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PREGHIERA
Giovanni Paolo II, Esortazione Apostolica "Christifideles Laici"
O Vergine santissima,
Madre di Cristo e Madre della Chiesa,
con gioia e con ammirazione,
ci uniamo al tuo Magnificat,
al tuo canto di amore riconoscente.
Con te rendiamo grazie a Dio,
«la cui misericordia si stende
di generazione in generazione»,
per la splendida vocazione
e per la multiforme missione
dei fedeli laici,
chiamati per nome da Dio
a vivere in comunione di amore
e di santità con lui
e ad essere fraternamente uniti
nella grande famiglia dei figli di Dio,
mandati a irradiare la luce di Cristo
e a comunicare il fuoco dello Spirito
per mezzo della loro vita evangelica
in tutto il mondo.
Vergine del Magnificat,
riempi i loro cuori
di riconoscenza e di entusiasmo
per questa vocazione e per questa missione.
Tu che sei stata,
con umiltà e magnanimità,
«la serva del Signore»,
donaci la tua stessa disponibilità
per il servizio di Dio
e per la salvezza del mondo.
Apri i nostri cuori
alle immense prospettive
del Regno di Dio
e dell'annuncio del Vangelo
ad ogni creatura.
Nel tuo cuore di madre
sono sempre presenti i molti pericoli
e i molti mali
che schiacciano gli uomini e le donne
del nostro tempo.
Ma sono presenti anche
le tante iniziative di bene,
le grandi aspirazioni ai valori,
i progressi compiuti
nel produrre frutti abbondanti di salvezza.
Vergine coraggiosa,
ispiraci forza d'animo
e fiducia in Dio,
perché sappiamo superare
tutti gli ostacoli che incontriamo
nel compimento della nostra missione.
Insegnaci a trattare le realtà del mondo
con vivo senso di responsabilità cristiana
e nella gioiosa speranza
della venuta del Regno di Dio,
dei nuovi cieli e della terra nuova.
Tu che insieme agli Apostoli in preghiera
sei stata nel Cenacolo
in attesa della venuta dello Spirito di Pentecoste,
invoca la sua rinnovata effusione
su tutti i fedeli laici, uomini e donne,
perché corrispondano pienamente
alla loro vocazione e missione,
come tralci della vera vite,
chiamati a portare molto frutto
per la vita del mondo.
Vergine Madre,
guidaci e sostienici perché viviamo sempre
come autentici figli e figlie
della Chiesa di tuo Figlio
e possiamo contribuire a stabilire sulla terra
la civiltà della verità e dell'amore,
secondo il desiderio di Dio
e per la sua gloria.
Amen.
laiciimpegnoresponsabilitàlaicato
inviato da Anna Barbi, inserito il 24/05/2007
PREGHIERA
...quando riesco a fare silenzio dentro di me,
quando spengo gli effimeri rumori del mondo,
le banalità e le volgarità del nostro tempo,
buffi nani che vogliono fare i giganti,
mostri di indifferenza e di potere
che uccidono la speranza
quando li faccio tutti tacere...
e piego anche il mio corpo al tuo silenzio...
sento la tua voce... e imbevuto di pace
lascio che il tuo spirito mi impregni
...sottile e potente,
spirito leggero e profumato
di gioia, di speranza, di certezza, di vita.
Mi hai chiamato e formato,
vivente dalla materia inerte,
traendomi dalla profondità dei millenni
per un progetto nuovo, unico... il mio progetto.
Vedo la strada da percorrere,
vedo che tornerò alla materia
dopo un tempo infinitesimo per l'universo,
ma immenso per me, il mio tempo.
Sento che il mio essere partecipa
al tuo progetto globale per l'universo,
con la sua gioia, il suo dolore, la sua speranza
Apri la mia mente a questo disegno,
Tu che in forza di questa tensione creatrice sei in me,
spiega le ali della tua grande Forza,
che so essere Amore,
sulla mia volontà, sui miei sentimenti,
sulla mia intelligenza, sul mio essere tutto,
per tendere sempre a Te in ogni angolo del creato
ed in ogni anfratto del tempo,
per scovare la tua scintilla in ogni creatura.
Il peso del mio egoismo e l'inerzia del piacere
non mi facciano ripiombare disintegrato
nel Molteplice indifferenziato
senza avere contribuito
ad amplificare il Tuo amore sul mondo,
per avvicinarmi con tutto il Creato alla meta finale:
Cristo redentore che hai rivelato come Tuo Figlio.
Gesù di Nazareth che laceriamo ogni giorno
Come allora i giudei sul calvario,
con il cieco orgoglio di sapere... ove è il bene e ove è il male.
Gesù che ha fuso sulla croce i dolori e la caducità del mondo
per riscattarli con la promessa della Resurrezione
che mi attende
per accogliermi nella sua grande luce,
in un unico Tempo.
tempoamoreresponsabilitàimpegnointerioritàcompitovocazione
inviato da Lorenzo De Francesco, inserito il 01/05/2007
RACCONTO
223. Il bambino che tolse i chiodi a Gesù 1
Questa storia è vera per la prima parte, mentre la seconda ne è un possibile proseguimento, suggerito dalla fede e dal cuore di chi scrive, liberamente interpretabile da chi legge, purché resti emblematica nel suo contenuto che vuol essere comunque educativo.
C'era una volta un bambino (oggi non è più quel bambino perché è regolarmente cresciuto) di nome Lorenzo, piccolo mulatto, birichino, occhi pieni di curiosità, denti bianchissimi nella bocca sorridente, voglia continua di correre e giocare, fantasioso, spericolato, sempre protetto dal vigile Angelo Custode.
E non c'era solo quel bambino, c'era anche un castello, dove il bimbo andava a giocare e dove l'aspettavano tante zie che se lo contendevano per appagare tutti i suoi desideri e raccontarsi poi le sue prodezze.
Nel castello c'era una piccola chiesa, perché le zie che lo custodivano erano delle suore secolari che sapevano coniugare la consacrazione al Signore l'amore materno ad ogni piccola creatura.
Ed ecco che un giorno, nel mezzo del gioco, mentre il bimbo corre calciando il pallone, nel corridoio accanto alla piccola chiesa la voce della zia "Annamalia", la madrina di battesimo, chiama: "Lorenzo, vieni a conoscere Gesù".
Così Lorenzo scende per la prima volta i gradini della chiesetta ed entra nel vano sacro, dove gli viene mostrato Gesù nel grande crocifisso appeso alla parete sopra l'altare.
Il bimbo alza gli occhi e vede i piedi forati dal chiodo, sovrapposti e sanguinanti. Ecco quello è Gesù e lui gli manda bacetti con la mano, rammaricandosi di non poterlo raggiungere, impotente a togliergli quei chiodi che forano i piedi e le mani fino a farli sanguinare.
Cominciò così il suo amore per Gesù, un misto di ammirazione e compassione che si rinnovava ad ogni nuova visita.
Per Lorenzo era un grosso sacrificio lasciare il gioco per andare a rivedere Gesù, ma ne valeva la pena... specialmente dopo che aveva assaggiato il "Pane di Gesù", che zia Annamaria aveva preso da un armadietto della sacrestia, e dopo aver saputo che la casa di Gesù era nel tabernacolo di marmo, proprio sotto la grande croce da cui Gesù non poteva discendere. In braccio alla madrina lui però poteva baciare la porticina di quella "casa" e stabilire con Gesù una grande amicizia, più importante di quella che aveva con i suoi compagni della Scuola Materna.
Ma il cuoricino di Lorenzo soffriva per quei grossi chiodi che non sapeva come fare a togliere perché Gesù potesse guarire e scendere dalla croce. Una volta che zia Roberta si ferì un piede e mostrò al bambino la ferita, egli si slanciò a baciarlo per farlo guarire come avrebbe voluto fare con Gesù.
Passò il tempo e venne il grande momento: una scala era rimasta abbandonata in chiesa con qualche attrezzo, come quelli che usava papà Mario per i lavori di casa. Lorenzo non aspettava altro! Ormai era abbastanza alto e forte per sollevare la scala, avvicinarla al grande crocifisso, prendere gli attrezzi e salire fino in alto. Ora finalmente poteva "lavorare" per togliere quei chiodi ai piedi e alle mani di Gesù.
Lavora, smuovi, tira... e uno! Poi due, ma il terzo che fatica! Non si arrese: tirò finché anche quello fu divelto, ma intanto la scala oscillò e si piegò all'indietro. Un grido: "Gesù!". Una risposta: "Lorenzo!".
E mentre il bimbo stava perdendo l'equilibrio, stava cadendo indietro, le mani libere di Gesù lo afferrarono e lo portarono in posizione sicura. Lorenzo, ignaro del pericolo corso, esultava di gioia: Gesù finalmente aveva parlato!
Le zie intanto cercavano il bambino e lo trovarono sulla scala sorridente. "Lorenzo che hai fatto?".
"Non ha più i chiodi! E Gesù mi ha risposto!".
Zia Ilva sale subito sulla scala e va a prendere il bambino, lo riconduce a terra illeso, fra la grande gioia di tutte le zie dal cuore materno che per lui hanno trepidato e stentano a capire che cosa è successo.
In realtà nessuno mai capì bene la cosa, solo Lorenzo sapeva che Gesù non aveva più i chiodi perché lui glieli aveva tolti e poi era felice perché Gesù gli aveva parlato come ad un vero amico.
Quando Lorenzo crebbe e diventò un uomo, non si sa cosa fece nella vita: forse divenne papà ed ebbe dei figli; forse partì missionario ed andò a fare del bene ad altri bambini. Comunque siano andate le cose, Lorenzo ebbe sempre tanto amore per Gesù ed insegnò ai bambini ad amarlo tanto. Così il mondo divenne più buono.
Gesùcrocifissocrocerapporto con Diosemplicità
inviato da Una Catechista, inserito il 25/03/2007
TESTO
Tonino Bello, Cirenei della gioia
Secondo me questo gesto significa due cose: se non ci alziamo da tavola, se non ci alziamo da quella tavola, ogni nostro servizio è superfluo, inutile, non serve a niente. Qui arriviamo al punto nodale di tutte le nostre riflessioni, di tutta la revisione della nostra vita spirituale. Diciamo la verità: è probabile che noi si faccia un gran servizio alla gente, molta diaconia, ma spesso è una diaconia che non parte da quella tavola.
Solo se partiamo dall'eucaristia, da quella tavola, allora ciò che faremo avrà davvero il marchio di origine controllata, come dire, avrà la firma d'autore del Signore. Attenzione: non bastano le opere di carità, se manca la carità delle opere. Se manca l'amore da cui partono le opere, se manca la sorgente, se manca il punto di partenza che è l'eucaristia, ogni impegno pastorale risulta solo una girandola di cose.
Dobbiamo essere dei contempl-attivi, con due t, cioè della gente che parte dalla contemplazione e poi lascia sfociare il suo dinamismo, il suo impegno nell'azione. La contemplattività, con due t, la dobbiamo recuperare all'interno del nostro armamentario spirituale. Allora comprendete bene: si alzò da tavola vuol dire la necessità della preghiera, la necessità dell'abbandono in Dio, la necessità di una fiducia straordinaria, di coltivare l'amicizia del Signore, di poter dare del tu a Gesù Cristo, di poter essere suoi intimi.
Non ditemi che sono un vescovo meridionale che parlo con una carica emotiva di particolari vibrazioni: le sentite pure voi queste cose; tutti avvertite che, a volte, siamo staccati da Cristo, diamo l'impressione di essere soltanto dei rappresentanti della sua merce, che piazzano le sue cose senza molta convinzione, solo per motivi di sopravvivenza. A volte ci manca questo annodamento profondo.
Qualche volta a Dio noi ci aggrappiamo, ma non ci abbandoniamo. Aggrapparsi è una cosa, abbandonarsi un'altra. Quand'ero istruttore di nuoto - ero molto bravo, e quando ero in seminario tantissimi hanno imparato da me a nuotare - quante volte dovevo incoraggiare gli incerti: «Dai, sono qui io; non ti preoccupare...». Se qualcuno stava annaspando o scendendo giù, io gli passavo accanto e quello si avvinghiava fin quasi a strozzarmi. Questo è solo un abbraccio di paura, non un abbraccio d'amore.
Qualche volta con Dio facciamo anche noi così: ci aggrappiamo perché ci sentiamo mancare il terreno sotto i piedi, ma non ci abbandoniamo. Abbandonarsi vuol dire lasciarsi cullare da lui, lasciarsi portare da lui semplicemente dicendo: «Dio, come ti voglio bene!».
Allora: se non ci alziamo da quella tavola, magari metteranno anche il nostro nome sul giornale, perché siamo bravi ad organizzare, chissà quali marce o quali iniziative per le prostitute, per i tossici, per i malati di AIDS... diranno che siamo bravi, che sappiamo organizzare; trascineremo anche le folle per un giorno o due; però dopo, quando si accorgeranno che non c'è sostanza, che non c'è l'acqua viva, la gente se ne va.
Ma alzarsi da tavola come ha fatto Gesù significa anche un'altra cosa. Significa che da quella tavola ci dobbiamo alzare: significa che non si può star lì a fare la siesta; che non è giusto consumare il tempo in certi narcisismi spirituali che qualche volta ci attanagliano anche nelle nostre assemblee.
Infatti è bello stare attorno al Signore con i nostri canti che non finiscono mai o a fare le nostre prediche. Ma c'è anche da fare i conti con la sponda della vita. Spesso, come lamenta il papa nella Chiristi fideles laici, c'è una dissociazione tra la fede e la vita.
La fede la consumiamo nel perimetro delle nostre chiese e lì dentro siamo anche bravi; ma poi non ci alziamo da tavola, rimaniamo seduti lì, ci piace il linguaggio delle pantofole, delle vestaglie, del caminetto; non affrontiamo il pericolo della strada. Bisogna uscire nella strada in modo o nell'altro: c'è uscito anche Giuda, «ed era notte» (Gv. 13,30).
Dobbiamo alzarci da tavola. Il Signore Gesù vuole strapparci dal nostro sacro rifugio, da quell'intimismo, ovattato dove le percussioni dei mondo giungono attutite dai nostri muri, dove non penetra l'ordine del giorno che il mondo ci impone.
Ecco, carissimi confratelli, questo è il primo verbo che dovremmo meditare moltissimo..
amorecaritàattivitàcontemplazioneservizioeucaristia
inviato da Don Luigi Pisoni, inserito il 17/11/2006
ESPERIENZA
225. Lo slancio degli altri muove la carrozzina
Avvenire del 26/1/2006
«Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13, 34) sarà la celebrazione Diocesana del prossimo anno. Ma cosa ha significato l'amore degli altri nella mia vita? Posso dirvi che da ragazzino avevo bisogno di fare una terapia particolare, essendo disabile, in cui sarei stato impiegato per diverse ore al giorno e soprattutto mi avrebbero dovuto aiutare molte persone. Mentre tornavo a casa dallo studio del dottore mi domandavo con i miei genitori come avrei potuto farcela... Sono figlio unico con pochi parenti. Ne abbiamo parlato al parroco che subito ha detto: «Ho grande fiducia nella Provvidenza... lo dirò ad alcuni... se i cristiani non si amano in questi casi, non sono cristiani!». Questa espressione un po' forte di un sacerdote che era come un padre per me, mi ha fatto pensare. E così è stato. In pochi giorni, avevo riempito i "turni" con più di 90 persone alla settimana, 15 volontari al giorno. Si erano resi disponibili persone di tutte le età, moltissimi i giovani.
Frequentavo anche la Facoltà Teologica a Torino, e non potevo scrivere bene e prendere sufficienti appunti alle lezioni. I miei compagni di corso seminaristi mi aiutavano passandomi i loro appunti, senza gridare o facendo proclami, ma servendo in silenzio. Ecco due fatti della mia vita personale, ma potrebbero essere molti, in cui ho provato con mano, sulla mia pelle, l'amore! L'ho sperimentato non come una parola generica, una parola che si confonde molte volte con piacere, ma una parola viva e vera perché Gesù ci ha dato l'esempio, «amatevi anche voi gli uni gli altri».
Ecco io mi sento amato da Dio, pur nella fatica, che deve diventare il trampolino di lancio per la mia vita di fede. Sono convinto che, con il tema della GMG 2007 celebrata a livello Diocesano, Benedetto XVI riuscirà ad avvicinare molti giovani a quell'unico comandamento che solo in Gesù trova la realizzazione: l'amore da rendere come servizio, l'amore da scambiarci «gli uni gli altri». Lo scambio di un amore reciproco si pone in continuità con l'adorazione. Così infatti ha gia sottolineato il Papa a Colonia: «La parola latina "adorazione" è ad-oratio - contatto bocca a bocca, bacio, abbraccio e quindi in fondo amore. La sottomissione diventa unione, perché colui al quale ci sottomettiamo è Amore».
Claudio
inviato da Qumran2, inserito il 06/11/2006
PREGHIERA
226. Il ballo dell'obbedienza 1
"Noi abbiamo suonato il flauto e voi non avete danzato"
E' il 14 luglio.
Tutti si apprestano a danzare.
Dappertutto il mondo, dopo anni dopo mesi, danza.
Ondate di guerra, ondate di ballo.
C'è proprio molto rumore.
La gente seria è a letto.
I religiosi dicono il mattutino di sant'Enrico, re.
Ed io, penso
all'altro re.
Al re David che danzava davanti all'Arca.
Perché se ci sono molti santi che non amano danzare,
ce ne sono molti altri che hanno avuto bisogno di danzare,
tanto erano felici di vivere:
Santa Teresa con le sue nacchere,
San Giovanni della Croce con un Bambino Gesù tra le braccia,
e san Francesco, davanti al papa.
Se noi fossimo contenti di te, Signore,
non potremmo resistere
a questo bisogno di danzare che irrompe nel mondo,
e indovineremmo facilmente
quale danza ti piace farci danzare
facendo i passi che la tua Provvidenza ha segnato.
Perché io penso che tu forse ne abbia abbastanza
della gente che, sempre, parla di servirti col piglio da
condottiero,
di conoscerti con aria da professore,
di raggiungerti con regole sportive,
di amarti come si ama in un matrimonio invecchiato.
Un giorno in cui avevi un po' voglia d'altro
hai inventato san Francesco,
e ne hai fatto il tuo giullare.
Lascia che noi inventiamo qualcosa
per essere gente allegra che danza la propria vita con te.
Per essere un buon danzatore, con te come con tutti,
non occorre sapere dove la danza conduce.
Basta seguire,
essere gioioso,
essere leggero,
e soprattutto non essere rigido.
Non occorre chiederti spiegazioni
sui passi che ti piace di segnare.
Bisogna essere come un prolungamento,
vivo ed agile, di te.
E ricevere da te la trasmissione del ritmo che l'orchestra
scandisce.
Non bisogna volere avanzare a tutti i costi,
ma accettare di tornare indietro, di andare di fianco.
Bisogna saper fermarsi e saper scivolare invece di
camminare.
Ma non sarebbero che passi da stupidi
se la musica non ne facesse un'armonia.
Ma noi dimentichiamo la musica del tuo Spirito,
e facciamo della nostra vita un esercizio di ginnastica:
dimentichiamo che fra le tue braccia la vita è danza,
che la tua Santa Volontà
è di una inconcepibile fantasia,
e che non c'è monotonia e noia
se non per le anime vecchie,
tappezzeria
nel ballo di gioia che è il tuo amore.
Signore, vieni ad invitarci.
Siamo pronti a danzarti questa corsa che dobbiamo fare,
questi conti, il pranzo da preparare, questa veglia in
cui avremo sonno.
Siamo pronti a danzarti la danza del lavoro,
quella del caldo, e quella del freddo, più tardi.
Se certe melodie sono spesso in minore, non ti diremo
che sono tristi;
Se altre ci fanno un poco ansimare, non ti diremo
che sono logoranti.
E se qualcuno per strada ci urta, gli sorrideremo:
anche questo è danza.
Signore, insegnaci il posto che tiene, nel romanzo eterno
avviato fra te e noi,
il ballo della nostra obbedienza.
Rivelaci la grande orchestra dei tuoi disegni:
in essa, quel che tu permetti
dà suoni strani
nella serenità di quel che tu vuoi.
Insegnaci a indossare ogni giorno
la nostra condizione umana
come un vestito da ballo, che ci farà amare di te
tutti i particolari. Come indispensabili gioielli.
Facci vivere la nostra vita,
non come un giuoco di scacchi dove tutto è calcolato,
non come una partita dove tutto è difficile,
non come un teorema che ci rompa il capo,
ma come una festa senza fine dove il tuo incontro si
rinnovella,
come un ballo,
come una danza,
fra le braccia della tua grazia,
nella musica che riempie l'universo d'amore.
Signore, vieni ad invitarci.
obbedienzafedefiduciaabbandonogioiaprovvidenza
inviato da Qumran2, inserito il 02/11/2006
PREGHIERA
227. L'estasi delle tue volontà 1
Madeleine Delbrel, Che gioia credere
Quando quelli che amiamo ci chiedono qualcosa,
noi li ringraziamo di avercelo chiesto.
Se a te piacesse, Signore, chiederci una sola cosa
in tutta la nostra vita,
noi ne rimarremmo meravigliati
e l'aver compiuto questa sola volta la tua volontà
sarebbe «l'avvenimento» dei nostro destino.
Ma poiché ogni giorno ogni ora ogni minuto
tu metti nelle nostre mani tanto onore,
noi lo troviamo così naturale da esserne stanchi,
da esserne annoiati.
Tuttavia, se comprendessimo quanto inscrutabile è il tuo mistero,
noi rimarremmo stupefatti
di poter captare queste scintille del tuo volere
che sono i nostri microscopici doveri.
Noi saremmo abbagliati nel conoscere,
in questa tenebra immensa che ci avvolge,
le innumerevoli
precise
personali
luci delle tue volontà.
Il giorno che noi comprendessimo questo
andremmo nella vita come profeti,
come veggenti delle tue piccole provvidenze,
come mediatori dei tuoi interventi.
Nulla sarebbe mediocre, perché tutto sarebbe voluto da te.
Nulla sarebbe troppo pesante, perché tutto avrebbe radice in te.
Nulla sarebbe triste, perché tutto sarebbe voluto da te.
Nulla sarebbe tedioso, perché tutto sarebbe amore di te.
Noi siamo tutti dei predestinati all'estasi,
tutti chiamati a uscire dai nostri poveri programmi
per approdare, di ora in ora, ai tuoi piani.
Noi non siamo mai dei miserabili lasciati a far numero,
ma dei felici eletti,
chiamati a sapere ciò che vuoi fare,
chiamati a sapere ciò che attendi, istante per istante, da noi.
Persone che ti sono un poco necessarie,
persone i cui gesti ti mancherebbero,
se rifiutassero di farli.
Il gomitolo di cotone per rammendare, la lettera da scrivere,
il bambino da alzare, il marito da rasserenare,
la porta da aprire, il microfono da staccare,
l'emicrania da sopportare:
altrettanti trampolini per l'estasi,
altrettanti ponti per passare dalla nostra povertà,
dalla nostra cattiva volontà
alla riva serena dei tuo beneplacito.
abbandonovolontà di Diodisponibilitàumiltàprontezza
inviato da Qumran2, inserito il 29/10/2006
TESTO
Le due vie sono sempre esistite.
Sempre il Signore dirà agli uni: "A causa di me e del mio amore tu avrai una moglie, dei figli, una casa, dei beni da amministrare da parte mia nel mondo".
Sempre il Signore dirà agli altri:
"Tu non avrai che me e io sarò il tuo tutto".
Sempre il Signore dirà agli uni:
"Io so ciò che ti conviene, ti darò ogni giorno la tua pena il tuo pane quotidiano, perché dovunque tu sarai ci sia anche la mia croce".
Sempre il Signore dirà agli altri:
"Prendi la tua croce e seguimi".
Prendila con le tre braccia della povertà, dell'obbedienza e della castità.
Perché? Perché questo io voglio: che tu mi ami e che noi amiamo il mondo insieme.
La maggior parte di coloro ai quali Cristo tiene un tal discorso stanno sotto vesti scure, bianche o nere, discepoli d'un santo che fu attraverso il tempo compagno di strada del Signore.
Altri sono persone come voi e come me, persone affondate il più a fondo possibile nello spessore del mondo, separate da questo mondo da nessuna regola nessun voto nessun abito nessun convento.
Povere, ma simili alle persone d'ogni luogo. Pure, ma simili a persone di qualsiasi ambiente.
Obbedienti, ma simili a persone di qualsiasi paese.
Sono per tutto e per tutti: ne troverete che insegnano, che emanano leggi, che curano e consolano, che lavorano in officina.
Per essi un mondo vale l'altro e un'anima un'altra anima. Ma non tediateli con metodi e tecniche.
Non dite loro: "Qui è meglio aver l'aria un po' ricca: riuscirete meglio"; "Là è meglio sposarvi, sarete un apostolo migliore"; o ancora: "Sappiate ciò che volete, e mirateci".
Essi vi risponderanno:
"Non si possono seguire due strade. Ci date delle ricette che non fanno per noi".
Se noi siamo un po' malconci, se noi facciamo in questo mondo la figura degli accampati, è perché la nostra ricetta è di non possedere altro che il Signore. Se noi non abbiamo focolare, se a casa nostra né marito né moglie né figli ci attendono, è perché il Signore ci possiede e da Lui solo noi vogliamo essere posseduti.
Se noi non abbiamo programma è perché il nostro Padre del Cielo l'ha scritto prima per noi e ci basta ricevere i suoi ordini giorno per giorno.
Non dite loro che la croce è dannosa, un po' morbosa e un po' malsana, che il mondo ha bisogno di ritrovare il volto della gioia e non dei penitenti.
Vi risponderanno:
"Noi vi parleremo della gioia quando l'avremo imparata sulla croce dove ritroviamo il nostro amore.
La nostra gioia è d'un prezzo così esorbitante che è stato necessario per acquistarla vendere ciò che possedevamo e tutto noi stessi".
Quelli della prima chiamata, devono essere numerosi, perché il mondo è grande e il suo battesimo è lungo.
Ma quelli della seconda chiamata, bisogna che ve ne siano almeno alcuni per dare agli uomini, questi adulti fanciulli, l'edizione visiva della vita di Gesù:
Gesù, che è la "Missione" stessa.
missionevocazionelaicitàconsacrazionelaici
inviato da Cristina, inserito il 18/07/2006
TESTO
229. L'uccellino e il sole divino
S. Teresa di Lisieux, Storia di un'anima
Gesù, Gesù, se è tanto delizioso il desiderio di amarti, che sarà possederti, godere del tuo amore?
In qual modo può, un'anima imperfetta quanto la mia, aspirare a possedere la pienezza dell'Amore? Gesù, mio primo, mio solo Amico, tu che amo unicamente, dimmi, quale mistero è questo? Perché non riservi queste aspirazioni immense alle anime grandi, alle aquile che roteano altissime? Io mi considero come un uccellino debole, coperto di un po' di piuma lieve; non sono un'aquila, ho dell'aquila soltanto gli occhi e il cuore perché, nonostante la mia piccolezza estrema, oso fissare il Sole divino, il Sole dell'Amore, e il mio cuore prova tutte le aspirazioni dell'aquila... L'uccellino vorrebbe volare verso quel Sole che affascina gli occhi, vorrebbe imitare le aquile, sue sorelle che vede elevarsi fino alla divina dimora della santissima Trinità... Ahimé! Tutto quello che può fare, è sollevare le sue alucce, ma volar via, questo non è nelle sue piccole possibilità. Che ne sarà di lui? Morirà di dolore vedendosi così impotente? No! L'uccellino non se ne affliggerà nemmeno. Con un abbandono audace vuol fissare ancora il suo Sole divino: niente gli fa paura, né vento, né pioggia, e se le nuvole pesanti nascondono l'Astro d'amore, l'uccellino non cambia posto, sa che di là dalle nubi il Sole splende sempre, che la sua luce non si offuscherà nemmeno per un attimo.
In certi momenti il suo cuore si trova assalito dalla tempesta, gli pare che non esistano altre cose se non le nubi che lo circondano; e allora è il momento della gioia perfetta per il povero esserino debole. Che felicità per lui restare lì ugualmente, e fissare la luce invisibile la quale si nasconde alla sua fede! Gesù, fino da ora capisco il tuo amore per l'uccellino, perché non si allontana da te... Ma io lo so, e tu lo sai, spesso questo cosino minimo e imperfetto, pur rimanendo al suo posto (cioè sotto i raggi del Sole), si lascia distrarre un poco dalla sua occupazione unica, becca un granellino di qua o di là, corre dietro a un vermiciattolo... Poi, trovando una pozzanghera, si bagna le piume appena spuntate, vede un fiore che gli piace, allora la sua piccola testa si occupa di quel fiore... e poi, non potendo planare come le aquile, il povero uccellino s'interessa ancora alle piccolezze della terra. Tuttavia, dopo questi malestri, invece di andare a nascondersi in un angolino per piangere la sua miseria e morir di pentimento, l'uccellino si volge verso il Sole amato, presenta ai raggi benefici le alucce bagnate, geme come la rondine, e con un canto dolce racconta tutti i particolari della sua infedeltà, pensando nel suo abbandono temerario di acquistare così maggior diritto, attirare più pienamente l'amore di Colui che non è venuto a chiamare i giusti, bensì i peccatori.
Se l'Astro adorato rimane sordo al lamento cinguettato della sua creaturina, se rimane velato, ebbene, la creaturina resta bagnata, accetta di essere intirizzita di freddo, e si rallegra ancora di questa sofferenza che ha pur mentata... Gesù, com'è felice il tuo uccellino di essere debole e piccolo. Oh, che sarebbe di lui se fosse grande? Mai avrebbe l'audacia di comparire alla tua presenza, di sonnecchiare dinanzi a te... Si, ecco un'altra debolezza dell'uccellino: quando vuoi fissare il Sole divino e le nuvole gli impediscono di vedere anche un solo raggio, nonostante la sua buona volontà gli occhi gli si chiudono, la testolina si nasconde sotto l'ala, e il povero esserino si addormenta, credendo di fissar sempre il suo Astro amato. Quando si desta, non si cruccia; il suo cuoricino rimane in pace, ricomincia il suo ufficio d'amore, invoca gli Angeli e i Santi i quali s'innalzano come aquile verso il fuoco divorante oggetto della sua brama, e le aquile, impietosite, proteggono il fratellino, e mettono in fuga gli avvoltoi che vorrebbero divorarlo.
Gli avvoltoi, immagini dei demoni, l'uccellino non li teme, non è destinato a diventar la loro preda, bensì sarà preda dell'Aquila che egli contempla nel centro del Sole d'amore. O Verbo divino, tu sei l'Aquila adorata, io ti amo. Tu mi attiri, sei tu che, slanciandoti verso la terra dell'esilio, hai voluto soffrire e morire per attirare le anime fino al seno dell'intimità eterna della Santissima Trinità, sei tu che, risalendo verso la Luce inaccessibile ove soggiornerai sempre, resti pur sempre nella valle delle lacrime, nascosto entro l'aspetto di un'Ostia bianca... Aquila eterna, tu vuoi nutrire della tua sostanza divina me, povero esserino che rientrerei nel nulla se il tuo sguardo divino non mi desse la vita minuto per minuto. Oh, Gesù, lasciami dire, nell'eccesso della mia riconoscenza, lasciami dire che il tuo amore arriva fino alla follia... Come vuoi che, dinanzi a questa follia, il mio cuore non si slanci verso te? Come potrebbe aver limiti la mia fiducia? Per te, lo so, i Santi hanno fatto anch'essi delle follie, hanno fatto grandi cose perché erano aquile.
Gesù, sono troppo piccola per fare cose grandi, e la follia mia è sperare che il tuo Amore mi accolga come vittima! La mia follia consiste nel supplicare le aquile, sorelle mie, perché mi ottengano la grazia di volare verso il Sole dell'Amore con le ali stesse dell'Aquila divina... Così, per quanto tempo tu lo vorrai, o mio Amato, il tuo uccellino rimarrà senza forza e senza ali; terrà sempre fissi in te gli occhi; vuole essere affascinato dal tuo sguardo divino, vuol diventare preda del tuo Amore... Un giorno, oso sperare, Aquila adorata, verrai in cerca del tuo uccellino, e risalendo con lui al focolare dell'Amore, lo immergerai per l'eternità nell'abisso ardente di quell'Amore al quale egli si è offerto come vittima...
O Gesù, perché non posso dire a tutte le piccole anime quanto ineffabile è la tua condiscendenza... Sento che se, cosa impossibile, tu trovassi un'anima più debole, più piccola della mia, ti compiaceresti di colmarla con favori anche più grandi, se si abbandonasse con fiducia completa alla tua misericordia infinita. Ma perché desiderare di comunicare i tuoi segreti d'amore, Gesù, non sei tu solo che me li hai insegnati, e non puoi forse rivelarti ad altri? Sì, lo so, e ti scongiuro di farlo, ti supplico di abbassare il tuo sguardo divino sopra un gran numero di piccole anime... Ti supplico di scegliere una Legione di piccole vittime degne del tuo Amore....
abbandono in Diorapporto con Dio
inviato da Debora Cavallone, inserito il 14/07/2006
ESPERIENZA
230. Storia di una corsa incontro a Gesù
Questo testo è un estratto di una lettera di Lorenza F., moglie e madre di tre figli, scritta pochi mesi prima di tornare al Padre a causa di una grave malattia di cui era pienamente cosciente.
In settimana santa ho fatto un'esperienza molto forte meditando sugli ultimi giorni di Gesù: "Come sono lontana dalla mentalità del Padre - mi sono detta - devo guardare gli eventi, la storia con i suoi occhi; voglio vivere l'attimo presente dalla prospettiva del Padre". Anche se tra il dire e il fare..., improvvisamente l'andare o lo stare avevano un altro senso.
Con tale animo ad aprile è arrivata la diagnosi. Questa diagnosi non mi spaventa più di tanto in certi momenti, e non sono parole perché, pur tra alti e bassi, vivo in serenità. Il legame con Gesù si è fatto più stretto e dolce e mi sembra doveroso dire che fa tutto Lui e io vivo spesso nel Risorto. Tanto che mi sono anche trovata a ringraziare quella parte del mio corpo che sembra "maligna" e che invece è una porta per il cielo. Il momento è sacro per il distacco da tutto ciò che non è lui.
I medici la pensano ben diversamente: professionalmente sono senz'altro molto competenti, ma talvolta trasmettono ansia,... eppure sono sicura che lo fanno in buona fede.
Così mi sono trovata ad un bivio: da una parte la voce allarmata dei medici, lo smarrimento, il panico e, peggior cosa, la perdita della serenità; dall'altra una voce serena che mi dà la pace.
Per tanti anni, giorni, attimi, la mia volontà è stata interamente rivolta a cercare questa voce, riconoscerla, ascoltarla, non tradirla, e perciò mi chiedo perché adesso dovrebbe essere diverso.
"Non è forse questo quello che importa di più? Quello per cui posso ora ringraziare Dio di avere un certo allenamento?".
Andare dietro a questa voce mi dà serenità e determinazione: le stesse che ho già sperimentato tante volte, quando ci siamo sposati pur senza lavoro, quando abbiamo voluto Andrea con la casa che sembrava un cantiere, quando..., quando ho detto: "Sì, Sì, Sì" a situazioni incomprensibili agli altri.
Chi di noi non ha lasciato le certezze, anche a caro prezzo, per correre dietro a quella voce?
Da parte mia posso dire che dopo per me c'è sempre stata una misura buona, scossa, pigiata, traboccante. (...)
Gesù ci chiede sempre qualcosa di più, forse ha di noi una considerazione migliore di quella che abbiamo noi stessi. Tutto è importante, ma anche relativo a quello che stai vivendo e così oggi non ci siamo nemmeno strappati i capelli quando ci siamo accorti che ci hanno rubato la macchina, per fortuna quella vecchia...
L'incanto di questo periodo di sicuro non è farina del mio sacco. Quella presenza di Gesù che cerchiamo di costruire fra noi con l'amore reciproco è luce, potentissima; è pace, sconfinata, è vita, che scorre nelle vene e rinvigorisce; è relazione, con chiunque; è salute, dell'anima e del corpo; è discernimento, di ciò che è essenziale. E' tanto altro di cui sto godendo grazie a Pier e a tutte voi, per primi, e grazie a chissà quanti.
Gesù (in mezzo) mi fa già vivere quel miracolo che stiamo chiedendo. Conto tantissimo su di voi e voi potete contare su di me.
Lorenza F.
...e questo invece è il ricordo di Lorenza fatto da suo marito Pier Paolo durante la S. Messa di suffragio ad un anno dalla sua morte.
Prima di tutto vorrei ringraziarvi. Per essere venuti, ma soprattutto per tutte le preghiere che avete fatto per noi in quest'anno. Se quanto dirò dopo è vero, è anche grazie a queste.
E' già passato un anno. Il più grosso regalo che ci ha fatto la Lo in quest'anno, e penso di esprimere quello che pensano molti di noi qua, è stato quello non solo di essere presente, ma di farsi sentire presente.
Forse è per questo che la Tere, Fili e Andre non hanno difficoltà a parlare della mamma: perché lei c'è.
Io personalmente vorrei donarvi la cosa più bella che lui mi ha donato con la partenza della Lo: capire un po' di più, e comunque come non l'avevo mai capito, qual è la vita vera e qual è il senso del nostro stare quaggiù: pensando a lei, cercando (a volte con tutte le mie forze) di immaginarmi lei ora, ho capito di più il disegno di Dio su di me e, forse, su tutto ciò che mi sta intorno.
Il suo disegno su di me (su di noi) è quello di stare con lui e con lei per l'eternità, che non vuole solo dire dopo la morte ma già da adesso. Questo se in ogni momento cerco di capire cosa lui vuole che io faccia e cerco di farlo. Come diceva anche la Lo nella sua lettera:
"Non posso non considerare che sento una voce dentro che mi dà la pace; che per tanti anni, giorni, attimi, la mia volontà è stata interamente rivolta a cercare questa voce, riconoscerla, ascoltarla, non tradirla, e perciò mi chiedo perché adesso dovrebbe essere diverso. Non è forse questo quello che importa di più? Quello per cui posso ora ringraziare Dio di avere un certo allenamento?". Andare dietro a questa voce mi dà serenità e determinazione: le stesse che ho già sperimentato tante volte, quando ci siamo sposati pur senza lavoro, quando abbiamo voluto Andrea con la casa che sembrava un cantiere, quando..., quando ho detto:"Sì, Sì, Sì" a situazioni incomprensibili agli altri. Chi di noi non ha lasciato le certezze, anche a caro prezzo, per correre dietro a quella voce? Da parte mia posso dire che dopo per me c'è sempre stata una misura buona, scossa, pigiata, traboccante."
Quando non lo faccio, quando penso a me stesso, non la sento più vicina; e non è lei che se n'è andata, sono io.
Questo è quello che mi ha dato la forza, e continua a darmela, di non pensare con nostalgia a quante cose belle abbiamo fatto insieme, o a cosa potevamo fare e non abbiamo fatto.
Perché ho la certezza di avere ancora tanto tempo, tutta l'eternità, per fare cose infinitamente più belle insieme a lei, con tutti voi, e portare a compimento quello che, a questo punto, mi appare solo come il prologo di una storia bellissima e infinita.
Pier Paolo F.
crocedoloresofferenzarapporto con Diomalattiaparadisovita eterna
inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 18/06/2006
RACCONTO
Suor Angela Benedetta, clarissa
Nella valle incantata, in una fattoria felice, viveva un bue di nome Barny. Grande e grosso, con due occhi buoni e sinceri, lavorava tutto il giorno spingendo l'aratro. Questo bue era l'amico di tutta la fattoria: i contadini con i quali lavorava gli volevano un gran bene e i bambini non si stancavano mai di giocare con lui. Nonostante fosse così grande e grosso non faceva paura a nessuno, perché era l'animale più buono che potesse esserci. Alla sera quando tramontava il sole e si stendevano le prime ombre, tutti gli animali si radunavano intorno a lui per sentirlo narrare le sue tante storie. Appena finiva di raccontarne una, subito gli chiedevano: "Dai, dai, raccontane un'altra"; lui continuava fino al crepuscolo e allo spuntare delle prime stelle, poi diceva: "Ora andiamo a dormire, domani ci aspetta una lunga giornata di lavoro". Allora tutti gli animali andavano a dormire e nella fattoria scendeva un grande silenzio.
Il bue Barny era simpatico a tutti: alle pecore e alle oche, alle anatre e agli agnellini, alle mucche e ai maialini, alle galline e al vecchio cane da guardia, al padrone della fattoria e ai suoi bambini, ma il suo migliore amico era il piccolo asinello Tim con cui condivideva la stalla, la paglia e il duro lavoro. Quando arrivava la notte e si coricavano vicini, si guardavano a lungo senza dirsi nulla e poi si addormentavano, stanchi ma felici.
Il bue aveva un piccolo segreto nel cuore che conosceva solo l'asinello: gli piaceva danzare. Un giorno l'asinello gli disse: "Perché non ci provi, tanto non ci vede nessuno: ti prometto che questo segreto rimarrà in questa stalla". Tra veri amici anche i desideri più assurdi si possono realizzare e da quel giorno il bue incominciò ad improvvisare dei semplici balletti. L'asinello si divertiva tantissimo. Poi toccò a Tim realizzare il suo desiderio: a lui piaceva moltissimo cantare. E siccome tra amici anche i desideri più assurdi si possono realizzare, l'asinello, tutte le domeniche, inventava delle allegre canzoncine che mai nessuno aveva ascoltato all'infuori dell'amico bue.
Quei momenti, quegli scherzi, quelle risate erano tutta la vita e il divertimento dei due amici, che sapevano rendere grazie a Dio per ogni nuovo giorno loro donato. Appena sorgeva l'alba i due amici iniziavano il loro lavoro: il bue spingeva l'aratro e l'asinello trasportava la legna. Fino a sera non si vedevano più, ma non c'era istante della giornata in cui non sentivano l'uno la presenza e il sostegno dell'altro.
Tim era tutto per il bue Barny: fin dal giorno del suo arrivo nella fattoria gli era sempre stato accanto con il suo affetto e con la sua amicizia. Gli aveva insegnato le prime cose e si era preso cura di lui come un fratello, gli aveva fatto conoscere tutti gli animali della fattoria e l'aveva incoraggiato nei momenti di fatica. Anche Barny, sin dall'inizio, aveva ricambiato l'affetto per l'asino Tim e con il passare degli anni erano divenuti sempre più uniti, quasi una cosa sola. Quante difficoltà, quante sofferenze, ma il calore della loro amicizia aveva reso tutto più leggero, più bello.
Una sera, mentre tutti gli animali erano riuniti intorno al bue per ascoltare le sue storie, l'anatra chiese al bue: "Perché non ci racconti la tua storia, la storia della tua famiglia?". Il bue per un attimo esitò, ma poi iniziò il suo racconto.
"In verità non ho molto da dire", disse il bue, inizialmente un po' imbarazzato dall'argomento. "Nella fattoria dove sono nato eravamo tanti vitellini: gli altri sono stati scelti per diventare dei tori e io invece per essere un bue e fare lavori pesanti. Poiché nella mia fattoria non serviva un trasportatore di aratro sono stato venduto e sono finito qui. Io sono molto contento, sapete, non mi lamento, ma ringrazio ogni giorno il buon Dio di essere utile per il duro lavoro della terra e di alleviare il peso dei contadini. Ma i miei fratelli, ahimé, si vergognano di avere un fratello bue, loro, così famosi in tutto il mondo: partecipano alle più importanti corride, gareggiano con i toreri più famosi, figurano su tutti i quotidiani e per questo mi disprezzano. Ma io non li invidio affatto, io non vorrei essere come loro: non fanno altro che fomentare la violenza e l'odio delle persone che assistono alle loro gare, nelle quali, pensate un po', anche morire fa parte dello spettacolo".
Il bue concluse così il suo racconto. Gli animali erano ammutoliti e nessuno osava più domandare nulla. L'asinello prese la parola rompendo il grande silenzio che aveva seguito il racconto del bue e disse: "Anch'io ho dei cugini molto famosi: sono cavalli da corsa. Partecipano alle gare e la gente scommette fior di quattrini sulle loro vittorie. Si vergognano di avere un lontano parente asino e si vantano di avere avuto antenati che hanno portato sulla loro groppa i più coraggiosi cavalieri partecipando alle più cruenti guerre. Sì, io sono un asino da soma e perciò disprezzato, ma non ho mai fatto guerra a nessuno". "Bravo! Giusto!", incominciarono a commentare gli animali, infervorati dal racconto dell'asinello.
Ormai era notte inoltrata quando gli animali della fattoria sciolsero la seduta. Incominciava a far freddo poiché l'autunno stava per fini e l'inverno era alle porte.
Il giorno successivo iniziò con un gran trambusto nella fattoria. Alle prime luci dell'alba era infatti giunto nella valle incantata un gran numero di persone. C'erano il parroco del paese, le autorità e personalità molto importanti. "Chissà chi cercano", iniziarono a chiedersi curiosi gli animali.
Ben presto tutti iniziarono a fare castelli in aria. "Sicuramente cercano me - disse la mucca con presunzione - avranno bisogno del mio latte". "No! - ribatté l'anatra - è me che cercano: avranno bisogno della mia carne pregiata per un pranzo succulento". "No! - interruppe il maiale - il Natale si avvicina e certamente staranno cercando me per il cenone con il gustoso cotechino". "Siete tutti in errore - dissero le galline - certamente è delle nostre uova che avranno bisogno".
Barny e Tim ascoltarono un po' divertiti le dispute dei loro amici, poi si avviarono ad iniziare il loro lavoro, alquanto indifferenti alla questione: di sicuro non era loro due che cercavano. Mentre camminavano, all'improvviso si sentirono chiamare. "Barny, Tim venite qui - gridò il padrone della fattoria - vi stanno cercando". I due amici non credevano alle loro orecchie. Tim avanzò un po' timoroso e Barny lo seguì, restando leggermente indietro. Quando giunsero davanti a tutta quella folla di persone, l'enigma fu presto risolto. "Stiamo preparando per la prima volta un presepe vivente nel nostro paese", disse il parroco sorridendo ai due buffi amici. "E' un evento importante - continuò il sindaco - verrà la gente anche dai paesi vicini per poter rivivere dal vero la nascita del nostro Salvatore". Barny e Tim guardavano i due interlocutori un po' stupiti: cosa c'entravano loro in tutto questo discorso? "Voi saprete che il Bimbo divino fu scaldato nella gelida notte da un bue e un asinello - disse il parroco, concludendo il discorso - abbiamo bisogno di voi per preparare la grotta di Betlemme. Accettate il nostro invito?". "Noi?" disse Tim, talmente stupito da non riuscire quasi a reggersi in piedi, "Accettiamo con gioia immensa - disse Barny - è un dono senza misura poter scaldare Gesù Bambino".
Così nella fattoria iniziarono i preparativi per il grande evento. Tutti gli animali si sentivano onorati della parte assegnata a Tim e Barny e per questo venne loro l'idea di formare una piccola banda musicale per accompagnare il bue e l'asinello in paese la notte di Natale. Le oche suonavano la tromba, le galline i tamburi, i maiali la grancassa, le pecore i piatti, le mucche il trombone e il grosso cane da guardia era nientepopodimeno che il direttore d'orchestra. Intanto anche i bambini iniziarono ad ornare la fattoria con gli addobbi natalizi e tutto si colorò di attesa e di festa, Non c'era sera in cui, dopo il lavoro, gli animali non si riunissero per suonare i brani natalizi, preparati ed eseguiti dalla loro banda, mentre il bue e l'asinello provavano la loro parte nell'immaginaria grotta di Betlemme.
Passarono i giorni e presto giunse il momento tanto atteso: la vigilia di Natale. Gli animali non stavano più nella pelle dalla gioia. Poche ore prima della mezzanotte tutti gli amici si predisposero per scendere in paese suonando. Al cenno del cane da guardia la banda attaccò: prima le oche intonarono con le trombette le dolci melodie, accompagnate dai tromboni; si unirono ad essi i piatti e i tamburi che intervallavano la musica con dei bei ritmi. Ultimi seguivano la banda Tim e Barny, gli ospiti d'onore. E così, passo dopo passo, la processione arrivò in paese. Gli abitanti, usciti dalle case per attendere la nascita di Gesù, non credevano ai loro occhi: mai si era visto uno spettacolo così bello. Finito di suonare, gli animali fecero venire avanti Tim e Barny che presero posto nella grotta.
Eccoli dunque pronti per il fatidico momento. Allo scoccare della mezzanotte, iniziarono a suonare le campane: Gesù era nato. Mentre tutti cantavano "Gloria a Dio su nel cielo e pace in terra agli uomini di buona volontà", il sacerdote pose il bimbo di gesso nella grotta e i due amici commossi si chinarono per scaldarlo con il loro fiato, come era stato loro detto. Ma all'improvviso, il piccolo bimbo di gesso si animò, aprì gli occhi e guardando il bue e l'asinello disse: "Non è il calore del vostro fiato a scaldarmi in questa gelida notte, ma l'amore che regna tra voi, l'amore della vostra amicizia. Tutte le volte che continuerete a volervi bene, così come avete sempre fatto, io sarò tra voi, come in questa notte".
Questione di pochi attimi e il bimbo ritornò immobile, di gesso. La funzione finì e Barny e Tim ritornarono nella loro fattoria.
Era stato un sogno, uno scherzo della loro fantasia, o davvero un miracolo di Gesù Bambino? E chi lo sa! I due amici non raccontarono mai a nessuno l'episodio, che tennero conservato nel loro cuore fino alla morte. Ma nei loro occhi, da quella notte, ci fu una luce nuova che non passò inosservata agli amici della fattoria: la certezza che quel loro piccolo amore e quella loro semplice amicizia, era qualcosa di grande agli occhi di Dio.
inviato da Marcello, inserito il 23/05/2006
PREGHIERA
232. Preghiera di lode e di ringraziamento per la fine dell'anno
Ai tuoi occhi, Signore, mille anni
Sono come il giorno che è passato,
come un turno di veglia nella notte.
Ancora informi ci hanno visto i tuoi occhi
e tutto era scritto nel tuo libro;
i nostri giorni erano fissati,
quando ancora non ne esisteva uno.
Gli anni della nostra vita sono settanta,
ottanta per i più robusti,
passano presto e noi ci dileguiamo.
Si dissolvono in fumo i nostri giorni,
sono come ombra che declina
e come l'erba inaridiscono.
Ma tu, Signore, rimani in eterno,
il tuo ricordo per ogni generazione.
Tua, Signore, è la grandezza, la potenza,
la gloria, la maestà e lo splendore,
perché tutto, nei cieli e sulla terra, è tuo...
Ti t'innalzi sovrano su ogni cosa...
Tu domini tutto;
nella tua mano c'è forza e potenza.
Prima che nascessero i monti
E la terra e il mondo fossero generati,
da sempre e per sempre tu sei, Dio...
Si parlerà del Signore
Alla generazione che viene;
annunzieremo la tua giustizia;
al popolo che nascerà diremo:
Ecco l'opera del Signore!
Del Signore è la terra e quanto contiene,
l'universo e i suoi abitanti.
E' lui che l'ha fondata sui mari,
e sui fiumi l'ha stabilita.
A te si prostri tutta la terra,
a te canti inni, canti al tuo nome.
Insegnaci a contare i nostri giorni
e giungeremo alla sapienza del cuore.
E' meglio rifugiarsi nel Signore
che confidare nell'uomo.
E' meglio rifugiarsi nel Signore
Che confidare nei potenti.
Signore, il tuo nome è per sempre.
Signore, il tuo ricordo per ogni generazione.
Composta da versetti di vari salmi che ben esprimono il desiderio del cuore nell'azione di grazie e di lode dovute al Signore del tempo e della storia. Dio per farsi lodare ci pone sulla bocca le sue stesse parole: un'intuizione felice di S. Agostino nel sottolineare la duttilità e la "vicinanza" del salterio al bisogno di preghiera nascosto nel cuore di ogni uomo.
inviato da Don Tommaso Cuciniello, inserito il 03/05/2006
RACCONTO
Bruno Ferrero, Novena di Natale per i bambini, LDC
Forse non tutti sanno che un tempo, quando non esistevano i computer, tutto il sapere del mondo era concentrato nella mente di sette persone sparse nel mondo: i famosi Sette Savi, i sette sapienti che conoscevano i come, i quando, i perché, i dove di ogni cosa che accadeva. Erano talmente importanti che erano considerati dalla gente dei re, anche se non lo erano; per questo erano chiamati Re Magi.
Nell'anno O, studiando le loro pergamene segrete, tutti e sette i Magi giunsero ad una strabiliante conclusione: proprio in una notte di quell'anno sarebbe apparsa una straordinaria stella che li avrebbe guidati alla culla dei Re dei re. Da quel momento passarono ogni notte a scrutare il cielo e a fare preparativi, finché davvero una notte nel cielo apparve una stella luminosissima; i Sette Savi partirono dai sette angoli del mondo dove si vivevano e si misero a seguire la stella che indicava loro la strada. Tutto quello che dovevano fare era non perderla mai di vista.
Ognuno dei sette Magi, tenendo gli occhi fissi sulla stella, che poteva vedere giorno e notte, cavalcava per raggiungere il Monte delle Vittorie, dove era stabilito che i sette savi dovevano incontrarsi per formare una sola carovana.
Olaf, re Mago della Terra dei Fiordi, attraversò le catene dei monti di ghiaccio e arrivò presto in una valle verde, dove gli alberi erano carichi di frutti squisiti e il clima dolce e riposante; il mago vi si trovò così bene che decise di costruirsi un castello. Così, ben presto, si scordò della stella.
Igor, re Mago del Paese dei Fiumi, era un giovane forte e coraggioso, abile con la spada e molto generoso. Attraversando il regno del re Rosso, un sovrano crudele e malvagio, decise di riportare la pace e la giustizia per quel popolo maltrattato; così divenne il difensore dei poveri e degli oppressi, perse di vista la stella e non la cercò più.
Yen Hui era il re Mago del Celeste Impero, era uno scienziato e un filosofo, appassionato di scacchi. Un giorno arrivò in una splendida città dove uno studioso teneva una conferenza sulle origini delll'universo; Yen Hui non riuscì a resistere, lo sfidò ad un dibattito pubblico, si confrontarono su tutti i campi del sapere e per ultimo iniziarono una memorabile partita a scacchi che durò una settimana. Quando si ricordò della stella era troppo tardi: non riuscì più a trovarla.
Lionel era un re Mago poeta e musicista, che veniva dalle terre dell'Ovest e viaggiava solo con strumenti musicali. Una sera fu ospitato per la notte da un ricco signore di un pacifico villaggio. Durante il banchetto in suo onore, la figlia del signore danzò e cantò per gli invitati e Lionel se ne innamorò perdutamente; così finì per pensare solo a lei e nel suo cielo la stella miracolosa scomparve piano piano.
Solo Melchior, re dei Persiani, Balthasar, re degli Arabi e Gaspar, re degli Indi, abituati alla fatica e ai sacrifici, non diedero mai riposo ai loro occhi, per non rischiare di perdere di vista la stella che segnava il cammino, certi che essa li avrebbe guidati alla culla del Bambino, venuto sulla terra a portare pace e amore. Così ognuno di loro arrivò puntuale all'appuntamento al Monte delle Vittorie, si unì ai compagni e insieme ripresero la loro marcia verso Betlemme, guidati dalla stella cometa, più luminosa che mai.
Soltanto i Magi che hanno davvero vigilato non hanno perso l'appuntamento più importante della loro vita. Ogni cristiano, come una sentinella, deve stare all'erta e non lasciarsi prendere dalla pigrizia o dal torpore, perché il Signore ci aspetta alla sua culla.
perseveranzapazienzavigilanzaNatalere magiepifania
inviato da Silvia Ongaro, inserito il 03/05/2006
TESTO
234. Cosa la Chiesa può sopportare e cosa non può sopportare 1
Primo Mazzolari, Risposta ad un aviatore, 1941, ora in La chiesa, il fascismo, la guerra, Vallecchi, Firenze 1966
Chi capisce come dev'essere presente la Chiesa in questa svolta della storia capisce anche ciò che la sua carità può sopportare e ciò che non può sopportare proprio in nome della stessa carità. Ripeto: in nome della carità, poiché la rivoluzione cristiana, l'unica che può essere giustificata anche davanti alla storia, più che da diritti conculcati o offesi nasce da doveri suggeriti e imposti al nostro cuore dalla carità che ci lega al nostro prossimo. Chi più ama è potenzialmente l'unico e vero rivoluzionario.
La Chiesa sopporta:
- il male che le fanno i suoi nemici, che, per quanto si allontanino e la rinneghino, portano sempre l'incancellabile volto di figli, e di figli tanto più cari quanto più cresce il loro perdimento;
- di essere spogliata di ogni bene materiale e di ogni privilegio concessole più o meno disinteressatamente dagli uomini;
- di vedere le sue basiliche e le sue chiese distrutte, chiusi i suoi conventi e le sue scuole, poiché è già "l'ora che né in Gerusalemme né su questo monte i veri adoratori adorano il Padre in spirito e in verità";
- le persecuzioni aperte e subdole, le calunnie e le blandizie, i vituperi e i panegirici menzogneri;
- gli erranti e in un certo senso perfino l'errore quando esso non può venire colpito senza offesa mortale all'anima dell'errante;
- di essere misconosciuta nella sua carità, colmata di obbrobrio per colpe non sue;
- il disonore che le viene dalla vita indegna dei suoi figlioli stessi, i loro rinnegamenti e i loro tradimenti;
- d'essere baciata da un Giuda, rinnegata da un Pietro.
La Chiesa non può sopportare:
- che vengano negate o diminuite o falsate le verità che essa ha il dovere di custodire e che costituiscono il patrimonio dell'umanità redenta;
- che sia cancellato dalla storia e dal cuore il senso della giustizia che è il patrimonio di tutti, ma in modo particolare dei poveri;
- la libertà e la dignità della persona e della coscienza, che sono il nostro divino respiro. Mentre sopporta senza aprir bocca di essere spogliata e tiranneggiata in qualsiasi modo, non può sopportare che vengano spogliati, conculcati, manomessi i diritti dei poveri e dei deboli, individui, città, nazioni e popoli, cristiani e non cristiani. E nella sua difesa materna e invitta è tanto più grande quanto più la sua tutela si estende alla plebs infedele, egualmente santa. Alcuni gesti di munifica protezione di Pio XII, in favore di ebrei perseguitati, hanno commosso e sollevato l'ammirazione del mondo;
- il potente che abusa della propria forza per opprimere i deboli;
- il sapiente che abusa della propria intelligenza per circuire e trarre in inganno l'ignorante;
- il ricco che abusa delle proprie ricchezze per angariare e affamare il popolo.
Vi sono quindi dei limiti nella sopportazione della Chiesa, e questi limiti vengono non dai raffreddamenti ma dai colmi della sua carità. Ciò che è abominevole per il Signore lo è pure per la sua Chiesa; la quale, senza parteggiare, non può trattare alla stessa stregua la vittima e il carnefice, l'oppressore e l'oppresso.
Chi fermerebbe la mano del malvagio, chi solleverebbe il cuore abbandonato dell'oppresso se un'egual voce raccogliesse il grido dell'uno e il gemito dell'altro?
Sarebbe un delitto il pensare, per il fatto che la Chiesa predica la pazienza ed esalta l'infinito valore del dolore, specialmente del dolore innocente, ch'essa accettasse le tristezze dei prepotenti come un mezzo provvidenziale per moltiplicare i meriti sovrannaturali dei buoni. Purtroppo il nostro linguaggio ascetico, sprovveduto di ampiezza e d'audacia mistica, può indurre un profano in apprezzamenti non solo sproporzionati ma contrari al buon senso.
La sofferenza ben sopportata mi redime e redime, ma non fa diventar buona l'ingiustizia di chi ha pesato su di me. E una bontà conseguente, che non ha nulla da spartire con la causa ingiusta che ha generato la mia sofferenza. Soffrendo bene l'ingiustizia, creo una corrente di bontà: ma non per questo gli uomini sono dispensati dal fermare con tutte le forze la sorgente di male che continua a generare l'errore.
Perché c'è uno che espia in modo edificante, io non sono scusato di lasciar fare e di lasciar passare. Il soffrire non è un bene in sé e se il Signore ci aiuta a cavare il bene dal male non vuole che noi chiamiamo bene il male, il quale va tolto di mezzo nei limiti della nostra responsabilità e della nostra carità. Il perdono stesso delle offese va all'uomo, non all'azione di lui, la quale rimane giudicata anche dopo il perdono, anzi giudicata veramente e irrevocabilmente solo dopo il perdono.
chiesagiustiziaingiustiziabenemaleredenzioneespiazione
inviato da Carlo Maria Cananzi, inserito il 03/05/2006
TESTO
Paolo VI, dall'omelia per il Giovedì Santo, 11 aprile 1974
Dove siamo? perché siamo qui riuniti? che cosa stiamo facendo? La celebrazione di questo rito esige da noi un momento d'intensa concentrazione.
È pur vero: essa non è in sostanza che una Santa Messa, quale noi celebriamo ogni giorno e moltiplichiamo in tanti luoghi diversi. Ma oggi questo rito vuole assumere il suo pieno e originario significato. Esso vuole ricordare, anzi rinnovare le sue ragioni costitutive, e acquista per noi, in ogni suo aspetto, un rilievo particolare; noi vogliamo onorare la sua misteriosa e complessa realtà; la sua origine, ch'è l'ultima Cena del Signore; la sua natura, ch'è il sacrificio eucaristico; i suoi rapporti con la Pasqua giudaica, memoriale della liberazione del popolo ebraico dalla schiavitù e poi segno della promessa messianica circa i futuri destini di quel popolo; il suo aspetto innovatore, ch'è l'inaugurazione d'un nuovo Testamento, d'una nuova alleanza, cioè d'un nuovo piano religioso, eminentemente più elevato e più perfetto, fra Dio e l'umanità, mediante il sacrificio d'una vittima unica e nuova, Gesù Cristo stesso.
Noi siamo collocati all'incrocio delle grandi linee traiettorie dei destini storici, profetici e spirituali dell'umanità: qui si conclude l'Antico Testamento; qui si inaugura il Nuovo; qui l'incontro con Cristo, da evangelico e particolare, si fa sacramentale e universalmente accessibile, qui la intenzione fondamentale della sua presenza nel mondo, con la celebrazione dei due misteri essenziali della sua vita nel tempo e sulla terra, l'Incarnazione e la Redenzione, si svela in gesti ed in parole indimenticabili: «Sapendo Gesù, dice infatti il Vangelo, che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine» (Giovanni 13, 1), cioè fino all'estremo limite, fino al dono supremo di Sé.
Questo è il tema sul quale ora dobbiamo fissare la nostra attenzione. Non ne saremo veramente capaci, come non sono capaci i nostri occhi di sostenere lo sguardo diretto della luce del sole. Ma non dovranno questi nostri occhi umani e fedeli stancarsi di contemplare ciò che il misterioso fulgore dell'ultima Cena fa risplendere davanti a noi: i gesti dell'amore che si offre e si dà, e che assumono l'aspetto e la dimensione d'un amore assoluto, divino; l'amore che si esprime nel sacrificio.
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inviato da Luca, inserito il 01/05/2006
RACCONTO
C'erano una volta, e ci sono ancora, tre sorelle. La prima stava sempre in chiesa a pregare. Per tutti. Perché, diceva, le preghiere non sono mai abbastanza. In parrocchia era onnipresente; lei curava il catechismo e l'animazione liturgica. Se avesse potuto, forse avrebbe anche celebrato. Sapeva trasmettere agli altri la sua incrollabile fiducia in Dio e nella sua bontà. Non era mai triste o preoccupata. Sapeva che Lui avrebbe aggiustato ogni cosa.
La seconda invece era sempre in movimento. Aiutava gli altri, instancabile. Dovunque qualcuno soffriva lei era sempre lì per soccorrerlo. Aveva imparato a curare molte malattie. Ma spesso era la sua sola presenza operosa a guarire. Anche lei andava in chiesa, ma si fermava solo per poco. C'era tanto da fare e non voleva sottrarre tempo ai suoi poveri. Sentiva che quello era il suo modo per glorificare Dio, ponendosi al servizio delle creature più bisognose. E poi, comunque c'era sempre sua sorella a pregare per tutti.
La più piccola si chiamava Speranza. A volte si fermava con Fede a pregare, altre volte aiutava Carità nel suo giro. Ma spesso era triste e, di nascosto, piangeva. Le sue sorelle servivano continuamente Dio. L'una con le preghiere, l'altra con le opere. Lei invece si sentiva inutile. Non aveva un ruolo preciso e credeva di non poter amare come loro.
Quel giorno davanti al portone della chiesa era seduto un uomo che piangeva, disperato. Passò Fede e cercò di consolare la sua pena parlandogli della bontà divina. L'uomo entrò in chiesa e pregò a lungo insieme a lei. Ne usci rincuorato, ma in fondo al suo cuore la sua pena non era svanita.
Non aveva più niente, nessuno da amare. Si sentiva inutile. Camminò a lungo, senza una meta, chiedendo a Dio di guidare i suoi stanchi passi, di mostrargli lo scopo della sua vita. Cadde stremato dalla fatica e dalla fame.
Passò Carità e lo raccolse, offrendogli un pasto caldo ed un posto per dormire. Si addormentò subito, finalmente su un letto vero. In sogno vide un sentiero ripido, tortuoso che portava verso la cima di un monte. Non riusciva a vederla, ma sentiva che emanava una forte luce, come se il sole si fosse divertito a nascondersi dietro al monte. Tanti cercavano di percorrere il sentiero, ma solo pochi si spingevano fino alla cima. Alcuni si fermavano a metà strada, incerti se proseguire. Erano pieni di lividi per le tante cadute e spesso, sconsolati, si volgevano indietro.
Ai piedi del monte c'era Fede che indicava la cima ad alcune persone assorte in preghiera. Chiedevano la forza per salire. L'uomo comprese chi c'era su quel monte. Era seduto sul bordo della strada, chiedendosi se continuare quella scalata apparentemente impossibile. Attorno a lui c'era tanta gente che piangeva e si lamentava. Alcuni erano a terra, ormai esausti, pieni di lividi, incapaci di proseguire il cammino. E Carità era accanto a loro per curare le loro membra stanche.
L'uomo si guardò intorno. Sul sentiero adesso c'era solo un vecchio barcollante, incapace di stare in piedi. C'era anche una bambina che cercava di sorreggerlo, di aiutarlo. Piangeva perché il peso era troppo grande per lei. Il suo compito era portarlo fino in cima. Si disperava, impotente. L'uomo vide il suo sforzo sovrumano e provò ammirazione per quella bimba così testarda. Istintivamente si alzò e corse per aiutarla. Afferrò il vecchio sottobraccio e subito i suoi muscoli si gonfiarono per lo sforzo. Sembrava troppo pesante anche per lui, ma non si arrese. Per la prima volta nella sua vita era felice di poter essere utile a qualcuno. Riprovò a spingere, aiutato dalla piccola, e finalmente il vecchio si mosse. Lentamente cominciarono a salire. Passo dopo passo il peso sembrava diminuire. Quando raggiunsero la cima, l'uomo ormai esausto, si pose a sedere.
Il vecchio si voltò verso di lui, come per ringraziarlo. Aveva il suo stesso volto, consumato dagli anni e dalla disperazione. L'uomo provò un brivido di terrore, vedendosi come in uno specchio distorto. Comprese subito l'arcano messaggio. Quel peso immane era la sua vita senza senso, i suoi peccati.
La bambina gli fece un cenno e scese di nuovo. La seguì; non era più stanco.
Al mattino la piccola Speranza svegliò l'uomo col suo dolce sorriso. Lui la riconobbe subito e la prese per mano. Anche lei aveva fatto quel sogno. Non si sentiva più inutile. Aveva capito. Le sue sorelle indicavano la meta, aiutando chi si perdeva per strada. Ma solo lei poteva salire. Insieme, mano nella mano, andarono a cercare il senso delle loro vite. Ai piedi del monte c'era tanta gente che aspettava e solo lei, solo loro potevano aiutarli ad arrivare in cima. E loro sapevano chi c'era su quel monte.
inviato da Gianni Capotorto, inserito il 01/05/2006
ESPERIENZA
237. Celina: una madre che si è scoperta mamma.
Celina è piccola, ma dall'alto del suo metro e sessanta, sa farsi sentire. Dalle 11.30 alle 13.00 passa quasi ogni dieci minuti alla Casa. A volte per chiedere un sacchetto di the, o per vedere cosa cuciniamo, per aiutarci a tagliare e a mangiare i pomodori.
Celina, la si trova più sovente al Punto Cuore che a casa sua. Il suo compagno o sua madre vengono sempre a cercarla da noi. Anche i suoi quattro monelli: Christian il maggiore, che ha compiuto sette anni, Janet ne ha cinque, Nazareno tre, e la piccola, cioè l'ultima Emiliana ha poco più di un anno. Per quanto riguarda il quinto, Celina è al suo sesto mese di gravidanza e l'impegno per noi è di sostenerla, ma per lei corrisponde a pomodori e cioccolato.
Celina vive in una catapecchia composta da una sola stanza, senza doccia né gabinetto; lì vive da cinque anni, con Carlos, che è cartonero. Entrambi soffrono per dipendenza dalla droga e dall'alcool. Celina riceveva degli uomini a casa per potersi procurare la polvere, delle pastiglie o delle bottiglie che l'aiutavano a dimenticare la monotonia, il sudiciume, e le difficoltà quatidiane.
Fino a quel momento noi vivevamo in grande amicizia con suo figlio, Christian, che passava le sue giornate al Punto-Cuore. Celina vedeva che noi volevamo bene a suo figlio senza comprenderne il motivo poiché a lei rendeva la vita impossibile.
Celina ha cominciato ad essere gelosa di quell'amore che notava, tra Esther e suo figlio. Aiutata da Jacinthe, ha compreso che aveva diritto anche lei a quell'amore. Un amore senza calcolo, che ricomincia ogni giorno. Un amore presente anche quando si è ubriachi o quando non sei riuscita ad alzarti al mattino. Che tu sia bella o sporca.
Tutto ha barcollato nella vita di Celina dal momento che ha capito che noi le vogliamo bene così com'è. Tale e quale è davvero. Senza aspettarci nulla in cambio. Allora, un giorno, quando passeggiava con Jacinthe, un uomo del quartiere l'apostrofò con il nome del suo mestiere. E Jacinthe gli rispose per le rime dicendo: "No, non è ciò che tu dici, né ciò che fa. Lei è una mia amica, lei è Celina". "Ma come? sono la tua amica? Io non sono quello che lui dice?".
Poi venne il giorno in cui la sua vita così agitata la portò all'ospedale. La miscela di pastiglie e vino avevano provocato i loro danni. Operata d'urgenza. Il medico fu chiaro: "A ventiquattro anni, tu hai più di quaranta calcoli tra la cistifellea e il rene. Non durerai a lungo se continui a drogarti e a bere in quel modo". Ci davamo il cambio al suo capezzale, con sua madre e sua sorella, ed ero presente quando si è svegliata dall'operazione. Così tu Celina hai finalmente capito che qualcuno ti voleva bene. Forse, né tua sorella né tua madre non te lo avevano mai detto. Ma là, accanto a te, esse te lo hanno fatto capire.
Oggi Celina conduce i suoi tre piccoli a scuola. Si alza per dare loro il bagno e per prepararli, li porta alla mensa. Alla nascita dell'ultimo, Celina è nata alla sua dignità di donna e alla sua vocazione di madre.
Poco alla volta, si è scoperta capace e felice di fare la mamma. Per amare, bisogna essere stati amati. Celina, per la prima volta in tutte le sue gravidanze, ha accettato di andare da un medico per preparare la nuova nascita.
Grazie Celina, per essere nata all'amore e di farlo nascere in noi. Grazie per la tua fiducia.
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inviato da Luca, inserito il 19/04/2006
TESTO
Allora un uomo ricco disse: Parlaci del Dare.
E lui rispose:
Date poca cosa se date le vostre ricchezze.
E' quando date voi stessi che date veramente.
Che cosa sono le vostre ricchezze se non ciò che custodite e nascondete nel timore del domani?
E domani, che cosa porterà il domani al cane troppo previdente che sotterra l'osso nella sabbia senza traccia, mentre segue i pellegrini alla città santa?
E che cos'è la paura del bisogno se non bisogno esso stesso?
Non è forse sete insaziabile il terrore della sete quando il pozzo è colmo?
Vi sono quelli che danno poco del molto che possiedono, e per avere riconoscimento, e questo segreto desiderio contamina il loro dono.
E vi sono quelli che danno tutto il poco che hanno.
Essi hanno fede nella vita e nella sua munificenza, e la loro borsa non è mai vuota.
Vi sono quelli che danno con gioia e questa è la loro ricompensa.
Vi sono quelli che danno con rimpianto e questo rimpianto è il loro sacramento.
E vi sono quelli che danno senza rimpianto né gioia e senza curarsi del merito.
Essi sono come il mirto che laggiù nella valle effonde nell'aria la sua fragranza.
Attraverso le loro mani Dio parla, e attraverso i loro occhi sorride alla terra.
E' bene dare quando ci chiedono, ma meglio è comprendere e dare quando niente ci viene chiesto.
Per chi è generoso, cercare il povero è gioia più grande che dare.
E quale ricchezza vorreste serbare?
Tutto quanto possedete un giorno sarà dato.
Perciò date adesso, affinché la stagione dei doni possa essere vostra e non dei vostri eredi.
Spesso dite: "Vorrei dare ma solo ai meritevoli".
Le piante del vostro frutteto non si esprimono così né le greggi del vostro pascolo.
Esse danno per vivere, perché serbare è perire.
Chi è degno di ricevere i giorni e le notti, è certo degno di ricevere ogni cosa da voi.
Chi merita di bere all'oceano della vita, può riempire la sua coppa al vostro piccolo ruscello.
E quale merito sarà grande quanto la fiducia, il coraggio, anzi la carità che sta nel ricevere?
E chi siete voi perché gli uomini vi mostrino il cuore, e tolgano il velo al proprio orgoglio così che possiate vedere il loro nudo valore e la loro imperturbata fierezza?
Siate prima voi stessi degni di essere colui che dà e allo stesso tempo uno strumento del dare.
Poiché in verità è la vita che dà alla vita, mentre voi, che vi stimate donatori, non siete che testimoni.
E voi che ricevete - e tutti ricevete - non permettete che il peso della gratitudine imponga un giogo a voi e a chi vi ha dato.
Piuttosto i suoi doni siano le ali su cui volerete insieme.
Poiché preoccuparsi troppo del debito è dubitare della sua generosità che ha come madre la terra feconda, e Dio come padre.
daregenerositàgratuitàriconoscenza
inviato da Daniela Antonini, inserito il 25/02/2006
PREGHIERA
239. A proposito della pace...
Anno 2000
tempo di paura o primavera d'amore?
Atomo:
trionfo della libertà o patibolo dell'umanità?
Signore, aiutaci!
Detentori ormai di una particella della tua potenza,
eccoci davanti a Te,
deboli, fragili, più poveri che mai,
vergognosi delle nostre coscienze rattoppate e dei nostri cuori a brandelli.
Signore, abbi pietà di noi!
Noi abbiamo costruito chiese,
ma la nostra è una guerra senza fine;
noi abbiamo costruito ospedali,
ma noi, per i nostri fratelli, abbiamo accettato la fame.
Perdono, Signore,
per la natura calpestata, per le foreste assassinate, per i fiumi inquinati...
Perdono per la bomba atomica, il lavoro a catena,
la macchina che divora l'uomo e le bestemmie contro l'Amore.
Noi sappiamo che Tu ci ami,
e che a questo amore noi dobbiamo la vita.
Strappaci dall'asfissia dei cuori e dei corpi.
Che i nostri giorni non siano più deturpati dall'invidia e dall'ingratitudine,
dalle terribili schiavitù del potere.
Donaci la felicità di amare il nostro dovere.
Nel mondo mancano milioni di medici: ispira i tuoi figli a curare;
nel mondo mancano milioni di maestri: ispira i tuoi figli a insegnare;
la fame tormenta i tre quarti della terra: ispira i tuoi figli a seminare;
da cent'anni gli uomini hanno fatto quasi cento guerre: insegna ai tuoi figli ad amarsi.
Perché, Signore,
non vi è amore senza il tuo Amore.
Fa' che ogni giorno, e per tutta la vita,
nella gioia, nel dolore, noi siamo fratelli,
fratelli senza frontiere.
Allora i nostri ospedali saranno anche le tue cattedrali,
e i nostri laboratori i testimoni della tua grandezza.
Nel cuore dei proscritti di un tempo risplenderanno i tuoi tabernacoli.
Allora, non accettando altre tirannie che quella della tua Bontà,
la nostra civiltà martoriata dall'odio, dalla violenza e dal denaro,
rifiorirà nella pace e nella giustizia.
Come l'alba diventa aurora, e poi giorno,
voglia il tuo Amore che i figli del 2000
nascano dalla speranza,
crescano nella pace,
si estinguano infine nella luce,
per ritrovarti, Signore,
tu che sei la Vita.
pacegiustiziaingiustiziadolorecaritàamoresolidarietàimpegnomondialitàfame nel mondo
inviato da Maddalena Rotolo, inserito il 07/02/2006
TESTO
240. Lettera a Massimo, ladro zingaro ammazzato
A Molfetta, durante una tentata rapina un metronotte, per legittima difesa, sparò e uccise il ladro, uno zingaro. Il Vescovo, Monsignor Tonino Bello, saputa la notizia si recò al cimitero e rimase contristato dalla solitudine del morto: non c'era nessuno alle sue esequie e scrisse una lettera ad un uomo che non l'avrebbe mai letta, a Massimo, il ladro zingaro ammazzato.
Ho saputo per caso della tua morte violenta, da un ritaglio di giornale. Mi hanno detto che ti avrebbero seppellito stamattina, e sono venuto di buon'ora al cimitero a celebrare le esequie per te.
Ma non ho potuto pronunciare l'omelia. Perché alla mia messa non c'era nessuno. Solo don Carlo, il cappellano, che rispondeva alle orazioni. E il vento gelido che scuoteva le vetrate.
Sulla tua bara, neppure un fiore. Sul tuo corpo, neppure una lacrima. Sul tuo feretro, neppure un rintocco di campana.
Ho scelto il Vangelo di Luca, quello dei due malfattori crocifissi con Cristo, e durante la lettura mi è parso che la tua voce si sostituisse a quella del ladro pentito: «Gesù, ricordati di me!...».
Povero Massimo, ucciso sulla strada come un cane bastardo, a 22 anni, con una spregevole refurtiva tra le mani che è rotolata nel fango con te!
Povero randagio. Vedi: sei tanto povero, che posso chiamarti ladro tranquillamente, senza paura che qualcuno mi denunzi per vilipendio o rivendichi per te il diritto al buon nome.
Tu non avevi nessuno sulla terra che ti chiamasse fratello. Oggi, però, sono io che voglio rivolgerti, anche se ormai troppo tardi, questo dolcissimo nome.
Mio caro fratello ladro, sono letteralmente distrutto.
Ma non per la tua morte. Perché, stando ai parametri codificati della nostra ipocrisia sociale, forse te la meritavi. Hai sparato tu per primo sul metronotte, ferendolo gravemente. E lui si è difeso. E stamattina, quando sono andato a trovarlo in ospedale, mi ha detto piangendo che anche lui strappa la vita con i denti. E che, con quei quattro luridi soldi per i quali rischia ogni notte la pelle, deve mantenere dieci figli: il più grande quanto te, il più piccolo di un anno e mezzo.
No, non sono amareggiato per la tua morte violenta. Ma per la tua squallida vita.
Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, ti aveva ingiustamente ucciso tutta la città. Questa città splendida e altera, generosa e contraddittoria. Che discrimina, che rifiuta, che non si scompone. Questa città dalla delega facile. Che pretende tutto dalle istituzioni. Che non si mobilita dalla base nel vedere tanta gente senza tetto, tanti giovani senza lavoro, tanti minori senza istruzione. Questa città che finge di ignorare la presenza, accanto a te che cadevi, di tre bambini che ti tenevano il sacco!
Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, ti avevano ingiustamente ucciso le nostre comunità cristiane. Che, sì, sono venute a cercarti, ma non ti hanno saputo inseguire. Che ti hanno offerto del pane, ma non ti hanno dato accoglienza. Che organizzano soccorsi, ma senza amare abbastanza. Che portano pacchi, ma non cingono di tenerezza gli infelici come te. Che promuovono assistenza, ma non promuovono una nuova cultura di vita. Che celebrano belle liturgie, ma faticano a scorgere l'icona di Cristo nel cuore di ogni uomo. Anche in un cuore abbrutito e fosco come il tuo, che ha cessato di batter per sempre.
Prima che giustamente ti uccidesse il metronotte, forse ti avevo ingiustamente ucciso anch'io che, l'altro giorno, quando c'era la neve e tu bussasti alla mia porta, avrei dovuto fare ben altro che mandarti via con diecimila miserabili lire e con uno scampolo di predica.
Perdonaci, Massimo.
Il ladro non sei solo tu. Siamo ladri anche noi perché prima ancora che della vita, ti abbiamo derubato della dignità di uomo.
Perdonaci per l'indifferenza con la quale ti abbiamo visto vivere, morire e seppellire.
Perdonaci se, ad appena otto giorni dall'inizio solenne del l'anno internazionale dei giovani, abbiamo fatto pagare a te, povero sventurato, il primo estratto conto della nostra retorica.
Addio, fratello ladro.
Domani verrò di nuovo al camposanto. E sulla tua fossa senza fiori, in segno di espiazione e di speranza, accenderò una lampada.
caritàsolidarietàamoresolitudinesofferenzaingiustiziapovertàipocrisiasocietà
inserito il 07/02/2006