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24 novembre 2024
XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) - CRISTO RE
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RACCONTO
Viola Mariani, Chi ha paura del lupo?
L'uccellino cinguettava “ciu ciiiiuciu ciu” e i clienti del bar del Signor Antonio entravano volentieri a prendere un caffè nella terrazza per ascoltare il suo canto delicato e trillante come tanti campanellini. La sua voce argentina sembrava intonare un canto allegro e spensierato per la gioia dei clienti del bar che lo ascoltavano distratti e non vedevano la tristezza e la solitudine nei suoi piccoli occhi di uccellino.
Lui invece cantava ma non di allegria, il suo canto aveva parole tristi e malinconiche che gli ricordavano la sensazione del vento tra le piume delle ali e lo spettacolo magnifico delle chiome degli alberi viste da lassù, volando. Mentre cantava riusciva a non pensare alle sbarre della gabbietta e alla noia delle giornate che si ripetevano monotone.
Un giorno però successe qualcosa, una bambina entrando nel bar per comprare un gelato ascoltò il suo canto e si sentì improvvisamente triste senza sapere bene il perché. Allora guardò negli occhi il piccolo uccellino, si accorse che la tristezza veniva proprio da quel canto e si avvicinò alla gabbia.
- “Perché sei triste?” sussurrò la bimba.
- “Ciu ciiiu ciu” trillò l'uccellino.
Gea, cosí si chiamava la bambina, aveva un segreto per capire gli altri anche quando le parole non erano d'aiuto: si immaginava di essere al loro posto, si metteva nei panni degli altri per capire le loro emozioni. E così fece, si immaginò di vivere chiusa in una piccola gabbia senza poter correre e giocare con gli amici.
Chiuse gli occhi per concentrarsi e all'improvviso sentì un formicolio alle gambe, come quando stava molto tempo nella stessa posizione: “Forse è proprio quello che sente quest'uccellino: di certo gli formicolano le ali per non poterle aprire e forse è triste perché non è libero di volare come gli altri uccelli”, pensò. Per un momento le sembrò quasi che le fossero spuntate le ali e sentì un forte desiderio di volare in alto nel cielo.
Senza pensarci due volte Gea aprì la piccola gabbia sperando che nessuno la vedesse e l'uccellino la guardò cercando di capire perché quella bambina gli aveva dato la libertà. Avrebbe voluto dimostrarle la sua gratitudine ma non sapeva come fare, allora fece un ultimo cinguettio di addio e seguì il suo istinto che gli diceva di aprire le ali e volare via.
I clienti del bar senza capire cosa fosse successo si fermarono un istante, fu una frazione di secondo in cui sembrava che il tempo si fosse fermato. Nessun cucchiaino suonava contro il bordo della tazza, i ragazzi che scherzavano interruppero le loro risate e persino i cellulari per un attimo smisero di suonare.
In silenzio Gea usci dal bar mangiando il suo gelato e si ritrovò a camminare per strada con lo sguardo rivolto verso il cielo, cercando distrattamente quell'uccellino dallo sguardo triste.
All'improvviso cominciò a sentire il fruscio del vento tra le dita, l'aria fresca le accarezza il viso e il rumore del traffico si sentiva in lontananza, ovattato. Chiuse gli occhi per assaporare quella sensazione di libertà e, con gli occhi chiusi, vide la città dall'alto, il porto con le barche dei pescatori e le colline alle spalle.
Capi che era il regalo d'addio dell'uccellino, il suo modo di dirle grazie: stava volando con lui e osservando il mondo con i suoi occhi.
Quando ci mettiamo nei panni degli altri si aprono nuovi orizzonti.
empatiacomprensionesolidarietàlibertàschiavitù
inviato da Viola Mariani, inserito il 29/12/2018
RACCONTO
don Angelo Casati, midrash - pubblicato su "Il Gallo" - settembre 2011
Quando ero un ragazzino il signor Maestro stava insegnandomi a leggere. Una volta mi mostrò nel libro di preghiere due minuscole lettere, simili a due puntini quadrati. E mi disse: «Vedi Uri, queste due lettere, una accanto all'altra? È il monogramma del nome di Dio; e, ovunque, nelle preghiere, scorgi insieme questi due puntini, devi pronunciare il nome di Dio, anche se non è scritto per intero».
Continuammo a leggere con il Maestro, finché non trovammo, alla fine di una frase, i due punti. Erano ugualmente due puntini quadrati, solo non uno accanto all'altro, ma uno sotto l'altro. Pensai che si trattasse del monogramma di Dio perciò pronunciai il suo nome.
Il Maestro disse però: «No, no, Uri. Quel segno non indica il nome di Dio. Solo là dove i puntini sono a fianco l'uno dell'altro, dove uno vede nell'altro un compagno a lui uguale, solo là c'è il nome di Dio. Ma dove i due puntini sono uno sotto e l'altro sopra, là non c'è il nome di Dio».
Dio non è nell'arroganza. Nemmeno nell'arroganza della verità. È nel suono di un silenzio sottile. È nel sussurro.
Dioricercaamiciziaveritàsussurro
inviato da Cesarina Volontè, inserito il 15/09/2011
RACCONTO
3. Non c'è posto nella locanda... ma se vogliamo, possiamo cambiare la storia 6
Guido Purlini aveva 12 anni e frequentava la prima media. Era già stato bocciato due volte. Era un ragazzo grande e goffo, lento di riflessi e di comprendonio, ma benvoluto dai compagni. Sempre servizievole, volenteroso e sorridente, era diventato il protettore naturale dei bambini più piccoli.
L'avvenimento più importante della scuola, ogni anno, era la recita natalizia. A Guido sarebbe piaciuto fare il pastore con il flauto, ma la signorina Lombardi gli diede una parte più impegnativa, quella del locandiere, perché comportava poche battute e il fisico di Guido avrebbe dato più forza al suo rifiuto di accogliere Giuseppe e Maria.
La sera della rappresentazione c'era un folto pubblico di genitori e parenti. Nessuno viveva la magia della santa notte più intensamente di Guido Purlini. E venne il momento dell'entrata in scena di Giuseppe, che avanzò piano verso la porta della locanda sorreggendo teneramente Maria. Giuseppe bussò forte alla porta di legno inserita nello scenario dipinto. Guido il locandiere era là, in attesa.
"Che cosa volete?" chiese Guido, aprendo bruscamente la porta.
"Cerchiamo un alloggio".
"Cercatelo altrove. La locanda è al completo". La recitazione di Guido era forse un po' statica, ma il suo tono era molto deciso.
"Signore, abbiamo chiesto ovunque invano. Viaggiamo da molto tempo e siamo stanchi morti".
"Non c'è posto per voi in questa locanda", replicò Guido con faccia burbera.
"La prego, buon locandiere, mia moglie Maria, qui, aspetta un bambino e ha bisogno di un luogo per riposare. Sono certo che riuscirete a trovarle un angolino. Non ne può più".
A questo punto, per la prima volta, il locandiere parve addolcirsi e guardò verso Maria. Seguì una lunga pausa, lunga abbastanza da far serpeggiare un filo d'imbarazzo tra il pubblico.
"No! Andate via!", sussurrò il suggeritore da dietro le quinte.
"No!", ripeté Guido automaticamente. "Andate via!".
Rattristato, Giuseppe strinse a sé Maria, che gli appoggiò sconsolatamente la testa sulla spalla, e cominciò ad allontanarsi con lei. Invece di richiudere la porta, però, Guido il locandiere rimase sulla soglia con lo sguardo fisso sulla miseranda coppia. Aveva la bocca aperta, la fronte solcata da rughe di preoccupazione, e i suoi occhi si stavano riempiendo di lacrime. Tutto ad un tratto, quella recita divenne differente da tutte le altre.
"Non andar via, Giuseppe", gridò Guido. "Riporta qui Maria". E, con il volto illuminato da un grande sorriso, aggiunse: "Potete prendere la mia stanza".
Secondo alcuni, quel rimbambito di Guido Purlini aveva mandato a pallino la rappresentazione. Ma per gli altri, per la maggior parte, fu la più natalizia di tutte le rappresentazioni natalizie che avessero mai visto.
inviato da Marcello Rosa, inserito il 08/07/2011
TESTO
4. Don Camillo non ti crucciare
Giovannino Guareschi, Tutto don Camillo, volume primo, pag. 248
..."Pioverà, pioverà, don Camillo" lo rassicurò il Cristo. "E' sempre piovuto da che mondo è mondo. La macchina è combinata in modo tale che, a un bel momento, deve piovere. O sei del parere che l'Eterno abbia sbagliato nell'organizzare le cose dell'universo?".
Don Camillo si inchinò. "Sta bene" disse sospirando. "Capisco perfettamente quanto sia giusto quello che voi dite. Però che un povero prete di campagna non possa neanche permettersi di chiedere al suo Dio di far venire giù due catinelle d'acqua, perdonate, ma è sconfortante."
Il Cristo si fece serio. "Hai mille ragioni don Camillo. Non ti resta che far anche uno sciopero di protesta." Don Camillo ci rimase male e si allontanò a capo chino, ma il Cristo lo richiamò.
"Non ti crucciare, don Camillo" sussurrò il Cristo. "Lo so che il vedere uomini che lasciano deperire la grazia di Dio (era in atto uno sciopero degli lavoratori agricoli e la roba del raccolto e degli allevamenti cominciò ad intristire) è per te peccato mortale perché sai che sono sceso da cavallo per raccogliere una briciola di pane. Ma bisogna perdonarli perché non lo fanno per offendere Dio. Essi cercano affannosamente la giustizia in terra perché non hanno più fede nella giustizia divina, e ricercano affannosamente i beni della terra perché non hanno fede nella ricompensa divina. E perciò credono soltanto a quello che si tocca e si vede, e le macchine volanti sono per essi gli angeli infernali di questo inferno terrestre che essi tentano invano di fare diventare un Paradiso. E' la troppa cultura che porta all'ignoranza perché, se la cultura non è sorretta dalla fede, a un certo punto l'uomo vede soltanto la matematica delle cose e l'armonia di questa matematica diventa il suo Dio, e dimentica che è Dio che ha creato questa matematica e questa armonia. Ma il tuo Dio non è fatto di numeri, don Camillo, e nel cielo del tuo Paradiso volano gli angeli del bene. Il progresso fa diventare sempre più piccolo il mondo per gli uomini: un giorno quando le macchine correranno a cento miglia al minuto, il mondo sembrerà agli uomini microscopico e allora l'uomo si troverà come un passero sul pomolo di un altissimo pennone e si affaccerà sull'infinito e nell'infinito ritroverà Dio e la fede nella vera vita. E odierà le macchine che hanno ridotto il mondo a una manciata di numeri e le distruggerà con le sue stesse mani. Ma ci vorrà del tempo ancora, don Camillo. Quindi rassicurati: la tua bicicletta e il tuo motorino non corrono per ora nessun pericolo".
Il Cristo sorrise e don Camillo lo ringraziò di averlo messo al mondo.
progressofedeumanitàscienzasenso della vita
inviato da Osvaldo Pozzi, inserito il 11/01/2011
TESTO
Per le parole che non ho detto e per quelle che purtroppo ho detto.
Per la mano che non ho teso.
Per quel grido che ho ignorato.
Per tutte le volte che ho chiuso gli occhi, quando era più facile.
Per quel dito che ho puntato.
Per tutti i sorrisi falsi che ho esibito.
Per quando ho bevuto tutta la poca acqua che c'era.
Per tutte le volte in cui ho voluto vedere solo le nubi,
senza cercare il sole che splendeva dietro.
Per tutti i doni che avrei potuto condividere
e che invece ho tenuto gelosamente nascosti.
Per tutte le volte in cui ho dato ascolto all'urlo della vendetta,
e ho ignorato il sussurro della speranza.
Perché non avevo capito che dare fa coppia con ricevere.
Perché la mia ipocrisia non ha limiti.
Perché al canto del gallo anch'io dovrò rispondere dei miei "non lo conosco".
E, infine, perché do sempre per scontato il tuo perdono.
perdonoperdono di Dioesame di coscienzaipocrisiapeccatoconfessionericonciliazione
inviato da Cristina Carmagnola, inserito il 14/08/2010
RACCONTO
Renato non aveva quasi visto la signora, dentro la vettura ferma al lato della carreggiata. Pioveva forte ed era buio, ma si rese conto che la donna aveva bisogno di aiuto, così fermò la sua macchina e si avvicinò. L'auto della signora odorava ancora di nuovo. Lei pensava forse che poteva essere un assalitore: non ispirava fiducia quell'uomo, sembrava povero e affamato.
Renato percepiva che la signora aveva molta paura e le disse: "Sono qui per aiutarla, signora, non si preoccupi. Perché non aspetta nella mia auto dove fa un po' più caldo? A proposito, il mio nome è Renato".
La signora aveva bucato una ruota e oltretutto era di età avanzata. Mentre la pioggia cadeva a dirotto, Renato si chinò, collocò il crik e alzò la macchina. Quindi cambiò la gomma, sporcandosi non poco. Mentre stringeva i dadi della ruota, la donna aprì la portiera e cominciò a conversare con lui. Gli raccontò che non era del posto, che era solo di passaggio e che non sapeva come ringraziarlo per il prezioso aiuto. Renato sorrise mentre terminava il lavoro.
Lei domandò quanto gli doveva. Già aveva immaginato tutte le cose terribili che sarebbero potute accadere se Renato non si fosse fermato per soccorrerla.
Ma Renato non pensava al denaro, gli piaceva aiutare le persone... questo era il suo modo di vivere. E rispose: "Se realmente desidera pagarmi, la prossima volta che incontra qualcuno in difficoltà, si ricordi di me e dia a quella persona l'aiuto di cui ha bisogno".
Alcuni chilometri dopo la signora si fermò in un piccolo ristorante, la cameriera arrivò e le porse un asciugamano pulito per farle asciugare i capelli rivolgendole un dolce sorriso.
La donna notò che la cameriera era circa all'ottavo mese di gravidanza, ma lei non permetteva che la tensione e i dolori cambiassero il suo atteggiamento e fu sorpresa nel constatare come qualcuno che ha tanto poco, possa trattare tanto bene un estraneo. Allora si ricordò di Renato. Dopo aver terminato la sua cena, e mentre la cameriera si allontanò ad un altro tavolo, la signora uscì dal ristorante.
La cameriera ritornò curiosa di sapere dove la signora fosse andata, quando notò qualcosa scritto sul tovagliolo, sopra al quale aveva lasciato una somma considerevole.
Le caddero le lacrime dagli occhi leggendo ciò che la signora aveva scritto. Diceva: "Tieni pure il resto. Qualcuno mi ha aiutato oggi e alla stessa maniera io sto aiutando te. Se tu realmente desideri restituirmi questo denaro, non lasciare che questo circolo d'amore termini con te, aiuta qualcuno".
Quella notte, rincasando, stanca, si avvicinò al letto; suo marito già stava dormendo e non volle svegliarlo perché sapeva che prima di addormentarsi era stato preda di mille angosce, quindi, rimase a pensare al denaro e a quello che la signora aveva scritto. Quella signora come poteva sapere della necessità che suo marito e lei avevano di quel denaro: con il bebè che stava per nascere, tutto sarebbe diventato più difficile...
Pensando alla benedizione che aveva ricevuto, fece un grande sorriso. Ringraziò Dio e si voltò verso il suo preoccupato marito che dormiva al suo lato, lo sfiorò con un leggero bacio e gli sussurrò: "Andrà tutto bene. Ti amo... Renato!".
La vita è così... è uno specchio: tutto quello che tu dai, ti ritorna!
solidarietàaltruismogenerositàgratitudinegratuità
inserito il 26/06/2010
RACCONTO
In un giorno d'Autunno, il Vento soffiava dispettoso facendo volare le foglie. Una piccola Nuvoletta che stava passeggiando lì vicino, gli disse: "Ciao Vento, posso giocare con te?". Il Vento allora chiese: "Cosa potresti fare? Sai soffiare?". La nuvoletta ci provò: "...fff... fff... no non sono capace", disse sconsolata. Allora il Vento le rispose: "Tu non sei capace di soffiare come me, vattene via!". E la Nuvoletta se ne andò triste.
Più avanti incontrò l'Estate e il Sole splendeva luminoso nel cielo. Allora si avvicinò e disse: "Ciao Sole, posso giocare con te?". Ma il Sole seccato le rispose: "Non vedi che ti sei messa troppo vicina a me? Mi stai oscurando! Vattene via, tu non sei capace di splendere come me e nemmeno di creare calore!". E la Nuvoletta se ne andò sempre più triste.
Poco più in là c'era l'Inverno e la neve cadeva leggera, così la Nuvoletta si fermò e chiese: "Ciao Neve, posso giocare con te?". La Neve la squadrò dalla testa ai piedi e sussurrò: "Ma tu sei capace di far nevicare?". La nuvoletta ci provò e si sforzò talmente tanto che da grigia divenne nera, ma di Neve niente. "No, non credo di esserne capace", brontolò la nuvoletta emettendo un tuono. "Shhh!", la zittì la Neve, "allora non puoi aiutarmi. Io cado silenziosa, tu sei troppo rumorosa! Tu non sei capace di cadere leggera e coprire il paesaggio come me, vattene via!". E la Nuvoletta se ne andò ancora più triste.
Ormai era sconsolata, quando trovò la Primavera e sentì qualcuno piangere. Si chinò e vide un piccolo Fiorellino che singhiozzava disperato, allora si avvicinò e gli chiese il perché di tanta tristezza. E il Fiorellino rispose: "Ho sete, sto per morire, puoi aiutarmi?". "Non lo so, io non so fare quasi niente.., non so soffiare come il vento, non so splendere come il sole, non so cadere leggera come la neve, e nessuno mi vuole...". Così dicendo la Nuvoletta si mise a piangere e le sue lacrime diventarono tante gocce di pioggia, che dissetarono il Fiorellino. Da quel giorno la Nuvoletta e il Fiorellino diventarono molto amici e capirono di aver bisogno l'uno dell'altra per essere felici.
inviato da Caterina, inserito il 08/12/2009
RACCONTO
In una certa città viveva un ciabattino, di nome Martin Avdeic. Lavorava in una stanzetta in un seminterrato, con una finestra che guardava sulla strada. Da questa poteva vedere soltanto i piedi delle persone che passavano, ma ne riconosceva molte dalle scarpe, che aveva riparato lui stesso. Aveva sempre molto da fare, perché lavorava bene, usava materiali di buona qualità e per di più non si faceva pagare troppo.
Anni prima, gli erano morti la moglie e i figli e Martin si era disperato al punto di rimproverare Dio. Poi un giorno, un vecchio del suo villaggio natale, che era diventato un pellegrino e aveva fama di santo, andò a trovarlo. E Martin gli aprì il suo cuore.
- Non ho più desiderio di vivere - gli confessò. - Non ho più speranza.
Il vegliardo rispose: - La tua disperazione è dovuta al fatto che vuoi vivere solo per la tua felicità. Leggi il Vangelo e saprai come il Signore vorrebbe che tu vivessi.
Martin si comprò una Bibbia. In un primo tempo aveva deciso di leggerla soltanto nei giorni di festa ma, una volta cominciata la lettura, se ne sentì talmente rincuorato che la lesse ogni giorno.
E cosi accadde che una sera, nel Vangelo di Luca, Martin arrivò al brano in cui un ricco fariseo invitò il Signore in casa sua. Una donna, che pure era una peccatrice, venne a ungere i piedi del Signore e a lavarli con le sue lacrime. Il Signore disse al fariseo: «Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e non mi hai dato acqua per i piedi. Questa invece con le lacrime ha lavato i miei piedi e con i suoi capelli li ha asciugati... Non hai unto con olio il mio capo, questa invece, con unguento profumato ha unto i miei piedi».
Martin rifletté. Doveva essere come me quel fariseo. Se il Signore venisse da me, dovrei comportarmi cosi? Poi posò il capo sulle braccia e si addormentò.
All'improvviso udì una voce e si svegliò di soprassalto. Non c'era nessuno. Ma senti distintamente queste parole:
- Martin! Guarda fuori in strada domani, perché io verrò.
L'indomani mattina Martin si alzò prima dell'alba, accese il fuoco e preparò la zuppa di cavoli e la farinata di avena. Poi si mise il grembiule e si sedette a lavorare accanto alla finestra. Ma ripensava alla voce udita la notte precedente e così, più che lavorare, continuava a guardare in strada. Ogni volta che vedeva passare qualcuno con scarpe che non conosceva, sollevava lo sguardo per vedergli il viso.
Passò un facchino, poi un acquaiolo. E poi un vecchio di nome Stepanic, che lavorava per un commerciante del quartiere, cominciò a spalare la neve davanti alla finestra di Martin che lo vide e continuò il suo lavoro.
Dopo aver dato una dozzina di punti, guardò fuori di nuovo. Stepanic aveva appoggiato la pala al muro e stava o riposando o tentando di riscaldarsi. Martin usci sulla soglia e gli fece un cenno.
- Entra - disse - vieni a scaldarti. Devi avere un gran freddo.
- Che Dio ti benedica! - rispose Stepanic. Entrò, scuotendosi di dosso la neve e si strofinò ben bene le scarpe al punto che barcollò e per poco non cadde.
- Non è niente - gli disse Martin. - Siediti e prendi un po' di tè.
Riempi due boccali e ne porse uno all'ospite. Stepanic bevve d'un fiato. Era chiaro che ne avrebbe gradito un altro po'. Martin gli riempi di nuovo il bicchiere. Mentre bevevano, Martin continuava a guardar fuori della finestra.
- Stai aspettando qualcuno? - gli chiese il visitatore.
- Ieri sera - rispose Martin - stavo leggendo di quando Cristo andò in casa di un fariseo che non lo accolse coi dovuti onori. Supponi che mi succeda qualcosa di simile. Cosa non farei per accoglierlo! Poi, mentre sonnecchiavo, ho udito qualcuno mormorare: "Guarda in strada domani, perché io verrò".
Mentre Stepanic ascoltava, le lacrime gli rigavano le guance. - Grazie, Martin Avdeic. Mi hai dato conforto per l'anima e per il corpo.
Stepanic se ne andò e Martin si sedette a cucire uno stivale. Mentre guardava fuori della finestra, una donna con scarpe da contadina passò di lì e si fermò accanto al muro. Martin vide che era vestita miseramente e aveva un bambino fra le braccia. Volgendo la schiena al vento, tentava di riparare il piccolo coi propri indumenti, pur avendo indosso solo una logora veste estiva. Martin uscì e la invitò a entrare. Una volta in casa, le offrì un po' di pane e della zuppa.
- Mangia, mia cara, e riscaldati - le disse.
Mangiando, la donna gli disse chi era: - Sono la moglie di un soldato. Hanno mandato mio marito lontano otto mesi fa e non ne ho saputo più nulla. Non sono riuscita a trovare lavoro e ho dovuto vendere tutto quel che avevo per mangiare. Ieri ho portato al monte dei pegni il mio ultimo scialle.
Martin andò a prendere un vecchio mantello. - Ecco - disse. - È un po' liso ma basterà per avvolgere il piccolo.
La donna, prendendolo, scoppiò in lacrime. - Che il Signore ti benedica.
- Prendi - disse Martin porgendole del denaro per disimpegnare lo scialle. Poi l'accompagnò alla porta.
Martin tornò a sedersi e a lavorare. Ogni volta che un'ombra cadeva sulla finestra, sollevava lo sguardo per vedere chi passava.
Dopo un po', vide una donna che vendeva mele da un paniere. Sulla schiena portava un sacco pesante che voleva spostare da una spalla all'altra. Mentre posava il paniere su un paracarro, un ragazzo con un berretto sdrucito passò di corsa, prese una mela e cercò di svignarsela. Ma la vecchia lo afferrò per i capelli. Il ragazzo si mise a strillare e la donna a sgridarlo aspramente.
Martin corse fuori. La donna minacciava di portare il ragazzo alla polizia. - Lascialo andare, nonnina - disse Martin. - Perdonalo, per amor di Cristo.
La vecchia lasciò il ragazzo. - Chiedi perdono alla nonnina - gli ingiunse allora Martin.
Il ragazzo si mise a piangere e a scusarsi. Martin prese una mela dal paniere e la diede al ragazzo dicendo: - Te la pagherò io, nonnina.
- Questo mascalzoncello meriterebbe di essere frustato - disse la vecchia.
- Oh, nonnina - fece Martin - se lui dovesse essere frustato per aver rubato una mela, cosa si dovrebbe fare a noi per tutti i nostri peccati? Dio ci comanda di perdonare, altrimenti non saremo perdonati. E dobbiamo perdonare soprattutto a un giovane sconsiderato.
- Sarà anche vero - disse la vecchia - ma stanno diventando terribilmente viziati.
Mentre stava per rimettersi il sacco sulla schiena, il ragazzo sì fece avanti. - Lascia che te lo porti io, nonna. Faccio la tua stessa strada.
La donna allora mise il sacco sulle spalle del ragazzo e si allontanarono insieme.
Martin tornò a lavorare. Ma si era fatto buio e non riusciva più a infilare l'ago nei buchi del cuoio. Raccolse i suoi arnesi, spazzò via i ritagli di pelle dal pavimento e posò una lampada sul tavolo. Poi prese la Bibbia dallo scaffale.
Voleva aprire il libro alla pagina che aveva segnato, ma si apri invece in un altro punto. Poi, udendo dei passi, Martin si voltò. Una voce gli sussurrò all'orecchio:
- Martin, non mi riconosci?
- Chi sei? - chiese Martin.
- Sono io - disse la voce. E da un angolo buio della stanza uscì Stepanic, che sorrise e poi svanì come una nuvola.
- Sono io - disse di nuovo la voce. E apparve la donna col bambino in braccio. Sorrise. Anche il piccolo rise. Poi scomparvero.
- Sono io - ancora una volta la voce. La vecchia e il ragazzo con la mela apparvero a loro volta, sorrisero e poi svanirono.
Martin si sentiva leggero e felice. Prese a leggere il Vangelo là dove si era aperto il libro. In cima alla pagina lesse: «Ebbi fame e mi deste da mangiare, ebbi sete e mi dissetaste, fui forestiero e mi accoglieste. In fondo alla pagina lesse: Quanto avete fatto a uno dei più piccoli dei miei fratelli, l'avete fatto a me».
Così Martin comprese che il Salvatore era davvero venuto da lui quel giorno e che lui aveva saputo accoglierlo.
natalesolidarietàgratuitàriconoscere Dio
inviato da Qumran2, inserito il 24/11/2009
RACCONTO
Gastone era un centurione e ormai da 30 anni si trovava alle dipendenze di Pilato. Di condannati ne aveva visti tanti, ma nessuno come questo Galileo. «Con tutte le torture che gli sono state fatte dovrebbe essere già morto... e invece mantiene sempre la calma, pur tra inaudite sofferenze... e poi... mi ricorda qualcuno...».
Intanto Gesù fu caricato della croce e il triste corteo si avviò verso il Calvario. Ad un tratto lungo la strada apparve una Donna. «E' la madre del condannato», sussurrò qualcuno. Gastone si voltò ed ebbe un sussulto: come un lampo il passato gli tornò davanti agli occhi.
Era un giovane soldato, appena giunto dall'Italia, quando venne mandato con dei colleghi in Galilea a causa di una sommossa. Come gli altri soldati era un prepotente: entrava nei villaggi e saccheggiava le case senza aver rispetto per nessuno. Un giorno la sua guarnigione rimase senza viveri e i soldati decisero di prendere con la violenza un po' di provviste. Gridando e schiamazzando misero in subbuglio il paesino di Nazaret: le urla delle donne e il pianto dei bambini, invece di impietosirli, li facevano divertire.
Mancava ancora una casetta: Gastone fu il primo ad entrare; ma si fermò di colpo. All'interno non c'era niente di strano: solo una donna con un bambino; eppure l'atmosfera era talmente soprannaturale che i soldati entrando rimanevano ammutoliti. Gastone una volta aveva visto da vicino Cesare, eppure da quei due si irradiava una maestà ben superiore a quella dell'imperatore.
Con una voce dolcissima e molto calma la Signora domandò: «Avete bisogno di qualcosa?». I soldati si guardavano imbarazzati. Gastone si fece coraggio e rispose: «Avremmo bisogno di un po' di cibo, ma non vorremmo essere di disturbo...». La Donna si rivolse al bambino: «Gesù, vai a prendere un po' di provviste». Il bambino subito si alzò e corse in dispensa. Quando tornò aiutò la Mamma a preparare tanti fagottini quanti erano i soldati. Infine, la Donna distribuì le provviste a ciascuno di loro.
Pur essendo molto giovane, tutti ebbero l'impressione di trovarsi di fronte alla propria madre. Gastone non aveva più dimenticato quello sguardo e adesso era sicuro di riconoscerlo in quella Donna.
«Il condannato dev'essere quel bambino!». Era la prima volta che provava compassione per un condannato. Un pensiero gli si affacciò alla mente: «Quest'uomo ha affermato di essere Figlio di Dio... E se fosse vero?». La Donna intanto seguiva il Figlio con una compostezza e una dignità che ferivano profondamente il cuore del buon centurione.
Arrivarono sul Calvario e dopo tre ore di tremenda agonia, alla morte di Gesù Gastone cadde in ginocchio ed esclamò: «Costui era veramente Figlio di Dio!», e così dicendo gli tornarono alla mente le Sue ultime parole: «Donna ecco tuo Figlio»: solo allora capì che si trattava di una Maternità universale ed ebbe un sussulto: era proprio questa l'impressione che aveva avuto quando aveva visto la Donna per la prima volta.
calvariocrocevenerdì santomariamadonna
inviato da Marcello Rosa, inserito il 04/03/2008
TESTO
"Alcuni Magi giunsero da oriente a Gerusalemme...".
Oro, incenso. Mirra anche. Furono tra le prime cose che vide, venendo alla luce. Non che gli importasse granché delle ricchezze: in seguito l'ebbe a dimostrare. Doveva comunque essere uno spettacolo da perderci gli occhi. Il luccichio dei doni traboccanti dalle consunte bisacce da viaggio, contrapposto all'estrema frugalità del ricovero ove era nato. Gli effluvi stordenti delle resine aromatiche, spandendosi, andavano a mescolarsi con l'odore secco e pronunciato dello stallatico. Non di meno l'omaggio più gradito e inatteso fu certo la devozione che quegli uomini ricchi e distinti dimostrarono per il Neonato. Chissà lo sgomento provato da Maria e Giuseppe. Abituati com'erano all'unica compagnia dei pastori, si trovarono quei signori sontuosamente vestiti, chini in adorazione del Bambino.
Si dice fossero sapienti venuti da oriente: stranieri dunque. Scrutando il cielo, o forse dentro se stessi, videro una stella che tracciò loro la via. A noi, che sperimentiamo tempi di soluzioni facili e di frastuoni diffusi, piace pensare fosse una stella grande. Enorme, con la coda pure. Dimentichi che il rapporto autentico con Dio può instaurarsi e maturare solo nel silenzio di un cuore disposto a sentirne il potente sussurro. Nel deserto, luogo privo di inutili echi, radunò il Signore il popolo eletto per manifestare la Sua volontà. Sempre in luoghi solitari si sarebbe ritirato Gesù, per pregare il Padre.
Con o senza l'aiuto degli astri, ma sicuramente con la promessa di Dio nel cuore, i Magi intrapresero il lungo e faticoso cammino. Solo chi lo desidera con passione, giunge a vedere il volto di Cristo.
re magiepifaniaricercarapporto con Dio
inviato da Kociss Fava, inserito il 05/02/2006
TESTO
A te che in questo momento stai soffrendo: ti chiedo di essere forte, di scoprire la luce che brilla nella tua anima. Sentiti avvolto dalla mia grazia che mai ti abbandona, il mio sguardo è su di te e ti amo infinitamente. Dalla croce pesante del tuo dolore grida il tuo amore verso di me, non perderti d'animo, colora la tua esistenza con i pastelli più incisivi, sappi scoprire la bellezza di essere un vero prodigio e non temere mai nulla, Io ti sono sempre vicino, ti sostengo e guido i tuoi passi dovunque tu andrai... a volte comprendo che ti senti solo e perso tra le mura di un ospedale o della tua casa, ma sappi che io sono seduto accanto a te, ti sussurro all'orecchio dolci parole, ti parlo come ad un amico, a un fratello, a un bimbo... sei una persona splendida per me e mai ti dimenticherò... sei nel mio cuore, ricco di amore e di tenerezza, a volte pensi che sia io a farti soffrire ma come potrei? ti ho fatto di poco inferiore agli angeli, di gloria e di onore ti ho coronato, come potrei farti tutto questo e come mi potrei dimenticare di te?
Figlio mio carissimo, da tempo ho fissato i miei occhi su di te, sei amabile e ricco di tenerezza, soffro con te e per te, vivo con te il dolore che ti consuma e ti stringe dentro l'anima, ma tu sii forte, sii tenace nella tua impresa e a tutti devi saper donare un sorriso, anche quando ti costa... vedo anche come vivi la terapia, il disagio per le tante prestazioni che devi subire, ma abbandonati a me e non temere mai nulla, come un bimbo stretto tra le braccia della sua tenerissima madre, tale sei tu, stretto nell'abbraccio del mio amore e mai ti abbandonerò, perché so che tu mi sai ascoltare, mi sai amare...figlio mio tenerissimo, ho un amore speciale per te, credimi, come la pupilla dei miei occhi, così voglio proteggerti e stringerti a me...
Consegnami il tuo cuore, la tua anima, la tua persona e lasciati abitare dalla mia grazia, solo così potrai essere la mia dimora, abiterò in te e farò di te un raggio della mia presenza..
Grazie di quanto ogni giorno mi regali, grazie di ogni sorriso nella sofferenza e grazie perché nonostante tanto dolore, sai guardare a me con grande amore e speranza...
Tuo Padre Dio
sofferenzaabbandono in Diodolorecroce
inviato da Don Gianni Mattia, inserito il 08/12/2005
TESTO
Melinda Tamàs-Tarr, Osservatorio Letterario, Ferrara e l'Altrove
Le melodie delle voci angeliche
risuonan ancora nel mio cuore
come un dolce accordo finale
a mezzanotte della masse di Natale.
Nel mio povero animo festoso
nasce un inspiegabile sentimento
come se fosse un sussurro del Cielo
per gridar fortemente al Mondo intero:
«È nato il piccolo Bambino Santo
il Salvatore nostro: Gesù Cristo...»
Come da piccola, anche adesso
L'aspetto con gran raccoglimento
calcolando le ore ed ogni minuto
che mi separano dal grande evento.
In tutti gli anni nel periodo d'Avvento
i miei genitori raccontavan col mistero
la storia della nascita di Gesù Bambino
che venne al nostro mondo cattivo
a liberarci e portarci un giorno
dal Buon Padre Eterno nel Suo Impero...
Alla notte della Vigilia in ogni anno
festeggiamo il Suo compleanno
con lo stesso spirito dei Re Magi
ed anche noi riceviamo alcuni doni.
Quando si sente il melodico tintinnio
s'entra nella stanza in cui splende l'albero
ch'è pieno di luci e tante decorazioni,
sotto c'è il Presepe con i nostri regali.
Che magia si sente nel nostro animo
davanti a questo splendido albero
ed i nostri occhi si fermano sul viso
dell'unico festeggiato: Bambin Divino...
Tutto questo è un bel mondo fatato:
s'ha paura anche a prender un respiro
per non rompere quest'incantesimo
che ha assediato il nostro spirito,
si ha l'impressione del Gran Paradiso
d'esser circondati d'un coro angelico...
È arrivato il momento della preghiera
poi recitare una sacra canzoncina
in cui lodiamo il piccolo Bimbo Santo...
«È arrivata finalmente l'aspettata notte,
ed in alto splendono le luci delle stelle,
l'albero del nostro Gesù bambino
l'hanno portato gli Angeli del Cielo.
Ti ringraziamo Bambino di Betlemme
per il grand'amore del Tuo Cuore
e con il coro d'Angeli del Cielo
il Tuo Santo Nome oggi lodiamo.
Anche se passerà questo natale
Resta sempre con noi, per favore,
Ti ringraziamo d'amare ancora
questa nostra piccola famiglia!...»
II^ classificata al Concorso «Natale a Vada 1995» dell'Accademia Italiana «Gli Etruschi», 1995. Dalla p. 233 dell'Antologia «La gatta sul divano», Edizione Lisi, 1996. e dall'Osservatorio Letterario - Ferrara e l'Altrove.
inviato da Melinda TamàS-Tarr, inserito il 27/07/2004
RACCONTO
Storie di Natale
«Mi raccomando, non stropicciateli subito!», Gabriella, la catechista, cominciò a distribuire i fogli e le buste ad ogni bambino. Fogli e buste avevano dei simpatici fregi dorati sull'angolo destro e un grazioso Bambin Gesù nella mangiatoia in quello sinistro. Fabio prese il suo foglio con un attimo di esitazione. Non aveva voglia di scrivere la lettera a Gesù Bambino, questa volta.
«Scrivete bene... e soprattutto, per una volta, siate sinceri! Quando avete finito piegate il foglio, infilatela nella busta e sigillate. Avete capito?», diceva Gabriella, che sparava le parole come una mitragliatrice. «Poi mettete le buste in questo cestino che porteremo insieme nel presepio grande della scuola. Avete capito?»
I bambini cominciarono a cinguettare.
«Io chiedo i pattini con le rotelle in linea», diceva Rosalba. «lo l'abbonamento all'antenna parabolica», annunciava Michael, che aveva il padre ingegnere.
«Io invece voglio la tuta della Juventus», proclamava Marco, lo sportivo del gruppo.
«E tu Fabio?», chiese Gabriella, arruffandogli affettuosamente i capelli.
«Adesso ci penso», rispose sottovoce il bambino.
Stringeva le labbra come se stesse per scoppiare a piangere. Si chinò sul foglio e con la sua grossa calligrafia infantile scrisse una frase. Una soltanto, breve, ma che gli veniva proprio dal cuore. Firmò: «Il tuo amico Fabio» e cominciò l'operazione di piegatura del foglio, con la solita diligenza, e la lingua che gli spuntava appena tra le labbra, a indicare tutto l'impegno che ci metteva.
Gabriella gli stava alle spalle e aveva potuto leggere la richiesta di Fabio. Tossì, perché le venivano le lacrime agli occhi. Lei intuiva la sofferenza che Fabio cercava di dissimulare, quel velo di malinconia che lo prendeva all'ora di andare a casa. Il papà di Fabio non c'era più. Se n'era andato. E il bambino ne soffriva tanto, come di una ferita che non si rimargina. La sua lettera a Gesù Bambino diceva così: «Caro Gesù Bambino, per Natale mandami un papà buono. Grazie. Il tuo amico Fabio».
«Credo sia la lettera più difficile che riceverai, caro Gesù», pensò Gabriella.
Le letterine furono raccolte, tra le proteste dei bambini che erano arrivati solo ad elencare una dozzina di richieste. Prima di collocarle nel presepio, con un gesto rapido, Gabriella mise la lettera di Fabio davanti a tutte le altre. «Comincia da questa, per favore», mormorò rivolta al Bambino di gesso, che se ne stava con le braccine spalancate sulla paglia finta della mangiatoia di plastica.
Venne il giorno di Natale. Fabio si svegliò presto, con l'eccitazione delle grandi giornate. Girandosi nel letto sentiva il fruscio della carta dei regali vicino ai piedi. Se ne stette un bel po' ad occhi chiusi, per godersi l'attesa della sorpresa. Era pur sempre Natale!
Aprì i pacchetti avvolti in carta colorata e dorata, lentamente. Riconobbe i regali dei nonni, quelli della mamma, la tuta da sci che di certo era un regalo dello zio Luigi. «Poi, ci sono anch'io!».
La voce, pacata e profonda, lo fece trasalire. C'era un uomo accanto al suo letto. Aveva i capelli scuri e ricciuti, una folta barba nera sul volto abbronzato, e un sorriso dolce come lo sguardo. Indossava una morbida felpa azzurra e pantaloni di fustagno. Fabio era soprattutto meravigliato dal fatto di non provare paura. Non era proprio un fifone, ma pauroso sì. E trovarsi uno sconosciuto improvvisamente accanto al letto, in condizioni normali, gli avrebbe provocato per lo meno una serie di urla terrificanti. Invece quell'uomo gli dava soltanto una serena sicurezza. Come se lo conoscesse da sempre.
In quel momento entrò la mamma: «Tanti auguri, tesoro!». Lo abbracciò. «Ti piacciono i regali?». Fabio ricambiò l'abbraccio. «Sì, grazie», mormorò.
«È presto ancora. Ti preparerò una buona colazione. Ma ora stai qui al caldo a pigrottare un po'». La mamma gli accarezzò i capelli e uscì.
«Ma... ma... non l'ha visto!», disse Fabio rivolto all'uomo misterioso.
«No. Io sono il tuo regalo, non il suo», sorrise l'uomo.
Cominciò così una giornata memorabile della vita di Fabio. Si alzò e si lavò a tempo di record. Nell'attesa, l'uomo aveva preso i quaderni di Fabio e li esaminava con interesse.
«Bravo!», disse alla fine. «Hai fatto dei bei progressi, ultimamente» .
Fabio annuì con fierezza. «Ho ancora qualche problema con le doppie...», aggiunse virtuosamente. «Ma ce la farai, ne sono certo», aggiunse l'uomo e gli mise una mano sulla spalla. Una sensazione bellissima per Fabio.
«Tu hai dei figli?», chiese, esitando ancora. «Ho un figlio, sì», rispose l'uomo. «Ma oggi, sei tu mio figlio». La mamma spuntò improvvisamente sulla porta. «Cosa fai? Parli da solo?».
«No... Dicevo una poesia ad alta voce». «Per favore, vai in cantina a prendere un barattolo di marmellata... Se vuoi la crostata a mezzogiorno!», continuò la mamma. Scendere in cantina per Fabio era una tortura. Tutte quelle ombre polverose lo riempivano di angoscia. Di solito faceva mille storie o fingeva di dimenticarsi.
Come se avesse capito tutto, l'uomo si alzò e disse: «Andiamo!», e lo prese per mano. Era una manona energica, tiepida, protettiva, che infondeva una tranquilla sicurezza.
Il cigolio della porta della cantina, che quando scendeva da solo gli ricordava lo stridio dei denti di un mostro nascosto nell'ombra, adesso gli sembrò comico. «Ci vorrebbe un po' d'olio sui cardini», disse.
La pacata presenza dell'uomo accanto a lui, trasformò la cantina, da antro polveroso disseminato di oscure insidie e misteriose presenze, in una stanza qualunque, zeppa di mobili vecchi, giochi rotti, qualche bottiglia e barattoli di pomodori pelati.
Prese un barattolo di marmellata e si girò per uscire. Ma l'uomo lo fermò.
«Perché non fai un giro con quella?», disse indicando una bicicletta nuova appoggiata al muro. Fabio arrossì. «Non ci so andare... Nessuno ha tempo per insegnarmi».
«Magnifico, infilati una giacca a vento e andiamo. Il viale è deserto».
Incredulo, il bambino portò la bicicletta sulla strada. L'uomo lo aiutò a salire in sella e gli disse di incominciare a pedalare. Fabio incominciò traballando, ma l'uomo reggeva saldamente la bicicletta e gli camminava accanto. Provarono e riprovarono. A tratti, l'uomo lasciava la presa e il bambino pedalava da solo, finché riuscì a trovare il punto di equilibrio e partì in una lunga felice pedalata. Aveva imparato.
«Grazie!», ansimò all'uomo che lo accolse fingendo di applaudire.
«Rientriamo, ora. Sei sudato e fa freddo». «Solo più un giro», supplicò il bambino. «D'accordo. Ma uno solo!».
Rientrò in casa gridando: «Ho imparato, mamma, ho imparato ad andare in bicicletta!».
«Da solo?», chiese la mamma.
«Beh... veramente...». L'uomo si portò l'indice sulle labbra e fece segno al bambino di tacere.
«Stai tranquillo un attimo che devo preparare il pranzo», continuò la mamma. «Fra un po' arrivano i nonni».
L'uomo aiutò il bambino a riporre la bicicletta e l'accompagnò nella sua cameretta. «Come farai per il pranzo?»
«Ti aspetterò qui. Ne approfitterò per rimettere in sesto il tuo armadio».
Infatti, quando tornò nella sua cameretta, Fabio vide che le ante dell'armadio chiudevano perfettamente e che i piani erano ben diritti. Sembrava un armadio nuovo.
«Ci sai fare», disse.
«È il mio mestiere», bisbigliò l'uomo, poi aggiunse: «Potresti insegnarmi questo gioco, intanto».
Giocarono una serie memorabile di partite a Scarabeo. Poi fecero una lunga passeggiata insieme (Fabio disse alla mamma che andava all'oratorio). A cena gli occhi del bambino brillavano di stanchezza e di felicità. La mamma lo fissava con qualche perplessità: non riusciva a capire perché il bambino continuasse a rivolgere lo sguardo verso il lato vuoto della tavola. Una volta lo sorprese addirittura a sorridere.
Fabio andò a letto prima del solito. Si infilò sotto le coperte e l'uomo gli sistemò la trapunta a scacchi bianchi e neri e si sedette sul letto accanto a lui.
«Diciamo le preghiere insieme, prima che arrivi la mamma?»
«Certo», disse l'uomo e sorrise.
Dopo le preghiere, l'uomo strinse la mano del bambino.
«Devi andartene, vero?», sussurrò Fabio.
«Eh sì!».
«Una giornata passa in fretta», ammise malinconicamente il bambino.
«Sei un bravo ragazzo e tutti ti vogliono bene. Devi voler bene alla mamma e anche al tuo papà. Dovunque sia, rimane il tuo papà».
«Io quando sarò grande e avrò dei bambini li amerò sempre e starò sempre con loro», promise Fabio. «Sì. È così che devi fare. E io, in qualche modo, ti sarò accanto e ti aiuterò».
«Non mi hai neanche detto come ti chiami». «Giuseppe».
L'uomo lo accarezzò. Le sue grosse mani da operaio sprigionavano un'infinita tenerezza.
«Sei stato il più bel regalo di Natale», bisbigliò Fabio prima di addormentarsi.
inviato da Patrizia Traverso, inserito il 10/07/2004
TESTO
Kahlil Gibran, Il profeta
Allora un contadino disse: Parlaci del Lavoro.
E lui rispose dicendo:
Voi lavorate per assecondare il ritmo della terra e l'anima della terra.
Poiché oziare è estraniarsi dalle stagioni e uscire dal corso della vita, che avanza in solenne e fiera sottomissione verso l'infinito.
Quando lavorate siete un flauto attraverso il quale il sussurro del tempo si trasforma in musica.
Chi di voi vorrebbe essere una canna silenziosa e muta quando tutte le altre cantano all'unisono?
Sempre vi è stato detto che il lavoro è una maledizione e la fatica una sventura.
Ma io vi dico che quando lavorate esaudite una parte del sogno più remoto della terra, che vi fu dato in sorte quando il sogno stesso ebbe origine.
Vivendo delle vostre fatiche, voi amate in verità la vita.
E amare la vita attraverso la fatica è comprenderne il segreto più profondo.
Ma se nella vostra pena voi dite che nascere è dolore e il peso della carne una maledizione scritta sulla fronte, allora vi rispondo: tranne il sudore della fronte niente laverà ciò che vi è stato scritto.
Vi è stato detto che la vita è tenebre e nella vostra stanchezza voi fate eco a ciò che è stato detto dagli esausti.
E io vi dico che in verità la vita è tenebre fuorché quando è slancio,
E ogni slancio è cieco fuorché quando è sapere,
E ogni sapere è vano fuorché quando è lavoro,
E ogni lavoro è vuoto fuorché quando è amore;
E quando lavorate con amore voi stabilite un vincolo con voi stessi, con gli altri e con Dio.
E cos'è lavorare con amore?
E' tessere un abito con i fili del cuore, come se dovesse indossarlo il vostro amato.
E' costruire una casa con dedizione come se dovesse abitarla il vostro amato.
E' spargere teneramente i semi e mietere il raccolto con gioia, come se dovesse goderne il frutto il vostro amato.
E' diffondere in tutto ciò che fate il soffio del vostro spirito,
E sapere che tutti i venerati morti stanno vigili intorno a voi.
Spesso vi ho udito dire, come se parlaste nel sonno:
"Chi lavora il marmo e scopre la propria anima configurata nella pietra, è più nobile di chi ara la terra.
E chi afferra l'arcobaleno e lo stende sulla tela in immagine umana, è più di chi fabbrica sandali per i nostri piedi".
Ma io vi dico, non nel sonno ma nel vigile e pieno mezzogiorno, il vento parla dolcemente alla quercia gigante come al più piccolo filo d'erba;
E che è grande soltanto chi trasforma la voce del vento in un canto reso più dolce dal proprio amore.
Il lavoro è amore rivelato.
E se non riuscite a lavorare con amore, ma solo con disgusto, è meglio per voi lasciarlo e, seduti alla porta del tempio, accettare l'elemosina di chi lavora con gioia.
Poiché se cuocete il pane con indifferenza, voi cuocete un pane amaro, che non potrà sfamare l'uomo del tutto.
E se spremete l'uva controvoglia, la vostra riluttanza distillerà veleno nel vino.
E anche se cantate come angeli, ma non amate il canto, renderete l'uomo sordo alle voci del giorno e della notte.
inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 11/12/2002
RACCONTO
15. Alla ricerca dell'amore perduto di mamma e papà
Mamma e papà di Paola non si amavano più. Paola buona e mite, capiva tutto. Papà e mamma erano pieni d'ira e si voltavano la schiena. Papà, una volta, aveva rotto un bicchiere dando un pugno sulla tavola e mamma aveva schiaffeggiato Paola, perché non osava ancora schiaffeggiare papà.
Paola andava dall'uno all'altra, e diceva delle parole piacevoli per farli ridere, raccontava tutte le cose buffe che le erano capitate e quello che era successo a scuola, tentava di riconciliarli.
Un giorno, che la cosa sembrava particolarmente grave, Paola aveva addirittura finto di essersi avvelenata con la benzina per smacchiare. Voleva che i genitori facessero la pace al suo capezzale.
Tre mesi dopo, tutto era ricominciato. Paola continuava il suo lavoro di formica. E non disperava. Di notte, nel suo lettino, stringeva forte forte al cuore il suo tigrotto di stoffa', che si chiama Titì, e che era spelacchiato e malconcio per i tanti abbracci, baci, Nutella e lacrime che in nove anni Paola gli aveva rovesciato addosso. Dalla camera di papà e mamma filtravano spesso strilli e imprecazioni soffocate, e il rumore degli attaccapanni sbattuti di malagrazia. Paola si premeva forte le mani sulle orecchie e pregava: «Signore, per piacere, falli smettere!».
Quando arrivava un estraneo e osservava gli occhi gonfi di mamma, e papà afono per aver troppo gridato, Paola preveniva le critiche e diceva: «Vedi, è colpa delle cipolle». Oppure: «Non conosce una medicina per papà? Ha il mal di gola e non può più parlare».
Una strana voce nella notte
Una notte, Paola fu svegliata dalla solita baruffa. Dormiva abbracciata a Titì e sentì chiaramente: «Basta! Non possiamo continuare così!», diceva mamma.
«Sei tu che vuoi sempre avere ragione!» ribatté papà.
«Che cosa suggerisci, sapientona?».
«Ci... dividiamo. Ognuno per conto suo e... non se ne parli più!».
La casa si riempì di silenzio.
Ma qualcuno con un buon udito avrebbe potuto sentire il piccolo cuore di Paola che batteva all'impazzata: «Tum... tum... tum...», mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime. «Non voglio! Non voglio!». Mormorava piano piano.
«E allora parti!», disse una voce.
Paola trattenne il fiato per la sorpresa.
«Chi ha parlato? Chi c'è qui?», domandò un tantino inquieta.
«Sono io. Titì», riprese fiera la vocina.
Paola accese la luce del comodino ed esaminò il tigrotto di stoffa.
«Tu, parli?».
Gli occhi di vetro di Titì brillarono come fossero veri.
«Quando ci vuole, ci vuole», bofonchiò. «Chi ama tanto, può far parlare anche le pietre, se è solo per questo. Ora ascoltami bene: posso parlare solo una volta nella vita, anche se la vita di un animale di stoffa è piuttosto lunga e non mi posso lamentare. E certo che la vita con te è piuttosto... umida».
«Scusami», sussurrò Paola.
«Non c'è di che. Quando avevi tre mesi mi inondavi con ben altro... Ecco quello che devi fare: vai a riprendere l'amore perduto di mamma e papà».
«Dove?».
«C'è un posto dove si trovano tutti gli amori perduti.
Non perdere tempo; bisogna riportarli finché sono ancora vivi, caldi e luminosi; altrimenti non c'è niente da fare... Puoi andare soltanto tu. Prenditi lo zainetto: l'amore di un papà e una mamma è pesante».
«Ma non conosco la strada». Protestò Paola mentre si vestiva e indossava il fedele zainetto scolastico.
«La troverai. Parti diritto avanti a te».
«Ma c'è il muro!».
«Fidati di me. Tira diritto!».
Paola chiuse gli occhi e... passò attraverso il muro.
La polvere luccicante
Si trovò in un giardino intersecato da molti sentieri. Ne imboccò uno. Dopo un po', scorse su una panchina qualcosa che brillava. Si avvicinò e vide che era un pezzettino dell'amore di mamma e papà. Naturalmente lo riconobbe subito, perché i figli sono fatti con l'amore di mamma e papà. Poco più in là, vicino a una grande quercia, vide un altro pezzettino, appena uno spolverio, dell'amore di mamma e papà. Si avvicinò e vide che, in un angolino del tronco rugoso, erano incise alcune parole: «Riccardo e Ornella, per sempre».
«Sono mamma e papà», mormorò Paola. Raccolse la polvere luccicante e la infilò nello zainetto con il pezzetto che aveva già trovato. «Di questo passo, ci metterò un sacco di tempo» si disse.
Proprio in quel momento alzò gli occhi e vide il cartello indicatore: «Deposito amori perduti. Di qua».
«Grazie», sussurrò e cominciò a camminare. Il paesaggio cominciò a cambiare e prese a soffiare un vento gelido e, tagliente. Paola si strinse rabbrividendo dentro il «pile». Solo la polvere d'amore che aveva trovato mandava un lieve tepore. La pista ghiaiosa finiva stroncata in una palude triste e minacciosa. Un cartello festonato di ragnatele polverose indicava: «Palude del Mio-mio».
«Sempre diritto!», fece Paola ad alta voce. Strinse i pugni e si incamminò nel fango.
Ogni passo le costò fatica e lacrime. Il fango della palude era vischioso e cercava di trattenerla. Ma Paola arrivò dall'altra parte. La strada riprendeva con una ripida salita e dopo alcuni tornanti si interrompeva bruscamente.
Paola era stanca e quando scorse che cosa l'attendeva, si accasciò avvilita.
«Oh, no!». Quello che aveva davanti era il peggiore dei precipizi che avesse mai visto. E per di più lei pativa le vertigini. Incastrato sull'orlo del dirupo faceva capolino il solito cartello scheggiato: «Salto della fiducia».
La parola «salto» non diceva niente di buono a Paola, ma la prospettiva di tornare ad affrontare la palude era altrettanto tremenda. Si affacciò sul ciglio del precipizio, chiuse gli occhi, strinse i pugni e saltò.
Il sentiero di rose
Atterrò sul soffice. Si trovò su uno strato di rose enormi, profumate, colorate, morbide come seta. Si rialzò e ricominciò a camminare con decisione. Troppa decisione. Le sue gambe affondarono e le spine, spine enormi come le rose, la ferirono.
«Ahi!», gridò Paola.
Un'ape che ronzava come un elicottero con il suo canestrino per raccogliere nettare, la rimbrottò severamente.
«Devi essere delicata, se vuoi camminare sulle rose. Non lo sai?».
«Grazie, signora ape. È che sto cercando l'amore perduto di mamma e papà».
«Sei quasi arrivata. Vai sempre diritto. E mi raccomando... Delicatezza e rispetto!».
Paola riprese a camminare, facendo molta attenzione a dove poggiava i piedi. Il sentiero di rose si fece sempre più solido e sicuro. Finalmente, dopo una collinetta color tramonto, Paola arrivò a una strana costruzione. Il cartello non lasciava dubbi: «Deposito degli amori perduti. Fare lo scontrino alla cassa».
La gioia di Paola si velò di preoccupazione. Aveva esattamente cinquecento e cinquanta lire in una tasca dello zainetto. Quanto poteva costare lo scontrino per ritirare un amore perduto?
C'erano altre persone che facevano la coda davanti a un burbero cassiere, che teneva in mano una bilancia a due piatti: su uno poneva l'amore perduto richiesto, sull'altro il prezzo che il richiedente era disposto a pagare.
A quanto pareva nessuno riusciva a pagare la somma richiesta. E il cassiere, inflessibile, li rimandava indietro.
Davanti a Paola c'era un uomo triste e grigio. Mise sul piatto della bilancia un miliardo. Mille milioni uno sull'altro. Ma il piatto della bilancia non si mosse neanche un po'. L'amore perduto pesava molto, molto di più. L'uomo se ne andò, più triste e più grigio di prima.
Paola era davvero preoccupata. Stringendo in pugno le sue due monete, guardò il cassiere e disse con la sua voce da passerotto: «Vorrei l'amore perduto di mamma e papà».
Il cassiere aprì un armadio e ne tirò fuori un grosso amore che sistemò sul piatto della bilancia.
«È ancora caldo e luminoso, meno male», pensò Paola.
«Come paghi?», chiese severo il cassiere.
Paola allungò esitante la mano con le monete, poi con un'improvvisa ispirazione, si sedette sull'altro piatto della bilancia. I due piatti scattarono e si fermarono in perfetta parità.
«O.K. Il prezzo è giusto!», disse il cassiere.
Paola lo abbracciò felice. Prese l'amore di mamma e papà e... si trovò a casa.
«Anche noi dobbiamo fare un viaggio»
Quando mamma e papà furono seduti a tavola per fare colazione, Paola arrivò in pigiama e senza parlare posò in mezzo al tavolo l'amore che aveva ritrovato. Un'ondata di calore e di felicità, di baci e di voglia di cantare, invase la casa. Mamma e papà guardarono la loro bambina con occhi che brillavano di una luce tenera. Paola aspettava.
Mamma e papà sorrisero. Per le sue misteriose vie, l'amore era tornato al suo posto.
«Grazie, Paoletta», disse mamma. «Abbiamo capito».
«E ora dobbiamo fare un viaggio. Anche noi...», continuò papà.
Paola li abbracciò tutti e due con un lungo e riconoscente sospiro di sollievo.
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inviato da Sergio B., inserito il 11/12/2002
RACCONTO
C'era una volta un bellissimo e meraviglioso giardino. Era situato ad ovest del paese, in mezzo al grande regno. Il Signore di questo giardino aveva l'abitudine di farvi una passeggiata ogni giorno, quando il caldo della giornata era più forte.
C'era in questo giardino un bambù di aspetto nobile. Era il più bello di tutti gli alberi del giardino e il Signore amava questo bambù più di tutte le altre piante.
Anno dopo anno, questo bambù cresceva e diventava sempre più bello e più grazioso. Il bambù sapeva che il Signore lo amava e ne godeva.
Un bel giorno, il Signore, molto in pensiero, si avvicinò al suo albero amato e l'albero, in grande venerazione, chinò la testa. Il Signore gli disse: "Caro bambù, ho bisogno di te". Sembrò al bambù che fosse venuto il giorno di tutti i giorni, il giorno per cui era nato. Con grande gioia, ma a bassa voce, il bambù rispose: "O Signore, sono pronto. Fa' di me l'uso che vuoi".
"Bambù", la voce del Signore era seria, "per usarti devo abbatterti". Il bambù fu spaventato, molto spaventato: "Abbattermi, Signore, me che hai fatto diventare il più bel albero del tuo giardino? No, per favore, no! Fa' uso di me per la tua gioia, Signore, ma per favore, non abbattermi".
"Mio caro bambù," disse il Signore e la sua voce era più seria, "se non posso abbatterti, non posso usarti".
Nel giardino ci fu allora un grande silenzio. Il vento non tirava più, gli uccelli non cantavano più. Lentamente, molto lentamente, il bambù chinò ancora di più la sua testa meravigliosa poi sussurrò: "Signore, se non puoi usarmi senza abbattermi, fa' di me quello che vuoi e abbattimi".
"Mio caro bambù," disse di nuovo il Signore "non devo solo abbatterti, ma anche tagliarti le foglie e i rami. Se non posso tagliarli, non posso usarti".
Allora il sole si nascose e gli uccelli ansiosi volarono via. Il bambù tremò e disse appena udibile: "Signore, tagliali!".
"Mio caro bambù, devo farti ancora di più. Devo spaccarti in due e strapparti il cuore. Se non posso farti questo, non posso usarti". Il bambù non poté più parlare. Si chinò fino a terra.
Così il Signore del giardino abbatté il bambù, tagliò i rami, levò le foglie, lo spaccò in due e ne estirpò il cuore. Poi portò il bambù alla fonte di acqua fresca vicino ai suoi campi inariditi. Là, delicatamente, il Signore dispose l'amato bambù a terra: un'estremità del tronco la collegò alla fonte, l'altra la diresse verso il suo campo arido.
La fonte dava acqua, l'acqua si riversava sul campo che aveva tanto aspettato. Poi fu piantato il riso, i giorni passarono, la semente crebbe e il tempo della raccolta venne. Così il meraviglioso bambù divenne realmente una grande benedizione in tutta la sua povertà e umiltà.
Quando era ancora grande e bello e grazioso, viveva e cresceva solo per se stesso e amava la propria bellezza. Al contrario nel suo stato povero e distrutto, era diventato un canale che il Signore usava per rendere fecondo il suo regno.
sacrificiocrocedoloresofferenzafeconditàcrescita
inviato da Suor Irina Mandro, inserito il 02/06/2002
RACCONTO
T.Spidlìk, Il professore Ulipispirus e altre storie
In mezzo alle montagne coperte di neve c'era una verde vallata con giardini, campi fertili, casette di artigiani. Sulla collina più alta c'era un castello dove abitava il vecchio principe con l'unica figlia, di nome Anima. Il principe e la principessa erano tutti e due buoni e la gente della valle li amava. Perciò tutti diventarono tristi quando si sparse la notizia che la principessa Anima era gravemente malata e non poteva uscire dal castello. Molti diedero consigli e portarono erbe medicinali. I medici arrivarono da paesi lontani. Ma nessun rimedio servì a niente. La principessa Anima peggiorava di giorno in giorno e la gente era sempre più triste.
Un giorno arrivò alla porta del castello una vecchietta sconosciuta. La presero per una mendicante e le diedero del pane in elemosina. Ma la vecchietta disse che voleva vedere la principessa malata. I servi non volevano lasciarla entrare e stavano a discutere con lei sul portone del castello finché il vecchio principe fu attirato dalle voci e uscì a vedere la strana vecchietta. Gli sembrò una buona donna e non trovò nessun motivo per non farla salire nella camera dove la figlia giaceva malata. "Dio mio, com'è dimagrita e com'è triste!", sospirò la vecchietta. "Purtroppo - gemette il principe - sembra che non vi sia più speranza". "Vi lamentate inutilmente - gli sussurrò all'orecchio la vecchietta - la principessa guarirà. Ha una malattia particolare. Non è nel corpo, è nell'anima. Per guarire ha bisogno di vedere il volto più bello che esiste sulla terra". Detto questo, la vecchietta improvvisamente sparì.
Al principe sembrava assai strano questo consiglio. Ma quando l'uomo è nella miseria si attacca a tutto. Così invitò pubblicamente tutte le più belle ragazze e i più bei giovani della sua terra a venire al castello. Il bel viso che guarirà la principessa, diceva il bando dei principe, riceverà una lauta ricompensa. Se si tratterà di un giovane, Anima diventerà sua moglie, nel caso di una ragazza, riceverà in dote la metà dell'eredità. Appena il bando fu pubblicato, tutta la più bella gioventù accorse al castello. I giovani sono tutti belli, e ognuno cercava di persuadersi di essere più bello degli altri. Ma tutto fu inutile. Anima peggiorava di giorno in giorno e diventava l'ombra di se stessa. Il principe piangeva, e nessuno riusciva a consolarlo.
Un pomeriggio la vecchietta sconosciuta comparve di nuovo al portone del castello. Di nuovo i servi non volevano lasciarla entrare e la prendevano in giro chiedendole se per caso credesse d'essere lei la più bella del mondo. Ma il principe anche stavolta fu attirato dal trambusto, accorse all'ingresso e condusse subito la vecchietta al capezzale della principessa. «Dio mio, com'è dimagrita e com'è debole!», esclamò la vecchietta. Il principe scoppiò a piangere. Ma la vecchietta aggiunse: " E' un bene che sia qui, sta morendo". Tutto il castello si riempì del pianto disperato del principe, a cui s'unì quello di tutti i servi e di tutte le guardie. Ma la vecchietta non badò affatto alla gran confusione che le sue parole avevano provocato. Corse al muro della stanza, tolse lo specchio che vi era appeso, s'avvicinò al letto e mise lo specchio davanti al volto agonizzante della principessa Anima. Successe il miracolo. La principessa vide il più bel volto dei mondo: era lei la più bella giovane della terra. Lo sguardo su se stessa la guarì all'istante e il pianto del castello si trasformò in grida di esultanza e di gioia.
Ora domanderete come finisce questa favola. Le favole non sono tutte uguali, e questa è una favola vera. La principessa Anima è l'anima umana, la più bella fra tutte le cose che esistono sulla terra. Purtroppo però non lo sa. Cerca la bellezza fuori di sé e non riesce a trovarla, perciò s'ammala e s'indebolisce. Solo quando riesce a conoscere se stessa e la sua bellezza interiore, allora guarisce e la sua gioia è senza fine. Per questo anche questa favola è senza il solito finale.
inviato da Giuliana Babini, inserito il 01/06/2002
RACCONTO
Bruno Ferrero, Il canto del grillo
Il più vecchio si chiamava Frank e aveva vent'anni. Il più giovane era Ted e ne aveva diciotto. Erano sempre insieme, amicissimi fin dalle elementari. Insieme decisero di arruolarsi nell'esercito. Partendo promisero a se stessi e ai genitori che avrebbero avuto cura l'uno dell'altro. Furono fortunati e finirono nello stesso battaglione.
Quel battaglione fu mandato in guerra. Una guerra terribile tra le sabbie infuocate del deserto. Per qualche tempo Frank e Ted rimasero negli accampamenti protetti dall'aviazione. Poi una sera venne l'ordine di avanzare in territorio nemico. I soldati avanzarono per tutta la notte, sotto la minaccia di un fuoco infernale.
Al mattino il battaglione si radunò in un villaggio. Ma Ted non c'era. Frank lo cercò dappertutto, tra i feriti, fra i morti. Trovò il suo nome nell'elenco dei dispersi.
Si presentò al comandante.
"Chiedo il permesso di andare a riprendere il mio amico", disse.
"E' troppo pericoloso", rispose il comandante. "Ho già perso il tuo amico. Perderei anche te. Là fuori stanno sparando".
Frank partì ugualmente. Dopo alcune ore trovò Ted ferito mortalmente. Se lo caricò sulle spalle. Ma una scheggia lo colpì. Si trascinò ugualmente fino al campo.
"Valeva la pena morire per salvare un morto?", gli gridò il comandante.
"Sì", sussurrò, "perché prima di morire, Ted mi ha detto: Frank, sapevo che saresti venuto".
Questo diremo a Dio in quel momento: "Sapevo che saresti venuto".
inviato da Luca Mazzocco, inserito il 22/05/2002
TESTO
Un fiume lento; un rivo silenzioso, poco profondo. il gorgoglio di una sorgente attraverso mazzetti di violette. Il sussurro di un ruscello in un bosco. Il ruggito di una cascata. Lo zampillo di una canna da giardino. Il luccichio delle fontane. Lo splendore dell'acqua che scivola sulla pietra. Pozzanghere tappezzate di foglie cremisi. Onde solide come vetro verde, che lanciano la loro spuma a cavalcare l'enorme massa marina. Il rumoreggiare dell'acqua dietro uno scafo da corsa. Piccoli arcobaleni nelle ragnatele mattutine. Rugiada sui piedi nudi. Musi di rana in uno stagno. Laghi che catturano cieli estivi. Pioggia che batte sulle finestre della tua casa sicura.
inviato da Michela De Santis, inserito il 04/05/2002