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TESTO

1. La cosa più stupefacente del mondo

Mahabharata, poema epico indiano

«Qual è la cosa più stupefacente del mondo, Yudhisthira?»

E Yudhisthira rispose: «La cosa più stupefacente del mondo è che tutt'intorno a noi la gente muore e noi non ci rendiamo conto che può capitare anche a noi.»

mortevitafragilitàdebolezzaconsapevolezza

4.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 09/02/2018

RACCONTO

2. I rocchetti di filo colorato   1

Piero Ferrucci, La forza della gentilezza, Oscar Mondadori 2005

In una storia narrata dal saggio indiano Ramakrishna, una donna va a trovare un'amica che da molto tempo non vedeva. Entrata in casa sua, nota una magnifica collezione di rocchetti di filo colorato. Questa esibizione multicolore la attrae in maniera irresistibile, e quando l'amica va un momento in un'altra stanza, la donna ruba vari rocchetti e li nasconde tenendoli sotto le braccia. L'amica però se ne accorge e, senza accusarla, le dice: «È da tanto tempo che non ci vediamo. Perché non danziamo assieme per festeggiare il nostro incontro?». La donna, imbarazzata, non può rifiutare ma, per non lasciar cadere i rocchetti, è costretta a danzare in modo molto rigido. L'altra la esorta a liberare le braccia e a muoverle danzando, e quella risponde: «Non sono capace, io danzo solo così».

Ramakrishna raccontava questa storia per illustrare la liberazione. Smettere, cioè, di tener stretti con paura i nostri possessi, di aggrapparci ai nostri ruoli e alle nostre idee. E lasciarsi andare. Quando siamo gentili ci occupiamo più degli altri e diventiamo meno schiavi del nostro ego e della sua tirannia; i mostri dell'ansia e della depressione hanno meno appigli dove attaccarsi; i blocchi e gli impacci causati dall'eccessiva attenzione a noi stessi scompaiono.

libertàlibertà interioretimidezzablocchigentilezzaegoismolibertàego

inviato da Qumran, inserito il 25/10/2017

TESTO

3. Culture autentiche

Yuval Noah Harari, Da animali a dèi. Breve storia dell'umanità (2014)

Si parla ancora molto di culture "autentiche": ma, se per "autentico" intendiamo qualcosa che si è sviluppato in modo autonomo e che consiste di tradizioni locali antiche, libere da influssi esterni, bisogna affermare che non è rimasta nessuna cultura autentica sulla Terra. Durante gli ultimi secoli, tutte le culture sono state trasformate da influenze globali tanto da renderle quasi irriconoscibili.

Uno degli più interessanti esempi di questa globalizzazione è la cucina "etnica". In un ristorante italiano ci aspettiamo di trovare spaghetti con salsa di pomodoro; in ristoranti polacchi o irlandesi, tante patate; in un ristorante argentino di poter scegliere tra dozzine di tipi di bistecche di manzo; in un ristorante indiano, il peperoncino incorporato in qualsiasi altra combinazione di spezie; e che in un caffè svizzero ci venga proposto un trionfo di cioccolato caldo con sopra una montagna di panna.

Nessuno di questi alimenti è nato in realtà nei paesi citati. I pomodori, i peperoncini rossi e il cacao sono in origine tutti messicani; sono arrivati in Europa e in Asia solo dopo che gli spagnoli hanno conquistato il Messico. Giulio Cesare e Dante Alighieri non hanno mai arrotolato degli spaghetti con le loro forchette (le forchette peraltro non c'erano ancora), Guglielmo Tell non ha mai assaggiato la cioccolata, e Buddha non ha mai caricato il gusto del suo cibo con i peperoncini. Le patate sono arrivate in Polonia e in Irlanda non più di quattrocento anni fa. L'unica bistecca che si poteva ottenere in Argentina nel 1492 era di lama.

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5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 30/06/2017

RACCONTO

4. Il sogno dell'ometto

Leggenda peruviana

Era piccolo, sparuto e miserabile, quell'ometto. Era un servo, un domestico indiano, e doveva compiere la sua corvée nella residenza del grande Signore.

Pieno di umiltà e di terrore, l'Ometto si teneva in piedi di fronte al padrone. Forse a causa di quella sua aria smarrita, era da questi particolarmente disprezzato.

«Mi sembri un cane», gli diceva. «Mettiti a quattro zampe. Ora trotta come i cagnolini. Ora drizza le orecchie. Giungi le mani!».

L'Ometto obbediva come meglio poteva, e il padrone rideva a crepapelle. E così ogni giorno, obbligava il suo servo a umiliarsi, lo esponeva alle canzonature dei suoi compagni. Ma una sera, l'Ometto alzò d'un tratto la voce. Aveva qualcosa da dire.

«Grande Signore, Padrone mio, perdonami, ma vorrei parlarti», disse.
«Che? proprio tu?... e a me?».

«Si, Signore. Ho fatto un sogno. Ho sognato che eravamo morti tutti e due: tu, ed io».

«Tu?... Con me?... Racconta, che ridiamo un po'». «Ecco, eravamo morti, e perciò nudi tutti e due insieme. Nudi davanti al nostro grande Patrono san Francesco». «Ma guarda un po'! E allora?... Parla!», ordinò il padrone, tra seccato e incuriosito.

«II nostro grande Patrono ci esaminava con i suoi occhi che vedono fin dentro al cuore. Poi chiamò un Angelo e gli ordinò: "Porta una coppa d'oro piena del miele più trasparente!». «E allora?», incalzò il padrone.

«Allora san Francesco disse: "Ricopri questo gentiluomo col miele della coppa d'oro". E l'Angelo, prendendo il miele nelle proprie mani, lo ha spalmato sopra il tuo corpo, o Padrone, dalla testa ai piedi, cosicché tu eri raggiante di luce, come una statua d'oro, trasparente nello splendore del cielo». «Bene», fece il padrone. Poi aggiunse: «E tu?». «Per me, il nostro Santo Patrono fece venire un Angelo con un grosso bidone pieno di escrementi umani. "Andiamo, gli disse, insudicia il corpo di questo ometto; coprilo tutto come meglio potrai. Alla svelta". Così fece l'Angelo. Mi impiastricciò tutto il corpo, da capo a piedi, ed io comparvi, vergognoso e puzzolente, nella luce del cielo...».

«Proprio così ha da accadere», approvò il Padrone. «Finisce qui la tua storia?».

«Oh no, mio Signore, no, Padre mio. San Francesco riprese a scrutarci con quei suoi occhi che frugano il cuore, poi comandò: "Ed ora, leccatevi l'un l'altro. Lentamente, e a lungo!" E ordinò agli Angeli di vegliare perché si adempisse la sua volontà».

giudizioricchezzasuperbia

5.0/5 (1 voto)

inviato da Il Patriota Cosmico, inserito il 16/06/2015

RACCONTO

5. La conquista della penna d'aquila   9

In riva ad un lago azzurro, sorgeva un tranquillo villaggio indiano. A mezzogiorno e a sera, dalle tende uscivano fumo e fragranti profumi che mettevano appetito ai piccoli indiani che giocavano.

Una sera d'estate, il clima del villaggio sembrò improvvisamente cambiare. Gli uomini della tribù si raccolsero tutti nella tenda di Bisonte Nero, il grande capo, per il consiglio dei saggi e degli anziani.

Si erano riuniti per una questione importante che riguardava i piccoli indiani che avevano compiuto sette anni, dovevano cioè decidere quale sarebbe stata la "prova di forza" che avrebbero dovuto superare per essere accettati come membri della tribù.

Era ormai calato il sole, quando dalla tenda uscirono gli uomini, gli anziani e il grande capo. I piccoli indiani si avvicinarono a Bisonte Nero impazienti di sapere quale sarebbe stata la prova di forza, e lui con voce solenne dichiarò: "Domani all'alba con il primo raggio di sole, partirete con le vostre canoe verso l'altra riva del lago e cercherete la penna d'aquila dorata che è nascosta in un posto segreto".

Al primo chiarore, apparvero dietro le montagne le ombre dei giovani indiani che portavano le loro canoe verso la riva del lago. Stavano tutti indaffarati a prepararsi quand'ecco arrivare, camminando lentamente, Falco Stanco, un vecchio indiano che abitava in un villaggio dall'altra parte del lago.

Il vecchio si avvicinò ai bambini e disse loro: "Sono vecchio e stanco e per tornare dalla mia tribù devo andare sull'altra riva del lago, e a piedi ci impiegherei una nottata. Qualcuno di voi mi potrebbe portare sulla sua canoa?".

Il piccolo Volpe Astuta guarda gli altri e dice: "Ma noi dobbiamo fare la prova di forza!".

E tutti gli altri dissero: "No, non è possibile; se fosse un altro giorno sì, ma oggi dobbiamo correre".

"Eh, sì!", pensò Nuvola Rossa. "Se uno di noi prende sulla sua canoa Falco Stanco, rimarrà indietro e non potrà conquistare la penna d'aquila. Ma che fatica dovrà fare, povero vecchio, per compiere il giro del lago. E come sarà triste se gli diremo tutti di no!". Nuvola Rossa si avvicinò al vecchio e disse, deciso: "Vieni, Falco Stanco; ti porto io!".

Gli altri sorpresi lo guardarono e pensarono: "Nuvola Rossa non è stato molto furbo, così rimarrà indietro e non potrà conquistare la penna, ha perso la sua occasione, lui che è tra i ragazzi più abili!".

In quel momento spuntò il primo raggio di sole e con un grido di gioia i piccoli indiani partirono veloci. Nuvola Rossa vedeva i suoi amici molto più avanti di lui, ormai lontani, e gli venne il dubbio di aver sbagliato. Poi guardava Falco Stanco, aedeva il suo viso rugoso che sorrideva felice e sentiva nel suo cuore una voce che gli diceva: "Hai fatto bene, hai fatto bene!".

I piccoli indiani avevano già preso a cercare nei boschi, quando verso Mezzogiorno arrivò anche Nuvola Rossa. Il piccolo indiano era tutto sudato per la fatica e pensava che già vi era un vincitore. Ma, a quanto pareva, nessuno aveva ancora trovato la penna d'aquila.

Nuvola Rossa riprese forza e entusiasmo, salutò Falco Stanco e si accinse alla ricerca. Ma il vecchio indiano lo chiamò: "Aspetta, vieni qui! Ti devo dare una cosa!". Un po' a malincuore, Nuvola Rossa si fermò e andò verso Falco Stanco. "Ieri sera", proseguì l'anziano, "il grande capo del tuo villaggio mi ha detto: domani all'alba, quando vorrai tornare al tuo villaggio, recati dai piccoli indiani, chiedi loro di portarti sull'altra sponda, e a chi lo farà quando sarete arrivati, consegnagli questa". E Falco Stanco tirò fuori una meravigliosa penna d'aquila dorata!

Nuvola Rossa la afferrò e la sollevò con un urlo di gioia. Gli altri accorsero pieni di stupore.

Falco Stanco rivolgendosi a Nuvola Rossa disse: "Hai vinto la prova, perché la forza più grande è la forza dell'amore, e tu hai dimostrato di averla aiutandomi. Nuvola Rossa ha avuto il coraggio di fare quello che nessuno voleva fare!".

I piccoli indiani si guardarono l'un l'altro, poi dissero: "E' vero, la forza più grande è l'amore e adesso anche noi vogliamo fare come Nuvola Rossa!".

Falco Stanco li salutò con la mano e pensò: "Sì, questo è stato un giorno importante per i piccoli indiani perché hanno imparato che c'è qualcosa nella vita che vale più dell' arrivare primi".

amoresolidarietàdonaregratuitàgenerosità

4.7/5 (9 voti)

inserito il 10/07/2013

RACCONTO

6. Perché le persone gridano quando sono arrabbiate   3

Mahatma Gandhi

Un giorno un pensatore indiano fece la seguente domanda ai suoi discepoli:
"Perché le persone gridano quando sono arrabbiate?".
"Gridano perché perdono la calma", rispose uno di loro.
"Ma perché gridare, se la persona è vicina?", disse nuovamente il pensatore.
"Bene, gridiamo perché desideriamo che l'altra persona ci ascolti", replicò un altro discepolo.
E il maestro tornò a domandare: "Allora non è possibile parlargli a voce bassa?".
Varie altre risposte furono date ma nessuna convinse il pensatore.

Allora egli esclamò: "Voi sapete perché si grida contro un'altra persona quando si è arrabbiati? Il fatto è che, quando due persone sono arrabbiate, i loro cuori si allontanano molto. Per coprire questa distanza bisogna gridare per potersi ascoltare. Quanto più arrabbiati sono, tanto più forte dovranno gridare per sentirsi l'uno con l'altro. D'altra parte, che succede quando due persone sono innamorate? Loro non gridano, parlano soavemente. E perché? Perché i loro cuori sono molto vicini. La distanza tra loro è piccola. A volte sono talmente vicini i loro cuori che neanche parlano, solamente sussurrano. E, quando l'amore è più intenso, non è necessario nemmeno sussurrare, basta guardarsi. I loro cuori si intendono. E' questo che accade quando due persone che si amano si avvicinano!".

Infine il pensatore concluse dicendo: "Quando voi discuterete, non lasciate che i vostri cuori si allontanino, non dite parole che li possano distanziare di più, perché arriverà un giorno in cui la distanza sarà tanta che non incontreranno mai più la strada per tornare".



amoreaffettodistanzavicinanzaascoltodialogovocecoppiamatrimoniosposicomunicarecomunicazioneurlaurlare

4.5/5 (4 voti)

inviato da Massimo Fasanaro, inserito il 22/06/2009

RACCONTO

7. Il sasso nel ruscello   1

Piero Gheddo, Il Vangelo delle 7.18, De Agostini 1989

Tempo fa un grande maestro indiano di vita spirituale scrisse: «Sono seduto sulla riva di un ruscello e osservo un sasso rotondo immerso nell'acqua. Da quanti anni il sasso è bagnato dall'acqua? Forse da dieci, forse da cento? Ma l'acqua non è riuscita a penetrare nel sasso. Se spacco quella pietra, dentro è asciutta.»

Così è anche per noi, che viviamo immersi in Dio e non ce ne lasciamo penetrare: Dio rimane alla superficie della nostra vita, non ci trasforma perché non siamo disposti a lasciarci penetrare e trasformare dall'amore di Dio. Siamo come un sasso nel ruscello che nel suo interno rimane asciutto.

rapporto con Diolibertà

inviato da Anna Lianza, inserito il 29/11/2002

TESTO

8. Il perdono   1

proverbio indiano

L'uomo che perdona è simile al legno del sandalo, che profuma l'accetta mentre lo colpisce.

perdono

inviato da Ilaria Zocatella, inserito il 28/11/2002

ESPERIENZA

9. La messa si fa missione

padre Giovanni Dutto, Eucarestia, cuore della missione

Ad un giovane medico indiano, induista e profondamente religioso, venne offerta una borsa di studio per l'università di Roma: avrebbe potuto specializzarsi in chirurgia. Nella sua città non c'era nessun chirurgo. Egli ne fu felicissimo, evidentemente per la specializzazione, ma anche per un motivo religioso: avrebbe incontrato persone di altre religioni e avrebbe potuto pregare con loro. E' una nota culturale ed eclettica comune agli Indù. Per loro tutte le religioni sono ugualmente valide e tutte, per vie diverse, portano allo stesso fine. Nessuna religione può pretendere di essere l'unica vera e di conseguenza non ha senso convertirsi da una all'altra. La pensava così anche Gandhi, che ammirava Cristo e fece proprio il discorso della montagna, ma non pensò mai di divenire cristiano e condannò l'opera dei missionari cattolici. Si legge in un libro indù: "Il cristiano non deve diventare un indù, né un buddista. Un indù, o un buddista, non deve diventare un cristiano. Ognuno deve assimilare lo spirito altrui e conservare nel tempo stesso la propria individualità" (Vivekananda).

Durante il viaggio il nostro medico entrò nelle moschee e pregò con i musulmani. Incontrò gli ebrei e volle pregare con loro nelle sinagoghe. A Roma, si riprometteva di pregare anche con i cristiani. Non conosceva nulla del cristianesimo. Aveva intuito solo che i cristiani a volte si radunano in edifici particolarmente belli, per pregare insieme.

Fu così che una domenica si unì alla folla che entrava in S. Andrea della Valle. Era per la Messa, ma lui non la conosceva: era unicamente animato da una grande attenzione per poter pregare con i cristiani. Ad un certo momento vide tutti frugare nelle tasche e offrire del denaro, mentre una processione si mosse dal fondo della chiesa: venivano portati dei pani e dei vasi, che il sacerdote accolse ed elevò sull'altare con somma dignità. Pensò: "Si vede che i cristiani, quando pregano, donano qualche cosa".

Non aveva portato nulla con sé. Si sentì indotto a supplire con una preghiera: "Signore, lavorerò per i poveri".

Ora diventato chirurgo, è nella sua città natale, Madras, ed è il primario dell'ospedale. E' famoso per questo: non si concede tempo libero, e dopo il normale turno quotidiano si attarda ancora nel suo studio per ricevere i poveri, e li riceve gratuitamente!

Lo Spirito Santo aveva trovato la via aperta per comunicarsi a lui e ispirargli il dono di sé.

Questo medico insegna la partecipazione: a Messa non si va "come estranei o muti spettatori" (Sacrosanctum Concilium 47). Ma soprattutto insegna che la Messa si proietta sulla vita. Il medico induista non fu più quello di prima: quella Messa lo fece missionario dell'amore.

La Messa ci fa "sacrificio a Dio gradito", cioè persone nuove, toccate da Lui. La Messa ci ha chiamati, ci ha trasformati e ci invia. Messa e vita; Messa e missione, dunque!

L'esperienza dell'Eucarestia non si chiude alle spalle con le porte della chiesa dopo la celebrazione, ma "va'" in tutto il mondo. Ci è stato detto: "La Messa è finita". Il suo genuino significato è: "La Messa non è finita". "Si scioglie l'assemblea perché ognuno torni alle sue occupazioni lodando e benedicendo Dio".

La carica eucaristica è tale che riscopre il suo vero nome: missione.

E' la missione della pace, come suggerisce l'augurio liturgico: "andate in pace!".

EucaristiamissionetestimonianzasacrificioMessaoffertorio

5.0/5 (2 voti)

inviato da Stefania Raspo, inserito il 11/06/2002

RACCONTO

10. Le tre pipe   3

Bruno Ferrero, Il canto del grillo

Un vecchio saggio indiano dava questo consiglio agli irruenti giovani della sua tribù: «Quando sei ve­ramente adirato con qualcuno che ti ha mortalmente offeso e decidi di ucciderlo per lavare l'onta, prima di partire siediti, carica ben bene di tabacco una pipa e fumala.

Finita la prima pipa, ti accorgerai che la mor­te, tutto sommato, è una punizione troppo grave per la colpa commessa. Ti verrà in mente, allora, di an­dare a infliggergli una solenne bastonatura.

Prima di impugnare un grosso randello, siediti, carica una seconda pipa e fumala fino in fondo. Alla fine penserai che degli insulti forti e coloriti po­trebbero benissimo sostituire le bastonate.

Bene! Quando stai per andare a insultare chi ti ha offeso, siediti, carica la terza pipa, fumala, e quan­do avrai finito, avrai solo voglia di riconciliarti con quella persona».

I monaci di un convento trovavano molta difficoltà ad andare d'accordo. Spesso scoppiavano dispute, anche per motivi futili. Invitarono allora un maestro di spirito che affermava di conoscere una tecnica ga­rantita per portare l'armonia e l'amore in ogni gruppo. A loro il maestro rivelò il suo segreto: «Ogni volta che sei con qualcuno o ce l'hai con qualcuno, devi dire a te stesso: io sto morendo e anche questa persona sta morendo. Se pensi veramente a queste parole, ogni amarezza scomparirà».

perdonopazienzacomunitàconviverepace interiore

inviato da Luca Mazzocco, inserito il 03/06/2002

TESTO

11. Succede....   2

Alessandro Pronzato

La vita è così... Sono cose che capitano. Succede...
Sì.

Succede che io stia bene e quell'altro languisce in un sanatorio. Succede che io rischi l'indigestione e l'indiano muore di fame.

Succede che io tenga il mio bravo conto in banca e il vicino di casa vada a impegnare una coperta al Monte di Pietà.

Succede che io mi preoccupi per scegliere la villeggiatura e la famiglia di fronte si disperi per il pagamento dell'affitto (due camere in otto).

Succede che io vada in ufficio con l'utilitaria - è più maneggevole della coupé - e lo scaricatore si presenti alle 6 di mattino sulla banchina del porto a vedere se qualcuno ha bisogno delle sue braccia.
Succede che i miei figli ricevano per Natale dei doni favolosi e quella bambina sarda scriva: "Caro Gesù Bambino, vorrei una mela...".
Succede.

Succede che io sia un buon cristiano e quegli altri no.

Succede che io faccia l'elemosina e quegli altri la ricevano.

Succede che io abbia (o mi illuda di avere) Cristo senza la Croce, e quegli altri la croce senza il Cristo.
Succede.

Il gioco della vita è bizzarro. "A chi tocca tocca" (purché tocchi sempre agli altri).

Ma ho già i miei fastidi, io! Perché occuparmi di quelli degli altri?

Che c'entro io?

C'entri, eccome! Dal momento che c'entra anche Dio.

Ecco, ora mi sembra sia possibile rispondere a una semplicissima domanda del catechismo: "Dov'è Dio?".
"Dio è all'altro capo della croce".
La mia croce. Proprio questa. E anche quella dell'altro.

Dovunque ci sia una croce, non c'è che da afferrarla con le mie mani. Da un lato qualsiasi. Dall'altro c'è sempre Lui.
D'ora in poi so dove trovarlo.

crocesofferenzasolidarietàingiustiziapovertà

5.0/5 (1 voto)

inviato da Stefania Raspo, inserito il 09/05/2002

TESTO

12. Lettera del Capo Indiano Sealth

Capo indiano Sealth della tribù Duwanish

Il grande capo che sta a Washington ci manda a dire che egli desidera acquistare la nostra terra. Come si può comprare o vendere il cielo - il calore della terra? La cosa ci sembra strana. Noi non siamo proprietari della purezza dell'aria, dello scintillio delle acque. Come si può comprare tutto questo da noi. Ogni angolo di questa terra è sacro per il mio popolo. Ogni lucente ago di pino, ogni spiaggia sabbiosa, ogni bruma nei boschi oscuri, ogni insetto ronzante è sacro nella memoria e nell'esperienza del mio popolo. Noi sappiamo che l'uomo bianco non capisce i nostri motivi. Una porzione di terra è eguale a qualsiasi altra per lui, perché egli è uno straniero che viene nella notte e prende dalla terra qualsiasi cosa di cui abbia bisogno. La terra no è sua sorella, ma sua nemica, e quando l'ha acquistata, l'abbandona. Egli lascia la tomba di suo padre e il luogo dove i suoi figli sono nati viene dimenticato.

Non ci sono posti quieti nella città dell'uomo bianco. Nessun posto dove sentire lo struscio delle foglie primaverili o il frusciare delle ali degli insetti. Ma forse io sono un selvaggio e non capisco. Ma che senso ha la vita se un uomo non può sentire il piacevole gridare del succiacapre o il gracidare della rana di notte attorno allo stagno?

I bianchi pure passeranno - forse più presto di altre tribù. Continuate a contaminare il letto dove vivete e una notte, quando i bufali saranno stati tutti massacrati, i cavalli selvaggi tutti domati, i più segreti angoli della foresta saranno appesantiti dal lezzo di molti uomini, e i panorami delle fertili colline sfigurati dalle linee dei fili che portano parole, soffocherete nei vostri rifiuti. Dove sarà la selva? Sparita. Dove sarà l'aquila? Sparita. Che senso avrà dire addio al rondone e alle cacce se non la fine della vita e l'inizio della sopravvivenza?

ecologianaturacreato

inviato da Emilio Centomo, inserito il 05/05/2002

PREGHIERA

13. Non giudicare mai   1

Preghiera di un vecchio indiano sioux

O grande Spirito aiutami a non giudicare mai gli altri
prima di aver camminato due settimane nei loro pensieri.

apparenzenon giudicareinterioritàesterioritàgiudizio

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 22/04/2002