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24 novembre 2024
XXXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO B) - CRISTO RE
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TESTO
Carlo Maria Martini, La famiglia alla prova
Il Signore chiama solo per rendere felici. Le possibili scelte di vita, il matrimonio e la vita consacrata, la dedizione al ministero del prete e del diacono, l'assunzione della professione come una missione possono essere un modo di vivere la vocazione cristiana se sono motivate dall'amore e non dall'egoismo, se comportano una dedizione definitiva, se il criterio e lo stile della vita quotidiana è quello del Vangelo.
La prima è quella di essere marito e moglie, papà e mamma. L'inerzia della vita con le sue frenesie e le sue noie, il logorio della convivenza, il fatto che ciascuno sia prima o poi una delusione per l'altro quando emergono e si irrigidiscono difetti e cattiverie, tutto questo finisce per far dimenticare la benedizione del volersi bene, del vivere insieme, del mettere al mondo i figli e introdurli nella vita. L'amore che ha persuaso al matrimonio non si riduce all'emozione di una stagione un po' euforica, non è solo un'attrazione che il tempo consuma. L'amore sponsale è vocazione: nel volersi bene, marito e moglie possono riconoscere la chiamata del Signore.
Il matrimonio non è solo la decisione di un uomo e di una donna: è la grazia che attrae due persone mature, consapevoli, contente, a dare un volto definitivo alla propria libertà. Il volto di due persone che si amano rivela qualcosa del mistero di Dio. Vorrei pertanto invitare a custodire la bellezza dell'amore sponsale e a perseverare in questa vocazione: ne deriva tutta una concezione della vita che incoraggia la fedeltà, consente di sostenere le prove, le delusioni, aiuta ad attraversare le eventuali crisi senza ritenerle irrimediabili.
Chi vive il suo matrimonio come una vocazione professa la sua fede: non si tratta solo di rapporti umani che possono essere motivo di felicità o di tormento, si tratta di attraversare i giorni con la certezza della presenza del Signore, con l'umile pazienza di prendere ogni giorno la propria croce, con la fierezza di poter far fronte, per grazia di Dio, alle responsabilità. Non sempre gli impegni professionali, gli adempimenti di famiglia, le condizioni di salute, il contesto in cui si vive, aiutano a vedere con lucidità la bellezza e la grandezza di questa vocazione. È necessario reagire all'inerzia indotta dalla vita quotidiana e volere tenacemente anche momenti di libertà, di serenità, di preghiera.
Invito pertanto a pregare insieme: una preghiera semplice per ringraziare il Signore, per chiedere la sua benedizione per sé, i figli, gli amici, la comunità: qualche Ave Maria per tutte quelle attese e quelle pene che forse non si riescono neppure a dire tra i coniugi.
Invito ad aver cura di qualche data, a distinguerla con un segno, come una visita a un santuario, una messa anche in giorno feriale, una lettera per dire quelle parole che inceppano la voce: la data del matrimonio, quella del battesimo dei figli, quella di qualche lutto familiare, tanto per fare qualche esempio.
Invito a trovare il tempo per parlare l'uno all'altro con semplicità, senza trasformare ogni punto di vista in un puntiglio, ogni divergenza in un litigio: un tempo per parlare, scambiare delle idee, riconoscere gli errori e chiedersi scusa, rallegrarsi del bene compiuto, un tempo per parlare passeggiando tranquillamente la domenica pomeriggio, senza fretta. E invito a stare per qualche tempo da soli, ciascuno per conto suo: un momento di distacco può aiutare a stare insieme meglio e più volentieri.
Invito infine gli sposi ad avere fiducia nell'incidenza della loro opera educativa: troppi genitori sono scoraggiati dall'impressione di una certa impermeabilità dei loro figli, che sono capaci di pretendere molto, ma risultano refrattari a ogni interferenza nelle loro amicizie, nei loro orari, nel loro mondo. La vocazione dei genitori a educare è benedetta da Dio: perciò occorre che essi trasformino le loro apprensioni in preghiera, meditazione, confronto pacato. Educare è come seminare: il frutto non è garantito e non è immediato, ma se non si semina è certo che non ci sarà raccolto. Educare è una grazia che il Signore fa: occorre accoglierla con gratitudine e senso di responsabilità. Talora richiederà pazienza e amabile condiscendenza, talora fermezza e determinazione, talora, in una famiglia, capita anche di litigare e di andare a letto senza salutarsi: ma non bisogna perdersi d'animo, non c'è niente di irrimediabile per chi si lascia condurre dallo Spirito di Dio. Ed esorto ad affidare spesso i figli alla protezione di Maria, a non tralasciare una decina del rosario per ciascuno di loro, con fiducia e senza perdere la stima né di se stessi né dei propri figli. Educare è diventare collaboratori di Dio perché ciascuno realizzi la sua vocazione.
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inviato da Qumran2, inserito il 30/06/2017
TESTO
La santa sera tutto era pronto, a Greccio, come frate Francesco aveva desiderato; verso l'ora di mezzanotte, tutto il popolo di quei pressi era convenuto intorno al presepe per festeggiare la nascita del Signore. Come ci racconta Tomaso da Celano: «Greccio era diventata una nuova Betlemme; la foresta risuonava di voci melodiose e le rocce echeggiavano ai canti della folla». Ognuno portava torce accese, mentre, vicino al presepe, stavano i frati coi loro ceri; tanto che i boschi erano rischiarati come fosse pieno giorno. Sulla mangiatoia che serviva d'altare, un prete lesse la messa, perché il divino fanciullo fosse presente, sotto le specie del pane e del vino, al modo stesso che lo era stato corporalmente a Betlemme. Ci fu pure un istante in cui Giovanni Vellita ebbe l'impressione di vedere un vero bambino coricato nella mangiatoia, ma che sembrava morto, o, per lo meno, addormentato. Ed ecco che frate Francesco si avvicina al bambino e lo prende teneramente tra le braccia; ed ecco che anche il bambino si sveglia, sorride a frate Francesco, e, con le sue piccole mani, gli accarezza le guance barbute e la stoffa grigia della sottana! Visione che, del resto, non aveva nulla di stupefacente per messer Vellita: poiché egli conosceva già parecchi cuori, in cui, allo stesso modo, Gesù era stato morto, o per lo meno addormentato, fino al giorno in cui frate Francesco, con la sua parola e il suo esempio, non l'aveva risvegliato e risuscitato.
Dopo la lettura del Vangelo, frate Francesco, in veste di diacono, si avanzò verso la folla. «Sospirando profondamente, ci dice Celano, accasciato sotto la pienezza della sua pietà, e traboccante di meravigliosa gioia, il santo di Dio si drizzò presso la mangiatoia. E la sua voce, la sua voce forte e dolce, la sua voce chiara e sonora, trascinò gli uditori a ricercare il bene supremo».
Frate Francesco predica alla folla. «Con parole d'una dolcezza squisita, parla del povero re nato quella notte che è il Signore Gesù, nella città di David. E, ogni volta che vuole pronunciare il nome di Gesù, ecco che egli è tutto arso dal fuoco del suo amore, e che, invece di dirgli questo nome, lo chiama teneramente il Bambino di Betlemme! E, questa parola Betlemme, la dice col tono d'un agnello belante; e quando ha proferito il nome di Gesù, lascia scivolare la lingua sulle labbra, come per assaporare la dolcezza che quel nome ha sparso dietro di sé, passando su quelle labbra. E non fu che molto tardi che terminò quella santa notte di vigilia, e che ciascuno, con il cuore pieno di gioia, se ne ritornò alla sua casa».
«In seguito, questo luogo, dove era stato piantato il presepe, fu consacrato al Signore con l'erezione di un tempio; e sopra la mangiatoia fu alzato un altare in onore del nostro beato Padre Francesco: così che, là dove poco prima le bestie senza ragione mangiavano il fieno dalla greppia, oggi gli uomini, per la salute delle loro anime e del loro corpo, ricevono l'Agnello immacolato, Nostro Signore Gesù Cristo, che, spinto da ineffabile amore, ha dato la sua carne per la vita del mondo, e che, col Padre e lo Spirito Santo, vive e regna in somma grandezza per tutti i secoli dei secoli. Così sia!».
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inviato da Franco Canzian, inserito il 19/12/2007