concepimento
di un Dio che ha sempre da nascere.

(Quando per la donna è giunta la sua ora
è in grande pressura
ma poi tutta la sua tristezza
si muterà in gaudio
perché è nato al mondo un uomo.)

Questo è il vero lungo inverno del mondo:
Avvento, tempo del desiderio
tempo di nostalgia e ricordi
(paradiso lontano e impossibile!)
Avvento, tempo di solitudine
e tenerezza e speranza.
Oh, se sperassimo tutti insieme
tutti la stessa speranza
e intensamente
ferocemente sperassimo
sperassimo con le pietre
e gli alberi e il grano sotto la neve
e gridessimo con la carne e il sangue
con gli occhi e le mani e il sangue;
sperassimo con tutte le viscere
con tutta la mente e il cuore
Lui solo sperassimo;
oh se sperassimo tutti insieme
con tutte le cose
sperassimo Lui solamente
desiderio dell'intera creazione;
e sperassimo con tutti i disperati
con tutti i carcerati
come i minatori quando escono
dalle viscere della terra,
sperassimo con la forza cieca
del morente che non vuol morire,
come l'innocente dopo il processo
in attesa della sentenza,
oppure con il condannato
avanti il plotone d'esecuzione
sicuro che i fucili non spareranno;
se sperassimo come l'amante
che ha l'amore lontano
e tutti insieme sperassimo,
a un punto solo
tutta la terra uomini
e ogni essere vivente
sperasse con noi
e foreste e fiumi e oceani,
la terra fosse un solo
oceano di speranza
e la speranza avesse una voce sola
un boato come quello del mare,
e tutti i fanciulli e quanti
non hanno favella
per prodigio
a un punto convenuto
tutti insieme
affamati malati disperati,
e quanti non hanno fede
ma ugualmente abbiano speranza
e con noi gridassero
astri e pietre,
purché di nuovo un silenzio altissimo
- il silenzio delle origini -
prima fasci la terra intera
e la notte sia al suo vertice;
quando ormai ogni motore riposi
e sia ucciso ogni rumore
ogni parola uccisa
- finito questo vaniloquio! -
e un silenzio mai prima udito
(anche il vento faccia silenzio
anche il mare abbia un attimo di silenzio,
un attimo che sarà la sospensione del mondo),
quando si farà questo
disperato silenzio
e stringerà il cuore della terra
e noi finalmente in quell'attimo dicessimo
quest'unica parola
perché delusi di ogni altra attesa
disperati di ogni altra speranza,
quando appunto così disperati
sperassimo e urlassimo
(ma tutti insieme
e a quel punto convenuti)
certi che non vale chiedere più nulla
ma solo quella cosa
allora appunto urlassimo
in nome di tutto il creato
(ma tutti insieme e a quel punto)
VIENI VIENI VIENI, Signore
vieni da qualunque parte del cielo
o degli abissi della terra
o dalle profondità di noi stessi
(ciò non importa) ma vieni,
urlassimo solo: VIENI!

Allora come il lam po guizza dall'oriente
fino all'occidente così sarà la sua venuta
e cavalcherà sulle nubi;
e il mare uscirà dai suoi confini
e il sole più non darà la sua luce
né la luna il suo chiarore
e le stelle cadranno fulminate
saranno scosse le potenze dei cieli.

E lo Spirito e la sposa dicano: Vieni!
e chi ascolta dica: vieni!
e chi ha sete venga
chi vuole attinga acqua di vita
per bagnarsi le labbra
e continuare a gridare: vieni!

Allora Egli non avrà neppure da dire
eccomi, vengo - perché già viene.

E così! Vieni Signore Gesù,
vieni nella nostra notte,
questa altissima notte
la lunga invincibile notte,
e questo silenzio del mondo
dove solo questa parola sia udita;
e neppure un fratello
conosce il volto del fratello
tanta è fitta la tenebra;
ma solo questa voce
quest'unica voce
questa sola voce si oda:

VIENI VIENI VIENI, Signore!
- Allora tutto si riaccenderà
alla sua luce
e il cielo di prima
e la terra di prima
son sono più
e non ci sarà più né lutto
né grido di dolore
perché le cose di prima passarono
e sarà tersa ogni lacrima dai nostri occhi
perché anche la morte non sarà più.
E una nuova città scenderà dal cielo
bella come una sposa
per la notte d'amore
(non più questi termitai
non più catene dolomitiche
di grattacieli
non più urli di sirene
non più guardie
a presiedere le porte
non più selve di ciminiere).

- Allora il nostro stesso desiderio
avrà bruciato tutte le cose di prima
e la terra arderà dentro un unico incendio
e anche i cieli bruceranno
in quest'unico incendio
e anche noi, gli uomini,
saremo in quest'unico incendio
e invece di incenerire usciremo
nuovi come zaffiri
e avremo occhi di topazio:

quando appunto Egli dirà
"ecco, già nuove sono fatte tutte le cose"

allora canteremo
allora ameremo
allora allora...

MARANATHA', VIENI SIGNORE GESU'!

avventoattesa

inviato da Emilio Centomo, inserito il 08/05/2002

RACCONTO

109. L'occhio del falegname   4

Bruno Ferrero, Cerchi nell'acqua

C'era una volta, tanto tempo fa, in un piccolo villaggio, la bottega di un falegname. Un giorno, durante l'assenza del padrone, tutti i suoi arnesi da lavoro tennero un gran consiglio.

La seduta fu lunga e animata, talvolta anche veemente. Si trattava di escludere dalla onorata comunità degli utensili un certo numero di membri.

Uno prese la parola: "Dobbiamo espellere nostra sorella Sega, perché morde e fa scricchiolare i denti. Ha il carattere più mordace della terra".

Un altro intervenne: "Non possiamo tenere fra noi sorella Pialla: ha un carattere tagliente e pignolo, da spelacchiare tutto quello che tocca".

"Fratel Martello - protestò un altro - ha un caratteraccio pesante e violento. Lo definirei un picchiatore. E' urtante il suo modo di ribattere continuamente e dà sui nervi a tutti. Escludiamolo!".

"E i Chiodi? SI può vivere con gente così pungente? Che se ne vadano. E anche Lima e Raspa. A vivere con loro è un attrito continuo. E cacciamo anche Cartavetro, la cui unica ragion d'essere sembra quella di graffiare il prossimo!".

Così discutevano, sempre più animosamente, gli attrezzi del falegname. Parlavano tutti insieme. Il martello voleva espellere la lima e la pialla, questi volevano a loro volta l'espulsione di chiodi e martello, e così via. Alla fine della seduta tutti avevano espulso tutti.

La riunione fu bruscamente interrotta dall'arrivo del falegname. Tutti gli utensili tacquero quando lo videro avvicinarsi al bancone di lavoro. L'uomo prese un asse e lo segò con la Sega mordace. Lo piallò con la Pialla che spela tutto quello che tocca. Sorella Ascia che ferisce crudelmente, sorella Raspa che dalla lingua scabra, sorella Cartavetro che raschia e graffia, entrarono in azione subito dopo.

Il falegname prese poi i fratelli Chiodi dal carattere pungente e il Martello che picchia e batte.

Si servì di tutti i suoi attrezzi di brutto carattere per fabbricare una culla. Una bellissima culla per accogliere un bambino che stava per nascere. Per accogliere la Vita.

Dio ci guarda con l'occhio del falegname.

occhi di Dio su di noiamore di Diocorrezione fraternaconvivere

5.0/5 (1 voto)

inviato da Stefania Raspo, inserito il 05/05/2002

TESTO

110. Voi siete un miracolo   1

Leo Buscaglia, Vivere amare capirsi

Abbiamo paura di vivere la vita, e perciò non facciamo esperienze, non vediamo. Non sentiamo. Non rischiamo! Non prendiamo a cuore nulla! Non viviamo... perché la vita significa essere coinvolti attivamente. Vivere significa sporcarvi le mani. Vivere significa buttarvi con coraggio. Vivere significa cadere e sbattere il muso. Vivere significa andare al di là di voi stessi... tra le stelle!

Ma dovete decidere voi, per voi stessi. "Cosa significa per me la vita?" Sono convinto che se ogni giorno dedicassimo a pensare alla vita e a vivere e ad amare lo stesso tempo... no, un quarto del tempo che dedichiamo a preparare i pasti, saremmo incredibili!

Ma la vita ha un modo meraviglioso per risolvere questo problema. Per me è sempre affascinante perché, quando la vita non viene vissuta, esplode in noi. E' come cercare di bloccare il coperchio di una pentola che bolle. Succederà qualcosa, ne sono convinto. Finirete per piombare nella paura, nella sofferenza, nella solitudine, nella paranoia o nell'apatia. Tutti segni del fatto che non state vivendo! Quindi, se avvertite uno di questi sintomi, rimboccatevi le maniche e dite: "Ora devo vivere". Nell'attimo in cui incominciate a lasciarvi coinvolgere nella vita, il vapore fuoriesce, e siete salvi. Non è facile: ma la vita ci fa sapere che deve essere vissuta. Meraviglioso!

Perché c'è la morte? Io non so perché c'è la morte. Perché c'è la sofferenza? Vorrei che non ci fosse, ma non so perché c'è. Se passassi la vita a cercare le risposte a questi interrogativi, non vivrei mai.

Però a quelli che vengono da me dico che so qualcosa della vita. C'è una cosa chiamata gioia, perché io l'ho provata. E c'è una cosa chiamata follia meravigliosa, perché l'ho vissuta. E so che c'è una cosa chiamata amore perché ho amato. E so che c'è una cosa chiamata estasi perché ho conosciuto l'estasi. E so anche - perché ho conosciuto gente che ne ha fatto l'esperienza - che c'è una cosa chiamata rapimento. Oh, mi piace questa parola, "rapimento"! Cercate il rapimento! Mi rifiuto di morire fino a quando non avrò imparato che cos'è!

Perché uno si comporti così, bisogna che faccia molte scelte. Una delle più importanti è "scegliere se stesso".
Scegliete voi stessi.

Finitela di odiarvi. Finitela di buttarvi giù. Abbracciatevi e dite: "Sai, va bene così! Starai perdendo i capelli, ma sei tutto ciò che ho!".

Quando vi riconciliate con le vostre debolezze, ce l'avete fatta! Non sono enormi, sono soltanto una piccola parte di voi.

Dovete scegliere voi stessi. Sono sicuro che coloro che si tolgono la vita, che non vivono, sono soprattutto coloro che non hanno rispetto per se stessi. Non so quando è stata l'ultima volta che qualcuno ha detto questo, ma voglio sottolinearlo: Voi siete un miracolo.

senso della vitaricerca di sensosuicidiomortevitaprogettostuporeaccettazione di séottimismosperanza

inviato da Emilio Centomo, inserito il 05/05/2002

PREGHIERA

111. Il dono di nozze da parte di Dio   3

La creatura che hai al fianco è mia. Io l'ho creata.
Io le ho voluto bene da sempre, prima di te e più di te.
Per lei non ho esitato a dare la mia vita. Te la affido.
La prendi dalle mie mani e ne diventi responsabile.
Quando l'hai incontrata l'hai trovata amabile e bella.
Sono le mie mani che hanno plasmato la sua bellezza,
è il mio cuore che ha messo in lei tenerezza ed amore,
è la mia sapienza che ha formato la sua sensibilità,
la sua intelligenza e tutte le qualità che hai trovato in lei.
Ma non puoi limitarti a godere del suo fascino.
Devi impegnarti a rispondere ai suoi bisogni, ai suoi desideri.
Ha bisogno di serenità e di gioia, di affetto e di tenerezza,
di piacere e di divertimento, di accoglienza e di dialogo,
di rapporti umani, di soddisfazione nel lavoro, e di tante altre cose.
Ma ricorda che ha bisogno soprattutto di me.
Sono Io, e non tu, il principio, il fine, il destino di tutta la sua vita.
Aiutala ad incontrarmi nella preghiera, nella Parola,
nel perdono, nella speranza.
Abbi fiducia in me.
La ameremo insieme. Io la amo da sempre.
Tu hai cominciato ad amarla da qualche anno,
da quando vi siete innamorati.
Sono Io che ho messo nel tuo cuore l'amore per lei.
Era il modo più bello per dirti "Ecco te l'affido.
Gioisci della sua bellezza e delle sue qualità".
Con le parole "Prometto di esserti fedele,
di amarti e rispettarti per tutta la vita",
è come se mi rispondessi che sei felice di accoglierla
nella tua vita e di prenderti cura di lei.
Da quel momento siamo in due ad amarla.
Anzi Io ti rendo capace di amarla "da Dio",
regalandoti un supplemento di amore
che trasforma il tuo amore di creatura e lo rende simile al mio.
E' il mio dono di nozze: la grazia del sacramento del matrimonio.
Io sarò sempre con voi e farò di voi gli strumenti del mio amore
e della mia tenerezza:
continuerò ad amarvi attraverso i vostri gesti d'amore.

matrimoniocoppiaamorefamigliainnamoramento

5.0/5 (1 voto)

inviato da Francesco Sessa, inserito il 04/05/2002

PREGHIERA

112. Spirito Santo

Filippa Castronovo

Spirito Santo, che il Padre concede a coloro che credono in Gesù e a lui si sottomettono, riempi di te la nostra vita.
Tu, vivente in noi, ci darai occhi per vedere, orecchie per ascoltare, cuore per convertirci,
bocca per lodare Dio e annunciare le sue meraviglie al mondo.

Spirito Santo, tu sei il dono promesso da Gesù risorto per esseri suoi testimoni.
Spirito Santo, tu sei l'atteso dagli apostoli da Maria e dalle donne che seguirono Gesù.
Spirito Santo, tu vieni a riempire i cuori della tua presenza.
Spirito Santo, tu trasformi i dubbi e i timori colmandoli di gioiosa speranza.
Spirito Santo, tu dai il potere di esprimerci e di essere compresi.

Spirito Santo, tu fai realizzare la vera comunione e comunicazione.
Spirito Santo, tu doni il coraggio di annunziare Gesù Cristo, morto e risorto.
Spirito Santo, tu sciogli la nostra lingua perché possiamo proclamare le meraviglie di Dio.
Spirito Santo, tu sei il dono del Padre a coloro che si sottomettono a Lui.
Spirito Santo, tu vivente in noi, attesti che siamo i figli amati dal Padre.

Spirito Santo, tu conduci i credenti nella via della missione.
Spirito Santo, tu elargisci la tua sapienza e ci fai servire in modo evangelico.
Spirito Santo, tu fai crescere la Chiesa e ne allarghi i confini.
Spirito Santo, tu fai camminare la Chiesa nel timore del Signore.
Spirito Santo, tu consoli la Chiesa, donandole pace.

Spirito Santo, la tua presenza dona la luce e noi vediamo il risorto.
Spirito Santo, in te il Padre consacrò Gesù, riempiendolo di potenza.
Spirito Santo, tu incoraggi i chiamati ad aprire nuove vie al Vangelo.
Spirito Santo, tu fai percorrere le strade del mondo senza timore.
Spirito Santo, tu riservi per te e invii in missione.

Spirito Santo, tu guidi i singoli passi del nostro cammino.
Spirito Santo, tu concedi l'intelligenza per riconoscere la verità e denunciare l'errore.
Spirito Santo, tu riempi di gioia coloro che annunciano la Parola con sincerità.
Spirito Santo, tu guidi la tua Chiesa a scelte sapienti, animate dalla carità.
Spirito Santo, tu crei i profeti e li doni alla Chiesa.

Spirito Santo, tu apri le vie al Vangelo e in esse dirigi gli apostoli.
Spirito Santo, tu fai vivere, con coraggio, le fatiche e le tribolazioni per Cristo.
Spirito Santo, tu costituisci in autorità per guidare a Cristo i fratelli.
Spirito Santo, tu hai parlato per mezzo dei profeti, ora parli per mezzo dei credenti in Gesù.
Spirito Santo, tu trasformi la debole parola umana in annuncio fedele e franco del Regno.

Spirito santo

5.0/5 (1 voto)

inviato da Filippa Castronovo, inserito il 02/05/2002

ESPERIENZA

113. Ho regalato il Monte Bianco ad una signora antipatica

Quando ho raccontato l'episodio agli amici tutti hanno sentenziato che mi ero comportato da scemo. Poco male. Era già accaduto altre volte. E capiterà ancora. Stavolta però mi sentivo intimamente soddisfatto di essere stato stupido.

Dunque: mi presento all'aeroporto con discreto anticipo e riesco a farmi assegnare un posto per fumatori e, soprattutto, vicino all'oblò. Salgo sul DC9 dell'Alitalia, controllo: Sì il mio posto è proprio quello: 8E=WINDOW, vicino all'oblò. Un posto di osservazione stupendo, non disturbato dall'ala. Mi allaccio la cintura e guardo mi direzione del cielo. E' una giornata bellissima, il cielo terso, di un azzurro incredibile. La rotta prevede il passaggio delle Alpi, Monte Bianco incluso. Sarà uno spettacolo sensazionale, perfino la mia macchina fotografica sembra fremere d'impazienza.

A un tratto, una ruvida manata sulla spalla mi scuote dalla contemplazione. Una robusta signora che garganzza un tedesco aspro, mi ordina perentoriamente di sloggiare. Mi sventola sotto il naso, accompagnando il gesto con crepitio secco di parole-comandi, il suo biglietto. Do un'occhiata: 8C=AISLE. Non ci sono dubbi: è lei che deve accomodarsi sulla poltroncina che dà sul corridoio. Invece quella insiste per sistemarsi accanto all'oblò.

Mi viene voglia di invitare la signora, dal volto aggrondato e paonazzo, a studiare un po' l'inglese. Così, imparerà che "WINDOW" vuol dire finestrino (mio) e "AISLE" corridoio (suo). Mi vien voglia di buttarle in faccia - una faccia senza un tratto che la renda simpatica - che avere il marco forte non significa acquisire il diritto di essere prepotenti. Mi vien voglia di invocare l'intervento della hostess.

Ma improvvisamente mi vien voglia di essere stupido, di passare per cretino. Ed è quella che vince. Lascio il mio posto e mi accomodo in quello sgradito senza borbottare, anzi regalando un sorriso, non ricambiato naturalmente, alla usurpatrice che inalbera l'aria trionfante di chi ha fatto valere i suoi sacrosanti diritti.

Allorché sono alle viste le cime delle montagne ed il comandante invita ad ammirare la catena del Monte Bianco, il mio nemico-invasore scatta a ripetizione dozzine di foto, quasi con rabbia. Negli intervalli appoggia il testone rubizzo all'oblò, come per impedirmi il più fugace lampo azzurro, la più minuscola briciola di neve, il più piccolo frammento di ghiaccio. Ma io che avevo già deciso, senza pentimenti, di essere stupido fino all'ultimo, il cielo ce lo avevo dentro. Provavo una sensazione benefica di pace profonda, di compiaciuta soddisfazione. All'apparenza aveva vinto l'arroganza, La giustizia era stata calpestata dal sopruso. L'ignoranza villana aveva avuto il sopravvento.
Mi aveva rubato il Monte Bianco.

lo però non mi sentivo affatto sconfitto. Al contrario. Mi sorprendevo che le Grandes Jorasses rappresentassero uno spettacolo impagabile, ma la pace ha un valore superiore. Riflettevo che è meglio farsi dar ragione dal Vangelo piuttosto che da un miserabile biglietto con su stampigliato "E=WINDOWS". Beh mi rallegravo per il fatto che, in un pianeta incendiato in continuazione da troppe guerre e guerriglie, quel giorno io ero riuscito ad evitare un, se pur ridottissimo, conflitto.

Si. In terra e pure in cielo - eravamo a diecimila metri di quota - quel giorno una stupida e piccolissima guerra - ma anche le guerre di grosse dimensioni sono stupide - non era scoppiata soltanto perché uno scemo aveva compiuto, senza dire una parola, un gesto semplicissimo: spostarsi dì mezzo metro.

No. Non è stata la signora villana a rubarmi il Monte Bianco: gliel'avevo regalato io. Io ero più ricco di lei, anche se non potevo disporre del marco forte. Ciò che conta non è possedere la moneta forte, ne sapere quattro parole d'inglese: ma non avvelenare l'aria che tutti respiriamo con le nostre beghe meschine. E' possibile contemplare, anzi costruire un pezzetto di cielo, anche stando affacciati al corridoio...

Amico non aspettare che siano i furbi, gli arroganti, i prepotenti, a fare la pace. La pace, se mi credi, la fanno gli ingenui gli stupidi - stupidi secondo la mentalità corrente - ossia quelli capaci di spostarsi di mezzo metro per regalare un po' d'azzurro all'individuo titolare di un volto neppure troppo simpatico.

Non è il gesto dei vili, dei deboli. Per compierlo bisogna essere i più forti.

pacenon violenzaamare i nemiciperdono

5.0/5 (1 voto)

inviato da Maria Vitali, inserito il 30/04/2002

TESTO

114. Beati gli operatori di pace   1

Chiara Lubich

Sai chi sono gli operatori di pace di cui parla Gesù? Non sono quelli che chiamiamo pacifici, che amano la tranquillità, non sopportano le dispute e si manifestano per natura loro concilianti, ma spesso rivelano un recondito desiderio di non essere disturbati, di non volere noie.

Gli operatori di pace non sono nemmeno quelle brave persone che, fidandosi di Dio, non reagiscono quando sono provocate o offese.

Gli operatori di pace sono coloro che amano tanto la pace da non temere di intervenire nei conflitti per procurarla a coloro che sono in discordia.

Può essere portatore di pace chi la possiede in se stesso.

Occorre essere portatore di pace, anzitutto nel proprio comportamento di ogni istante, vivendo in accordo con Dio e facendo la sua volontà.

Gli operatori di pace si sforzano poi di creare legami, di stabilire rapporti fra le persone, appianando tensioni, smontando lo stato di guerra fredda che incontrano in tanti ambienti di famiglia, di lavoro, di scuola, di sport, fra le nazioni, ecc.

Anche in casa tua, forse, sei al corrente, magari da tutta la vita, che il papà non rivolge la parola allo zio, da quando una volta hanno litigato. Così sai che la tua nonna non parla con la signora del piano di sopra perché fa sempre rumore. Conosci rivalità sul lavoro fra qualche tuo amico. Sei forse tu stesso in lite con i compagni di scuola; e i rapporti con i coetanei, che frequentano gli stessi tuoi sport, non sono sempre esemplari; domina in te il desiderio sfrenato di essere il primo, di superare l'altro e non sempre per pura emulazione.

Se vivi in una comunità hai osservato certamente quanti piccoli e grandi dissapori nascono e si alimentano. La televisione, il giornale, la radio ti dicono ogni giorno come il mondo è un immenso ospedale e le nazioni sono spesso grandi malate che avrebbero estremo bisogno di operatori di pace per sanare rapporti spesso tesi e insostenibili che rappresentano minacce di guerra, quando essa non è già in atto.

La pace è un aspetto caratteristico dei rapporti tipicamente cristiani che il credente cerca di instaurare con le persone con le quali sta in contatto o che incontra occasionalmente: sono rapporti di sincero amore senza falsità né inganno, senza alcuna forma di implicita violenza o di rivalità o di concorrenza o di egocentrismo.

Lavorare e stabilire simili rapporti nel mondo è un fatto rivoluzionario. Le relazioni che esistono nelle società sono infatti generalmente di tutt'altro tenore e, purtroppo, rimangono spesso immutate.

Gesù sapeva che la convivenza umana era tale e per questo ha chiesto ai sui discepoli di far sempre il primo passo, senza aspettare l'iniziativa e la risposta dell'altro, senza pretendere la reciprocità: "Io vi dico: amate i vostri nemici... Se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario?".

paceperdononon violenza

5.0/5 (1 voto)

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 10/04/2002