I tuoi ritagli preferiti

PERFEZIONA LA RICERCA

Tutti i ritagli

Indice alfabetico dei temi

Invia il tuo ritaglio

Hai cercato penna

Hai trovato 8 ritagli

Ricerca avanzata
tipo
parole
tema
fonte/autore

RACCONTO

1. Una penna disobbediente   4

Angelo Valente, Nove Vie in Betlemme, Elledici

C'era una volta un grande e bravissimo poeta che nessuno conosceva perché nessuno aveva mai letto le sue poesie.
Il poeta, fin da piccolo, si era affezionato ad una sola ed unica penna e non ne aveva mai utilizzate altre.
Questa penna, però, si era sempre rifiutata di scrivere per paura di finire il suo inchiostro: perciò nessuno conosceva le bellissime poesie del poeta.
Un giorno il poeta si recò presso una biblioteca e portò con sé anche la sua penna.
Fu lì che la penna conobbe tante altre penne come lei e vide che tutte scrivevano, senza farsi troppi problemi.
C'era lì anche una penna appoggiata su una scrivania che sembrava molto anziana, perché aveva quasi terminato tutto il suo inchiostro.
Dopo averle rivolto il saluto, la penna del poeta le parlò delle sue resistenze a scrivere. Ma l'anziana penna, che aveva scritto tanto, le disse:
«Guarda intorno quanti libri. Tanta gente può venire qui a leggere ed imparare cose nuove proprio perché delle penne come noi sono state utili ai loro padroni. Non serve a nulla e a nessuno tenere per sé ciò che loro ci dicono. Noi abbiamo il grande compito di manifestare agli altri il loro pensiero, le loro idee, cioè di scrivere ciò che di più profondo c'è in loro utilizzando ciò che di più profondo c'è in noi, cioè l'inchiostro. Questo ci rende utili e fa crescere la gente».
La penna del poeta ringraziò di cuore l'anziana penna e da quel giorno iniziò a scrivere tutte le poesie che il poeta recitava.
Il poeta fu apprezzato e conosciuto da molti perché da quel giorno tanta gente poté leggere le sue splendide poesie.

Anche noi siamo come quella penna, non siamo utili a nessuno e non serve a nessuno se incontriamo Gesù Cristo e non raccontiamo agli altri questa splendida avventura.
Come per la penna costa inchiostro scrivere, anche per noi costa coraggio testimoniare.
Se lo faremo, però, saremo strumenti contenti ed efficaci nelle mani del Signore, perché lo aiuteremo a non restare anonimo e sconosciuto, ma lo manifesteremo a chi ancora fa fatica a riconoscerlo.

testimonianzaevangelizzazioneessere utilitalentiservizioservire

5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 27/12/2016

RACCONTO

2. La conquista della penna d'aquila   9

In riva ad un lago azzurro, sorgeva un tranquillo villaggio indiano. A mezzogiorno e a sera, dalle tende uscivano fumo e fragranti profumi che mettevano appetito ai piccoli indiani che giocavano.

Una sera d'estate, il clima del villaggio sembrò improvvisamente cambiare. Gli uomini della tribù si raccolsero tutti nella tenda di Bisonte Nero, il grande capo, per il consiglio dei saggi e degli anziani.

Si erano riuniti per una questione importante che riguardava i piccoli indiani che avevano compiuto sette anni, dovevano cioè decidere quale sarebbe stata la "prova di forza" che avrebbero dovuto superare per essere accettati come membri della tribù.

Era ormai calato il sole, quando dalla tenda uscirono gli uomini, gli anziani e il grande capo. I piccoli indiani si avvicinarono a Bisonte Nero impazienti di sapere quale sarebbe stata la prova di forza, e lui con voce solenne dichiarò: "Domani all'alba con il primo raggio di sole, partirete con le vostre canoe verso l'altra riva del lago e cercherete la penna d'aquila dorata che è nascosta in un posto segreto".

Al primo chiarore, apparvero dietro le montagne le ombre dei giovani indiani che portavano le loro canoe verso la riva del lago. Stavano tutti indaffarati a prepararsi quand'ecco arrivare, camminando lentamente, Falco Stanco, un vecchio indiano che abitava in un villaggio dall'altra parte del lago.

Il vecchio si avvicinò ai bambini e disse loro: "Sono vecchio e stanco e per tornare dalla mia tribù devo andare sull'altra riva del lago, e a piedi ci impiegherei una nottata. Qualcuno di voi mi potrebbe portare sulla sua canoa?".

Il piccolo Volpe Astuta guarda gli altri e dice: "Ma noi dobbiamo fare la prova di forza!".

E tutti gli altri dissero: "No, non è possibile; se fosse un altro giorno sì, ma oggi dobbiamo correre".

"Eh, sì!", pensò Nuvola Rossa. "Se uno di noi prende sulla sua canoa Falco Stanco, rimarrà indietro e non potrà conquistare la penna d'aquila. Ma che fatica dovrà fare, povero vecchio, per compiere il giro del lago. E come sarà triste se gli diremo tutti di no!". Nuvola Rossa si avvicinò al vecchio e disse, deciso: "Vieni, Falco Stanco; ti porto io!".

Gli altri sorpresi lo guardarono e pensarono: "Nuvola Rossa non è stato molto furbo, così rimarrà indietro e non potrà conquistare la penna, ha perso la sua occasione, lui che è tra i ragazzi più abili!".

In quel momento spuntò il primo raggio di sole e con un grido di gioia i piccoli indiani partirono veloci. Nuvola Rossa vedeva i suoi amici molto più avanti di lui, ormai lontani, e gli venne il dubbio di aver sbagliato. Poi guardava Falco Stanco, aedeva il suo viso rugoso che sorrideva felice e sentiva nel suo cuore una voce che gli diceva: "Hai fatto bene, hai fatto bene!".

I piccoli indiani avevano già preso a cercare nei boschi, quando verso Mezzogiorno arrivò anche Nuvola Rossa. Il piccolo indiano era tutto sudato per la fatica e pensava che già vi era un vincitore. Ma, a quanto pareva, nessuno aveva ancora trovato la penna d'aquila.

Nuvola Rossa riprese forza e entusiasmo, salutò Falco Stanco e si accinse alla ricerca. Ma il vecchio indiano lo chiamò: "Aspetta, vieni qui! Ti devo dare una cosa!". Un po' a malincuore, Nuvola Rossa si fermò e andò verso Falco Stanco. "Ieri sera", proseguì l'anziano, "il grande capo del tuo villaggio mi ha detto: domani all'alba, quando vorrai tornare al tuo villaggio, recati dai piccoli indiani, chiedi loro di portarti sull'altra sponda, e a chi lo farà quando sarete arrivati, consegnagli questa". E Falco Stanco tirò fuori una meravigliosa penna d'aquila dorata!

Nuvola Rossa la afferrò e la sollevò con un urlo di gioia. Gli altri accorsero pieni di stupore.

Falco Stanco rivolgendosi a Nuvola Rossa disse: "Hai vinto la prova, perché la forza più grande è la forza dell'amore, e tu hai dimostrato di averla aiutandomi. Nuvola Rossa ha avuto il coraggio di fare quello che nessuno voleva fare!".

I piccoli indiani si guardarono l'un l'altro, poi dissero: "E' vero, la forza più grande è l'amore e adesso anche noi vogliamo fare come Nuvola Rossa!".

Falco Stanco li salutò con la mano e pensò: "Sì, questo è stato un giorno importante per i piccoli indiani perché hanno imparato che c'è qualcosa nella vita che vale più dell' arrivare primi".

amoresolidarietàdonaregratuitàgenerosità

4.7/5 (9 voti)

inserito il 10/07/2013

PREGHIERA

3. Maria, donna innamorata   3

don Tonino Bello, Maria, donna dei nostri giorni

I love you. Je t'aime. Te quiero. Ich liebe Dich. Ti voglio bene, insomma.

Io non so se ai tempi di Maria si adoperassero gli stessi messaggi d'amore, teneri come giaculatorie e rapidi come graffiti, che le ragazze di oggi incidono furtivamente sul libro di storia o sugli zaini colorati dei loro compagni di scuola.

Penso, però, che, se non proprio con la penna a sfera sui jeans, o con i gessetti sui muri, le adolescenti di Palestina si comportassero come le loro coetanee di oggi.

Con «stilo di scriba veloce» su una corteccia di sicomòro, o con la punta del vincastro sulle sabbie dei pascoli, un codice dovevano pure averlo per trasmettere ad altri quel sentimento, antico e sempre nuovo, che scuote l'anima di ogni essere umano quando si apre al mistero della vita: ti voglio bene!

Anche Maria ha sperimentato quella stagione splendida dell'esistenza, fatta di stupori e di lacrime, di trasalimenti e di dubbi, di tenerezza e di trepidazione, in cui, come in una coppa di cristallo, sembrano distillarsi tutti i profumi dell'universo.

Ha assaporato pure lei la gioia degli incontri, l'attesa delle feste, gli slanci dell'amicizia, l'ebbrezza della danza, le innocenti lusinghe per un complimento, la felicità per un abito nuovo.

Cresceva come un'anfora sotto le mani del vasaio, e tutti si interrogavano sul mistero di quella trasparenza senza scorie e di quella freschezza senza ombre.

Una sera, un ragazzo di nome Giuseppe prese il coraggio a due mani e le dichiarò: «Maria, ti amo». Lei gli rispose, veloce come un brivido: «Anch'io». E nell'iride degli occhi le sfavillarono, riflesse, tutte le stelle del firmamento.

Le compagne, che sui prati sfogliavano con lei i petali di verbena, non riuscivano a spiegarsi come facesse a comporre i suoi rapimenti in Dio e la sua passione per una creatura. Il sabato la vedevano assorta nell'esperienza sovrumana dell'estasi, quando, nei cori della sinagoga, cantava: «O Dio, tu sei il mio Dio, dall'aurora ti cerco: di te ha sete l'anima mia come terra deserta, arida, senz' acqua». Poi la sera rimanevano stupite quando, raccontandosi a vicenda le loro pene d'amore sotto il plenilunio, la sentivano parlare del suo fidanzato, con le cadenze del Cantico dei Cantici: «Il mio diletto è riconoscibile tra mille... I suoi occhi, come colombe su ruscelli di acqua... Il suo aspetto è come quello del Libano, magnifico tra i cedri...».

Per loro, questa composizione era un'impresa disperata. Per Maria, invece, era come mettere insieme i due emistichi d'un versetto dei salmi.

Per loro, l'amore umano che sperimentavano era come l'acqua di una cisterna: limpidissima, sì, ma con tanti detriti sul fondo. Bastava un nonnulla perché i fondigli si rimescolassero e le acque divenissero torbide. Per lei, no.

Non potevano mai capire, le ragazze di Nazaret, che l'amore di Maria non aveva fondigli, perché il suo era un pozzo senza fondo.

Santa Maria, donna innamorata, roveto inestinguibile di amore, noi dobbiamo chiederti perdono per aver fatto un torto alla tua umanità. Ti abbiamo ritenuta capace solo di fiamme che si alzano verso il cielo, ma poi, forse per paura di contaminarti con le cose della terra, ti abbiamo esclusa dall'esperienza delle piccole scintille di quaggiù. Tu, invece, rogo di carità per il Creatore, ci sei maestra anche di come si amano le creature. Aiutaci, perciò, a ricomporre le assurde dissociazioni con cui, in tema di amore, portiamo avanti contabilità separate: una per il cielo (troppo povera in verità), e l'altra per la terra (ricca di voci, ma anemica di contenuti) .

Facci capire che l'amore è sempre santo, perché le sue vampe partono dall'unico incendio di Dio. Ma facci comprendere anche che, con lo stesso fuoco, oltre che accendere lampade di gioia, abbiamo la triste possibilità di fare terra bruciata delle cose più belle della vita.

Perciò, Santa Maria, donna innamorata, se è vero, come canta la liturgia, che tu sei la «Madre del bell'amore», accoglici alla tua scuola. lnsegnaci ad amare. È un'arte difficile che si impara lentamente. Perché si tratta di liberare la brace, senza spegnerla, da tante stratificazioni di cenere.

Amare, voce del verbo morire, significa decentrarsi. Uscire da sé. Dare senza chiedere. Essere discreti al limite del silenzio. Soffrire per far cadere le squame dell'egoismo. Togliersi di mezzo quando si rischia di compromettere la pace di una casa. Desiderare la felicità dell'altro. Rispettare il suo destino. E scomparire, quando ci si accorge di turbare la sua missione.

Santa Maria, donna innamorata, visto che il Signore ti ha detto: «Sono in te tutte le mie sorgenti», facci percepire che è sempre l'amore la rete sotterranea di quelle lame improvvise di felicità, che in alcuni momenti della vita ti trapassano lo spirito, ti riconciliano con le cose e ti danno la gioia di esistere.

Solo tu puoi farci cogliere la santità che soggiace a quegli arcani trasalimenti dello spirito, quando il cuore sembra fermarsi o battere più forte, dinanzi al miracolo delle cose: i pastelli del tramonto, il profumo dell'oceano, la pioggia nel pineto, l'ultima neve di primavera, gli accordi di mille violini suonati dal vento, tutti i colori dell'arcobaleno... Vaporano allora, dal sotto suolo delle memorie, aneliti religiosi di pace, che si congiungono con attese di approdi futuri, e ti fanno sentire la presenza di Dio.

Aiutaci, perché, in quegli attimi veloci di innamoramento con l'universo, possiamo intuire che le salmodie notturne delle claustrali e i balletti delle danzatrici del Bolscjoi hanno la medesima sorgente di carità. E che la fonte ispiratrice della melodia che al mattino risuona in una cattedrale è la stessa del ritornello che si sente giungere la sera... da una rotonda sul mare: «Parlami d'amore, Mariù».

Mariainnamoramentoamore

4.0/5 (4 voti)

inviato da Barbara Battilana, inserito il 13/03/2013

TESTO

4. Di sogni e di meraviglia   2

Luciano Mendes de Almeida

Tante volte si sogna con gli occhi aperti, con la carta e la penna in mano, scrivendo, organizzando i pensieri, immaginando i passi per arrivare a concretizzare quello che non è solo un sogno, ma è una chiamata a fare del bene, ad andare incontro alla pecora smarrita, alle persone bisognose, alle popolazioni che si trovano nella fame, nella guerra, nella sventura.

I sogni sono belli, perché si trasformano tante volte in realtà. C'è qualche cosa in più.

Diceva Helder Camara che il sogno che si sogna da solo non è altro che sogno, ma quello che sogniamo insieme è il sogno che si fa realtà. Proprio perché nell'essere condiviso con gli altri crea unione e collaborazione, porta frutto di vita e di fraternità.

sognifare del benefraternitàcondivisioneportare frutto

4.0/5 (3 voti)

inviato da Simona Pirlo, inserito il 28/10/2012

TESTO

5. Tutto in natura è un canto

Agata Fernandez Motzo, Divina Luce, Carta e Penna Editore

Amo i fiori perché di Dio
profumo gentil mi danno,
amo le stelle e il sole
perché del Creatore
mi mostrano lo splendore.
Amo la soave brezza
perché del mio Signore
mi fa sentir carezza
e il cielo vaporoso
e il mare fragoroso
dell'aria la mitezza
dei verdi prati il manto
perché al Sommo Dio
tutto in natura
è un canto.

creatocreazionestupore

5.0/5 (1 voto)

inviato da Angela Muscarella, inserito il 14/08/2010

TESTO

6. Dorma o vegli...   1

Alessandro Pronzato

"...Dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce".
Non è così facile imparare a dormire, stare un po' calmi, non agitarci troppo, così come si può cogliere nella piccola parabola evangelica. Però potremmo provarci.
Almeno qualche volta staccare i microfoni, deporre la penna, disattivare il telefono, lasciar il posto vuoto al dibattito, cestinare un documento, non presenziare a una cerimonia, non indire celebrazioni per centenari e simili, chiudere la bocca, sederci in contemplazione, non rincorrere a lingua in fuori l'ultima carrozza del treno.
Almeno qualche volta non esprimere la propria opinione, non fare alcuna dichiarazione, rinunciare alla "ferma presa di posizione", non illustrare il proprio punto di vista, non manifestare la propria indignazione, non stilare la propria diagnosi sui mali della società e non distribuire le relative ricette per la cura.
Almeno qualche volta non far sentire la propria voce, e semmai far sentire il proprio silenzio (che sarebbe un avvenimento sensazionale).
Almeno qualche volta far notare la nostra assenza (e, se non la notano, tanto di guadagnato).
Almeno qualche volta dire: "Non so".
Almeno qualche volta smetterla con la nostra aria da protagonisti, da salvatori dell'umanità.
E che i padroni del vapore fermino i loro stantuffi.
E che certi personaggi, certi primattori, si chiudano a chiave in qualche cella inaccessibile, per diversi mesi, se non per anni.
E che quelli che "gridano" dalle antenne sui tetti ricordino che Gesù ha fatto un prolungato soggiorno nel deserto, dove non c'erano né tetti né antenne.
Se proprio non riusciamo a dormire, mettiamoci pure alla finestra. E cerchiamo di indovinare, nella notte, il guizzare delle fiammelle accese da Qualcuno in molti cuori, anche senza di noi.
Appoggiamo l'orecchio sulla crosta della terra. Coglieremo il rumore quasi impercettibile del seme che "germoglia e cresce"... senza che noi ci possiamo fare nulla.
E se la gente ci domanda "Come?", rispondiamo pure: "Io ci ho faticato un poco. Ma il miracolo, il più, avviene senza che io sappia, senza che io c'entri per niente".

semeumiltàsilenzionascondimentorapporto con Dio

5.0/5 (1 voto)

inviato da Elena Mencarelli, inserito il 01/04/2003

TESTO

7. Imparare la tristezza del Natale   1

Alessandro Pronzato, Vangeli scomodi

Tre righe in tutto. Per raccontarci l'avvenimento più straordinario della storia del mondo, Luca impiega tre righe. Un Dio che viene a "piantare la propria tenda in mezzo a noi". E l'evangelista ce lo riferisce in tre righe. Probabilmente la sua penna deve aver lottato parecchio per resistere alla tentazione di dire di più.

Tre righe in cima alla pagina. Quindi tutto un foglio bianco. E noi ci precipitiamo a imbrattarlo con le nostre parole.

Può sembrare un'idea bizzarra quella di aprire la serie dei "Vangeli scomodi" con il racconto della natività, con una pagina che pare autorizzare esclusivamente la tenerezza, la dolcezza e i pensieri più consolanti.

Eppure proprio queste tre righe di Luca, se riusciamo a spazzare via le nebbie di un equivoco sentimentalismo, risultano terribilmente scomode. Infatti costituiscono una spietata condanna per il nostro Natale gonfio di retorica, per il nostro Natale zeppo di cattiva poesia, per il nostro Natale ricco di cianfrusaglie multicolori e commozione a buon mercato.

Tre righe. E noi, invece, abbiamo imbastito un copione mastodontico e interminabile, imbottito di pacchianerie.
Gli abbiamo rovesciato sopra tonnellate di sentimentalismi.

Il silenzio è l'elemento naturale per la discesa della Parola sulla terra.

E noi abbiamo pensato di rompere quel silenzio che ci impacciava con gli scoppi di milioni di tappi champagne.

nataleincarnazione

5.0/5 (1 voto)

inviato da Foggi Silvana, inserito il 11/12/2002

TESTO

8. Quando la vita è una festa   1

Madeleine Delbrel

Ciascun atto docile
ci fa ricevere pienamente Dio
e dare pienamente Dio
in una grande libertà di spirito.
Allora la vita è una festa.
Ogni piccola azione è un avvenimento immenso
nel quale ci viene dato il paradiso.
Non importa che cosa dobbiamo fare:
tenere in mano una scopa o una penna,
parlare o tacere,
rammendare o fare una conferenza,
curare un malato o usare il computer.
Tutto ciò non è che la scorza
della realtà splendida:
l'incontro dell'anima con Dio
rinnovata ad ogni minuto,
che ad ogni minuto si accresce in grazia,
sempre più bella per il suo Dio.
Suonano? Presto, andiamo ad aprire:
è Dio che viene ad amarci.
Un'informazione?...Eccola:
è Dio che viene ad amarci.
È l'ora di metterci a tavola?
Andiamoci: è Dio che viene ad amarci.

temporicerca di Dioquotidianità

5.0/5 (1 voto)

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 23/05/2002