I tuoi ritagli preferiti

Tutti i ritagli

Indice alfabetico dei temi

Invia il tuo ritaglio

Hai cercato parole tra i ritagli lunghi

Hai trovato 150 ritagli

Ricerca avanzata
tipo
parole
tema
fonte/autore

Pagina 2 di 8  

TESTO

21. Lettera di Dio per la custodia della donna   2

La donna che hai al fianco, emozionata, con l'abito da sposa, è mia. Io l'ho creata. Io le ho voluto bene da sempre; ancor prima di te e ancor più di te. Per lei non ho esitato a dare la mia vita. Ho dei grandi progetti per lei. Te l'affido. La prenderai dalle mie mani e ne diventerai responsabile.

Quando l'hai incontrata l'hai trovata bella e te ne sei innamorato. Sono le mie mani che hanno plasmato la sua bellezza, è il mio cuore che ha messo dentro di lei la tenerezza e l'amore, è la mia sapienza che ha formato la sua sensibilità e la sua intelligenza e tutte le qualità belle che hai trovato in lei.

Però non basta che tu goda del suo fascino. Dovrai impegnarti a rispondere ai suoi bisogni, ai suoi desideri. Ti renderai conto che ha bisogno di tante cose: ha bisogno di casa, di vestito, di serenità, di gioia, di equilibrio psichico, di rapporti umani, di affetto e tenerezza, di piacere e di divertimento, di presenza umana e di dialogo, di relazioni sociali e familiari, di soddisfazioni nel lavoro e di tante altre cose.

Ma dovrai renderti conto che ha bisogno soprattutto di me, e di tutto quello che aiuta e favorisce questo incontro con me: la pace del cuore, la purezza di spirito, la preghiera, la Parola, il perdono, la speranza e la fiducia in me, la mia vita. Sono Io e non tu il principio, il fine, il destino di tutta la sua vita.

Facciamo un patto tra noi: la ameremo insieme. Io la amo da sempre. Tu hai incominciato ad amarla da qualche anno, da quando te ne sei innamorato. Sono io che ho messo nel tuo cuore l'amore per lei. È stato il modo più bello perché ti accorgessi di lei. Volevo affidarla a qualcuno che se ne prendesse cura. Ma volevo anche che lei arricchisse con la sua bellezza e le sue qualità la vita di un uomo. E questo uomo sei tu.

Per questo ho fatto nascere nel tuo cuore l'amore per lei. Era il modo più bello per dirti: "ecco, te la affido", e perché tu potessi godere della sua bellezza e delle sue qualità. Quando le dirai "prometto di esserti fedele, di amarti e rispettarti per tutta la vita", sarà come se mi rispondessi che sei lieto di accoglierla nella tua vita e di prenderti cura di lei. Da quel momento saremo in due ad amarla.

Dobbiamo però metterci d'accordo: non è possibile che tu la ami in un modo e io in un altro. Devi avere per lei un amore simile al mio, e devi desiderare per lei le stesse cose che Io desidero. Non puoi pensare nulla di più bello e gioioso per lei.

Se la ami sul serio vedrai che ti troverai d'accordo con me nel progetto che ho concepito per lei. Ti farò capire poco alla volta quale sia il mio modo di amare, e ti svelerò quale vita ho sognato e voluto per questa mia creatura che diventerà tua sposa.

Mi rendo conto che ti sto chiedendo molto. Pensavi che questa donna fosse tutta e solo tua, e ora invece hai l'impressione che io ti chieda di spartirla con Me. Non è così. Io non sono il tuo rivale in amore. Al contrario, sono molui che ti aiuta ad amarla appassionatamente. Per questo desidero che nel tuo piccolo amore ci sia il mio grande amore.

Col tuo amore potrai fare molto per lei, ma è sempre troppo poco. Io ti rendo invece capace di amare da Dio. È questo il mio dono di nozze: un supplemento di amore che trasforma il tuo amore di creatura e lo rende capace di produrre le opere di Dio nella donna che ami.

Sono parole per te misteriose, ma le capirai un poco alla volta. Ti assicurò che non ti lascerò mai solo in questa impresa. Sarò sempre con te e farò di te lo strumento del mio amore, della mia tenerezza; continuerò ad amare la mia creatura, che è diventata tua sposa, attraverso i tuoi gesti d'amore, di attenzione di impegno, di perdono, di dedizione. In una parola: ti renderò capace di amare come io amo, perché ti darò una forza nuova di amare che è il mio stesso amore.

Se vi amerete in questo modo, la vostra coppia diventerà come una fortezza che le tempeste di vita non riusciranno mai ad abbattere. Un amore costruito sulla mia Parola è come una casa costruita sulla roccia: nessuna vicenda potrà distruggerla. Ricordatelo, perché molti si illudono di poter fare a meno di me: ma se io non sono con voi nell'edificare la casa della vostra vita e del vostro amore, vi affaticherete invano: come gli apostoli che faticarono tutta una notte e al mattino tornarono a riva con le reti vuote; bastò un semplice intervento Mio, e le reti pescarono tanto pesce che per l'abbondanza si rompevano. Di più. Se vi amerete in questo modo diventerete forza anche per gli altri.

Oggi si crede poco all'amore vero, quello che dura per sempre, e che offre la propria vita all'amato. Si cercano più le emozioni amorose che l'amore. Ma le emozioni nascono e muoiono presto, lasciando solo vuoto e nostalgia.

Per questo qualcuno ha detto che il matrimonio è solo una grande illusione che si dissolve presto. Se voi saprete amarvi come io amo, con una fedeltà che non viene mai meno, diventerete come la città sul monte. Sarete una speranza per tutti, perché tutti vedranno che l'amore è una cosa possibile.

donnaamorematrimoniocoppiasposicustodire

4.7/5 (3 voti)

inviato da Paola Berrettini, inserito il 16/06/2015

TESTO

22. A coloro che non trovano pace

Tonino Bello

Carissimi,

l'idea di rivolgermi a voi mi è venuta stasera quando, recitando i vespri, ho trovato questa invocazione: «Metti, Signore, una salutare inquietudine in coloro che si sono allontanati da te, per colpa propria o per gli scandali altrui».

Per prima cosa mi son chiesto se, nel numero delle mie conoscenze, ci fosse qualcuno che poteva essere raggiunto da questa preghiera.

E mi sono ricordato dite, Giampiero, che, dopo essere passato per tutta la trafila dei gruppi giovanili della parrocchia, un giorno te ne sei andato e non ti sei fatto più vedere.

L'altra sera ti ho incontrato per caso. Pioveva. Eri fermo sul marciapiede e ti ho dato un passaggio. In macchina mi hai chiesto con sufficienza se durante la quaresima continuavo a predicare le «solite chiacchiere» ai giovani, riuniti in cattedrale. Ci son rimasto male, perché mi hai detto chiaro e tondo che tu ormai a quelle cose non ci credevi più da un pezzo, e che al politecnico stavi trovando risposte più utili di quelle che ti davano i preti.

Mi hai raccontato che a Torino hai conosciuto Gigi, ex seminarista e mio alunno di ginnasio, il quale ti parla spesso di me. Ho notato che avevi una punta d'ironia e sembrava che ti divertissi quando hai aggiunto che ora sta con una ragazza, bestemmia come un turco, e fuma lo spinello.

Quando all'improvviso ti ho chiesto se eri felice, mi hai risposto che ne avremmo parlato un'altra volta, perché dovevi scendere e poi era troppo tardi.

Addio, Giampiero! L'invocazione del breviario stasera la rivolgo al Signore per te. E per Gigi. E la rivolgo anche per te, Maria, che ti sei allontanata senza una plausibile ragione. Facevi parte del coro. Ora a messa non ci vai nemmeno a Pasqua. Tu dici che hai visto troppe cose storte anche in chiesa, e che non ti aspettavi certe pugnalate alle spalle proprio da coloro che credono in Dio. Non so che cosa ti sia successo di preciso. Ma l'altro giorno, quando sei venuta da me per implorare un ricovero urgente al Gemelli a favore del tuo bambino che sta male, e io ti ho esortata ad aver fiducia in Dio, e tu sei scoppiata a piangere dicendomi che in Dio non ci credi più... mi è parso di leggere in quelle lacrime, oltre alla paura di poter perdere il figlio, anche l'amarezza di aver perduto il Padre.

Non temere, Maria. Pregherò io per il tuo bambino, perché guarisca presto. Ma anche per te, perché il Signore ti metta nel cuore una salutare inquietudine.

Vedo che non afferri il senso di una preghiera del genere. Di inquietudini nei hai già tante e non è proprio il caso che mi metta anch'io ad aumentartene la dose. Tu sai bene, però, che in fondo io imploro la tua pace. Ecco, infatti, come il breviario prolunga l'invocazione su coloro che si sono allontanati da Dio: «Fa' che ritornino a te e rimangano sempre nel tuo amore».

E ora, visto che mi sono messo ad assicurare preghiere un po' per tutti, vorrei rivolgermi anche a voi che, pur non essendovi mai allontanati da Dio, non riuscite ugualmente a trovar riposo nella vostra vita.

Per sè parrebbe un controsenso. Perché Dio è la fontana della pace, e chi si lascia da lui possedere non può soffrire i morsi dell'inquietudine. Però sta di fatto che, o per difetto di affido alla sua volontà, o per eccesso di calcolo sulle proprie forze, o per uno squilibrio di rapporti tra debolezza e speranza, o chi sa per quale misterioso disegno, è tutt'altro che rara la coesistenza di Dio con l'insoddisfazione cronica dello spirito.

Mi rivolgo perciò a voi, icone sacre dell'irrequietezza, per dirvi che un piccolo segreto di pace ce l'avrei anch'io da confidarvelo.

A voi, per i quali il fardello più pesante che dovete trascinare siete voi stessi. A voi, che non sapete accettarvi e vi crogiolate nelle fantasie di un vivere diverso. A voi, che fareste pazzie per tornare indietro nel tempo e dare un'altra piega all'esistenza. A voi, che ripercorrete il passato per riesaminare mille volte gli snodi fatali delle scelte che oggi rifiutate. A voi, che avete il corpo qui, ma l'anima ce l'avete altrove. A voi, che avete imparato tutte le astuzie del «bluff» perché sapete che anche gli altri si sono accorti della vostra perenne scontentezza, ma non volete farla pesare su nessuno e la mascherate con un sorriso quando, invece, dentro vi sentite morire. A voi, che trovate sempre da brontolare su tutto, e non ve ne va mai a genio una, e non c'è bicchiere d'acqua limpida che non abbia il suo fondiglio di detriti.

A tutti voi voglio ripetere: non abbiate paura. La sorgente di quella pace, che state inseguendo da una vita, mormora freschissima dietro la siepe delle rimembranze presso cui vi siete seduti.
Non importa che, a berne, non siate voi. Per adesso, almeno.

Ma se solo siete capaci di indicare agli altri la fontana, avrete dato alla vostra vita il contrassegno della riuscita più piena. Perché la vostra inquietudine interiore si trasfigurerà in «prezzo da pagare» per garantire la pace degli altri.

O, se volete, non sarà più sete di «cose altre», ma bisogno di quel «totalmente Altro» che, solo, può estinguere ogni ansia di felicità.

Vi auguro che stasera, prima di andare a dormire, abbiate la forza di ripetere con gioia le parole di Agostino, vostro caposcuola: «O Signore, tu ci hai fatti per te, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te».

pacepace interioreinterioritàfelicitàgioiatristezzainquietudine

5.0/5 (6 voti)

inviato da Francesco De Luca, inserito il 16/06/2015

RACCONTO

23. Un baratto   1

Marie Noel

A 18 anni ho venduto il mio spirito a Dio, come altri vendono la loro anima al diavolo.

Allora ero goffa, brutta, mingherlina, inetta, come il «brutto anitroccolo», ma avevo molto spirito... uno spirito chiaro, vivo, acuto, pungente, che mordeva senza misericordia. Non appena una persona un tantino ridicola arrischiava di mostrarsi a me, l'acchiappavo al volo e la fissavo con una parola pungente, come si fissa un insetto su un tappo, con uno spillo. Ciò mi divertiva molto e faceva ridere la compagnia. Ma i miei cugini mi giudicavano «cattiva», e mio fratello mi chiamava «vipera». Avrebbe fatto meglio a dire zanzara o vespa. Un giorno, però, ci pensai su e mi vidi tal quale ero col mio crudele pungiglione. Poteva forse una cristiana accettare di essere così?
Fui presa dal rimorso.

E una mattina ne parlai con Nostro Signore, dopo la Comunione.

Rinunciare al mio spirito? Cosa mi rimaneva senza di esso? Non avevo bellezza né fascino, niente che potesse piacere. Sacrificare il mio spirito? Non mi ci potevo decidere. Mi costava troppo. Mi costava tutto.

Dentro di me, Dio attendeva con aria di rimprovero. Fu allora che mi venne l'idea - forse fu lui ad ispirarmela - di cedergli il mio spirito dietro ricompensa. Un baratto.

Glielo vendetti. Caro. Senza far prezzi. Dio è ricco. Dio è giusto. E generoso, anche. Contavo che me l'avrebbe pagato bene. Una volta concluso il mercato - io negli affari sono onesta - non osai più servirmi dell'oggetto che avevo ceduto. Da principio mi sentii legata, impacciata, come colpita da improvvisa infermità. Le parole mi volavano alle labbra, le inghiottivo già dette a metà. Il che non era sempre comodo. Ma poi l'abitudine mi venne in aiuto. E diventai poco a poco la piccola, mite zitella cui nessuno fa caso, né in famiglia fuori... cui nessuno fa caso più che a un fiammifero spento. Sono passati vent'anni... Che cosa mi avrà dato il Buon Dio, in cambio della mia malizia?

Non la bellezza. Non il fascino. Non l'amore. Non la felicità. Forse il dono della poesia? Ma quello già lo avevo, sin dalla prima infanzia.

Ecco. Mi diede il dono di una vista nuova, per cogliere immediatamente, anziché il lato ridicolo, la bellezza e le qualità delle persone, anche di quelle che non ne hanno. Al punto che oggi io le amo tanto, anche quando sono ridicole, sciocche e mediocri, da poter giocare di nuovo con la mia malizia, solo per divertirmi, senza far male a nessuno.

conversionecattiveria

5.0/5 (1 voto)

inviato da Il Patriota Cosmico, inserito il 16/06/2015

TESTO

24. Lavanda dei piedi, capovolgimento della vita (versione lunga)

don Primo Mazzolari, Scritti

«Io vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto» (Giovanni 13,15)

Un lontano mi scrive parole, che, se non mi sorprendono, mi fanno soffrire. «Non parteciperò al rito del giovedì santo. La lavanda mi ha sempre inchiodato. Forse passa per quest'impressione incancellabile il filo che mi tiene ancora avvinto, in un certo senso, alla chiesa. Ma se ci tornassi quest'anno con l'animo che mi hanno fatto gli avvenimenti all'insaputa di me stesso, mi verrebbe la tentazione di gridare anche contro di voi, che pur mostrate di capire tante cose: capite voi quello che fate? - Forse non l'avete mai capito: certo, adesso, non lo capite più. Quell'azione è un capovolgimento della vita e voi ne fate un rito».

Amico caro e lontano, nella mia chiesa non si fa la funzione del Mandato, ma il vangelo che lo racconta, lo leggo ugualmente a bassa voce - il tono dell'indegnità che si confessa - davanti al cenacolo, dopo l'Ufficio delle tenebre, quando non ci si vede più e ci si può vergognare di noi stessi senza falsi pudori. Lo leggo per me e, se vuoi, anche per te e per qualcun altro che soffre come noi, quantunque le parole decisive non si possano leggere che per sé.

* * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *

«Gesù sapendo che era venuta per lui l'ora di passare da questo mondo al Padre»...

Per un cristiano non ci sono ore inconsapevoli; ogni ora segna il transito dal mondo al Padre, dal terrestre allo spirituale, dal parziale all'universale, dal temporale all'eterno.

Il distacco, che prepara il transito, non può avvenire che per un accrescimento d'amore, vale a dire nella luce della carità del Padre, che non conosce limiti. «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine».

Un «passaggio» o una «conversione» che diminuisse le affezioni naturali e ci sottraesse alle parziali emozioni che tali affetti giustamente ci comandano, non sarebbe un'ascensione.

Si sale verso il Padre, con cuore purificato, ma non separato. Il nostro vero patrimonio umano ce lo portiamo con noi per accrescerne il valore nella santità.

Niente ci deve impedire di portare «sino alla fine», nella pienezza della carità, i nostri vincoli umani: neanche la presenza del traditore, neanche la possibilità di piegare per altre vie le resistenze delle creature.

Proprio quando Gesù sa che «il diavolo aveva già messo in cuore» a Giuda Iscariota di tradirlo, quando ha la certezza che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che stava per ritornare a Dio «...si levò da tavola, depose le sue vesti e preso un asciugatoio, se ne cinse...».

Facendosi uomo aveva preso «la forma del servo». Ma nessuno se n'era accorto fino a quel momento, tanto era in alto il Maestro nella sua così comune umanità. Operava grandi miracoli, si trasfigurava sul monte, predicava con autorità mai vista, parlava come un profeta non aveva mai parlato.

Gli uomini avevano bisogno di vedere il servo, in una forma evidente, inequivocabile. L'amore ve l'avrebbe fissato per sempre e in un gesto che sfida le false grandezze e le false dignità create dal nostro orgoglio.

«Si levò da tavola, depose le sue vesti, e preso un asciugatoio se ne cinse. Poi mise dell'acqua in un catino, e cominciò a lavare i piedi ai discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio».

Non ha cominciato né da Pietro né da Giovanni; forse da Giuda, per subito gustare l'estrema ripugnanza di servire l'inservibile, di amare l'inamabile.

Quando arriva a Pietro si sente dire: - Tu Signore, lavare i piedi a me? - Pietro misurava soltanto la propria miseria, e non poneva l'occhio sul mandato di carità che lo avrebbe impegnato come seguace di Cristo, per tutta la vita.

- Tu non sai ora quello che io faccio, ma lo capirai dopo. Capiva il fatto dell'umiliazione, non capiva la lezione che il Maestro intendeva dargli attraverso il mistero dell'umiliazione. Pietro voleva aver parte con Cristo immaginando chi sa quali ricompense; per questo era disposto a farsi lavare anche le mani e il capo. Neanche il primo degli apostoli sapeva che l'unica condizione per aver parte con lui, è legata, più che a una lavanda materiale, alla continuazione di quella carità che il Cristo veniva istituendo con un atto quasi sacramentale.

«Come dunque ebbe loro lavato i piedi ed ebbe riprese le sue vesti, si mise di nuovo a tavola, e disse loro: - Capite quel che vi ho fatto?».

E poiché gli apostoli non capivano l'istituzione della carità, che doveva precedere di poco l'istituzione del sacramento della carità, il Maestro è costretto a continuare la lezione.

«Voi mi chiamate Maestro e Signore, e dite bene perché lo sono. Se dunque io che sono il Signore e Maestro v'ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Poiché io vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come v'ho fatto io».

L'istituzione dell'eucaristia si chiude con parole quasi eguali: - Fate questo in memoria di me.

I cristiani di tutti i tempi hanno trovato più facile ripetere la presenza eucaristica della presenza della carità, dimenticando che non si può capire una mensa dalla quale, almeno uno, dietro l'esempio del Maestro, non si alzi per continuare nel mondo quella carità che è il fermento celeste del pane del mistero.

* * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *

Amico lontano e caro, non ti dico: torna anche quest'anno al rito del Mandato. Non ti dico neppure: non chiederti se noi comprendiamo quello che il Cristo ha fatto.

Appunto perché hai l'impressione che nelle nostre chiese ciò che tu giustamente chiami il capovolgimento sia in pericolo di diventare una semplice «forma rituale», io ti scongiuro di non fermarti quest'anno nella navata della tua chiesa, spettatore indeciso e indisposto. Portati avanti, fino alla tavola eucaristica per «levarti» subito dopo la comunione, non come un commensale qualunque, ma come un servo dell'Amore che deve cambiare il mondo.

I «capovolgimenti» non si attendono, si fanno. «Se sapete queste cose, siete beati se le fate».

Clicca qui per la versione breve.

lavanda dei piediservizioeucaristiagiovedì santo

inviato da Qumran, inserito il 09/06/2015

TESTO

25. Lavanda dei piedi, capovolgimento della vita (versione breve)

don Primo Mazzolari, Scritti

«Io vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto» (Giovanni 13,15)

Un lontano mi scrive parole, che, se non mi sorprendono, mi fanno soffrire. «Non parteciperò al rito del giovedì santo. La lavanda mi ha sempre inchiodato. Forse passa per quest'impressione incancellabile il filo che mi tiene ancora avvinto, in un certo senso, alla chiesa. Ma se ci tornassi quest'anno con l'animo che mi hanno fatto gli avvenimenti all'insaputa di me stesso, mi verrebbe la tentazione di gridare anche contro di voi, che pur mostrate di capire tante cose: capite voi quello che fate? - Forse non l'avete mai capito: certo, adesso, non lo capite più. Quell'azione è un capovolgimento della vita e voi ne fate un rito».

Amico caro e lontano, nella mia chiesa non si fa la funzione del Mandato, ma il vangelo che lo racconta, lo leggo ugualmente a bassa voce - il tono dell'indegnità che si confessa - davanti al cenacolo, dopo l'Ufficio delle tenebre, quando non ci si vede più e ci si può vergognare di noi stessi senza falsi pudori. Lo leggo per me e, se vuoi, anche per te e per qualcun altro che soffre come noi, quantunque le parole decisive non si possano leggere che per sé.

Amico lontano e caro, non ti dico: torna anche quest'anno al rito del Mandato. Non ti dico neppure: non chiederti se noi comprendiamo quello che il Cristo ha fatto.

Appunto perché hai l'impressione che nelle nostre chiese ciò che tu giustamente chiami il capovolgimento sia in pericolo di diventare una semplice «forma rituale», io ti scongiuro di non fermarti quest'anno nella navata della tua chiesa, spettatore indeciso e indisposto. Portati avanti, fino alla tavola eucaristica per «levarti» subito dopo la comunione, non come un commensale qualunque, ma come un servo dell'Amore che deve cambiare il mondo.

I «capovolgimenti» non si attendono, si fanno. «Se sapete queste cose, siete beati se le fate».

Clicca qui per la versione lunga.

lavanda dei piediservizioeucaristiagiovedì santo

inviato da Qumran2, inserito il 09/06/2015

PREGHIERA

26. Resta con noi, Signore, perché si fa sera

Antonietta Milella, Commento al Vangelo

Quando le parole non bastano, specialmente quelle scritte dalla tua mano.
Quando non basta che sei venuto a spiegarcele con la tua vita e a testimoniarne la verità con la tua morte.
Quando non basta tutto questo per riconoscerti nel compagno di viaggio che parla con noi.
Quando siamo tristi e smarriti perché pensiamo che te ne sei andato per sempre, nella maniera più atroce, triste e dolorosa e ci hai lasciati irrimediabilmente soli, senza speranza...
Ti prego, fermati a mangiare con noi.
La sera, il buio fa più paura, se tu non ci sei.

Rimani con noi, riposati un po', prima di riprendere il viaggio attraverso le strade del mondo.
Signore, resta con noi che non ancora riusciamo a capirti, non ancora riusciamo a capacitarci che sei andato a morire.
Signore, resta con noi ancora un poco, forse il miracolo di vederti risorto anche noi potremo vederlo, se ci aprirai gli occhi al tuo folgorante mistero.
Torna a spezzare quel pane che la sera prima di morire distribuisti ai tuoi discepoli, invitandoli a fare altrettanto, in memoria di te, perché tutti ne avessimo sempre.
Fatti conoscere nella quotidianità di un gesto così tanto familiare, non capito, dimenticato, quando solennemente lo benedicesti, perché non rimanessimo mai senza di te, mai ci sentissimo soli, mai pensassimo che te ne eri andato per sempre.

Ti voglio incontrare, Signore nel pane spezzato, un gesto che non abbiamo capito abbastanza, ti vogliamo, Signore, riconoscere nella semplicità di ciò che tu hai trasformato in segno indelebile di te che sei il Cristo morto e risorto per noi.
Vogliamo, Signore, incontrarti e abbracciati per sempre, sicuri che non te ne andrai, convinti che quand'anche fosse, hai dato ai tuoi ministri il potere di renderti vivo e presente nell'Eucaristia.
A torto abbiamo pensato che ci avevi illusi, dicendo che saresti stato sempre con noi, sbagliavamo quando ti abbiamo visto morire e non abbiamo creduto che saresti risorto, invano ti stavamo cercando senza guardarti nel volto, senza ascoltare parole che ci avrebbero dato speranza.

Ma ora che il pane è stato spezzato, ora sì che ho capito e ho gioito, perché a tutto tu avevi pensato prima di tornare dal Padre, trasformandoti in cibo e bevanda perenne, per quelli che avevano fame e sete di te.
Grazie Signore perché ora so che tu sei risorto davvero e per sempre.
Grazie, perché ora so dove trovarti.

preghieraeucaristiadiscepoli di emmaus

5.0/5 (3 voti)

inviato da Antonietta Milella, inserito il 05/05/2015

TESTO

27. Annunciazione   1

Erri De Luca, Nel nome della Madre

Glielo dissi il giorno stesso. Non potevo stare una notte con il segreto. Non trascorrerà intero il giorno sulla rottura della tua alleanza. Eravamo fidanzati. Nella nostra legge è come essere sposati, anche se non ancora nella stessa casa. Ed ecco che ero incinta. La voce del messaggero era arrivata insieme a un colpo d'aria. Mi ero alzata per chiudere le imposte e appena in piedi sono stata coperta da un vento, da una polvere celeste, da chiudere gli occhi. Il vento di marzo in Galilea viene da nord, dai monti del Libano e dal Golan. Porta bel tempo, fa sbattere le porte e gonfia la stuoia degli ingressi, che sembra incinta. In braccio a quel vento la voce e la figura di un uomo stavano davanti a me.

Ero in piedi e l'ho visto contro luce davanti alla finestra. Ho abbassato gli occhi che avevo riaperto. Sono sposa promessa e non devo guardare in faccia gli uomini. Le sue prime parole sul mio spavento sono state: "Shalòm Miriàm". Prima che potessi gridare, chiamare aiuto contro lo sconosciuto, penetrato nella stanza, quelle parole mi hanno tenuto ferma: "Shalòm Miriàm", quelle con cui Iosef si era rivolto a me nel giorno del fidanzamento. "Shalòm lekhà", avevo risposto allora. Ma oggi no, oggi non ho potuto staccare una sillaba dal labbro. Sono rimasta muta. Era tutta l'accoglienza che gli serviva, mi ha annunciato il figlio. Destinato a grandi cose, a salvezze, ma ho badato poco alle promesse. In corpo, nel mio grembo si era fatto spazio. Una piccola anfora di argilla ancora fresca si è posata nell'incavo del ventre.

Il mio Iosef, bello e compatto da baciarsi le dita, si stringeva le braccia contro il corpo, cercava di tenersi fermo, ripiegato come col mal di pancia. La notizia per lui era una tromba d'aria che scoperchiava il tetto. Tentava un riparo con il corpo, smarrito in faccia, i muscoli che saltavano fuori dalle braccia. Si proteggeva il ventre teso e magro, non si permetteva di toccarmi, di scuotere la mia calma così opposta al suo sgomento, senza poter fingere un po' di agitazione.

Ero in piedi, schiena dritta, un'agilità nuova mi dava slancio, mi accorgevo di essere più alta e più leggera precisamente al centro del corpo, sotto le costole nell'ansa del ventre. Là dove lui accusava il colpo e il peso coi muscoli contratti di un atleta sotto sforzo, io ricevevo una spinta dal basso verso l'alto da aver voglia di mettermi a saltare. I suoi capelli a ciuffi scossi sbattevano sulla fronte chiara, ballavano davanti agli occhi. Glieli misi in ordine con un paio di carezze svelte. Nel suo scompiglio era ancora più bello.

"Cos'altro ha detto, cos'altro", chiedeva Iosef affannato con la testa tra le mani, gli occhi a terra. "Sforzati di ricordare, Miriàm, è importante, cos'altro voleva far sapere?"

Gli uomini danno tanta importanza alle parole, per loro sono tutto quello che conta, che ha valore. Iosef le voleva per poterle serbare, riferire. Immaginò subito le conseguenze legali. L'annuncio aveva rotto la nostra promessa. Ero incinta di un angelo in avvento, prima del matrimonio. Perciò chiedeva altre parole da riportare all'assemblea, in cerca di una difesa di fronte al villaggio.

"Cos'altro ha detto, Miriàm? Ti prego, sforza la memoria, è accaduto solo poche ore fa." "Ero sopra pensiero, Iosef, stupita da un rimescolio del corpo, dalla polvere chiara che mi aveva investito senza lasciare traccia a terra, solo addosso. Ce l'ho ancora, la vedi?" "Lascia stare la polvere, pulirai dopo, adesso aiutami, cosa racconterò agli anziani?"

Mentre accadeva guardavo in basso, la veste fino ai piedi. Sotto, il mio corpo chiuso era calmo come un campo di neve. Mentre parlava io diventavo madre. Gli uomini hanno bisogno di parole per consistere, quelle dell'angelo per me erano vento da lasciar andare. Portava parole e semi, a me ne bastava uno.

Ero rimasta in piedi innanzi a lui e in piedi stavo davanti a Iosef. Lui sedeva, si alzava, si risedeva, chiedeva di mettermi seduta, ma restavo in piedi. Eravamo promessi ed era già un atto grave stare soli sotto lo stesso tetto. Avevo chiesto il colloquio, l'avevano concesso ma c'era stato un gran trambusto, ed era quasi sera. E poi non volevo sedermi. Con le mani intrecciate sul ventre piatto mi toccavo la pelle per sentire sulla punta delle dita la mia vita cambiata. Era per me il giorno uno della creazione.

Mi sforzavo di ricordare qualcosa per consolarlo. Mi stava a cuore il suo sgomento, m'importava di lui mortificato dalla rottura del nostro patto di unione.

Iosef fu sorpreso dalla mia quiete. Si attaccò anche a lui. Si alzò in piedi, sollevò la testa, asciugandosi la faccia con il dorso di quelle mani sante che avrei voluto baciare. "Conosci la legge, Miriam?" "Conosco la legge." "Per filo e per segno?" "Non bene come te, non tutte le parole. Spetta a voi uomini conoscerle a memoria. So le conseguenze." "Ascoltami, Miriàm. C'è una possibilità. Tu domani vai da sola in campagna con un pretesto, in cerca di qualche erba invernale per fare un decotto. E torni a sera dal campo dicendo di essere stata aggredita e violata lì, di aver gridato, ma senza risposta. E già successo, si sa di altri casi di ragazze che sono riuscite a evitare così l'accusa di adulterio."

Guardai Iosef per la prima volta. Conoscevo la sua faccia serena anche sotto le mosche e la fatica. Ora vedevo un uomo desolato che provava a governare la situazione progettando menzogne. Quanto dev'essere importante per gli uomini la legge, per ridurli a questo. Dissi: "Quell'uomo messaggero è venuto da me a mezzogiorno, porte e finestre aperte, spalancate. Io mi sono trovata in piedi davanti a lui nella mia stanza e non ho pronunciato una sillaba, non ho neanche risposto al suo saluto, altro che gridi."

Ero felice. Avrei voluto abbracciare il mio Iosef, per lui mi era salita in petto una tenerezza mai provata. Il rispetto, la soggezione che ci insegnano verso l'autorità maschile, abbassano i sentimenti affettuosi. Ma l'annuncio dell'angelo e la risposta del mio corpo quel giorno mi avevano affrancato. Non arrossivo, la fiducia di essere nel giusto mi dava la prontezza necessaria e un contegno nuovo. Anche il mio silenzio era cambiato. Con la tenerezza venne la gratitudine. Mi aveva creduto. Contro ogni evidenza si affidava a me. Sulla sua bella faccia non s'era mosso neanche un muscolo del sospetto, un aggrumo di ciglia, uno sguardo di sbieco. E aveva visto la sua Miriàm per la prima volta, perché era la prima volta che lo guardavo in faccia senza abbassare la fronte, come neanche le mogli osano fare. Mi aveva creduto, ero felice e calda di gratitudine per lui. "Fai quello che è giusto, Iosef. Io oggi sono tua più di prima, più della promessa."

annunciazionefiduciaGiuseppemariaaffidamento

5.0/5 (2 voti)

inviato da Qumran, inserito il 21/01/2015

PREGHIERA

28. Preghiera di chi compie cinquant'anni

Se ci domandiamo come stiamo vivendo la vita non sempre il bilancio è dei migliori.
Per non lasciarsi fiaccare il cuore dal pensiero di ciò che non si è vissuto bene
è meglio dire: Grazie, Signore, per la vita.

Grazie per chi ce l'ha donata:
da quando siamo diventati genitori abbiamo imparato a scoprire con occhi nuovi l'umanità di nostro padre, di nostra madre.

Grazie per gli amici che la vita ci ha donato;
con alcuni ci siamo persi per strada, con tanti altri, invece, abbiamo imparato a donare, a chiedere e a gustare ciò che davvero conta.
Ti affidiamo quelli che sono già tornati da te: il loro ricordo è gratitudine di vita.

Grazie per la capacità di amare che hai posto nel nostro cuore:
ora che abbiamo cinquant'anni ci pare di capire con più consapevolezza cosa vuol dire amare una donna, un uomo.
Ti ringraziamo di cuore, per chi ci hai messo accanto:
i ragazzi che sono diventato nostri mariti, le ragazze che sono diventate nostre mogli.
Per quelli che tra noi sono stati feriti nell'amore, o che, nel tentativo di amare, hanno ferito qualcuno:
ti chiediamo il dono della consolazione, del perdono e della fiducia nella vita.

Grazie per il dono dei figli:
non li abbiamo scelti, ci sono arrivati così come sono.
Tu ci hai affidato a loro perché imparassimo a diventare genitori, a scoprire cosa vuol dire amare sul serio; ti li hai affidati a noi perché li aiutassimo a vivere in questo mondo da persone vere, libere, buone.
Manda nel nostro cuore il tuo amore così che in questa e in tutte le età della vita possiamo essere per loro una porta aperta, un incoraggiamento: il nostro esempio, più che le parole, li aiutino a stare con coraggio e verità nella vita quotidiana.

Grazie per il dono della fede e della comunità cristiana.
Perdona le incoerenza e le falsità; fa' che viviamo l'età della maturità senza l'orgoglio di chi crede di bastare a se stesso.
Donaci di vivere la fede nel modo dei tuoi amici che si avvicinavano a te per chiederti spiegazioni:
stando vicino a te le cose diventano più chiare, gli animi più trasparenti, i ricordi più sereni, le parole più vere, il presente un dono, gli incontri più significativi.

Grazie per il dono del nostro corpo e del grado di salute di cui godiamo:
aiutaci a stare dentro alla bellezza dei cinquant'anni senza la smania di apparire ciò che non siamo.
Donaci l'entusiasmo di chi sa vedere in ciò che è nuovo, diverso, inaspettato, in ogni giorno nuovo un'opportunità.
Togli da noi ogni paura, ciò che invecchia il cuore e ci rende pedanti.

Grazie, Signore per questa vita:
per questa e per tutte le età che vivremo donaci di saper sorridere, di non prenderci troppo sul serio ma aiutaci a trovare il senso buono di ciò che viviamo.

Benedici i nostri giorni, quanti portiamo nel cuore, le nostre famiglie, le nostre comunità.
Amen.

ringraziamentomaturitàvita

5.0/5 (3 voti)

inviato da Don Massimo De Francesci, inserito il 18/09/2014

TESTO

29. Povero fratello Giuda   3

Primo Mazzolari, Bozzolo, Giovedì Santo 1958

Povero Giuda. Che cosa gli sia passato nell'anima io non lo so. È uno dei personaggi più misteriosi che noi troviamo nella Passione del Signore.

Non cercherò neanche di spiegarvelo, mi accontento di domandarvi un po' di pietà per il nostro povero fratello Giuda. Non vergognatevi di assumere questa fratellanza. Io non me ne vergogno, perché so quante volte ho tradito il Signore; e credo che nessuno di voi debba vergognarsi di lui. E chiamandolo fratello, noi siamo nel linguaggio del Signore. Quando ha ricevuto il bacio del tradimento, nel Getsemani, il Signore gli ha risposto con quelle parole che non dobbiamo dimenticare: "Amico, con un bacio tradisci il Figlio dell'uomo!" Amico! Questa parola che vi dice l'infinita tenerezza della carità del Signore, vi fa anche capire perché io l'ho chiamato in questo momento fratello. Aveva detto nel Cenacolo non vi chiamerò servi ma amici. Gli Apostoli son diventati gli amici del Signore: buoni o no, generosi o no, fedeli o no, rimangono sempre gli amici. Noi possiamo tradire l'amicizia del Cristo, Cristo non tradisce mai noi, i suoi amici; anche quando non lo meritiamo, anche quando ci rivoltiamo contro di Lui, anche quando lo neghiamo, davanti ai suoi occhi e al suo cuore, noi siamo sempre gli amici del Signore...

Povero Giuda. Povero fratello nostro. Il più grande dei peccati, non è quello di vendere il Cristo; è quello di disperare. Anche Pietro aveva negato il Maestro; e poi lo ha guardato e si è messo a piangere e il Signore lo ha ricollocato al suo posto: il suo vicario. Tutti gli Apostoli hanno abbandonato il Signore e son tornati, e il Cristo ha perdonato loro e li ha ripresi con la stessa fiducia. Credete voi che non ci sarebbe stato posto anche per Giuda se avesse voluto, se si fosse portato ai piedi del calvario, se lo avesse guardato almeno a un angolo o a una svolta della strada della Via Crucis: la salvezza sarebbe arrivata anche per lui. Povero Giuda. Una croce e un albero di un impiccato. Dei chiodi e una corda...

Io voglio bene anche a Giuda, è mio fratello Giuda. Pregherò per lui anche questa sera, perché io non giudico, io non condanno; dovrei giudicare me, dovrei condannare me. Io non posso non pensare che anche per Giuda la misericordia di Dio, questo abbraccio di carità, quella parola amico, che gli ha detto il Signore mentre lui lo baciava per tradirlo, io non posso pensare che questa parola non abbia fatto strada nel suo povero cuore. E forse l'ultimo momento, ricordando quella parola e l'accettazione del bacio, anche Giuda avrà sentito che il Signore gli voleva ancora bene e lo riceveva tra i suoi di là. Forse il primo apostolo che è entrato insieme ai due ladroni...

speranzaperdonoconversionepeccatomisericordiarapporto con Diotradimentodisperazionegiovedì santo

4.6/5 (5 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 21/06/2014

RACCONTO

30. Il ponte   12

Questa è la storia di due fratelli che vissero insieme d'amore e d'accordo per molti anni. Vivevano in cascine separate, ma un giorno scoppiò una lite e questo fu il primo problema serio che sorse dopo 40 anni in cui avevano coltivato insieme la terra condividendo le macchine e gli attrezzi, scambiandosi i raccolti e i beni continuamente.

Cominciò con un piccolo malinteso e crebbe fino a che scoppiò un diverbio con uno scambio di parole amare a cui seguirono settimane di silenzio.

Una mattina qualcuno bussò alla porta di Luigi. Quando aprì si trovò davanti un uomo con gli utensili del falegname: "Sto cercando un lavoro per qualche giorno", disse il forestiero, "forse qui ci può essere bisogno di qualche piccola riparazione nella fattoria e io potrei esserle utile per questo".

"Sì", disse il maggiore dei due fratelli, "ho un lavoro per lei. Guardi là, dall'altra parte del fiume, in quella fattoria vive il mio vicino, beh! È il mio fratello minore. La settimana scorsa c'era una splendida prateria tra noi, ma lui ha deviato il letto del fiume perché ci separasse. Deve aver fatto questo per farmi andare su tutte le furie, ma io gliene farò una. Vede quella catasta di pezzi di legno vicino al granaio? Ebbene voglio che costruisca uno steccato di due metri circa di altezza, non voglio vederlo mai più". Il falegname rispose: "Mi sembra di capire la situazione".

Il fratello maggiore aiutò il falegname a riunire tutto il materiale necessario e se ne andò fuori per tutta la giornata per fare le spese in paese. Verso sera, quando il fattore ritornò, il falegname aveva appena finito il suo lavoro. Il fattore rimase con gli occhi spalancati e con la bocca aperta.

Non c'era nessuno steccato di due metri. Invece c'era un ponte che univa le due fattorie sopra il fiume. Era una autentica opera d'arte, molto fine, con corrimano e tutto.

In quel momento, il vicino, suo fratello minore, venne dalla sua fattoria e abbracciando il fratello maggiore gli disse: "Sei un tipo veramente in gamba. Ma guarda! Hai costruito questo ponte meravilloso dopo quello che io ti ho fatto e detto".

E così stavano facendo la pace i due fratelli, quando videro che il falegname prendeva i suoi arnesi. "No, no, aspetta; rimani per alcuni giorni ancora, ho parecchi lavori per te", disse il fratello maggiore al falegname. "Mi fermerei volentieri", rispose lui, "ma ho parecchi ponti da costruire".

Molte volte lasciamo che i malintesi e le stizze ci allontanino dalla gente a cui vogliamo bene, molte volte lasciamo che sia l'orgoglio a prevalere sui sentimenti.
- Non permettere che ciò succeda nella tua vita.
- Impara a perdonare e apprezza quanto hai. Ricorda che perdonare non cambia nulla del passato, ma del futuro sì. Non conservare rancore né sentimenti di amarezza che ti feriscono, ti allontanano da Dio e dalle persone che ti vogliono bene.
- Impara ad essere felice e a godere delle meraviglie che Dio ha creato. Egli ti ama e desidera che tu abbia una vita felice e piena di amore e armonia.
- Non permettere che un piccolo incidente rovini una grande amicizia.
- Ricorda che il silenzio, a volte, è la miglior risposta.
- Ciò che più importa è una casa felice. Fa' tutto quello che è nelle tue mani per creare un ambiente di pace e armonia.
- Ricorda che la miglior relazione è quella in cui l'amore tra due persone è più grande del bisogno che hanno l'una dell'altra.

pacelitigiarmoniaconcordiaperdono

4.9/5 (13 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 27/12/2013

TESTO

31. Ho imparato   8

Ho imparato che nessuno è perfetto... finché non ti innamori.
Ho imparato che la vita è dura... ma io di più!
Ho imparato che le opportunità non vanno mai perse... quelle che lasci andare tu, le prende qualcun altro.
Ho imparato che quando serbi rancore e amarezza... la felicità va da un'altra parte.
Ho imparato che bisognerebbe usare sempre parole buone... perché domani forse si dovranno rimangiare.
Ho imparato che un sorriso è un modo economico per migliorare il tuo aspetto.
Ho imparato che non posso scegliere come mi sento... ma posso sempre farci qualcosa.
Ho imparato che quando tuo figlio appena nato tiene il tuo dito nel suo piccolo pugno... ti ha agganciato per la vita.
Ho imparato che bisogna godersi il viaggio e non pensare solo alla meta.
Ho imparato che è meglio dare consigli solo in due circostanze: quando sono richiesti e quando è in gioco la vita.
Ho imparato che meno tempo spreco e più cose faccio.
Ho imparato a godermi le cose!
Ho imparato ad accettare le sconfitte, le delusioni.
Ho imparato che non importa quanto sia buona una persona, ogni tanto ti ferirà. Per questo bisogna che tu la perdoni.
Ho imparato che ci vogliono anni per costruire la fiducia, e pochi secondi per distruggerla.
Ho imparato che non dobbiamo cambiare amici se comprendiamo che gli amici cambiano.
Ho imparato che le circostanze e l'ambiente hanno influenza su di noi, ma noi siamo sempre responsabili di noi stessi.
Ho imparato che la pazienza richiede molta pratica.
Ho imparato che ci sono persone che ci amano, ma semplicemente non sanno come dimostrarcelo.
Ho imparato che a volte, la persona che tu pensi ti sferrerà il colpo mortale quando cadrai, è invece una di quelle poche che ti aiuteranno ad alzarti.
Ho imparato che solo perché qualcuno non ti ama come vorresti, non significa che non ti ami con tutto se stesso.
Ho imparato che non si deve mai dire ad un bambino che i sogni sono sciocchezze, sarebbe una tragedia se lo credesse.
Ho imparato che non sempre è sufficiente essere perdonato da qualcuno, nella maggior parte dei casi sei tu a dover perdonare te stesso.
Ho imparato che non importa in quanti pezzi il tuo cuore si sia spezzato, il mondo non si ferma aspettando che lo ripari.
...E dopo tutto ciò, avrò imparato a vivere?

viveresaggezzavitasenso della vitagratuitàmisericordiacomprensioneforza interiore

2.9/5 (9 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 23/09/2012

TESTO

32. Parlami d'Amore (versione 2)   3

Michel Quoist, Parlami d'amore, Sei, Torino 1987, pp. 104-107

L'amore non è la folgorazione della bellezza
davanti a un volto che d'improvviso s'illumina per te,
perché la vera bellezza è il riflesso dell'anima,
ma l'anima è oltre, e la cerchi tremando.

L'amore non è seduzione di un'intelligenza viva e sciolta
che scorre in parole e idee per piacerti,
perché l'intelligenza può splendere di mille barbagli
senza essere autentico diamante nascosto nelle profondità dell'amato.

L'amore non è l'emozione di fronte a un cuore
che batte per te
più di quanto non batta per gli altri,
né quella meraviglia d'essere scelto, eletto,
senza motivo ai tuoi occhi
che valga questa follia,
perché un cuore può un giorno turbarsi per un altro,
e lasciarti sanguinare, in lacrime,
senza che il tuo amore muoia.

L'amore non è voglia di catturare, di afferrare
l'oggetto del tuo desiderio,
sia esso cuore, corpo, mente o tutti e tre insieme,
perché l'altro non è "oggetto";
e se lo prendi per te, lo mangi e lo distruggi,
è te che ami credendo di amare l'altro.

Folgorazione e seduzione, fame e fremiti,
emozione e sgorgare di desideri,
tutto ciò è bello e necessario, nell'uomo, nella donna,
ma soltanto per aiutare ad amare chi accetta di amare.

E' la porta socchiusa e le finestre spalancate,
è il vento che entra a folate,
è il richiamo del largo, è il mormorio di Dio
che invitano a uscire dalla casa sbarrata
per andare verso un altro
che hai scelto per colmare la tua vita
perché lo ami e lo vuoi amare.

Amare è volere l'altro libero e non sedurlo,
è liberarlo dai suoi lacci se ne rimane prigioniero,
perché anche lui possa dire: ti amo,
senza esservi spinto dai suoi desideri non domati.

Amare è con tutte le forze volere il bene dell'altro,
anche prima del tuo,
è fare di tutto perché l'amato cresca, e poi sbocci e fiorisca
diventando ogni giorno l'uomo che deve essere
e non quello che tu vuoi modellare
sull'immagine dei tuoi sogni.

Amare è dare il tuo corpo, e non prendere il suo,
ma accogliere il suo quando si offre per essere condiviso,
è raccoglierti, arricchirti,
per offrire all'amato più che mille carezze e folli abbracci,
la tua vita intera raccolta nelle braccia del tuo "io".

Amare è offrirti all'altro,
anche se questi ad un certo momento si rifiuta,
è dare senza tenere il conto di quello che l'altro ti dà,
pagando il prezzo alto senza mai reclamare il resto,
ed è supremo amore perdonare
quando l'amato purtroppo si sottrae,
tentando di consegnare ad altri ciò che ti aveva promesso.

Amare è credere nell'altro e dargli fiducia,
credere nelle sue forze nascoste, nella vita che ha in sé;
e quali che siano le pietre da tagliare
per appianare la strada,
è decidere da uomo ragionevole
di avviarsi coraggiosamente per il viaggio del tempo.

Non per cento giorni, per mille, e neppure per diecimila,
ma per un pellegrinaggio che non finirà,
perché è un pellegrinaggio che durerà
"sempre"...

Se amare è questo, come potrò riuscirci?
Ero scoraggiato...
Non avevo ancora capito...
che l'amore era un fine da raggiungere
e non un punto di partenza
e che, per cercare di riuscirci,
bisognava lottare per tutto il tempo della vita.
Io volevo tutto e subito.

Questo era il mio errore.
Dovevo accettare di adottare
il passo lento e regolare,
il passo dell'autentico montanaro.

Clicca qui per un altro testo di Michel Quoist sullo stesso tema.

amoreinnamoramentoamaredonarsigratuitàlibertàcrescerematurità

3.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 20/09/2012

PREGHIERA

33. Mio Dio eccomi   1

Antonietta Milella

Mio Dio eccomi.

Signore, quanto vorrei poterti dire così, quanto vorrei potermi fidare di te al punto da presentarmi davanti a te così come sono, senza preparare le parole, senza pensare a come sono vestita, senza timore di non essere accettata.

Come vorrei, Signore, buttarmi nelle tue braccia con gli occhi chiusi, fare il grande salto, superare le acque che sotto si muovono e rumoreggiano ostili, incurante dell'abisso che ci separa, senza paura di essere risucchiata dai gorghi di morte, senza ali che mi sollevino in alto.

Come vorrei Signore potermi affidare completamente a te al punto da dimenticare la distanza e il vuoto che si apre davanti ai miei occhi.

Sono, Signore, ancora tutta impastata di paura, di pregiudizi, di dubbi, sono ancora troppo preoccupata di me e di ciò che tu potresti dire, fare o pensare.

Signore mio Dio, eccomi davanti a te, questa mattina: i miei vestiti li vedi, sono quelli di cui non ancora riesco a fare a meno, il mio cuore non ancora si apre stabilmente al tuo amore, le braccia sono contratte, incapaci ti tendersi verso di te, la mente non riesce ancora a farsi da parte perché il desiderio di studiarti, capirti possederti è troppo grande.

Signore mio Dio eccomi con tutte le imperfezioni di cui sono piena, eccomi con tutte le contraddizioni che mi porto addosso, mio Dio eccomi con la mia incapacità di vivere la fede in modo semplice e sereno, mio Dio eccomi anche se non riesco a ritornare bambina, non riesco a ridiventare piccola come quelli a cui hai promesso il regno dei cieli..

Mio Dio eccomi ancora tanto attaccata alla terra, a questa sponda del mare, così tanto timorosa di prendere il largo, abbandonando le reti a terra, le mie sicurezze, lasciando la barca con cui sono abituata ad andare a pescare da sola, a prendere pesci destinati ad imbandire una mensa alla quale spesso dimentico d'invitarti.

Mio Dio eccomi, con lo sguardo perso nel vuoto, rivolto al mare che tu mi inviti ad attraversare, a solcare con la tua barca, incominciando il cammino a piedi nudi, camminando sull'acqua, che pure si muove e mi ricorda l'insidia che si cela sotto di essa.

Mio Dio eccomi, con la paura a procedere ferma e salda sulla strada che tu mi indichi.

Ti vedo allargare le braccia, ti vedo guardarmi negli occhi, con amore, con autorevolezza.

Mio Dio eccomi: Dio di amore, di misericordia, di giustizia, Dio padre e madre, Dio di tenerezza, Dio di compassione, Dio buono, Dio che mi stai aspettando, perché smetta di piangere e di avere paura.
Mio Dio eccomi

affidamentofedefiduciarapporto con Diopauracoraggiolimiti

5.0/5 (3 voti)

inviato da Antonietta Milella, inserito il 20/09/2012

PREGHIERA

34. Preghiera a Maria alla conclusione del mese di maggio   1

don Sandro Vigani, Gente Veneta, Settimanale della Diocesi di Venezia

Quando ti penso, Maria, vedo una giovane donna
che si prepara al matrimonio,
una figlia d'Israele cresciuta nella fede e nella storia
di un popolo col quale Dio ha intrecciato
una meravigliosa alleanza.
Vedo una donna che sta progettando il proprio futuro,
pensa alla casa, ai figli, allo sposo,
è innamorata della vita e delle tradizioni della propria gente.
E' piena di attese, di curiosità
e forse anche di un po' di timore.

Il Signore è entrato, potente, Maria,
nella casa della tua esistenza, e la storia del mondo
è cambiata per sempre, duemila anni fa,
perché Tu quel giorno hai detto di «sì».
Il vento di Dio ha soffiato forte e mescolato
le carte dei tuoi progetti, come il vento della primavera
a volte alza la sabbia sulla riva del mare.
Penso alla tua paura, Maria, quel giorno.
Alle parole con le quali, stupita,
chiedi conto al messaggero di Dio
di quello che sta accadendo in Te:
«Come è possibile, io non conosco uomo».
E penso alle paure che tante volte
hanno popolato la casa della mia vita,
ai momenti di buio, di dolore, di incertezza.
Alle direzioni così strane
che spesso ha preso la mia strada,
a come il vento di Dio l'ha battuta
e ha scombinato le tracce
che credevo indispensabili per orientami.

Maria, dopo la prima paura ti sei fidata.
O forse ti sei abbandonata, arresa alla voce del Signore
alla quale sentivi di non poter resistere.
Forse non sempre hai capito subito,
ma hai conservato nel tuo cuore
il senso di quello che ti accadeva.
E al tuo cuore hai attinto
negli anni che sono venuti,
mentre accompagnavi tuo figlio Gesù
giorno dopo giorno verso la croce,
finché quel significato si è dispiegato davanti ai tuoi occhi.
Io ho resistito mille volte più di Te a quella voce,
finché sulla mia strada,
sotto la sabbia e la terra delle mie debolezze,
a poco a poco sono comparse
altre tracce più vive e più vere,
che mi parlavano di quanto il tuo Figlio mi amava.

Anche oggi, molte volte, so di resistere a quella voce,
e mi affido alla pazienza di Dio
perché a poco a poco mi aiuti a leggere
nelle pagine della mia vita le parole che scrive per me.

Maria, hai accolto nel tuo grembo il figlio di Dio.
Sei stata ad un tempo madre e figlia.
Mi chiedo come hai vissuto questo duplice ruolo.
Quel figlio che cresceva in te e poi accanto a te,
era tuo ma non ti apparteneva.
Lo amavi come ogni madre,
accarezzavi per lui i tuoi progetti,
mentre lo cullavi tra le tue braccia,
e dovevi ogni giorno distaccarti da lui,
lasciare che andasse per la sua strada dove lo voleva suo Padre.
La vita è fatta anche di molti distacchi.

Maria, io credo che per poter
affrontare i momenti più difficili accanto a Gesù,
Tu abbia avuto nel tuo cuore un'invincibile speranza,
che si era accesa quando il messaggero di Dio
ti aveva assicurato che il Signore
non ti avrebbe mai abbandonata.
Maria, abbiamo il tesoro più grande
che un uomo possa sperare di avere,
la perla per la quale vale la pena vendere tutto,
abbiamo con noi il Signore.
Aiutaci ad accendere la nostra speranza,
perché il fuoco di Dio che non distrugge,
ma dona la vita,
bruci dentro di noi e attorno a noi.
Fa' che comprendiamo che vale la pena di credere,
essere cristiani conviene: così impareremo a guardare
la vita ed il mondo con occhi pieni di luce.

MariaMadonnafiduciaGesù

4.5/5 (2 voti)

inviato da Don Mario Sgorlon, inserito il 11/08/2012

ESPERIENZA

35. Il pane buono   2

Tempo fa', sul far della sera di un sabato qualunque, in una bella e profumata giornata primaverile, stavo innaffiando l'erba e i fiori del piccolo giardino che adorna la nostra casa, assorto nei lieti pensieri del dolce far niente. Davanti al cancello, all'improvviso, appare la figura di una ragazzina. Chiaramente una Rom, una zingara: il suo volto ed il suo cencioso abbigliamento non lasciavano certo spazio a dubbi in tal senso.

Con un italiano piuttosto stentato mi chiama e mi dice: "Dio ti benedica te e tua famiglia, mi dai pane vecchio per mangiare?".
Le rispondo:
- "Dove abiti?" (curioso, vero? Quando Dio ci parla, capita spesso che di primo acchito cambiamo discorso).
- "Là, vicino fiume Mella".
- "E di cosa vivi?".
- "Quello che mi danno".
- "Non vai a scuola?".
- "No, mai andata".
- "E i tuoi genitori cosa dicono?".
- "Padre non so, non vedo da tanto, lui carcere; madre dice: andare prendere qualcosa da mangiare. Mi dai pane vecchio?".
- "Sì, certo, scusa, volevi del pane vecchio. Ho quello fresco, buono, di oggi, vado dentro a prenderti quello", le dico mentre mi giro e faccio per entrare in casa.
- "Buono hai già dato".

Sono rimasto impietrito, come fulminato. Mi sono rigirato lentamente e l'ho guardata: stava sorridendo. Non so, non ho mai voluto pensare che quella frase fosse stata solo il frutto di un malriuscito tentativo di traduzione dal rumeno all'italiano di chissà quale espressione.

Nemmeno che quel suo sorriso fosse solo un modo, forse l'unico che conosceva, per dirmi la sua gioia nel vedere che il pane glielo avrei dato davvero. No. Ho pensato che quel parlare con lei, ascoltarla, sorriderle, fosse per lei, davvero, come spezzare insieme del pane fresco, del pane buono. "Me l'hai già dato, il pane buono: mi hai accolto, mi hai parlato, mi hai sorriso. Non ti sei girato dall'altra parte, non mi hai ignorato, né schernito, né evitato, né maltrattato, né violentato. Mi hai parlato".

Pane che nutre, non denti che divorano. Basta davvero così poco per sentirsi amati? E per essere fratelli, per essere cristiani? Sì. Ed Egle, mia sposa, mentre - entrato in casa - le racconto la vicenda, dice serenamente, quasi fosse la cosa più semplice e scontata di questo mondo: "Pane dei gesti che accolgono, pane delle parole che accarezzano. Pane di Gesù: è questo".

Pane fresco e buono, che non diventa mai vecchio perché prodotto nel cuore di chi crede in Colui che dice: "Io sono il pane della vita", e ci lascia un comandamento nuovo: "Amatevi come io vi ho amato".

Amare quella ragazzina cenciosa, spezzare il pane con lei e con tutti i cenci del mondo. Vivendo una vita nella solidarietà e nella comunione con tutti.

Sforzandoci di vivere così, di spezzare il pane così, allora Dio parla in noi; allora Dio parla con noi. Allora Dio spezza il pane e la parola tra noi: nei panni di una cenciosa ragazzina.

condivisioneeucaristia

5.0/5 (6 voti)

inviato da Ornella Zito, inserito il 24/06/2012

TESTO

36. Ancora e ancora vita   5

Luisa Faillace, La mia vita e il Libro di Giobbe

Se il tempo quel giorno si fosse fermato io non avrei mai potuto vedere i miei migliori amici sposarsi: testimoniare di un amore che non ha confini umani.
Non avrei mai potuto scoprire che al mondo esistono uomini capaci di essere professionisti affermati e padri presenti per figli felici.
Non avrei mai potuto indossare quel tubino di raso turchese che a me piace tanto... con quelle scarpe così decisamente kitsch... e fare la smorfiosa felice per un giorno.
Non avrei mai potuto scoprire di essere capace di costruire per lavorare;
...capire che quando un figlio, un genitore, ma soprattutto un fratello ed un amico più ti allontana tanto più ha bisogno di te.
Se il tempo quel giorno si fosse fermato non avrei mai potuto far pace con me stessa e soprattutto con te...
...e pertanto non avrei mai scoperto com'è bello alzarsi e sentirsi leggeri e ascoltare ancora il battito del proprio cuore e sentirlo sorridere.
Se la morte quel giorno avesse preso il sopravvento sulla vita, sulla mia vita,
non avrei mai scoperto che possono esistere colleghi capaci di accoglierti senza remore e senza invidia,
aiutarti a formarti e "fare strada insieme" anche nella vita:
"Perché cosa rimarrebbe della Vita? E di noi?!".
...non avrei mai raccolto il frutto di speranze e preghiere taciute ma desiderate all'estremo.
Se quella macchina, la mia macchina, quel giorno fosse finita giù non avrei potuto abbracciare i nipotini dei miei migliori amici e constatare che davvero quando un bambino ti stringe tra le braccia diventi tu il suo mondo e loro il nostro.
...non avrei mai visto e sentito gridare forte con la rabbia, la disperazione il dolore, la devozione, la gioia, la felicità, la fede, l'Amore: W San Leone; affidarsi senza se e senza ma, ridere e sorridere con gente a me straniera ed amica per un giorno e... per la vita.
Non avrei goduto ancora delle meraviglie artistiche del mondo,
né di albe e tramonti che non torneranno più perché ognuno ha in sé quel ricordo.
Non avrei scoperto che la vita sa e può sorprenderti... per una nuova amicizia inaspettata, ritornata, costruita...
...per quelle debolezze di uomini e donne così apparentemente forti... e continuarli comunque senza remore ad amarli in silenzio perché soprattutto il silenzio è amore, è perdono, è speranza.
Era il 18 Febbraio di un anno fa', come due giorni fa...
...non sarei cresciuta, non sarei cambiata, non sarei rinata.
Se ti fermi a leggere queste parole allora ferma per un momento anche la tua vita:
perdona chi ti ha fatto del male,
chiedi perdono a chi tu hai fatto del male perché se non lo sai sei capace di perdonare e se lo sai che ne sei capace serve solo fare un passo più in là perché anche il perdono si costruisce;
sorridi ancora una volta, gioisci ancora una volta,
non passare indifferente tra la gente,
ascolta chi ti cerca e cerca chi ti evita,
domanda, chiedi, guarda negli occhi,
ama gratuitamente chi la vita ti fa incontrare per caso, per sbaglio,
ma sempre per un senso.
Ma soprattutto pensa costantemente che la vita può durare tanto
ma può durare anche solo un altro istante!
...e poi:
"Considera i cieli, e vedi!
Guarda le nuvole, come sono più in alto di te!".

vitasenso della vitainterioritàperdonoviverecogliere l'attimoimportanza delle piccole cose

3.0/5 (2 voti)

inviato da Luisa Faillace, inserito il 06/05/2012

ESPERIENZA

37. Una predica nella festa dell'Epifania in India

Piero Gheddo, http://gheddo.missionline.org/?p=826

Nel 1965, in India, alla festa dell'Epifania, sono stato invitato a parlare nella chiesa di una cittadina dello stato di Andhra Pradesh, dove lavorano i missionari del Pime. Essendo l'unico prete disponibile, ho dovuto celebrare la Messa (ma allora si celebrava in latino!) e anche fare la predica dell'Epifania. Dato che sapevo solo poche parole di telegu, la lingua locale (una delle più importanti delle 18 lingue ufficiali dell'India, parlata da più di 80 milioni di indiani, con una letteratura molto ricca e antica), il vescovo di Warangal monsignor Alfonso Beretta mi aveva fatto accompagnare da un catechista che sapeva bene l'inglese. «Tu parla inglese andando adagio», mi aveva detto, «e lui tradurrà in telegu, frase per frase, parola per parola».

Così sono andato in quella grande chiesa di Kammameth (che oggi è Diocesi), piena di gente, col mio bel discorso scritto in inglese. Dopo la lettura del Vangelo, la gente si è seduta e io ho cominciato a parlare, facendo riflessioni sulla festa liturgica, sul significato teologico dell'Epifania. A ogni frase mi fermavo e lasciavo al catechista il tempo di tradurre. Ma, man mano che andavo avanti nella predica, mi accorgevo che mentre le mie frasi erano brevi, il catechista parlava a lungo; e poi, io non citavo nessun nome proprio, ma lui continuava a citare Baldassarre, Melchiorre e Gaspare.

Dopo la Messa gli chiedo come aveva tradotto la mia predica e mi sento rispondere: «Padre, tu dicevi cose troppo difficili che io capivo poco e i nostri fedeli, gente semplice, non avrebbero capito nulla e non sapevo come tradurre. Allora ho raccontato alla gente la storia dei tre Re Magi, chi erano, da dove venivano e cosa hanno fatto quando sono tornati alle loro case dopo aver visto Gesù. Forse tu non sai, ma in India c'è la tradizione che i Magi erano indiani. Io li ho ambientati nei nostri villaggi telegu, in modo che tutti li sentissero come loro antenati. Ma non preoccuparti, ai nostri fedeli la tua predica è piaciuta molto, anche perché hanno capito tutto e adesso le vicende della vita di Gaspare, Baldassarre e Melchiorre le racconteranno anche ad altri».

Quell'episodio mi ha fatto capire una grande verità: il Vangelo è il racconto di un fatto, di un avvenimento, di una notizia; cioè comunica la «Buona Notizia» e usa un linguaggio estremamente concreto, che invita a cambiare vita, a convertirci. Gesù parla con parabole, cioè racconta dei fatti che avrebbero potuto anche essere veri, per dare un'indicazione morale. Non fa come in certe prediche di noi sacerdoti, che la gente non ascolta o non capisce, perché disincarnate dalla vita quotidiana. Essere cristiani significa vivere la vita di Cristo e offrire agli uomini degli esempi concreti di vite spese per Dio e per il prossimo. Quello che convince o scuote e fa riflettere i non credenti o i non praticanti non sono i ragionamenti o le dimostrazioni filosofiche o teologiche (ci vogliono anche queste, ma a luogo e tempo debito)., sebbene i buoni esempi delle vite di Gesù, di Maria e dei santi. E anche dei Re Magi che venivano dall'Oriente!

Anche la nostra vita cristiana deve diventare, agli occhi di chi non crede, un annunzio di salvezza, una testimonianza di fede e di bontà. Nessuno riesce mai a essere un vero cristiano, perché il modello di Gesù è infinitamente al di là delle nostre piccole persone: ma quel che importa è la sincera volontà di camminare per la via che Cristo ci ha indicato. Non preoccupiamoci troppo delle nostre cadute, quando sono sinceramente combattute e detestate, quando ripetiamo ogni giorno al Signore il nostro pentimento e la volontà di togliere il peccato dalla nostra vita. «La santità», diceva Santa Teresina del Bambino Gesù, «non è una salita verso la perfezione, ma una discesa verso la vera umiltà» .

annunciopredicazionetestimonianzapredicare

5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 09/04/2012

RACCONTO

38. Quando le croci sono troppe   6

Giovanni Francile

Un uomo viaggiava, portando sulle spalle tante croci pesantissime. Era ansante, trafelato, oppresso e, passando un giorno davanti ad un Crocifisso, se ne lamentò con il Signore così: "Ah! Signore, io ho imparato nel catechismo che tu ci hai creato per conoscerti, amarti e servirti... ma invece mi sembra di essere stato creato soltanto per portare le croci! Me ne hai data tante e così pesanti che io non ho più la forza di portarle".

Il Signore però gli disse: "Vieni qui, figlio mio, posa queste croci per terra ed esaminiamole un poco. Ecco, questa è la più grossa e la più pesante; guarda che cosa c'è scritto sopra".
Quell'uomo guardò e lesse questa parola: sensualità.

"Lo vedi?" disse il Signore, "questa croce non te l'ho data io, ma te la sei fabbricata da solo. Hai avuto troppa smania di godere, sei andato in cerca di piaceri, golosità, di divertimenti... e di conseguenza hai avuto malattie, povertà, rimorsi".

"Purtroppo è vero, soggiunse l'uomo, questa croce l'ho fabbricata io! E' giusto che io la porti!".

Sollevò da terra quella croce e se la pose di nuovo sulle spalle.

Il Signore continuò: "Guarda quest'altra croce. C'è scritto sopra: ambizione. Anche questa l'hai fabbricata tu, non te l‘ho data Io. Hai avuto troppo desiderio di salire in alto, di occupare i primi posti, di stare al di sopra degli altri... e di conseguenza hai avuto odio, persecuzione, calunnie, disinganni".

"E' vero, è vero! anche questa croce l'ho fabbricata io! E' giusto che io la porti!". Sollevò da terra quella seconda croce e se la mise sulle spalle.

Il Signore additò altre croci, e disse: "Leggi. Su questa è scritto: gelosia, su quell'altra: avarizia, su
quest'altra..."

"Ho capito, ho capito, Signore, è troppo giusto quello che tu dici".

E prima che il Signore avesse finito di parlare, il povero uomo aveva raccolto da terra tutte le sue croci e se l'era poste sulle spalle. Per ultima era rimasta per terra una crocetta piccola piccola e quando l'uomo la sollevò per porsela sulle spalle esclamò: "Oh! Com'è piccola questa! E pesa poco". Guardò quello che c'era scritto sopra e lesse queste parole: "La croce di Gesù".

Vivamente commosso, sollevò lo sguardo verso il Signore ed esclamò: "Quanto sei buono!" Poi baciò quella croce con grande affetto.

E il Signore gli disse: "Vedi figlio mio, questa piccola croce te l'ho data io, ma te l'ho data con amore di Padre; te l'ho data perché voglio farti acquistare merito con la pazienza; te l'ho data perché tu possa somigliare a me e starmi vicino per giungere al Cielo, perché io l'ho detto: Chi vuole venire dietro a me prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Ma ho detto anche: il mio giogo è soave e il mio peso è leggero".

L'uomo delle croci riprese silenzioso il cammino della vita; fece ogni sforzo per correggersi dei suoi vizi e si diede con ogni premura a conoscere, amare e servire Dio.

Le croci più grosse e più pesanti caddero, una dopo l'altra dalle sue spalle e gli rimase soltanto quella di Gesù. Questa se la tenne stretta al cuore fino all'ultimo giorno della sua vita, e quando arrivò al termine del viaggio, quella croce gli servì da chiave per aprire la porta del Paradiso.

sofferenzapazienzafedefiduciacrocepeccato

4.6/5 (5 voti)

inviato da Lisa, inserito il 07/04/2012

PREGHIERA

39. Ho preso la parola, Signore

Michel Quoist, Preghiere, Marietti, Torino 1963, p. 72.74

Ho preso la parola, Signore, e sono stizzito,
Sono stizzito perché mi sono agitato, speso, con il gesto e con la voce.
Ce l'ho messa tutta nelle mie frasi, nelle mie parole,
E temo di non aver dato l'essenziale.
Perché l'essenziale non è in mio potere, Signore, e le parole sono troppo strette per contenerlo.

Ho preso la parola, Signore, e son inquieto,
Ho paura di parlare, perché è grave;
E' grave disturbare gli altri, farli uscire da loro, immobilizzarli sulla soglia di casa loro;
E' grave trattenerli lunghi minuti, a mani tese, cuore teso, alla ricerca di un lume o di un po' di coraggio per vivere e per agire.

Se io li rimandessi a mani vuote, Signore!

Eppure debbo parlare.
Mi hai donato la parola per alcuni anni, e debbo servirmene.
Son debitore della mia anima agli altri, e sulle mie labbra le parole attendono per trasportarla presso gli altri in lunghi convogli serrati.
Perché l'anima non saprebbe esprimersi se le fosse tolta la parola.
Non si sa nulla del bimbo racchiuso nella sua carne
E la famiglia tutta esulta quando, a sillabe, a parole, a frasi, la sua anima appare davanti alla nostra anima.
Ma la famiglia si raccoglie disperata al capezzale del morente, ascoltando religiosamente le ultime parole, che egli pronuncia.
Egli se ne va, chiudendosi nel silenzio, ed i parenti non conosceranno più la sua anima quando pietosamente ne avranno chiuso gli occhi e serrato le labbra.

La parola è una grazia, Signore, e non ho il diritto di tacere per orgoglio, viltà, negligenza o paura dello sforzo.
Gli altri hanno diritto alla mia parola, alla mia anima, perché ho un messaggio da trasmettere da parte Tua. E nessun altro che me, Signore, sarebbe in grado di dirlo loro.
Ho una frase da pronunciare, breve, forse, ma ripiena della mia vita.
Non mi posso sottrarre.
Ma le parole che lancio debbono essere parole vere.
Sarebbe abuso di fiducia captare l'attenzione altrui se sotto la scorza delle parole non dessi la verità dell'anima.
Le parole che spando debbono essere parole vive, ricche di quanto la mia anima unica ha colto del mistero del mondo e del mistero dell'uomo.
Le parole che dono debbono essere portatrici di Dio, perché le labbra, che mi hai donato, Signore, sono fatte per dire la mia anima, e la mia anima Ti conosce e ti tiene avvinto.

Perdonami, Signore, per aver parlato tanto male;
Perdonami per aver spesso parlato per non dir nulla;
Perdonami i giorni in cui ho prostituito le mie labbra
pronunciando parole vuote,
parole false,
parole vili,
parole in cui Tu non hai potuto infiltrarti.
Sorreggimi quando debbo prendere la parola in un'assemblea, intervenire in una discussione, conversare con un fratello.
Fa soprattutto, o Signore, che la mia parola sia un seme
E che quanti ricevono le mie parole possano sperare una bella messe.

parlareparolacomunicazionecomunicareannuncio

inviato da Maria Fassone, inserito il 20/02/2012

ESPERIENZA

40. Una poesia prima di andare via

Roxsana Chavez

La costanza è una di quelle virtù che ci permette di raggiungere i sogni più lontani e il cuore delle persone; è un lavoro continuo e delicato: il mio Padre Fondatore ci diceva sempre che per arrivare ad un'anima si deve fare come fanno gli uccelli nel posarsi sul ramo, cioè delicatamente.

Conobbi Mario in un reparto isolato dell'ospedale di Terni, uno di quei reparti in cui nessuno entra, per paura di contagio; era sempre in compagnia di un anziano, sembrava essere suo padre.

Lui scriveva al computer ed era talmente concentrato, che a malapena mi salutò quando entrai nella stanza, avevo l'impressione che io non gli fossi molto simpatica, invece l'anziano mi salutò cortesemente.

Il giorno seguente io ed un'altra sorella entrammo nella stessa stanza: Mario ci salutò e cordialmente c'invitò ad uscire; conclusi che quell'uomo aveva bisogno d'aiuto!

Da quel momento passai da lui ogni giorno, anche senza entrare nella stanza, almeno lo salutavo dalla porta, finché un giorno, finalmente, m'invitò ad entrare, cominciammo a parlare e mi spiegò che stava trascrivendo nel portatile delle poesie, scritte dall'anziano, che io pensavo fosse suo padre, ma che in realtà era un amico, famoso poeta di Terni.

Pian piano Mario mi raccontò tutta la sua vita, molto sofferta già dall'infanzia, con conseguenze, alla fine, nefaste. Il rapporto tra noi iniziò a migliorare, sapevo però, che non sarebbe durato a lungo, mentre il suo animo andava via via migliorando, purtroppo quella bestiale malattia svolgeva lentamente il suo scopo, portarlo via.

Durante una di queste visite iniziammo a parlare di poesia e gli suggerii di scriverne una di suo pugno: lui si rifiutò categoricamente, perché non ne aveva mai scritta una; al termine della visita, ci accordammo affinché ciascuno di noi ne avrebbe scritta una.

La sua salute peggiorò, tanto che lui non riusciva né a scrivere né a parlare: capii che da un momento all'altro, saremmo arrivati a ciò che lo aspettava.
Un giorno non lo vidi più, se n'era andato.
Il suo amico mi disse che Mario era riuscito a scrivere la poesia e me la consegnò; era bellissima e diceva così:

"Sei venuta a trovarmi
Portando Cristo con te
Mi hai sorriso
Piena di luce e di serenità
Io non trovo parole
Ma il silenzio che hai scoperto
Lo hai compreso
Scusa le mie difficoltà
E considerami
Un amico vero sincero
Che apprezza
Il tuo sorriso fraterno".

Quanta ragione ha Cristo, quando afferma che "chi cerca, trova", sono sicura che Mario è morto in pace.

Quante volte le parole dette sono troppe, con Mario ho capito che il silenzio, tante volte sinonimo di chiusura, è piuttosto un richiamo a stare con le persone, soprattutto un richiamo ad ascoltare ed accogliere quel silenzio che può trasmettere tante cose.

Credo che per fare questo sia sufficiente essere veri strumenti di Dio per lasciar trasparire quello che Lui, in quel momento, vuol dire loro.

costanzaperseveranzasilenziopoesiaessere strumento di Diosolitudineincontro

5.0/5 (2 voti)

inviato da Roxsana Chavez, inserito il 07/02/2012

Pagina 2 di 8