I tuoi ritagli preferiti

PERFEZIONA LA RICERCA

Tutti i ritagli

Indice alfabetico dei temi

Invia il tuo ritaglio

Hai cercato dico

Hai trovato 71 ritagli

Ricerca avanzata
tipo
parole
tema
fonte/autore

PREGHIERA

1. Lettera a Gesù Bambino   1

Giuliano Guzzo, www.giulianoguzzo.com

Caro Gesù Bambino,

una manciata di giorni e sarà il Tuo, se ancora vorrai visitare quest'umanità distratta e sperduta, in tutt'altre faccende affaccendata. E' incredibile, infatti, eppure accade ogni anno: si avvicina il Natale e di tutto ci si occupa - di mercatini, di cibo, di idee regalo, di pandori con la farina di insetti - fuorché della Ragione di Tutto, del Regalo dei Regali, di un Dio che non solo non se la tira, ma si umilia fino a farsi neonato, minuto ospite del mondo che Egli stesso ha creato; un po' come se Messi chiedesse di iscriversi alla squadra dei pulcini; se Federer elemosinasse la racchetta più economica; se Armani si aggirasse, sognante, fra bancarelle di capi di terza mano.

Un meraviglioso ed abbagliante paradosso che solo a Te, caro Gesù, sarebbe potuto venire in mente. Tuttavia, dicevo, quaggiù si stenta a rendersene conto. Non chiedermene la ragione, ma è così. La prima richiesta che mi permetto di avanzare con questa lettera è, quindi, quella di donarci lo stupore per la Tua venuta, il desiderio di fiondarci tra pecore e pastori, di bramare un posto che - oggi come 2000 e passa anni fa, purtroppo - pare interessi a pochi: quello dinnanzi a una grotta senza viste panoramiche, Jacuzzi né pavimento riscaldato ma con, dentro, una Grande Luce. Anzi, la sola vera Luce, al cui confronto le stesse stelle più splendenti non sono che fiacche lampadine.

La seconda richiesta che Ti rivolgo, sono Giga spirituali illimitati. La voglia di tornare a pregare, di farlo con intensità, fermi e in ginocchio, cosa oggi non facile. Come difatti saprai, qui è un continuo invito alla corsa: corri per affermarti, corri per cogliere l'attimo, corri per vincere, corri per restare in forma. Lo stesso Avvento è stato da tempo rimpiazzato dalla «corsa per gli acquisti»; come se a Natale si festeggiassero dei centometristi giamaicani e non un Bambino che, pur non potendo ancora camminare, ha fatto fare - da subito - enormi balzi in avanti all'umanità. Regalaci, insomma, la capacità di tornare ad affidarci a Te, la sola Bussola di cui abbisogna quel povero migrante che è il nostro cuore.

Sperando di non esagerare, avrei un terzo e ultimo desiderio. Ti vorrei chiedere di salutarci tanto, prima di venirci a trovare, Charlie Gard e tutti i piccoli come lui, scartati da un mondo che, da tempo, non sa più dare un significato alla fragilità, un senso al dolore, una direzione alle lacrime. Già lo sapranno, ma è bene che a questi Angeli venga ricordato che alcuni, qui, non si sono dimenticati di loro e che in loro nome continueranno a sottolineare che, se non si è favorevoli ad accogliere sempre la Vita, si può ben festeggiare Halloween, il Black Friday e, che so, la giornata mondiale del peto, ma il Natale, ecco, meglio lasciarlo stare. Per un briciolo di coerenza, se non altro.

Detto questo, caro Gesù, concludo - oltre che con la speranza le Poste Celesti sappiano recapitare questo messaggio per tempo dato che con l'eternità, sai com'è, hanno già abbastanza pratica quelle Italiane - con un ringraziamento. Ti ringrazio, senza voler dare ciò per scontato, per essere in viaggio e per riposare già nel ventre di Maria, al sicuro, dove le unghie e i soldati degli Erode, inclusi gli odierni, non possono arrivare. Non saprei dire, adesso, quanti saremo ad accoglierTi come meriti, ma dico grazie fin d'ora per la gioia che vorrai condividere col Tuo gregge, anche se è quello che è. Siamo infatti solo poveri diavoli stanchi di credersi grandi. Ma è per questo, in fondo, che aspettiamo un Bambino.

nataleavventoaccoglienzaspiritualitàstuporevita

inviato da Qumran2, inserito il 19/02/2018

TESTO

2. Lettera a coloro che si sentono falliti   2

Tonino Bello, Antologia degli Scritti, Vol. 2, pagg. 363-368

Questa lettera la scrivo un po' anche a me. Sono convinto, infatti, che tutti nella vita ci siamo portati dentro un sogno, che poi all'alba abbiamo visto svanire...

I destinatari, comunque, di questa lettera non sono coloro che, come me, sperimentano le delusioni dei sogni e il pianterreno prosaico delle piccole conquiste. Ma sono tutti quelli che non ce l'hanno fatta a raggiungere neppure gli standard sui quali "normalmente" scorre una esistenza che voglia dirsi realizzata.

Amerigo, per esempio, che ha faticato tanto per laurearsi in medicina e, immediatamente dopo la specializzazione, ha dovuto accantonare ogni progetto di brillante carriera per un distacco irreversibile della retina.

Ugo, ragazzo prodigio fino alla maturità classica che si è insabbiato nelle secche degli esami universitari, e non è più riuscito a districarsene. Oggi ha quarant'anni, e sua moglie, ad ogni lite, gli rinfaccia il fallimento di essersi ridotto a fare il fattorino presso lo studio di un avvocato.

Marcella, a cui tutti profetizzavano un futuro carico di successi, e che dopo i corsi di perfezionamento in pianoforte all'Accademia Chigiana di Siena ha avuto decine di occasioni per affermarsi. Ha rifiutato tanti partiti, uno meglio dell'altro. Alla fine si è messa con un uomo divorziato che è fallito, e ha dovuto vendersi il pianoforte a coda che le aveva comprato suo padre.

Lucia che straripava di entusiasmo, e voleva diventare missionaria. In primavera sfogliava le margherite per leggervi presagi di felicità, ma poi non è partita perché i suoi l'hanno ostacolata. Ora margherite non ne sfoglia più, ed è finita a fare la commessa in un negozio di articoli da regalo.

Ecco, a tutti voi che avete la bocca amara per le disillusioni della vita voglio rivolgermi, non per darvi conforto col balsamo delle buone parole, ma per farvi prendere coscienza di quanto siete omogenei alla storia della salvezza.

A voi che, cammin facendo, avete visto sfiorire a uno a uno gli ideali accarezzati in gioventù. A voi che avete meritato ben altro, ma non avete avuto fortuna, e siete rimasti al palo. A voi che non avete trovato mai spazio, e siete usciti da ogni graduatoria, e vi vedete scavalcati da tutti. A voi che una malattia, o una tragedia morale, o un incidente improvviso, o uno svincolo delicato dell'esistenza, hanno fatto dirottare imprevedibilmente sui binari morti dell'amarezza. A voi che il confronto con la sorte felice toccata a tanti compagni di viaggio rende più mesti, pur senza ombra di invidia.

A tutti voi voglio dire: "Volgete lo sguardo a Colui che hanno trafitto!".

La riuscita di una esistenza non si calcola con i fixing di Borsa. E i successi che contano non si misurano con l'applausometro delle platee, o con gli indici di gradimento delle folle.

Da quando l'Uomo della Croce è stato issato sul patibolo, quel legno del fallimento è divenuto il parametro vero di ogni vittoria, e le sconfitte non vanno più dimensionate sui naufragi in cui annegano i sogni. Anzi, se è vero che Gesù ha operato più salvezza con le mani inchiodate sulla Croce, nella simbologia dell'impotenza, che non con le mani stese sui malati, nell'atto del prodigio, vuol dire, cari fratelli delusi, che è proprio quella porzione di sogno, che se n'è volata via senza realizzarsi, a dare ai ruderi della nostra vita, come per certe statue monche dell'antichità, il pregio della riuscita.

Non voglio sommergervi di consolazioni. Voglio solo immergervi nel mistero. Nella cui ottica una volta entrati, vi accorgerete che gli stralci inespressi della vostra esistenza concepita alla grande, le schegge amputate dei vostri progetti iniziali, le inversioni di marcia sulle vostre carreggiate mai divenute carriere, non sono inutili, ma costituiscono il fondo di quella Cassa deposito e prestiti che alimenta ancora oggi l'economia della salvezza.

A nome di tutti coloro che ne beneficiano vi dico grazie!

fallimentocrocecrocifissosalvezzasuccessoprogettisogni

inviato da Qumran2, inserito il 02/12/2017

ESPERIENZA

3. Fino all'ultimo respiro

Padre Modesto Paris, Panorama, num. 23/2017

Mancano poche ore al mio intervento di tracheostomia. Alcuni giorni fa ho dovuto prendere una decisione che non prevede ripensamenti. Non si può più tornare indietro. Mai avrei pensato di affrontare questa scelta a 59 anni. Ma i dottori mi hanno detto chiaro e tondo che sono arrivato alla fine del mio sentiero. Manca poco. E se non mi faccio aiutare con un foro nella trachea per far passare un tubo da collegare a una macchina esterna, il mio corpo non ce la farà più a respirare in maniera autonoma. L'alternativa era una sola: finire la mia permanenza terrena in modo dolce, addormentato. Da due anni mi hanno diagnosticato la Sla, sclerosi laterale amiotrofica, una malattia neurodegenerativa progressiva che, un pezzo alla volta, ha bloccato tutte le mie funzioni motorie e vitali. I medici sono stati chiari: mi hanno detto che solo il 15 per cento delle persone nelle mie condizioni decide di continuare a lottare. Il mio sì alla vita, nonostante le statistiche, è stato però immediato, senza esitazioni. E non solo perché sono un uomo di fede, un frate agostiniano scalzo, ordinato sacerdote 33 anni fa da Papa Giovanni Paolo II. L'ho fatto perché amo la vita in ogni sua sfaccettatura.

Ho puntato tutto il mio sacerdozio sull'esempio. Non potevo tirarmi indietro proprio ora. Per tutti i miei anni con il saio l'ho predicato in migliaia di Messe, in chiesa o in cima alle montagne. Agli adulti o ai giovani delle associazioni che ho fondato, ho sempre proposto un modello di vita basato su una fede viva aperta e gioiosa. Anche nelle difficoltà. Specialmente nelle difficoltà. Mentre sono sul letto su cui aspetto la chiamata per la sala operatoria, arriva una telefonata. È Guido. Il mio amico di sempre, compagno di tutte le mie avventure e "pazzie" nel volontariato. Lo conosco da quando ha cominciato a fare il chierichetto con me 40 anni fa. Io avevo 18 anni, lui 8. Ora è giornalista di Panorama. E nonostante abiti a 150 chilometri di distanza e abbia appena avuto un figlio, non ha mai smesso di credere ai miei sogni. Mi chiama e chiede se voglio raccontare a tutti i lettori perché ho detto sì. Perché non mi voglio arrendere. Se potessi ancora parlare ripeterei a gran voce queste parole di Papa Francesco: "Il dolore è dolore, ma vissuto con gioia e speranza ti apre la porta alla gioia di un frutto nuovo". Non potendo urlare lo scrivo sul tablet che mio fratello Andrea sorregge. Uso tre dita della mano destra. L'unica parte di me che ancora riesco a muovere. Oltre agli occhi.

Vado a ruota libera. Metto in fila i pensieri che come un lampo hanno attraversato la mia mente, gli istanti prima del mio sì. In camera mia i ragazzi hanno appeso al soffitto un aquilone con una scritta. Così una frase che ho ripetuto tantissime volte a chi era in difficoltà, ora diventa uno sprone anche per me quando apro le palpebre. "L'aquilone prende il volo solo con il vento contrario". In questi mesi l'ho guardata dalla mattina alla sera per ore e ore. Il vento, in questo periodo, è stato costantemente, ostinatamente, contrario. E proprio per questo ho continuato a volare. La mia decisione per il sì alla respirazione artificiale non è arrivata subito. È frutto di un cammino in salita che dura da mesi. A ogni ostacolo è seguita sempre una soluzione. E la vita è andata avanti. E io sono stato felice. Per prima cosa la malattia mi ha bloccato le corde vocali. Da quasi un anno non parlo più. Ma in mio aiuto è arrivato il comunicatore: un computer che parla al posto mio traducendo in messaggi audio i pensieri che digito sulla tastiera. Grazie a questo strumento tecnologico, per me la Messa non è mai finita. Ho potuto celebrare quasi tutte le domeniche. Anche in ospedale. Persino in diretta su Facebook. L'attenzione è addirittura aumentata. E ho visto tornare in chiesa tanti giovani che si erano smarriti. Poi ha smesso di funzionare la mia deglutizione e lo stomaco. Mi hanno messo un "rubinetto" nella pancia che permette di alimentarmi artificialmente. I canederli di mia madre e la pasta al pesto sono solo un ricordo.

Ma riesco a farne a meno. Sono pure dimagrito e tornato un figurino. Di Sant'Agostino cito spesso una frase: "È meglio aver meno desideri che avere più cose". E mentre scrivo queste righe capisco quanto sia vera. Non so spiegarlo, ma mi sento fortunato. Vado avanti e dico sì anche al rubinetto. Prima l'una poi l'altra, si sono fermate le gambe. E poi il braccio sinistro. Da bravo trentino, come un montanaro su un sentiero, ho continuato a salire in vetta. Questa volta sono spinto da una carrozzina elettrica ultratecnologica che io chiamo Bcs come il mio primo trattore. Penso e ripenso all'ok che ho scritto sulla lavagnetta ai medici e il sì diventa sempre più mio: ho sempre osato nella vita. Mi sono sempre spinto oltre. Per questo per me il sì è venuto spontaneo. Lo dico e lo ripeto più volte a me stesso, chi mi conosce condivide. Chi mi vuole bene sorride orgoglioso di questo sì. Un infermiere mi ha sorpreso: ha detto che il dolore va sempre prevenuto con medicine ad hoc. Ma senza dolore e sacrificio, la vita è noia. Non mi sento un grande, ma un piccolo Modesto che ha sempre sognato oltre le stelle. Questa nuova macchina mi aiuterà a respirare e a mantenere il mio sorriso anche quando non potrò nemmeno fare ok con il pollice: con il cuore e con gli occhi sarà facile farmi capire da chi mi vuol bene. Sant'Agostino scrive: "Ama, e fa' quello che vuoi". Si ama con il cuore e con gli occhi. Quindi non cambierà nulla nemmeno questa volta. Tante sono le cime che ho scalato insieme ai ragazzi e agli adulti dei gruppi che in questi anni ho fondato.

Ci sono vette che vedi sempre mentre stai salendo, scorgi i sentieri, sai benissimo dove si trova la meta perché l'hai raggiunta tante volte. Altre vette non le vedi, le immagini, le sogni. Alcune hanno bisogno di gambe buone, altre di un cuore grande, altre di grinta, altre di tanta fede. Gli infermieri mi chiudono il computer. Ho scritto tutta la notte. Sono esausto. È ora di andare sotto i ferri. E tutto quello che ho digitato forse non potrò leggerlo sfogliando Panorama. Porto con me in sala operatoria il fazzoletto promessa simbolo di appartenenza ai gruppi e una piccola croce di legno. È venerdì, sono le 9 di mattino. Proprio il giorno e l'ora in cui Gesù è stato crocifisso. Ho paura, ma cerco di non farlo vedere. L'anestesia sta svanendo. Mi sono svegliato, respiro bene. Quelli che vedo sono i miei amici di sempre. Sono angeli, ma non hanno le ali. Sono ancora vivo. Chiedo il computer. Voglio finire di scrivere le ragioni del mio sì alla vita. Mi viene in mente un racconto che mi ha fatto un giorno la caposala, trentina di nascita, genovese d'adozione, come me. Mi parla di una ragazza che ha assistito 30 anni fa. Si chiama Paola: a 19 anni, presenta disturbi motori e neurologici. Non si cita la Sla perché non la si conosceva ancora. Soltanto nove anni dopo le comunicano di avere proprio quella malattia. Paola conosce Alessandro, mentre riesce ancora a camminare e gli rivela sin da subito di essere malata. Paola e Alessandro si sposano e poco tempo dopo decidono di avere un figlio. Nel frattempo la malattia di Paola va avanti e non le permette più di camminare. I medici non sono favorevoli alla gravidanza perché pensano che possa essere troppo rischiosa. E invece nasce Luca un bimbo bellissimo e sano. Paola, poco per volta, perde tutte le sue funzionalità motorie e respiratorie, si deve sottoporre a vari interventi come quelli che ho affrontato io. Alimentazione assistita e tracheotomia.

Oggi la sua è una bellissima famiglia. Luca ha 18 anni, Paola muove solo gli occhi e Alessandro sa usare con molta abilità tutte le macchine che tengono in vita la moglie. Tantissimi sono gli amici che a turno vanno ad aiutare la sua famiglia e a chi le chiede come possa vivere così lei risponde: "Io sono felice così". Anche io sono felice così. Perché finché vivo mi posso nutrire della vita degli altri. Della grande famiglia che in questi anni è cresciuta con me. Vivo per sapere come vanno le attività dei miei ragazzi, dei gruppi di adulti, dei miei fratelli (e confratelli agostiniani), di mia mamma. Sapere che un giovane che conosco si è sposato o ha avuto un figlio mi riempie di gioia. Vedere un video e le foto di un campo o un bivacco, oppure sapere che una festa del volontariato è riuscita nell'intento di aiutare un orfanotrofio, mi fa sorridere. Mi fa sentire bene. Mi fa sentire vivo. Quanto è vera la frase "la vertigine non è paura di cadere, ma voglia di volare". L'ho ripetuta centinaia di volte per motivare i ragazzi ad arrivare in cima a una montagna. Ora è il mio bastone. La mia fede è rimasta la stessa. Quella fede del montanaro con gli scarponi. Quella del bambino cresciuto in segheria. Primo di sei fratelli ho iniziato a lavorare quando non avevo ancora compiuto 4 anni. Il mio compito era stare accanto alla " bindella a zapar stece", vicino alla sega a nastro per raccogliere le assicelle tagliate che servivano a costruire cassette per le mele. Il mio mondo era quello, lo stesso di mio padre. A 12 anni la chiamata.

Ho lasciato quel mondo per entrare in convento. E non l'ho abbandonato nemmeno quando morì, giovanissimo, mio padre. Lo avevo promesso a mia mamma che, in quell'occasione mi disse: "No nir fora parché se vene fora le come moris en auter". Voleva dire: "Non uscirai mica dal seminario, perché se lo fai è come se morisse un altro". Una frase che mi ha dato la carica per diventare sacerdote e che continua a spronarmi ancora oggi che sono bloccato a letto. È per mia mamma che ho detto sì. Ma non solo. Chiudo con un segreto, che non ho mai rivelato a nessuno. Nel 1985 sono stato ordinato sacerdote da Papa Giovanni Paolo II. Avevo 26 anni. C'è stato un momento, prima che mi ponesse le mani sulla testa, in cui abbiamo scambiato alcune parole. Davanti alla Pietà del Michelangelo, in San Pietro, a Roma, gli ho confidato il mio sogno: fare da guida ai ragazzi e agli adulti nella cordata della vita. Nella frase che ho detto c'era la parola "per sempre". E così è stato. E così sia.

Mercoledì 31 maggio 2017, poco giorni dopo aver scritto questa lettera, il sottile spago che teneva legato alla terra il fragile aquilone si è spezzato, cosi Modesto ha potuto proseguire il volo, verso il cielo.

slamalattiamalatiaccettazionecoraggiodoloresofferenzacrocevitavalore della vitasenso della vita

inviato da Qumran2, inserito il 08/06/2017

PREGHIERA

4. Troppo facile   2

Troppo facile, Signore, ringraziarti
perché mi offri l'acqua.
Io vorrei ringraziarti per la sete.
Non ti rendo grazie per il pane, ma per la fame.
Non ti lodo per la luce, ma per il bisogno di essa.
Non ti dico grazie per l'amore,
ma perché non posso fare a meno dell'amore "vero".
Non ti benedico per la strada,
ma per i passi che mi dai la voglia di fare.
Non ti sono riconoscente per le spiegazioni,
ma per le domande.
Ti ringrazio non per l'incontro,
ma per la veglia nel cuore della notte.
Non per il riposo, ma per l'inquietudine.
Non per l'appagamento, ma per l'insoddisfazione.
Non per il conforto, ma per la scomodità.
Non per le sicurezze e le evidenze, ma per il mistero.
Non per la scoperta, ma per l'avventura esaltante.
Non per le certezze, ma per la ricerca rischiosa.
Non per i risultati, ma per la pazienza ostinata.
Non per la terra promessa, ma per l'esodo.
Non per il dono, ma per l'attesa.
Non per la parola, ma per il silenzio
che la prepara e la esige.
Non per il traguardo raggiunto,
i risultati conseguiti,
ma per le infinite partenze.

attesadonoringraziamentoricercacamminostrada

5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 28/12/2016

RACCONTO

5. Vengo da Samaria

Oliviero Ferro

Nessuno conosce il mio nome. Quel tale che mi ha fatto entrare nel suo racconto ha detto che sono un samaritano. Mi sta bene così, perché quello che ho fatto è una cosa normale per me. Non ho bisogno di pubblicità. Ma, se volete, ve la racconto, a modo mio.

Era un giorno d'estate e faceva molto caldo. Avevo preparato delle cose da andare a vendere a Gerico. Ormai quella strada la conoscevo bene. L'avevo percorsa tante volte. Dopo la sosta in un alberghetto a Gerusalemme, stavo per ripartire, quando un amico mi ha detto di stare attento, perché in questo periodo la strada era pericolosa. Invocai l'aiuto del Signore e cominciai la discesa verso Gerico. Andavo piano, accompagnando il mio asino che faceva fatica. Era sovraccarico. Dovevo fare attenzione che non finisse in un burrone. Quando, ad una curva della strada, sento qualcuno che si lamenta. Affretto il passo e vedo a terra un pover'uomo, pieno di sangue, più morto che vivo. Faccio fermare l'asino contro una roccia e prendo qualcosa per curarlo. Mi faceva compassione. Lui riesce a dirmi qualche parola. Certo, era stato assalito dai banditi che gli avevano portato via tutto e lo avevano picchiato per bene. Mentre lo medicavo, riesce a dirmi che era passato qualcuno prima di me. Mi pare gente che lavorava al tempio (un sacerdote e un levita), ma non si erano fermati. Si vede che avevano fretta. Ma a me interessava lui. Non lo conoscevo, ma lo sentivo come uno della mia famiglia. L'ho pulito per bene e l'ho fasciato. Poi l'ho messo sull'asino e piano piano siamo arrivati a Gerico. Alla prima locanda, lo affido al proprietario, gli do dei soldi e gli dico di accoglierlo come se accogliesse me. E al ritorno, concludo, aggiungerò il resto. Me ne vado a vendere tutte le merci e chissà perché, faccio dei buoni affari. Finalmente, dopo essermi riposato, ritorno alla locanda e trovo l'amico, sano, in piedi. La storia non lo dice, ma ve lo dico io. Ci abbracciamo felici. Lui riprende la sua strada, io la mia. Forse non ci incontreremo più, ma io so che ho incontrato Dio e quell'uomo è diventato mio fratello. Non mi è costato molto fare questo. Mi hanno insegnato a tenere gli occhi aperti e anche il cuore. Così è stato tutto più facile.

buon samaritanomisericordiaopere di misericordiacaritàcompassioneempatia

inviato da P. Oliviero Ferro, inserito il 25/08/2016

TESTO

6. I verbi della misericordia   2

Ermes Ronchi, Il Messaggero di Sant'Antonio, Gennaio 2016

Le porte sante della terra, le porte del Signore, quali sono? Non ha nessun senso passare per la Porta Santa della cattedrale e non passare per la porta santa di un povero, di un malato, non far varcare la porta di casa tua a uno che ha fame, la porta del cuore a uno che è solo. Non ha senso chiedere misericordia a Dio, e non offrirla al tuo vicino.
Se il Giubileo non tocca la vita, non è giubileo. Il Giubileo sarà santo se scriveremo la nostra pagina, la nostra riga, il nostro frammento di un racconto amoroso, con le nostre mani.
La misericordia è un'arte che s'impara, imparando tre verbi: "vedere", "fermarsi", "toccare", i primi gesti del Buon Samaritano.

Vedere. "Lo vide e ne ebbe compassione". Il samaritano vede e si lascia ferire dalle ferite di quell'uomo.
La misericordia inizia con lo sguardo non giudicante del vangelo: "Il primo sguardo di Gesù nei vangeli non si posa mai sul peccato delle persone, ma sempre sul loro bisogno" (Johann Baptist Metz).
Molte volte i vangeli riferiscono che Gesù "mentre camminava vide" (Mt 4,18); camminava e abitava la vita, ben presente a tutto ciò che accadeva nel suo spazio vitale; sapeva guardare negli occhi: "Donna, perché piangi?" (Gv 20,13) e scoprire nel riflesso di una lacrima urgere una promessa, un desiderio.
Davanti alle ferite della vita qualcosa di noi vorrebbe chiudere gli occhi, girare la testa. Come fanno i falsi discepoli: quando mai, Signore, ti abbiamo visto affamato, assetato, nudo...? Non hanno avuto occhi per vedere le ferite della carne di Cristo.

Fermarsi. Per vedere bene, che sia un volto, un paesaggio, un'opera d'arte o un povero, non puoi accelerare il passo, ti devi fermare. E non "passare oltre" come il sacerdote e il levita della parabola. Oltre non c'è niente, tantomeno Dio.
Quando ti fermi con qualcuno hai messo nel telaio in cui si tesse il tessuto buono della terra i tuoi doni impagabili, le risorse più preziose che hai: tempo e cuore. Hai fatto una dichiarazione d'amore senza parole.
Per vedere un prato bisogna inginocchiarsi e guardarlo da vicino (Ermanno Olmi).
C'è un solo modo per conoscere un uomo, Dio, un paese, una ferita: fermarsi, inginocchiarsi, e guardare da vicino. Guardare gli altri a millimetri di viso, di occhi, di voce. Guardare come bambini e ascoltare come innamorati, in silenzio.

Toccare. Ogni volta che Gesù si commuove, si ferma e tocca. Tocca l'intoccabile: il lebbroso, il cieco, la bara del ragazzo di Nain.
Toccare è parola dura, che ci mette alla prova, perché non è spontaneo toccare, non dico il contagioso o l'infettivo, ma anche il mendicante.
Fai la tua elemosina, e lasci cadere la tua monetina dall'alto, guardandoti bene dal toccare la mano che chiede, mantenendo la distanza di sicurezza, senza rivolgere un saluto, una parola. E il povero rimane un problema anziché diventare una fessura d'infinito.
Il tatto è un modo di amare, il modo più intimo; è il bacio e la carezza. E apre stagioni nuove.

Vedere, fermarsi, toccare: piccoli gesti. Ma la notte comincia con la prima stella, il mondo nuovo con il primo samaritano buono.

misericordiaporta santagiubileovederefermarsitoccarebuon samaritano

5.0/5 (1 voto)

inviato da Qumran2, inserito il 25/08/2016

TESTO

7. Ogni stagione della vita ha un suo paradiso   1

Enzo Bianchi, Il Fatto Quotidiano, 18 maggio 2015

Ogni cristiano che recita il "Credo", la professione di fede, dice: "Credo la resurrezione della carne, la vita eterna. Amen", e questo credere non è periferico, ma fondamentale nella fede cristiana. Il cristiano, dunque, crede che ci sia un dopo la morte, una vita piena per sempre, nella quale non vi saranno più pianto, né dolore, né malattia, né morte, ma la gioia eterna della comunione, attraverso Gesù Cristo, con Dio e con gli uomini e le donne da lui salvati. Anch'io, in quanto cristiano e monaco, aderisco a questa speranza, ma confesso che il mio immaginario è molto personale ed è mutato nelle diverse stagioni della mia vita. La domanda che mi viene posta: "Come immagini il paradiso?", mi spinge dunque a dare diverse risposte.

Innanzitutto, il paradiso è un'immagine che ci viene trasmessa quando siamo piccoli, e così è stato anche per me. Quando morì mia mamma avevo solo otto anni. Chiedevo dov'era andata, perché non riuscivo ancora a comprendere la morte, e mi veniva risposto: è in paradiso, in un bel giardino, e là passeggia tra gli asfodeli, fiori molto profumati. Così immaginavo dunque il paradiso e speravo di andarci presto, per ritrovare mia mamma e vedere questi fiori profumati che nessuno sapeva descrivermi, perché nel Monferrato nessuno li aveva mai visti.

Con la giovinezza e gli studi biblici, elaborai altre immagini, sovente in contrapposizione al possibile esito opposto: gli inferi, luogo di perdizione, lontano da Dio e da tutti gli altri. Il paradiso assumeva le immagini della Bibbia che leggevo e studiavo: un luogo pieno di luce, in cui non era mai notte; un luogo di pace, senza litigi, dispute, violenze, guerre; un banchetto con abbondanza di cibi squisiti e di vini raffinati; tanta musica e la possibilità di stare insieme, in una festa continua... Belle immagini, ma che svanivano velocemente, perché la ragionevole fede mi spingeva a comprendere che il paradiso non era un luogo, bensì una condizione di comunione con il Signore. Mi piaceva però l'immagine del pranzo con piatti sempre nuovi e dal gusto straordinario, dell'ascolto di musiche che rendevano l'eternità sopportabile...

Poi le immagini del paradiso sono cambiate ancora, tra dubbi, rinnovamenti della speranza, a volte anche stanchezza delle immagini stesse e desiderio di rinnovarle. Ora che sono vecchio, il paradiso o l'esito contrario dell'inferno sono sempre più prossimi: non nascondo una certa paura che mi abita al pensiero della morte, perché credo nel giudizio di Dio sulle mie responsabilità, sul mio operare che è stato buono o cattivo.

Spero soprattutto che nessuno vada all'inferno; ma se qualcuno ci va, allora - mi dico - rischio di andarci anch'io, che non mi sento tanto diverso dagli altri nell'acconsentire all'egoismo che mi abita.

E le immagini del paradiso, da vecchio? Sono svanite. Oggi non so dire, non so immaginare, non oso neppure pensare di dire qualcosa che lo descriva. Nella mia fede è solo una cosa: una grande comunione in Gesù Cristo, in cui regnerà l'amore. Sono convinto che chi ho amato qui sulla terra, lo ritroverò anche di là, e così continueranno il nostro amore e la nostra amicizia. Se pensassi di andare di là e di non trovare più i miei amici, preferirei allora non andarci!

Spero di ritrovare questa terra che tanto ho amato, certamente da Dio trasfigurata, ma ancora questa terra con le sue colline, le sue vigne, i suoi boschi... Sì, vorrei che continuassero le "storie d'amore" vissute qui; anzi, che riprendessero quelle che si sono interrotte e, senza gelosie né concorrenze, potessimo tutti insieme bere alle coppe del vino dell'amore.

Per farvi sorridere, cari lettori, vi confesso che ho un'altra paura: di finire sì in paradiso, ma vicino a persone che non mi piacevano, sebbene fratelli o sorelle nella fede e magari anche di rinomata santità. No, questo proprio no! Ma forse, se Dio mi salverà, sarò cambiato tanto da sopportare anche questo. Purché il Signore non mi faccia perdere gli amici, quelli che ho amato bene e quelli che ho amato male: li vorrei con me.

mortevita eternaparadisorapporto con Dioeternitàpienezza

5.0/5 (2 voti)

inviato da Simone Pestelli, inserito il 07/02/2016

TESTO

8. Lavanda dei piedi, capovolgimento della vita (versione lunga)

don Primo Mazzolari, Scritti

«Io vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto» (Giovanni 13,15)

Un lontano mi scrive parole, che, se non mi sorprendono, mi fanno soffrire. «Non parteciperò al rito del giovedì santo. La lavanda mi ha sempre inchiodato. Forse passa per quest'impressione incancellabile il filo che mi tiene ancora avvinto, in un certo senso, alla chiesa. Ma se ci tornassi quest'anno con l'animo che mi hanno fatto gli avvenimenti all'insaputa di me stesso, mi verrebbe la tentazione di gridare anche contro di voi, che pur mostrate di capire tante cose: capite voi quello che fate? - Forse non l'avete mai capito: certo, adesso, non lo capite più. Quell'azione è un capovolgimento della vita e voi ne fate un rito».

Amico caro e lontano, nella mia chiesa non si fa la funzione del Mandato, ma il vangelo che lo racconta, lo leggo ugualmente a bassa voce - il tono dell'indegnità che si confessa - davanti al cenacolo, dopo l'Ufficio delle tenebre, quando non ci si vede più e ci si può vergognare di noi stessi senza falsi pudori. Lo leggo per me e, se vuoi, anche per te e per qualcun altro che soffre come noi, quantunque le parole decisive non si possano leggere che per sé.

* * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *

«Gesù sapendo che era venuta per lui l'ora di passare da questo mondo al Padre»...

Per un cristiano non ci sono ore inconsapevoli; ogni ora segna il transito dal mondo al Padre, dal terrestre allo spirituale, dal parziale all'universale, dal temporale all'eterno.

Il distacco, che prepara il transito, non può avvenire che per un accrescimento d'amore, vale a dire nella luce della carità del Padre, che non conosce limiti. «Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine».

Un «passaggio» o una «conversione» che diminuisse le affezioni naturali e ci sottraesse alle parziali emozioni che tali affetti giustamente ci comandano, non sarebbe un'ascensione.

Si sale verso il Padre, con cuore purificato, ma non separato. Il nostro vero patrimonio umano ce lo portiamo con noi per accrescerne il valore nella santità.

Niente ci deve impedire di portare «sino alla fine», nella pienezza della carità, i nostri vincoli umani: neanche la presenza del traditore, neanche la possibilità di piegare per altre vie le resistenze delle creature.

Proprio quando Gesù sa che «il diavolo aveva già messo in cuore» a Giuda Iscariota di tradirlo, quando ha la certezza che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che stava per ritornare a Dio «...si levò da tavola, depose le sue vesti e preso un asciugatoio, se ne cinse...».

Facendosi uomo aveva preso «la forma del servo». Ma nessuno se n'era accorto fino a quel momento, tanto era in alto il Maestro nella sua così comune umanità. Operava grandi miracoli, si trasfigurava sul monte, predicava con autorità mai vista, parlava come un profeta non aveva mai parlato.

Gli uomini avevano bisogno di vedere il servo, in una forma evidente, inequivocabile. L'amore ve l'avrebbe fissato per sempre e in un gesto che sfida le false grandezze e le false dignità create dal nostro orgoglio.

«Si levò da tavola, depose le sue vesti, e preso un asciugatoio se ne cinse. Poi mise dell'acqua in un catino, e cominciò a lavare i piedi ai discepoli e ad asciugarli con l'asciugatoio».

Non ha cominciato né da Pietro né da Giovanni; forse da Giuda, per subito gustare l'estrema ripugnanza di servire l'inservibile, di amare l'inamabile.

Quando arriva a Pietro si sente dire: - Tu Signore, lavare i piedi a me? - Pietro misurava soltanto la propria miseria, e non poneva l'occhio sul mandato di carità che lo avrebbe impegnato come seguace di Cristo, per tutta la vita.

- Tu non sai ora quello che io faccio, ma lo capirai dopo. Capiva il fatto dell'umiliazione, non capiva la lezione che il Maestro intendeva dargli attraverso il mistero dell'umiliazione. Pietro voleva aver parte con Cristo immaginando chi sa quali ricompense; per questo era disposto a farsi lavare anche le mani e il capo. Neanche il primo degli apostoli sapeva che l'unica condizione per aver parte con lui, è legata, più che a una lavanda materiale, alla continuazione di quella carità che il Cristo veniva istituendo con un atto quasi sacramentale.

«Come dunque ebbe loro lavato i piedi ed ebbe riprese le sue vesti, si mise di nuovo a tavola, e disse loro: - Capite quel che vi ho fatto?».

E poiché gli apostoli non capivano l'istituzione della carità, che doveva precedere di poco l'istituzione del sacramento della carità, il Maestro è costretto a continuare la lezione.

«Voi mi chiamate Maestro e Signore, e dite bene perché lo sono. Se dunque io che sono il Signore e Maestro v'ho lavato i piedi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Poiché io vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come v'ho fatto io».

L'istituzione dell'eucaristia si chiude con parole quasi eguali: - Fate questo in memoria di me.

I cristiani di tutti i tempi hanno trovato più facile ripetere la presenza eucaristica della presenza della carità, dimenticando che non si può capire una mensa dalla quale, almeno uno, dietro l'esempio del Maestro, non si alzi per continuare nel mondo quella carità che è il fermento celeste del pane del mistero.

* * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * * *

Amico lontano e caro, non ti dico: torna anche quest'anno al rito del Mandato. Non ti dico neppure: non chiederti se noi comprendiamo quello che il Cristo ha fatto.

Appunto perché hai l'impressione che nelle nostre chiese ciò che tu giustamente chiami il capovolgimento sia in pericolo di diventare una semplice «forma rituale», io ti scongiuro di non fermarti quest'anno nella navata della tua chiesa, spettatore indeciso e indisposto. Portati avanti, fino alla tavola eucaristica per «levarti» subito dopo la comunione, non come un commensale qualunque, ma come un servo dell'Amore che deve cambiare il mondo.

I «capovolgimenti» non si attendono, si fanno. «Se sapete queste cose, siete beati se le fate».

Clicca qui per la versione breve.

lavanda dei piediservizioeucaristiagiovedì santo

inviato da Qumran, inserito il 09/06/2015

TESTO

9. Lavanda dei piedi, capovolgimento della vita (versione breve)

don Primo Mazzolari, Scritti

«Io vi ho dato un esempio, affinché anche voi facciate come vi ho fatto» (Giovanni 13,15)

Un lontano mi scrive parole, che, se non mi sorprendono, mi fanno soffrire. «Non parteciperò al rito del giovedì santo. La lavanda mi ha sempre inchiodato. Forse passa per quest'impressione incancellabile il filo che mi tiene ancora avvinto, in un certo senso, alla chiesa. Ma se ci tornassi quest'anno con l'animo che mi hanno fatto gli avvenimenti all'insaputa di me stesso, mi verrebbe la tentazione di gridare anche contro di voi, che pur mostrate di capire tante cose: capite voi quello che fate? - Forse non l'avete mai capito: certo, adesso, non lo capite più. Quell'azione è un capovolgimento della vita e voi ne fate un rito».

Amico caro e lontano, nella mia chiesa non si fa la funzione del Mandato, ma il vangelo che lo racconta, lo leggo ugualmente a bassa voce - il tono dell'indegnità che si confessa - davanti al cenacolo, dopo l'Ufficio delle tenebre, quando non ci si vede più e ci si può vergognare di noi stessi senza falsi pudori. Lo leggo per me e, se vuoi, anche per te e per qualcun altro che soffre come noi, quantunque le parole decisive non si possano leggere che per sé.

Amico lontano e caro, non ti dico: torna anche quest'anno al rito del Mandato. Non ti dico neppure: non chiederti se noi comprendiamo quello che il Cristo ha fatto.

Appunto perché hai l'impressione che nelle nostre chiese ciò che tu giustamente chiami il capovolgimento sia in pericolo di diventare una semplice «forma rituale», io ti scongiuro di non fermarti quest'anno nella navata della tua chiesa, spettatore indeciso e indisposto. Portati avanti, fino alla tavola eucaristica per «levarti» subito dopo la comunione, non come un commensale qualunque, ma come un servo dell'Amore che deve cambiare il mondo.

I «capovolgimenti» non si attendono, si fanno. «Se sapete queste cose, siete beati se le fate».

Clicca qui per la versione lunga.

lavanda dei piediservizioeucaristiagiovedì santo

inviato da Qumran2, inserito il 09/06/2015

RACCONTO

10. I due bebè   9

Nel ventre di una donna incinta si trovavano due bebè. Uno dei due gemelli chiese all'altro:
- Tu credi nella vita dopo il parto?
- Certo. Qualcosa deve esserci dopo il parto. Forse siamo qui per prepararci per quello saremo più tardi.
- Sciocchezze! Non c'è una vita dopo il parto. Come sarebbe quella vita?
- Non lo so, ma sicuramente... ci sarà più luce che qua. Magari cammineremo con le nostre
gambe e ci ciberemo dalla bocca.
- Ma è assurdo! Camminare è impossibile. E mangiare dalla bocca? Ridicolo! Il cordone ombelicale è la via d'alimentazione... Ti dico una cosa: la vita dopo il parto è da escludere. Il cordone ombelicale è troppo corto.
- Invece io credo che debba esserci qualcosa. E forse sarà diverso da quello cui siamo abituati ad avere qui.
- Però nessuno è tornato dall'aldilà, dopo il parto. Il parto è la fine della vita. E in fin dei conti, la vita non è altro che un'angosciante esistenza nel buio che ci porta al nulla.
- Beh, io non so esattamente come sarà dopo il parto, ma sicuramente vedremmo la mamma e lei si prenderà cura di noi.
- Mamma? Tu credi nella mamma? E dove credi che sia lei ora?
- Dove? Tutta intorno a noi! E' in lei e grazie a lei che viviamo. Senza di lei tutto questo mondo non esisterebbe.
- Eppure io non ci credo! Non ho mai visto la mamma, per cui, è logico che non esista.
- Ok, ma a volte, quando siamo in silenzio, si riesce a sentirla o percepire come accarezza il nostro mondo. Sai?... Io penso che ci sia una vita reale che ci aspetta e che ora soltanto stiamo preparandoci per essa...

vitaaldilàvita eternamorteparadiso

4.8/5 (27 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 17/12/2012

PREGHIERA

11. Preghiera di un missionario

Renato Zilio, Il vangelo dei migranti

Ogni mattino,
quando mi alzo, Signore,
riprendo a respirare e ti dico grazie
di avermi fatto missionario di un popolo che cammina.

Perché vivendo in emigrazione
mi hai insegnato ad avere compassione
di uomini, di donne, di intere comunità che emigrano
con i loro piedi, con la loro testa e il loro cuore,
e con tutti i drammi che li inseguono ovunque,
con una fede e un coraggio a volte ben più grandi dei miei.

Lungo i confini di culture, di lingue o di religioni differenti,
mi hai insegnato ad avanzare con la tua stessa libertà,
che relativizzava ogni cosa e ogni idea,
anche la legge santa di Israele, perfino il giorno sacro a Dio.
Perché uno solo per te era l'assoluto: Dio stesso e il suo mistero
che segretamente accompagna la vita di ogni essere umano
a qualsiasi razza, cultura o lingua appartenga,
ed era questo il tuo insegnamento più bello.

Così ho imparato a non dettare mai legge,
a non impormi a nessuno, a non predicare alla gente,
ma semplicemente a parlare al loro cuore.
Perché è proprio là che tu ci attendi
per trasformarci in tuoi veri discepoli,
che ancora oggi sanno rifare la strada di Emmaus,
dove lo straniero si aggiunge, come allora, per caso...

Ma, in fondo, Signore, sei sempre tu lo straniero
che i nostri passi accompagnano,
ed è verso il tuo Regno che essi ci portano
nel costruire un mondo più aperto, più grande e fraterno;
è la fede di Abramo che viviamo in questo camminare infinito,
che impedisce alle nostre dimore e alle nostre certezze
di farsi eterne come fortezze.
Tutti siamo migranti e in cammino verso di te, Signore,
che esisti nella meraviglia dei secoli. Amen!

migrazionistranierimissionariemigratiemmaus

inviato da Padre Renato Zilio, inserito il 21/09/2012

TESTO

12. La gioia e il dolore   1

Kahlil Gibran, Il profeta

Allora una donna chiese: Parlaci della Gioia e del dolore.

Ed egli rispose: La vostra gioia è il dolore stesso senza maschera. E la fonte stessa dalla quale scaturisce il vostro riso, è stata spesso piena di lacrime. E come potrebbe essere diversamente? Quanto più a fondo scava il dolore nel vostro essere, tanta più gioia potrete contenere. Quando siete felici, guardate in fondo al vostro cuore e scoprirete che è solo quello che vi ha procurato dolore a darvi gioia. Quando siete tristi, guardate ancora dentro di voi e scoprirete di piangere per quella che è stata la vostra gioia. Alcuni dicono: "La gioia è più grande del dolore", altri dicono: "No, è più grande il dolore". Ma io vi dico che sono inseparabili. In verità siete bilance che oscillano tra il dolore e la gioia. Soltanto quando siete vuoti, state fermi in equilibrio.

gioiadoloresofferenzafelicitàequilibrio

4.7/5 (3 voti)

inviato da Roberto Verrani, inserito il 20/09/2012

ESPERIENZA

13. Aiutami a nascere   2

Tanino Minuta, Città nuova, n. 24, 2009

Gelida mattina d'inverno. Alla fermata attendo il bus 61. Dal cancello principale del cimitero che sta di fronte vedo uscire una vecchietta che cammina lentamente, appoggiandosi ricurva ad un malfermo bastoncino. Si avvicina alle strisce pedonali per attraversare. Ma una dopo l'altra le macchine le passano veloci davanti. Finalmente una macchina si ferma e la lascia camminare lentamente. Lei, giratasi, continua a guardare grata verso l'auto che l'ha lasciata passare.

Le vado incontro per aiutarla a salire il gradino del marciapiede. Dentro di me ribolle l'indignazione

per quanti non si sono fermati. Lei, offrendomi la mano per essere aiutata, guarda ancora la macchina, ormai lontana, che l'aveva fatta passare. Poi, con un sorriso di indicibile bellezza, mi chiede: «Vero che c'è tanta bontà in questo mondo?».

Quando arriva il 61 l'aiuto a salire. In mezzo a tanti volti che sembrano delle casseforti sigillate, quella nonnina mi sembra sia il tesoro che il bus sta trasportando senza che nessuno lo sappia. La guardo ancora, sorpreso per la lezione che mi ha dato. Lei non ha tenuto conto di chi non si era fermato, ha visto soltanto chi le aveva permesso di passare. Non ha visto altro.

Le dico: «Come sarebbe diverso il mondo se vedessimo soltanto il bene e non il male». Interviene a questo punto un signore seduto vicino: «Allora sì che fallirebbero telegiornali e rotocalchi. Di cosa si nutrirebbe la politica? Veleno, veleno è l'unica risorsa di ogni potere. Soltanto la malvagità equilibra il mondo. Odio ci vuole, sempre di più. Sto andando a denunciare il mio vicino di casa che con le sue orge notturne non ci lascia dormire. Lui ci avvelena la vita e io l'unica cosa che posso fare è distruggerlo. E stavolta se la passerà male!».

La vecchietta lo guarda con materna comprensione; poi, fattasi seria: «Avevo un figlio, che ha vissuto forse come il suo vicino di casa. È morto a trentatrè anni per overdose. Tutte le mattine lo vado a salutare. Quando sono alla tomba mi sembra di rivederlo nella culla, piccolo, indifeso, bisognoso di tutta la mia protezione. Ormai nulla può fargli male, eppure è come se mi chiedesse di proteggerlo ancora. L'unica cosa che posso fare è continuare a difenderlo.

«L'unico figlio. Mio marito ed io abbiamo lavorato duramente per assicurargli una vita migliore della nostra. Ma è stato più infelice di noi. Amicizie sbagliate. Per un ragazzo buono e pulito come lui la scivolata è stata veloce. Per anni non abbiamo saputo dov'era. Poi, attraverso un suo vecchio amico, siamo venuti a sapere che gironzolava come un barbone alla periferia della città. Mio marito è riuscito a trovarlo. Era irriconoscibile. Sembrava più vecchio del padre. Ha accettato di essere curato. In ospedale si comportava come un animale ferito. Parlava poco, lui che era un brillante intrattenitore delle feste.

«Un giorno mi ha detto: "Non c'è cosa peggiore per un uomo che sapere di essere inutile. Niente è più soffocante dell'inutilità". Non serviva ripetergli che per noi era importante. Era come se in lui fosse bruciata la radice della vita.

«Uscito dall'ospedale è sparito, senza dirci niente, come la prima volta. Mio marito è morto di crepacuore. Io avevo speranza.

«Quando sono venuti a dirmi che l'avevano trovato morto, si è chiusa la speranza. Chissà da quanto tempo era morto. Non me l'hanno fatto mai vedere. Nella sua giacca, hanno trovato delle frasi scritte su carta da sigarette o droga, la grafia era la sua: "La vita non mantiene mai le sue promesse. Se tu esistessi, faresti giustizia. Il male ha tutti i poteri. Tu non sei mai nato su questa Terra. Se ci fossi, ti chiederei di ricrearmi".

«Povero figlio mio, chissà che dolori ha provato! Il nostro amore non è bastato! Si apriva davanti a me la strada della disperazione, oppure... rigenerare mio figlio. Per amore di lui ho cominciato a vivere per gli altri e non per me. Ciò mi ha aiutato a rinascere e a rigenerare mio figlio. In qualche modo era come se Dio mi avesse affidato il compito di possedere un amore che non avevo mai avuto. Certo che senza la fede non ce l'avrei fatta. La fede ha delle risorse di forza che, quando meno te lo aspetti, si mostrano in tutta la loro potenza. Ora mio figlio palpita in me».

Il signore che le siede accanto, nonostante la sua statura, sembra diventato piccolo e insicuro. Come disorientato. Poi le chiede, quasi balbettando, se può fare qualche cosa per lei. La vecchietta, come se attendesse la richiesta, risponde veloce: «Il suo vicino potrebbe essere suo figlio che vuole essere ricreato!».

Soltanto il rumore del motore vibra nell'aria. Quando lei si alza per dirigersi alla fermata, il signore l'accompagna. Mi salutano tutti e due. Scende anche lui. Il palazzo dove prima aveva detto di essere diretto non era da quelle parti. Mentre il bus si allontana vedo sul marciapiede quel grande uomo che offre il braccio alla vecchietta. L'atmosfera di Natale colora la città e abbraccia il bus, le macchine, la gente.

«Vero che c'è tanta bontà in questo mondo?», echeggia in me la piccola voce di una fragile donna quasi piegata su un bastoncino instabile. Mi guardo in giro. La gente chiusa nei cappotti e nei cuori è fragile e indifesa. La commozione è forte.

È come se ogni sguardo spento mi stia implorando: «Aiutami a nascere, fammi da madre!».

amorevitabontàpositivitàrinasceresperanzasenso della vita

4.7/5 (6 voti)

inviato da Fernanda Plomitallo, inserito il 12/08/2012

PREGHIERA

14. Nella malattia   2

Signore, la malattia ha bussato alla mia porta;
mi ha sradicato dalle mie consuetudini e dal mio lavoro,
mi ha trapiantato in un altro mondo: il mondo dei malati.
E' un'esperienza dura, una realtà difficile da accettare.
Eppure mi ha tolto da tante illusioni;
mi ha fatto toccare con mano, più delle parole
la fragilità e la precarietà della vita.
Ho scoperto cosa vuol dire dipendere,
aver bisogno di tutto e di tutti.
Ho provato la solitudine e l'angoscia
ma anche l'affetto e le premure di tanti.
Signore, anche se è difficile ti dico:
"Sia fatta la tua volontà in cielo e in terra".
Ti prego, benedici i miei cari e chi mi assiste.
Se vuoi, dona a chi soffre la guarigione.
Ho fiducia di te, Signore, Padre dei viventi.

malattiasofferenzafiducia in Dioaccettazionedolore

4.5/5 (4 voti)

inviato da Maurizio Gasperi, inserito il 12/08/2012

ESPERIENZA

15. Il pane buono   2

Tempo fa', sul far della sera di un sabato qualunque, in una bella e profumata giornata primaverile, stavo innaffiando l'erba e i fiori del piccolo giardino che adorna la nostra casa, assorto nei lieti pensieri del dolce far niente. Davanti al cancello, all'improvviso, appare la figura di una ragazzina. Chiaramente una Rom, una zingara: il suo volto ed il suo cencioso abbigliamento non lasciavano certo spazio a dubbi in tal senso.

Con un italiano piuttosto stentato mi chiama e mi dice: "Dio ti benedica te e tua famiglia, mi dai pane vecchio per mangiare?".
Le rispondo:
- "Dove abiti?" (curioso, vero? Quando Dio ci parla, capita spesso che di primo acchito cambiamo discorso).
- "Là, vicino fiume Mella".
- "E di cosa vivi?".
- "Quello che mi danno".
- "Non vai a scuola?".
- "No, mai andata".
- "E i tuoi genitori cosa dicono?".
- "Padre non so, non vedo da tanto, lui carcere; madre dice: andare prendere qualcosa da mangiare. Mi dai pane vecchio?".
- "Sì, certo, scusa, volevi del pane vecchio. Ho quello fresco, buono, di oggi, vado dentro a prenderti quello", le dico mentre mi giro e faccio per entrare in casa.
- "Buono hai già dato".

Sono rimasto impietrito, come fulminato. Mi sono rigirato lentamente e l'ho guardata: stava sorridendo. Non so, non ho mai voluto pensare che quella frase fosse stata solo il frutto di un malriuscito tentativo di traduzione dal rumeno all'italiano di chissà quale espressione.

Nemmeno che quel suo sorriso fosse solo un modo, forse l'unico che conosceva, per dirmi la sua gioia nel vedere che il pane glielo avrei dato davvero. No. Ho pensato che quel parlare con lei, ascoltarla, sorriderle, fosse per lei, davvero, come spezzare insieme del pane fresco, del pane buono. "Me l'hai già dato, il pane buono: mi hai accolto, mi hai parlato, mi hai sorriso. Non ti sei girato dall'altra parte, non mi hai ignorato, né schernito, né evitato, né maltrattato, né violentato. Mi hai parlato".

Pane che nutre, non denti che divorano. Basta davvero così poco per sentirsi amati? E per essere fratelli, per essere cristiani? Sì. Ed Egle, mia sposa, mentre - entrato in casa - le racconto la vicenda, dice serenamente, quasi fosse la cosa più semplice e scontata di questo mondo: "Pane dei gesti che accolgono, pane delle parole che accarezzano. Pane di Gesù: è questo".

Pane fresco e buono, che non diventa mai vecchio perché prodotto nel cuore di chi crede in Colui che dice: "Io sono il pane della vita", e ci lascia un comandamento nuovo: "Amatevi come io vi ho amato".

Amare quella ragazzina cenciosa, spezzare il pane con lei e con tutti i cenci del mondo. Vivendo una vita nella solidarietà e nella comunione con tutti.

Sforzandoci di vivere così, di spezzare il pane così, allora Dio parla in noi; allora Dio parla con noi. Allora Dio spezza il pane e la parola tra noi: nei panni di una cenciosa ragazzina.

condivisioneeucaristia

5.0/5 (6 voti)

inviato da Ornella Zito, inserito il 24/06/2012

TESTO

16. La segnaletica del Calvario   2

Tonino Bello, Scritti vari

Miei cari fratelli, sulle grandi arterie, oltre alle frecce giganti collocate agli incroci, ce ne sono ogni tanto delle altre, di piccole dimensioni, che indicano snodi secondari. Ora, per noi che corriamo distratti sulle corsie preferenziali di un cristianesimo fin troppo accomodante e troppo poco coerente, quali sono le frecce stradali che invitano a rallentare la corsa per imboccare l'unica carreggiata credibile, quella che conduce sulla vetta del Golgota? Ve ne dico tre. Ma bisogna fare attenzione, perché si vedono appena.

La freccia dell'accoglienza. E' una deviazione difficile, che richiede abilità di manovra, ma che porta dritto al cuore del Crocifisso. Accogliere il fratello come un dono. Non come un rivale. Un pretenzioso che vuole scavalcarmi. Un possibile concorrente da tenere sotto controllo perché non mi faccia le scarpe. Accogliere il fratello con tutti i suoi bagagli, compreso il bagaglio più difficile da far passare alla dogana del nostro egoismo: la sua carta d'identità! Si, perché non ci vuole molto ad accettare il prossimo senza nome, o senza contorni, o senza fisionomia. Ma occorre una gran fatica per accettare quello che è iscritto all'anagrafe del mio quartiere o che abita di fronte a casa mia. Coraggio! Il Cristianesimo è la religione dei nomi propri, non delle essenze. Dei volti concreti, non degli ectoplasmi. Del prossimo in carne ed ossa con cui confrontarsi, e non delle astrazioni volontaristiche con cui crogiolarsi.

La freccia della riconciliazione. Ci indica il cavalcavia sul quale sono fermi, a fare autostop, i nostri nemici. E noi dobbiamo assolutamente frenare. Per dare un passaggio al fratello che abbiamo ostracizzato dai nostri affetti. Per stringere la mano alla gente con cui abbiamo rotto il dialogo. Per porgere aiuto al prossimo col quale abbiamo categoricamente deciso di archiviare ogni tipo di rapporto. E' sulla rampa del perdono che vengono collaudati il motore e la carrozzeria della nostra esistenza cristiana. E' su questa scarpata che siamo chiamati a vincere la pendenza del nostro egoismo ed a misurare la nostra fedeltà al mistero della croce.

La freccia della comunione. Al Golgota si va in corteo, come ci andò Gesù. Non da soli. Pregando, lottando, soffrendo con gli altri. Non con arrampicate solitarie, ma solidarizzando con gli altri che, proprio per avanzare insieme, si danno delle norme, dei progetti, delle regole precise, a cui bisogna sottostare da parte di tutti. Se no, si rompe qualcosa. Non il cristallo di una virtù che, al limite, con una confessione si può anche ricomporre. Ma il tessuto di una comunione che, una volta lacerata, richiederà tempi lunghi per pazienti ricuciture.

Il Signore ci conceda la grazia di discernere, al momento giusto, sulla circonvallazione del Calvario, le frecce che segnalano il percorso della Via Crucis. Che è l'unico percorso di salvezza.

via crucisgolgotaaccoglienzariconciliazionecomunioneperdonocomunitàvolontariato

inviato da Qumran2, inserito il 09/04/2012

TESTO

17. Ogni giorno è unico   1

Francisco Fernàndez Carvajal, Parlare con Dio

Per scandire la nostra vita il Signore ci ha dato la notte e il giorno.
«Il giorno al giorno ne affida il messaggio e la notte alla notte ne trasmette notizia».

E ogni nuovo giorno ci ricorda che dobbiamo proseguire i lavori interrotti e rinnovare i progetti e le speranze. Ogni giorno comincia, in un certo modo, con una nascita e finisce con una morte; ogni giornata è come una vita in miniatura. Alla fine il nostro passaggio nel mondo sarà stato santo e gradito a Dio se avremo fatto in modo che ogni giornata piacesse a Dio, dall'alba al tramonto.

«Il giorno al giorno ne affida il messaggio»; il giorno di ieri sussurra all'oggi, e suggerisce da parte del Signore:
«Comincia bene. Comportati bene "adesso", senza ricordarti di "ieri" che è già passato, e senza preoccuparti di "domani", che non sai se per te arriverà».

Viviamo ogni giornata come se fosse l'unica che abbiamo da offrire a Dio, cercando di fare bene le cose, e riportando a Dio, con la contrizione, quelle che abbiamo fatto male. Un giorno sarà l'ultimo, e anch'esso l'avremo dedicato a nostro Padre. Allora, se avremo vissuto offrendo a Dio la nostra vita e rinnovando l'offerta di giorno in giorno, udiremo Gesù dirci, come ha detto al buon ladrone: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso».

tempogiornataoggipresentevitasenso della vitavalore del tempo

5.0/5 (1 voto)

inviato da Alessio Capone, inserito il 09/04/2012

PREGHIERA

18. Grazie Gesù perché non ti ho mai visto   1

Don Angelo Saporiti

Grazie Signore Gesù,
perché non ti ho mai visto.
Grazie, perché se ti avessi visto,
sarebbe stato facile, troppo facile credere in te.
Se ti avessi incontrato come i tuoi discepoli,
sarei stato come "obbligato" a seguirti, a venirti dietro.
Il tuo fascino, la tua forza mi avrebbero colpito al cuore.
Io invece non ti ho mai visto.
Eppure sono qui. Adesso.
Davanti a te.
E mi vergogno a pensare
che ti conosco ancora troppo poco.
La mia pigrizia mi impedisce di fare di più.
Se qualcuno mi chiede di te
non so neanche cosa rispondere...
Il tuo vangelo a casa, non lo leggo quasi mai.
Non ho tempo.
La mia fede si limita allo stretto indispensabile.
Eppure adesso sono qui.
Davanti a te.
E ti dico grazie perché ci sei.
Grazie, perché anche se non ti ho mai visto,
tu mi hai cambiato la vita,
per sempre.
Fa', Signore Gesù,
che non mi stanchi mai di conoscerti sempre di più,
per poterti amare sempre di più
nella vita e negli altri.
Amen.

crederefedesequela

4.7/5 (3 voti)

inviato da Don Angelo Saporiti, inserito il 07/04/2012

PREGHIERA

19. Preghiera del fiorista

frate Angelo De Padova ofm

Gesù, mi accosto a te usando le parole di San Francesco d'Assisi: "Laudato sì, mi Signore, per sora nostra matre Terra, la quale ne sustenta et governa, et produce diversi fructi con coloriti fior et herba". Hai usato parole meravigliose verso il fiore quando hai detto: "E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo; non lavorano e non filano, eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro". I fiori hanno mille significati, hanno un loro linguaggio e possono essere utili nel momento in cui non troviamo le parole, esprimono le nostre emozioni, sentimenti. Nel Cantico dei Cantici sono il segno della speranza: "Ecco, l'inverno è passato, è cessata la pioggia, se ne è andata, i fiori sono apparsi nei campi". Ci aiutano anche a relativizzare la nostra esistenza a viverla bene ogni giorno come disse il profeta Isaia: "Ogni uomo è come l'erba, tutta la sua gloria è come un fiore del campo. Secca l'erba, appassisce il fiore, quando il soffio del Signore spira su di essi, secca l'erba, appassisce il fiore, ma la parola del nostro Dio dura per sempre". Anche se sono muti parlano. Signore aiutaci a donare sempre a coloro che incontriamo il fiore che non appassisce mai, quello della carità.

fioripiccolezzanatura

5.0/5 (1 voto)

inviato da Angelo De Padova, inserito il 25/01/2012

TESTO

20. Voglio adottarvi come genitori   3

Michel Quoist

Ascoltami ancora, si dice infatti che dalla bocca dei bambini viene la verità; se sono un bambino sfuggito dal carnaio notturno, trattenuto da un filo d'amore lanciato da chissà dove.

Se sono un bambino caduto dal nido, abbandonato da padre e madre, rapiti o mortalmente feriti alle sbarre della loro gabbia.

Se sono un bambino nudo, senza panni d'amore o con panni imprestati, ma col diritto di vivere, perché sono vivo.

E se nello stesso istante persone innamorate piangono davanti a una culla vuota, consumati nel desiderio di accarezzare un bambino.

Se sono ricchi d'amore che ritengono sprecato, e vogliono gratuitamente donarlo, perché cresca e fiorisca ciò che non hanno piantato.

Allora voglio che vengano silenziosamente a chiedermi se desidero adottarli come miei genitori. Ma non voglio dei fanatici del bambino, come collezionisti d'arte che cercano il pezzo raro che manca alla loro vetrina. Non voglio clienti che hanno fatto l'ordinazione e, pagata la fattura reclamano il loro bebè prefabbricato. Perché non sono fatto per salvare genitori dalle membra amputate, ma loro sono stati fatti, misterioso percorso, magnifico progetto, per salvare dei bambini dal cuore malato, forse anche condannato. E sarà come addormentarci l'un l'altro.

Io berrò il latte di cui ignoravo il sapore, ascolterò musiche sconosciute, imparerò nuove canzoni, sulle vostre dita, sulle vostre labbra genitori adottati, decifrerò lentamente l'alfabeto della tenerezza.

E l'amore sconosciuto per me prenderà il volo alla luce dei vostri occhi. Voi innesterete le vostre vite sulla mia crescita e grazie a voi io rinascerò una seconda volta.

Così sarò ricco di quattro genitori, due lo saranno della mia carne e due del mio cuore e della mia carne cresciuta. Voi non giudicherete i miei genitori sconosciuti, li ringrazierete e mi aiuterete a rispettarli. Perché dovrò riuscire lo so, ad amarli nell'ombra, se un giorno vorrò poterli amare nella luce.

E se in una sera di tempesta, adolescente focoso, impacciato di me stesso, io vi rimprovererò di avermi accolto, non vi addolorate, ma amatemi ancor di più: lo sapete, perché un innesto prenda ci vuole una ferita e, chiusa la ferita, rimane la cicatrice.

Ma io sogno. Io sogno perché non sono che un bambino in viaggio, lontano dalla terra ferma, la mia parola è muta e il canto senza musica.

Ciò che vi dico piano non potrò urlarlo, se non il giorno in cui, avendomi voi adottato, mi avreste messo in cuore tanto amore e autentica libertà, sulle mie labbra parole sufficienti, perché possa dire: papà, mamma, io vi scelgo e vi adotto allora saprete che il vostro amore è dono, e che è riuscito.

adozionefigligenitoriamoregratuitàdonazione

5.0/5 (4 voti)

inviato da Emanuela Pandini, inserito il 11/01/2012

TESTO

21. Ave Maria   3

Carlo Carretto, Beata te che hai creduto

Una sera tentai il discorso con Maria.
Mi era così facile!
Le volevo così bene!
Maria, dimmi come è andata? Raccontalo a me come l'hai raccontato a Luca l'evangelista.

Tu lo sai, mi disse, perché conosci il Vangelo.
È stato tutto molto bello!
lo vivevo a Nazaret in Galilea e la mia vita era la vita di tutte le ragazze del popolo: lavoro, preghiera, povertà, molta povertà, gioia di vivere e soprattutto speranza nelle sorti di Israele.
Abitavo con Anna, mia madre, in una casetta molto semplice che aveva un cortile davanti ed un gran muro di cinta fatto apposta perché noi donne ci sentissimo in libertà ed intimità.
Lì sostavo sovente per lavorare e pregare. In me l'una e l'altra cosa si mescolavano ed ero piena di pace e di gioia.
Quel giorno ero sola nel piccolo cortile e una gran luce mi avvolgeva.
Pregavo, seduta su uno sgabello. Tenevo gli occhi socchiusi e sentivo una gioia invadermi tutta.
La luce aumentava ed io incominciai a socchiudere le palpebre che avevo chiuso per non restare abbacinata.
Ero contenta di lasciarmi riempire di quella luce. Mi pareva il segno della presenza di Dio che mi avvolgeva come un manto. Ad un tratto quella luce prese l'aspetto di un angelo. Ho sempre pensato agli angeli così come lo vidi in quel momento.
Tu sai com'è la questione della fede. Non sai mai se la visione è dentro o fuori.
È certamente dentro perché se fosse solo fuori potresti dubitare come fosse un'illusione.
Ma dentro l'illusione non c'è, è così, sai che è così: ne è testimone Dio.
lo stavo molto ferma per paura che tutto scomparisse.
E invece l'Angelo parlò. Anche qui: non sai mai se la voce la senti nell'orecchio o più in profondo.
Certamente in profondo perché se fosse solo nell'orecchio potresti illuderti.
La voce la senti là dove lo stesso Dio è il testimone.
E che ti disse?
Mi disse: Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te.
E tu che provasti?
È evidente che ne fui turbata. Era come se fossi visitata da cose troppo grandi per me e per la mia dimensione così piccola.
Tu puoi pensare alle cose di Dio con immenso desiderio ma quando ti toccano non puoi non spaventarti.
Difatti mi disse subito.
«Non temere, Maria» (Luca 1,30).
Mi feci coraggio perché la stessa frase l'avevo sentita alla Sinagoga quando si leggeva la storia di Abramo.
«Non temere, Abramo. lo sono il tuo scudo» (Genesi 15, 1).
Poi l'Angelo mi diede l'annuncio della maternità con poche parole ma così chiare che avevo l'impressione mi stessero nascendo dentro. Non mi era mai capitato di sentire parole come fossero avvenimenti.
Dimmi, Maria, sei stata colta di sorpresa? Non avevi mai pensato prima che tu... proprio tu...
Oh sì! Ci avevo pensato. Noi ragazze ebree non pensavamo ad altro. Sentivamo che i tempi erano quelli e quando pregavamo nella Sinagoga, l'aria era satura di attesa del Messia.
Che hai capito quando l'angelo ti disse che eri tu la scelta e che il Messia sarebbe nato da te?
Capii esattamente cosa voleva dirmi, e rimasi soltanto stupita della straordinarietà della cosa. Com'era possibile se io ero vergine?
L'Angelo mi spiegò le cose e mi fu facile accettarle perché mi sentivo immersa in Dio come in quella luce vivissima del mezzogiorno.
Confusamente capii anche che pasticci ce ne sarebbero stati, che non sarei riuscita a spiegarmi con mia madre, specialmente col mio fidanzato Giuseppe, ma non avrei potuto fermarmi tanta era forte la presa di Dio su di me e tanta era la certezza che mi veniva dalle parole dell'Angelo.
«Nulla è impossibile a Dio
nulla è impossibile a Dio
nulla è impossibile a Dio» (Luca 1,37). Adagio, adagio la luce diminuì e non vidi più l'Angelo.
Vidi mia madre Anna attraversare il cortile e mi venne voglia di parlarle, ma non ne fui capace perché non trovai le parole adatte.
Capii subito che non c'erano parole con cui potevo spiegare le cose.
Così nei giorni che seguirono, anzi, più andavo avanti e più diventavo silenziosa.

Fu più difficile il discorso con Giuseppe, mio fidanzato.
Tu sai come avvenivano le cose nelle nostre tribù. La sposa veniva promessa molto presto. Era come un patto tra famiglie.
Ma essendo così giovane la futura sposa continuava a vivere in famiglia in attesa della maturità.
Allora con grande festa, di notte, si compiva lo sposalizio e lo sposo accompagnato dai suoi amici veniva con tante luci e canti e gioia a prendere la sua sposa ed a condurla a casa. Da quel momento si era veramente sposati.
Quando l'Angelo mi apparve per annunciarmi la maternità, io ero ancora in casa. Ero stata promessa a Giuseppe ma non ero ancora andata ad abitare con lui.
Bastarono pochi mesi perché tutto divenisse complicato agli occhi degli uomini. lo non potevo nascondere la mia maternità e il mio ventre mi denunciava.
Capii allora cos' era la fede oscura, dolorosa.
Come potevo spiegarmi con mia madre?
Come potevo discutere col mio fidanzato Giuseppe?
Vissi tempi veramente dolorosi e l'unico conforto mi veniva nel ripetere: «Tutto è possibile a Dio, tutto è possibile a Dio».
Toccava a Lui spiegarsi ed io avevo tanta confidenza. Ma ciò non toglieva la mia sofferenza che in certi momenti mi straziava l'anima.
Come potevo trovare le parole per dire che quel bimbo che portavo in seno era il figlio dell'Altissimo?
Intanto non osavo più uscire di casa ed una volta vidi una vicina guardarmi da sopra il muro del cortile con evidente attenzione puritana.
Ci furono dei momenti terribili ed io tremai al pensiero di essere denunziata come adultera.
Ci voleva così poco. Bastava che Giuseppe andasse alla Sinagoga a spiegare la cosa e non gli sarebbero mancati gli zelanti che l'avrebbero seguito con le pietre per lapidarmi. Non era la prima volta che a Nazaret veniva uccisa un'adultera.
Ma è vero: «Dio può tutto». E si spiegò lui.
Si spiegò con Giuseppe per primo che mi disse di avere avuto un sogno veramente straordinario e che non aveva perduto la confidenza in me e che mi avrebbe sposata lo stesso.
Che gioia quando me lo disse!
Ma che paura avevo provato! Che oscurità!
Sì, il fatto mi aveva spiegato che la fede è di quella natura e che dobbiamo abituarci a vivere nell'oscurità.

Ci fu anche un fatto straordinario che alleviò le mie pene in quei mesi.
Tu sai che l'Angelo mi aveva dato un segno per aiutare la mia debolezza. Mi aveva detto che mia cugina Elisabetta era al sesto mese di una maternità straordinaria perché tutti noi della famiglia sapevamo che era sterile.
Dovevo andare a trovarla in Giudea ad Ain-Karim dove abitava.
Non mi feci pregare a partire.
L'idea venne a mia madre perché era preoccupata che la gente del paese mi vedesse con quel ventre grosso e non voleva dicerie.
Partii di notte, ma così contenta di allontanarmi da Nazaret dove c'erano troppi occhi indiscreti e non potevo raccontare a tutti le mie faccende.
Trovai mia cugina già vicina al parto e così felice, poverina! Aveva aspettato tanto un figlio!
Il Signore si era spiegato anche perché quando giunsi fu come se sapesse
tutto!
tutto!
tutto!
Si mise a cantare per la gioia ed io cantavo con lei.
Sembravamo due pazze, ma pazze di amore.
E c'era un terzo che sembrava impazzito di gioia.
Era il piccolino, il futuro Giovanni che danzava nel ventre di Elisabetta come per fare festa a Gesù che era nel mio.
Furono giorni indimenticabili.
Ma Elisabetta, che se ne intendeva di fede e di fede oscura e che aveva tanto sofferto nella vita, mi disse una cosa che mi fece piacere e che fu come il premio a tutta la mia solitudine di quei mesi.
«Beata te che hai creduto» (Luca 1,44). E me lo ripeteva tutte le volte che mi incontrava e mi toccava il ventre, come per toccare Gesù, il nuovo Mosè che stava per venire al mondo.

Il fuoco con cui avevo cotto il pane si stava spegnendo. La notte era già alta e mi sentii solo.
La presenza di Maria ora era nel rosario che avevo in mano e che mi invitava a pregare.
Sentivo freddo e mi avvolsi nel «bournous» (Mantello arabo di lana di pecora) che avevo con me.
L'oscurità divenne totale ma non avevo nessuna voglia di addormentarmi.
Volevo gustare la meditazione che Maria mi aveva regalata.
Soprattutto volevo entrare con dolcezza e forza nel mistero della fede, la vera, quella dolorosa, oscura, arida.
Oh no! Non è facile credere, è più facile ragionare.
Non è facile accettare il mistero che ti supera sempre e che ti allarga sempre i limiti della tua povertà.
Povera Maria!
Dover credere che quel bimbo che portava in seno era figlio dell'Altissimo. Sì, è stato semplice concepirlo nella carne, estremamente più impegnativo concepirlo nella fede! Quale cammino!
Eppure non ne esiste un altro. Non c'è altra scelta.
Vuoi tu, Maria, spaventata dal credere, tornare indietro, pensare che non è vero, che è inutile tentare, che è una illusione quella di un Dio che si fa uomo, che non c'è Messia di salvezza, che tutto è un caos, che sul mondo domina l'irrazionale, che sarà la morte a vincere sul traguardo e non la vita?
No!
Se credere è difficile, non credere è morte certa.
Se sperare contro ogni speranza è eroico, il non sperare è angoscia mortale.
Se amare ti costa il sangue, non amare è inferno.
Credo, Signore!
Credo perché voglio vivere.
Credo perché voglio salvare qualcuno che affoga: il mio popolo.
Credo perché quella del credere è l'unica risposta degna di te che sei il Trascendente, l'Infinito, il Creatore, la Salvezza, la Vita, la Luce, l'Amore, il Tutto.
Che cosa strana per non dire meravigliosa: appena ho detto con tutte le viscere la parola «credo» ho visto la notte farsi chiara.
Ora chiudo gli occhi perché è proprio lei la notte che mi abbaglia con la sua luce al di là di ogni luce.
Sì, nulla è più chiaro di questa notte oscura, nulla è più visibile dell'invisibile Dio, nulla è più vicino di questo infinitamente lontano, nulla è più piccolo di questo infinito Iddio.
Difatti è riuscito a stare nel tuo piccolo seno di donna, Maria, e tu l'hai potuto scaldare col tuo corpicino bello.
Maria! Sorella mia!
Beata te che hai creduto, ti dico stasera con entusiasmo, come te lo disse tua cugina Elisabetta, in quel vespero caldo ad AinKarim.

crederefedenataleincarnazioneMaria

5.0/5 (3 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 09/12/2011

TESTO

22. Lettera di un padre al figlio   6

Se un giorno mi vedrai vecchio: se mi sporco quando mangio e non riesco a vestirmi... abbi pazienza, ricorda il tempo che ho trascorso ad insegnartelo.

Se quando parlo con te ripeto sempre le stesse cose, non mi interrompere... ascoltami, quando eri piccolo dovevo raccontarti ogni sera la stessa storia finché non ti addormentavi.

Quando non voglio lavarmi non biasimarmi e non farmi vergognare... ricordati quando dovevo correrti dietro inventando delle scuse perché non volevi fare il bagno.

Quando vedi la mia ignoranza per le nuove tecnologie, dammi il tempo necessario e non guardarmi con quel sorrisetto ironico ho avuto tutta la pazienza per insegnarti l'abc; quando ad un certo punto non riesco a ricordare o perdo il filo del discorso... dammi il tempo necessario per ricordare e se non ci riesco non ti innervosire: la cosa più importante non è quello che dico ma il mio bisogno di essere con te ed averti li che mi ascolti.

Quando le mie gambe stanche non mi consentono di tenere il tuo passo non trattarmi come fossi un peso, vieni verso di me con le tue mani forti nello stesso modo con cui io l'ho fatto con te quando muovevi i tuoi primi passi.

Quando dico che vorrei essere morto... non arrabbiarti, un giorno comprenderai che cosa mi spinge a dirlo. Cerca di capire che alla mia età non si vive, si sopravvive.

Un giorno scoprirai che nonostante i miei errori ho sempre voluto il meglio per te che ho tentato di spianarti la strada. Dammi un po' del tuo tempo, dammi un po' della tua pazienza, dammi una spalla su cui poggiare la testa allo stesso modo in cui io l'ho fatto per te.

Aiutami a camminare, aiutami a finire i miei giorni con amore e pazienza in cambio io ti darò un sorriso e l'immenso amore che ho sempre avuto per te.

Ti amo figlio mio.

padrefiglivecchiaiagenitori

5.0/5 (6 voti)

inviato da Qumran2, inserito il 27/09/2011

ESPERIENZA

23. Legrottaglie: "Niente sesso da due anni, aspetto la donna giusta"   2

Elisa Bertoli, www.gingergeneration.it

Il difensore della Juve racconta il proprio percorso di rinascita: dalle critiche all'incontro con Dio

La dichiarazione, pubblicata dalla rivista Sport Week qualche settimana fa, è di quelle che fanno scalpore: Nicola Legrottaglie, trentunenne biondo difensore della Juventus, possibile convocazione per i prossimi Europei, afferma: "Non faccio sesso da due anni".

Difficile pensare che dica sul serio, considerato che Nicola è uno che di veline, meches, sfilate di moda, show girls e feste se ne intende, ma invece il perché di questa frase è presto spiegato: "Quando acquisisci dentro di te la verità della vita smetti di dipendere dalle cose superflue. Prima se non andavo con una donna ogni quattro o cinque giorni andavo nel panico, ora non posso più. Non perché non mi piacciono le donne, ma perché aspetto quella giusta per fare una famiglia, una che condivida i miei stessi valori. Il consiglio di Dio è di non avere rapporti prematrimoniali e io non mi vergogno a dire, sono due anni che non ne ho. Il bello è che non mi pesa per niente. Tanti mi prendono in giro, ma non mi interessa: il problema è di chi non riesce a stare senza sesso, finendo per diventarne schiavo".

Un difficile percorso

Nicola ammette di essere arrivato nel 2003 alla Juventus "con presunzione: credevo che il solo fatto di essere qui facesse di me un campione e non riuscivo a esprimermi. Ho perso in fretta tutta la mia credibilità, mi sono depresso scivolando prima al Bologna e poi al Siena". Anni pieni di critiche nei suoi confronti, reo di pensare più alla vita mondana che a impegnarsi in allenamento e in campo, culminati però nell'incontro con il calciatore paraguaiano del Piacenza Tomas Guzman, che lo ha aiutato a conoscere la Bibbia: "Solo dopo quella batosta ho capito che tutto quello che mi insegnavano da piccolo era vero". Nicola ha così capito che "i valori della vita sono altri" e ora "la serenità che mi ha dato questo percorso mi permette di avere più fiducia e sicurezza nei miei mezzi, di essere più spregiudicato anche in campo. Adesso la gente non mi ferma più per la strada per criticarmi: mi fa i complimenti per quello che faccio e soprattutto per quello che dico. E' qualcosa che va al di là del mio modo di giocare: dicono che ho coraggio. Ma per me non ci vuole coraggio a seguire Gesù e a fare certe rinunce". Insomma, dopo l'incontro con Dio, Nicola non solo è un altro uomo, ma anche un altro calciatore!

Legrottaglie e Kaka, due calciatori fuori dagli schemi

Ma tornando alla frase che più di tutte ha fatto scalpore, Nicola aggiunge: "Quando Kaka ha detto di essere arrivato vergine al matrimonio, molti hanno riso, ma io ho capito che era una cosa bellissima".

Nicola Legrottaglie e Kaka, due dei calciatori "fuori dagli schemi": giovani, carini, ricchi e immersi in un mondo, quello del calcio, che il più delle volte sembra quello dello spettacolo e che discorsi simili non sa nemmeno cosa significhino. Accanto a colleghi che giurano eterno amore a ragazze, meglio se del mondo della tv, che poi in realtà "mollano" dopo una settimana, loro proseguono dritti per la loro strada senza dubbi e ripensamenti: donarsi a una donna è talmente bello che è ancor più bello farlo per la prima volta con quella che hai deciso sarà per tutta la vita, un impegno da prendere con chi hai deciso di costruire il tuo futuro!

E voi, ragazze, che ne pensate? Sono così sconcertanti queste dichiarazioni di Legrottaglie o condividete i suoi nuovi valori?

matrimonioamoresessoaffettivitàrapporti prematrimoniali

5.0/5 (1 voto)

inviato da Elisa Bertoli, inserito il 06/07/2011

RACCONTO

24. Il principe felice   2

Oscar Wilde

Alta sopra la città, su una lunga, esile colonna sporgeva la statua del Principe Felice. Era tutto dorato di sottili foglie d'oro fino, i suoi occhi erano due lucenti zaffiri, e un grande rubino rosso luccicava sull'elsa della sua spada.

Tutti lo ammiravano. "E' bello come una banderuola" osservò un giorno uno degli assessori di città che ambiva farsi una reputazione d'uomo di gusto; "però è meno utile" si affrettò a soggiungere, per timore che la gente lo giudicasse privo di senso pratico, cosa che egli non era affatto.
"Perché non sai comportarti come il Principe Felice?" chiese una madre piena di buon senso al suo bambino che piangeva perché voleva la luna. "Il Principe Felice non si sogna mai di piangere per nulla".
"Sono contento che a questo mondo ci sia qualcuno veramente felice" borbottò un uomo disilluso ammirando la splendida statua.
"Assomiglia a un angelo" dissero i Trovatelli uscendo dalla cattedrale nei loro lucenti mantelli scarlatti e nei loro lindi grembiulini candidi.
"Come fate a dire questo?" osservò il professore di matematica, "se non ne avete mai veduti!"
"Oh, si, che ne abbiamo visti, nei nostri sogni!" risposero i bambini, e il professore di matematica aggrottò la fronte e fece la faccia scura, perché non trovava giusto che i bambini sognassero.

Una sera volò sulla città un Rondinotto. I suoi amici se n'erano andati in Egitto sei settimane innanzi, ma egli era rimasto indietro perché si era innamorato di una bellissima Canna. L'aveva conosciuta al principio di primavera mentre volava giù per il fiume in caccia di una grossa falena gialla, ed era stato talmente attratto dalla sua vita sottile che si era fermato a parlarle.
"Vuoi che m'innamori di te?" le aveva chiesto il Rondinotto, cui piaceva venir subito al sodo, e la Canna gli aveva fatto un profondo inchino. Così egli le volò più volte intorno, sfiorando l'acqua con le ali, e increspandola di cerchi argentei. Questa fu la sua corte, e durò tutta l'estate.
"Proprio un attaccamento ridicolo," garrivano le altre Rondini, "E' senza un soldo, ma in compenso ha un sacco di parenti," e a dire il vero il fiume era zeppo di Canne.
Poi, non appena venne l'autunno, le Rondini volarono via tutte. Quando se ne furono andate il Rondinotto si sentì solo, e incominciò a stancarsi della sua bella.
"Non sa conversare" si disse, "e temo sia una civetta poiché seguita a frascheggiare col vento." E infatti, ogni volta che il vento spirava, la Canna si piegava con inchini graziosissimi.
"Riconosco che sei casalinga," prosegui il Rondinotto, "ma a me piace viaggiare e di conseguenza anche a mia moglie dovrebbero piacere i viaggi".
"Vuoi venir via con me?" le chiese infine, ma la Canna scosse la testa, era troppo affezionata alla sua casa. "Tu mi hai preso in giro!" gridò il Rondinotto. "Me ne vado alle Piramidi. Addio!" e volò via.
Volò tutto il giorno, e a sera giunse alla città.
"Dove alloggerò?" si disse. "Spero mi abbiano preparato dei festeggiamenti."
Ma poi notò la statua sull'alta colonna. "Andrò ad abitare lì," esclamò. "La posizione è bellissima, e ci si deve respirare dell'ottima aria fresca."

Così si posò proprio tra i piedi del Principe Felice.
"Ho una camera da letto tutta d'oro" mormorò sottovoce tra sé e sé, guardandosi attorno e preparandosi per la notte, ma giusto mentre stava mettendo la testa sotto l'ala gli cadde addosso una grossa goccia d'acqua.
"Che cosa strana!" esclamò. "In cielo non c'è neanche la più piccola nuvola, le stelle sono chiare e luminose, eppure piove. Il clima del Nord Europa è semplicemente spaventoso. Alla Canna la pioggia piaceva, ma questo era dovuto unicamente al suo egoismo".
In quella cadde un'altra goccia.
"A che serve una statua se non riesce a riparare dalla pioggia?" brontolò; "bisogna che mi cerchi un buon comignolo," e fece per volarsene via. Ma proprio mentre stava per aprire le ali una terza goccia cadde, ed egli allora alzò gli occhi e vide... ah, che cosa vide? Gli occhi del Principe Felice erano gonfi di lagrime, e lagrime rigavano le sue guance dorate. Il suo viso era così bello sotto la luce della luna che il piccolo Rondinotto si senti invadere da una profonda pietà.
"Chi sei?" chiese.
"Sono il Principe Felice".
"Perché piangi, allora? Mi hai inzuppato tutto."
"Quando ero vivo e avevo un cuore umano," rispose la statua, "non sapevo che cosa fossero le lagrime, perché abitavo nel Palazzo di Sans-Souci, dove al dolore non è permesso di entrare. Durante il giorno giocavo coi miei compagni nel giardino, e la sera guidavo le danze nella Grande Sala. Intorno al giardino correva un muro altissimo, ma mai io mi curai di sapere che cosa si stendesse al di là di esso, ogni cosa intorno a me era così bella! I miei cortigiani mi chiamavano il Principe Felice, e se il piacere è felicità, io ero veramente felice. Così vissi, e così morii. E ora che sono morto mi hanno messo qui tanto in alto che adesso vedo tutta la bruttezza e tutta la miseria della mia città, e sebbene il mio cuore sia di piombo altro non mi resta che piangere".
"Come mai? Non è d'oro massiccio?" si chiese mentalmente il Rondinotto, perché era troppo educato per rivolgere ad alta voce domande di carattere personale.
"Lontano lontano," proseguì la statua con la sua dolce voce musicale, "lontano in una stradina c'è una povera casa. Una finestra di questa casa è aperta e attraverso vi vedo una donna seduta a un tavolo. Ha il viso magro e sciupato, e le sue mani sono rosse e ruvide e tutte bucherellate dall'ago, poiché fa la cucitrice. Sta ricamando passiflore su un abito di raso che la più bella tra le damigelle d'onore della Regina indosserà al prossimo ballo di Corte. In letto, in un angolo della stanza, il suo bambino giace ammalato. Ha la febbre e vorrebbe mangiare delle arance, ma sua madre non ha nulla da dargli, fuorché acqua di fiume, perciò il bambino piange. Rondinotto, piccolo Rondinotto, non gli porteresti il rubino che luccica sull'elsa della mia spada? I miei piedi sono attaccati a questo piedistallo e io non mi posso muovere".
"Sono aspettato in Egitto" rispose il Rondinotto. "I miei amici in questo momento volano sul Nilo, e discorrono con i grandi fiori di loto. Tra poco andranno a dormire nella tomba del gran Re, dove il Re stesso riposa nel suo sarcofago dipinto, avvolto in gialli lini e imbalsamato con aromi. Ha il collo adorno di una collana di giada verde pallida, e le sue mani assomigliano a foglie avvizzite".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me per una notte soltanto, ed essere il mio messaggero? Il bambino ha tanta sete, e la madre è così triste!"
"Non credo che mi piacciano i bambini" replicò il Rondinotto. "L'estate scorsa, quando stavo sul fiume, c'erano due ragazzi maleducati, i due figliuoli del mugnaio, che mi tiravano sempre sassi. Naturalmente non mi hanno mai preso, si capisce: noi rondini voliamo troppo bene per lasciarci colpire, e del resto io vengo da una famiglia famosa per la sua agilità; comunque però era una grave mancanza di rispetto".
Ma il Principe Felice aveva un viso così doloroso che il Rondinotto ne provò pena. "Qui fa molto freddo" disse, "ma per farti piacere resterò ancora una notte e sarò tuo messaggero".
"Grazie, piccolo Rondinotto" disse il Principe.

Così il Rondinotto colse il grande rubino che ornava la spada del Principe e volò sopra i tetti della città, tenendo stretto il gioiello nel becco appuntito. Passò accanto alla torre della cattedrale, su cui erano scolpiti i grandi angeli di marmo. Passò accanto al palazzo e udì un suono di danze.
Una fanciulla bellissima si affacciò al balcone col suo innamorato. "Guarda che stelle meravigliose" egli le disse, "e come è meraviglioso il potere dell'amore! "
"Spero che il mio vestito sarà pronto per quando ci sarà il ballo di Stato" rispose la fanciulla. "Ho ordinato che sia ricamato a passiflore, ma le cucitrici sono talmente pigre! "
Passò sopra il fiume, e vide le lanterne appese agli alberi delle navi. Passò sul Ghetto, e vide i vecchi Ebrei che contrattavano tra di loro, e pesavano il danaro su bilance di rame. E finalmente giunse alla povera casa e vi guardò dentro. Il bambino si agitava febbrilmente sul letto, mentre la madre si era addormentata: era tanto stanca! Saltellò nella stanza e posò il grosso rubino sul tavolo, accanto al ditale della donna. Poi volò piano attorno al letto, e accarezzò con le sue ali la fronte del piccolo, facendogli vento dolcemente.
"Come mi sento fresco!" disse il bambino. "Forse incomincio a star meglio" e si addormentò di un sonno tranquillo.
Allora il Rondinotto rivolò dal Principe Felice e gli raccontò quello che aveva fatto. "E' strano" osservò, "ma benché faccia un freddo cane adesso ho caldo."
"Perché hai compiuta una buona azione" gli disse il Principe.
Il piccolo Rondinotto incominciò a pensare, ma subito si addormentò: il pensare gli metteva sempre addosso un gran sonno.
Quando il giorno spuntò, volò giù al fiume e prese un bagno.
"Che fenomeno straordinario!" esclamò il Professore di Ornitologia che passava in quel momento sul ponte. "Una Rondine d'inverno!" E mandò al giornale locale una lunga lettera in proposito. Tutti la citarono: era costellata di un sacco di vocaboli che nessuno capiva.
"Questa sera parto per l'Egitto" disse il Rondinotto, e questa previsione lo mise di ottimo umore. Visitò tutti i monumenti pubblici, e rimase a lungo seduto in cima al campanile della chiesa. Dovunque andava i Passeri cinguettavano e bispigliavano tra di loro: "Che forestiero distinto!" Cosicché il Rondinotto si divertì un mondo.
Quando la luna sorse rivolò dal Principe Felice. "Hai qualche commissione da darmi per l'Egitto?" disse. Sono di partenza.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi restare con me ancora una notte?"
"In Egitto mi aspettano" rispose il Rondinotto. "Domani i miei amici voleranno fino alla Seconda Cateratta. Laggiù, tra i giunchi, se ne sta accovacciato l'ippopotamo, e su un grande trono di granito siede il Dio Memnone. Tutta la notte egli contempla le stelle, e quando risplende la stella del mattino proferisce un unico grido di gioia, e poi tace. A mezzogiorno i leoni fulvi scendono a bere all'orlo dell'acqua. Hanno occhi simili a verdi berilli, e il loro ruggito è più forte del ruggito della cateratta".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "lontano lontano, dall'altra parte della città, vedo un giovane in una soffitta, appoggiato a una scrivania ingombra di carte, e in un boccale accanto a lui c'è un mazzolino di viole appassite. Ha i capelli bruni e crespi, le sue labbra sono rosse come una melagrana, e i suoi occhi sono grandi e sognanti. Sta sforzandosi di terminare una commedia per il Direttore del Teatro, ma ha troppo freddo per poter seguitare a scrivere. Non c'è fuoco nel suo camino, e la fame lo ha fatto svenire".
"Va bene, aspetterò presso di te un'altra notte" disse il Rondinotto, che aveva proprio un cuore d'oro. "Devo portargli un altro rubino?"
"Ahimé, non ho più rubini, ormai" disse il Principe, "tutto ciò che mi è rimasto sono i miei occhi, ma sono fatti di zaffiri rari, e furono portati dall'India più di mille anni fa. Strappane uno e portaglielo. Lo venderà al gioielliere, e si comprerà legna da ardere, e finirà la sua commedia".
"Caro Principe" disse il Rondinotto, "io non posso fare questo"
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, piangendo, "ubbidiscimi, ti prego".
Così il Rondinotto strappò l'occhio del Principe e volò fino alla soffitta dello studente. Era facile entrarvi, perché nel tetto c'era un buco. Il Rondinotto vi sfrecciò attraverso, e penetrò nella stanza. Il giovane aveva il capo affondato tra le mani, perciò non avvertì il frullio d'ali dell'uccello, e quando alzò gli occhi vide il bellissimo zaffiro adagiato in mezzo alle viole appassite.
"Incominciano ad apprezzarmi!" gridò; "certo me lo manda qualche grande ammiratore. Adesso potrò finalmente terminare la mia commedia!" Ed era tutto felice.
Il giorno dopo il Rondinotto volò giù al porto. Si posò sull'albero di una grossa nave e stette a osservare i marinai che a forza di funi calavano su dalla stiva pesanti casse. "Issa-oh! " si gridavan l'un l'altro a mano a mano che le casse salivano.
"Io vado in Egitto!" garrì il Rondinotto, ma nessuno gli badò, e quando spuntò la luna volò ancora una volta dal Principe Felice.
"Sono venuto a salutarti" gli disse.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "non vuoi rimanere con me ancora per questa notte?"

"E' inverno ormai" rispose il Rondinotto, "e fra poco arriverà la fredda neve. In Egitto il sole è caldo sulle verdi palme, e i coccodrilli riposano nel fango e si guardano attorno con occhi pigri. I miei compagni stanno costruendo un nido nel Tempio di Baalbec, e le colombe rosee e bianche li guardano, e tubano tra loro. Caro Principe, debbo lasciarti, ma non ti dimenticherò mai, e la prossima primavera ti porterò due gemme bellissime, al posto di quelle che tu hai regalate. Il rubino sarà più rosso di una rosa rossa, e lo zaffiro sarà azzurro come il vasto mare".
"Nella piazza qua sotto" disse il Principe Felice, "ci sta una piccola fiammiferaia. I fiammiferi le sono caduti nella cunetta del marciapiedi, e si sono tutti bagnati. Suo padre la picchierà se non porterà a casa un po' di danaro, e perciò la piccola piange. Non ha né calze né scarpe, e la sua testolina è nuda. Strappa l'altro mio occhio e portaglielo, così suo padre non la batterà".
"Resterò con te ancora per questa notte" disse il Rondinotto, "ma non posso strapparti l'altro occhio. Rimarresti completamente cieco".
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "fa' come ti dico".
Così il Rondinotto strappò l'altro occhio del Principe e sfrecciò giù nella piazza. Passò roteando accanto alla piccola fiammiferaia e le fece scivolare il gioiello nel palmo della mano.
"Che bel pezzettino di vetro!" esclamò la bambina, e corse a casa ridendo.
Poi il Rondinotto ritornò dal Principe. "Adesso sei cieco" disse, "perciò io resterò con te per sempre".
"No, piccolo Rondinotto" mormorò il povero Principe, "tu devi andare in Egitto".
"Resterò con te per sempre" ripetè il Rondinotto, e dormì ai piedi del Principe. Poi tutto il giorno seguente se ne stette appollaiato sulla spalla del Principe, e gli raccontò quello che aveva veduto in paesi lontani. Gli parlò dei rossi ibis, che sostano in lunghe file sulle rive del Nilo e col becco acchiappano pesciolini dorati; gli parlò della Sfinge, che è vecchia quanto il mondo, e vive nel deserto, e conosce ogni cosa; gli parlò dei mercanti che viaggiano piano al fianco dei loro cammelli e recano tra le mani rosari d'ambra; gli parlò del Re della Montagna della Luna, che è nero come l'ebano, e adora un enorme cristallo; gli parlò del grande serpente verde che dorme in un palmizio ed è nutrito da venti sacerdoti con focacce di miele; gli parlò infine dei pigmei che veleggiano su un grande lago sopra larghe foglie piatte e sono sempre in guerra con le farfalle.
"Caro Rondinotto" disse il Principe, "tu mi parli di cose meravigliose, ma più meraviglioso di qualsiasi cosa è il dolore degli uomini e delle donne. Non vi è Mistero più grande della Miseria. Vola sulla mia città, piccolo Rondinotto, e raccontami quello che vedi".

Così il Rondinotto volò sopra la grande città, e vide i ricchi gozzovigliare nelle loro splendide dimore, mentre i poveri sedevano fuori, ai cancelli. Volò in bui vicoli, e vide i visi bianchi dei bambini affamati che fissavano con occhi assenti le strade oscure.
Sotto l'arcata di un ponte due ragazzini si stringevano l'uno all'altro cercando di riscaldarsi a vicenda.
"Che fame, abbiamo!" dicevano.
"Non potete dormire laggiù" gridò la guardia, e i due bambini si allontanarono sotto la pioggia.
Allora il Rondinotto tornò indietro e raccontò al Principe quello che aveva veduto.
"Sono tutto ricoperto d'oro fino" disse il Principe, "tu devi togliermelo di dosso, foglia per foglia, e darlo ai miei poveri: i vivi credono che l'oro possa renderli felici".
Il Rondinotto piluccò via foglia dopo foglia del fine oro, finché il Principe Felice divenne tutto opaco e grigio. Foglia per foglia del fine oro egli portò ai poveri, e le facce dei bambini si fecero più rosate, ed essi risero e giocarono giochi infantili nelle strade.
"Abbiamo pane, adesso! " gridavano.
Poi venne la neve, e dopo la neve venne il gelo. Le strade sembravano pavimentate d'argento, tanto erano lucide e scintillanti; lunghi ghiaccioli, simili a lame di cristallo, pendevano dalle gronde delle case; tutti giravano impellicciati e i ragazzini indossavano cappucci scarlatti e pattinavano sul ghiaccio.
Il povero piccolo Rondinotto aveva sempre più freddo, ma non voleva lasciare il Principe; gli voleva troppo bene. Raccoglieva briciole fuor dell'uscio del fornaio quando questi aveva la schiena voltata, e cercava di scaldarsi battendo le ali.
Ma alla fine capì che era prossimo a morire. Ebbe giusto la forza di volare un'ultima volta sulla spalla del Principe.
"Addio, caro Principe" mormorò, "mi permetti che ti baci la mano? "
"Sono contento che tu vada in Egitto, finalmente, piccolo Rondinotto" disse il Principe, "sei rimasto qui anche troppo tempo, ma tu devi baciarmi sulle labbra, perché io ti amo".
"Non è in Egitto che io vado" disse il Rondinotto, "vado alla Casa della Morte. La Morte non è forse la sorella del Sonno?" E baciò il Principe Felice sulle labbra, e cadde morto ai suoi piedi.
In quel momento si udì nell'interno della statua uno strano crac, come se qualcosa si fosse rotto. Il fatto è che il cuore di piombo si era spaccato netto in due.

Certo faceva un freddo cane. Il mattino seguente per tempo il Sindaco andò a passeggiare nella piazza sottostante in compagnia degli Assessori. Nel passare dinnanzi alla colonna alzò gli occhi verso la statua:
"Dio mio! Com'è conciato il Principe Felice! " esclamò.
"Davvero! Com'è conciato! " esclamarono gli Assessori che ripetevano sempre quel che diceva il Sindaco, e andarono tutti su per vedere meglio.
"Gli è caduto il rubino dall'elsa della spada, gli occhi non ci sono più, e la doratura è scomparsa" disse il Sindaco, "insomma, sembra poco meno che un accattone!"
"Poco meno che un accattone" ripeterono in coro gli Assessori civici.
"E qui, ai piedi della statua, c'è persino un uccello morto! " proseguì il Sindaco. "Dobbiamo assolutamente emanare un'ordinanza che agli uccelli non sia permesso di morire qui!"
E lo Scrivano Pubblico prese appunti per la stesura del decreto.
Così tirarono giù la statua del Principe Felice.
"Dal momento che non è più bello non è nemmeno più utile" osservò il Professore di Belle Arti dell'Università.
Quindi fusero la statua in una fornace e il Sindaco indisse un'adunanza della Corporazione per decidere quel che si doveva fare del metallo.
"Dobbiamo costruire un'altra statua" disse, "e sarà la mia statua".
"La mia" ripeté ciascuno degli Assessori, e litigarono. L'ultima volta che ebbi loro notizie stavano ancora litigando.
"Che cosa curiosa! " disse il sorvegliante degli operai della fonderia. "Questo rotto cuore di piombo non vuole fondersi nella fornace. Bisogna che lo gettiamo via".
E lo gettarono infatti su un mucchio di spazzatura dove avevano buttato anche il Rondinotto morto.

"Portami le due cose più preziose che trovi nella città" disse Dio a uno dei Suoi Angeli; e l'Angelo gli portò il cuore di piombo e l'uccello morto.
"Hai scelto bene" gli disse Dio, "poiché nel mio giardino del Paradiso questo uccellino canterà in eterno, e nella mia città d'oro il Principe Felice mi loderà".

amoresacrificiodonazionedonareamicizia

5.0/5 (2 voti)

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 06/05/2011

TESTO

25. Io voglio servire Gesù

Shahbaz Bhatti, Cristiani in Pakistan. Nelle prove la speranza, Marcianum Press, Venezia 2008, pp. 39-43

Il mio nome è Shahbaz Bhatti. Sono nato in una famiglia cattolica. Mio padre, insegnante in pensione, e mia madre, casalinga, mi hanno educato secondo i valori cristiani e gli insegnamenti della Bibbia, che hanno influenzato la mia infanzia.

Fin da bambino ero solito andare in chiesa e trovare profonda ispirazione negli insegnamenti, nel sacrificio, e nella crocifissione di Gesù. Fu l'amore di Gesù che mi indusse ad offrire i miei servizi alla Chiesa. Le spaventose condizioni in cui versavano i cristiani del Pakistan mi sconvolsero. Ricordo un venerdì di Pasqua quando avevo solo tredici anni: ascoltai un sermone sul sacrificio di Gesù per la nostra redenzione e per la salvezza del mondo. E pensai di corrispondere a quel suo amore donando amore ai nostri fratelli e sorelle, ponendomi al servizio dei cristiani, specialmente dei poveri, dei bisognosi e dei perseguitati che vivono in questo paese islamico.

Mi sono state proposte alte cariche al governo e mi è stato chiesto di abbandonare la mia battaglia, ma io ho sempre rifiutato, persino a rischio della mia stessa vita. La mia risposta è sempre stata la stessa: «No, io voglio servire Gesù da uomo comune».

Questa devozione mi rende felice. Non voglio popolarità, non voglio posizioni di potere. Voglio solo un posto ai piedi di Gesù. Voglio che la mia vita, il mio carattere, le mie azioni parlino per me e dicano che sto seguendo Gesù Cristo. Tale desiderio è così forte in me che mi considererei privilegiato qualora - in questo mio sforzo e in questa mia battaglia per aiutare i bisognosi, i poveri, i cristiani perseguitati del Pakistan - Gesù volesse accettare il sacrificio della mia vita. Voglio vivere per Cristo e per Lui voglio morire. Non provo alcuna paura in questo paese.

Molte volte gli estremisti hanno cercato di uccidermi e di imprigionarmi; mi hanno minacciato, perseguitato e hanno terrorizzato la mia famiglia. Gli estremisti, qualche anno fa', hanno persino chiesto ai miei genitori, a mia madre e mio padre, di dissuadermi dal continuare la mia missione in aiuto dei cristiani e dei bisognosi, altrimenti mi avrebbero perso. Ma mio padre mi ha sempre incoraggiato. Io dico che, finché avrò vita, fino all'ultimo respiro, continuerò a servire Gesù e questa povera, sofferente umanità, i cristiani, i bisognosi, i poveri.

Voglio dirvi che trovo molta ispirazione nella Sacra Bibbia e nella vita di Gesù Cristo. Più leggo il Nuovo e il Vecchio Testamento, i versetti della Bibbia e la parola del Signore e più si rinsaldano la mia forza e la mia determinazione. Quando rifletto sul fatto che Gesù Cristo ha sacrificato tutto, che Dio ha mandato il Suo stesso Figlio per la nostra redenzione e la nostra salvezza, mi chiedo come possa io seguire il cammino del Calvario. Nostro Signore ha detto: «Vieni con me, prendi la tua croce e seguimi». I passi che più amo della Bibbia recitano: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi». Così, quando vedo gente povera e bisognosa, penso che sotto le loro sembianze sia Gesù a venirmi incontro.

Per cui cerco sempre d'essere d'aiuto, insieme ai miei colleghi, di portare assistenza ai bisognosi, agli affamati, agli assetati.

Shahbaz Bhatti, ucciso a Islamabad il 2/03/2011

testimonianzamartiriopersecuzione

inviato da Qumran2, inserito il 08/03/2011

TESTO

26. L'Ave Maria

Beato Alano della Rupe, Il Salterio di Gesù e di Maria, il Santissimo Rosario, libro IV

Quando dico Ave Maria, il Cielo esulta, la terra si riempie di stupore.
Quando dico Ave Maria, Satana fugge, trema l'inferno.
Quando dico Ave Maria, il mondo perde valore, il cuore si strugge di Amore per Dio.
Quando dico Ave Maria, sparisce l'accidia, ogni istinto si placa.
Quando dico Ave Maria, sparisce la tristezza, il cuore si riempie di gioia.
Quando dico Ave Maria, si accresce la devozione, inizia il pentimento dei peccati.
Quando dico Ave Maria, il cuore è colmo di speranza e di consolazione.
Quando dico Ave Maria, l'anima è forte e ricolma di Amor di Dio.

rosariomariamadonna

5.0/5 (1 voto)

inviato da Don Roberto Paola, inserito il 05/09/2010

ESPERIENZA

27. Parlare dell'aborto in assemblea di classe   1

C. D'Esposito, Rivista "Vita Francescana", maggio 1975

PAOLO (anni 15): Io dico che l'aborto è lecito, quando si sa che il bambino nascerà deforme. A che serve farlo nascere? Io non vorrei vivere, se fossi deforme.

PROF.: (Eh già, bello e viziato come sei...) Paolo, ma allora lo scopo della vita è essere belli?

PAOLO: No, certo, non è essere belli. Ma nemmeno brutti!

MANUELA (anni 15; meditabonda e sagace): Lui vuol dire che lo scopo della vita è essere felici.

PROF.: E mi sai dire qual è lo scopo dell'aborto? Rendere felice la madre?

GIORGIO (interdetto): Lo scopo dell'aborto...

PROF.: La madre è più felice, dopo?

Vorrei dire a Paolo che il suo è un ragionamento fatto coi piedi. Se chi è deforme non ha diritto di vivere, allora dovremmo uccidere i gobbi, i paralitici, i pazzi.

MANUELA (indignata): Che c'entra! Quelli, ormai, sono nati. Sono vivi, sono interi. Prima di nascere non siamo nemmeno interi.

PROF.: fammi capire: essere uomini significa essere interi?

GIORGIO: Senta, non riattacchiamo con la filosofia.

PROF. (divertita): Io lo facevo per Paolo. Pensa a lui, che ragiona con i piedi. Se si sloga un piede, non è più Paolo. Vi do un suggerimento; facciamo fuori Paolo

GIORGIO (rassegnato): Vi saluto, gente. Parla la professoressa, quindi l'assemblea è finita.

PROF.: Ascolta, Giorgio: un uomo e una donna si sposano, pur sapendo di essere gravemente malati. Incoscienti, no? E fanno pure di peggio: questi criminali, questi irresponsabili, fanno pure cinque figli.

GIORGIO (atterrito): Cinque figli? Ma saranno tutti malati!

PROF.: Tutti malati, è evidente. Chi sordo, chi cieco, chi demente; uno sfacelo, uno spettacolo vergognoso; se ci fosse Hitler li infilerebbe nei forni. E così si perderebbe il sesto figlio.

GIORGIO (stravolto): Il sesto, professoressa?

PROF.: Che è Ludwig van Beethoven. E non dire: è bene inventata; perché è vera.

abortovitasenso della vita

inviato da Angela Muscarella, inserito il 14/08/2010

RACCONTO

28. Il cuore

Martin Buber, Storie e leggende chassidiche, Mondadori

Rabbi Mendel soleva dire che tutti gli uomini che gli avevano chiesto di pregare Dio per loro gli passavano nella mente quando diceva la tacita preghiera delle Diciotto Benedizioni (preghiera che si recita tre volte al giorno stando in piedi).

Un giorno un tale si stupì che ciò fosse possibile, poiché il tempo non bastava certo. Rabbi Mendel rispose: "Una traccia della pena di ognuno rimane incisa nel mio cuore. Nell'ora delle preghiera io apro il mio cuore e dico: Signore del mondo, leggi ciò che è scritto qui!".

preghieraintercessionecomunione

1.0/5 (1 voto)

inviato da Elena Calvini, inserito il 26/06/2010

TESTO

29. Il mondo che io ho voluto

Canto brasiliano

La natura che io ho voluto non è questa qui,
che cade indifesa, perdendo la bellezza,
recando tristezza alla terra che ho creato.

La terra che io ho voluto non è questa qui,
fatta a pezzi dai ricconi, dalle mani criminose degli uomini che io ho fatto.

L'uomo che io ho fatto non è questo qui,
che vive oppresso, che cammina disorientato,
che cade ucciso nel mondo che io ho fatto.

Forse ho sbagliato? Ditemelo voi.
Forse ho messo molta acqua nel mare?
Forse è il calore del mio sole che brucia?
Se per caso è così, perdono! Ho sbagliato.

Adesso vi dico qual è il mondo che io ho voluto:
le stelle non litigano, il sole non si allontana,
il mare non invade la terra che io ho fatto.

Adesso vi dico qual è l'uomo che io ho voluto:
un uomo libero, fraterno e aperto,
che fa della vita un canto felice.

Forse ho sbagliato ad essere troppo buono?
Forse l'amore, la giustizia e la pace
non hanno più alcun valore in questo mondo mio?
Se è così, perdono! Ho sbagliato.

ecologianaturainquinamentocreazionecreato

5.0/5 (1 voto)

inviato da Stefano Foschi, inserito il 07/12/2009

TESTO

30. Digiuno, elemosina e preghiera   1

san Giovanni Maria Vianney, Omelia per la VII Domenica dopo Pentecoste

Leggiamo nella Sacra Scrittura che il Signore diceva al suo popolo, parlandogli della necessità di fare delle opere buone per piacergli e per far parte del numero dei santi: «Le cose che vi chiedo non sono al di sopra delle vostre forze; per farle, non è necessario innalzarvi fino alle nubi, né attraversare i mari. Tutto ciò che vi comando è, per così dire, a portata di mano, nel vostro cuore e attorno a voi». Posso ripetere la stessa cosa: è vero, non avremo mai la fortuna di andare in cielo se non facciamo opere buone; ma non ci spaventiamo: ciò che Gesù Cristo ci chiede, non sono cose straordinarie, né al di sopra delle nostre capacità; non chiede a noi di stare tutto il giorno in chiesa, neanche di fare grandi penitenze, cioè fino a rovinare la nostra salute, e neppure di dare tutto il nostro avere ai poveri (benché sia verissimo che siamo obbligati a dare ai poveri quanto possiamo, e che lo dobbiamo fare per piacere a Dio che ce lo comanda e per riscattare i nostri peccati). È pur vero che dobbiamo praticare la mortificazione in molte cose, domare le nostre inclinazioni...

Ma, mi direte voi, ce ne sono più d'uno che non possono digiunare, altri che non possono dare l'elemosina, altri che sono talmente occupati che spesso riescono a stento a fare la loro preghiera al mattino e alla sera; come dunque potranno salvarsi, dal momento che bisogna pregare di continuo e bisogna necessariamente fare opere buone per conquistare il cielo?

Visto che tutte le vostre opere buone si riducono alla preghiera, al digiuno e all'elemosina, potremo fare facilmente tutto questo, come vedrete.

Sì, anche se avessimo una cattiva salute o fossimo addirittura infermi, c'è un digiuno che possiamo facilmente fare. Fossimo pure del tutto poveri, possiamo ancora fare l'elemosina e, per quanto grandi fossero le nostre occupazioni, possiamo pregare il buon Dio senza essere disturbati nei nostri affari, pregare alla sera e al mattino, e persino tutto il giorno. Ed ecco come.

Noi pratichiamo un digiuno che è assai gradito a Dio, ogni volta che ci priviamo di qualche cosa che ci piacerebbe fare, perché il digiuno non consiste tutto nella privazione del bere e del mangiare, ma nella privazione di ciò che riesce gradito al nostro gusto; gli uni possono mortificarsi nel modo di aggiustarsi, gli altri nelle visite che vogliono fare agli amici che hanno piacere di vedere, gli altri, nelle parole e nei discorsi che amano tenere; questi fa un grande digiuno ed è molto gradito a Dio allorché combatte il suo amor proprio, il suo orgoglio, la sua ripugnanza a fare ciò che non ama fare, o stando con persone che contrariano il suo carattere, i suoi modi di agire...

Vi trovate in una occasione nella quale potreste soddisfare la vostra golosità? Invece di farlo, prendete, senza farlo notare, ciò che vi piace di meno... Sì, se volessimo applicarci bene, non soltanto troveremmo di che praticare ogni giorno il digiuno, ma ancora ad ogni momento della giornata.

Ma, ditemi, c'è ancora un digiuno che sia più gradito a Dio del fare e del soffrire con pazienza certe cose che spesso vi sono molto sgradevoli? Senza parlare delle malattie, delle infermità e di tante altre afflizioni che sono inseparabili dalla nostra miserabile vita, quante volte non abbiamo l'occasione di mortificarci, accettando ciò che ci incomoda e ci ripugna? Ora è un lavoro che ci annoia, ora una persona antipatica, altre volte è un'umiliazione che ci costa di sopportare. Ebbene, se accettiamo tutto questo per il buon Dio, e unicamente per piacergli, questi sono i digiuni più graditi a Dio...

Diciamo che c'è una specie d'elemosina che tutti possono fare.

Vedete bene che l'elemosina non consiste soltanto nel nutrire chi ha fame, e nel dare vestiti a chi non ne ha; ma sono tutti i favori che si rendono al prossimo, sia per il corpo, sia per l'anima, quando lo facciamo in spirito di carità. Quando abbiamo poco, ebbene, diamo poco; e quando non abbiamo, diamo in prestito, se lo possiamo. Colui che non può provvedere alle necessità degli ammalati, ebbene, può visitarli, dir loro qualche parola di consolazione, pregare per loro, affinché facciano buon uso della loro malattia. Sì, tutto è grande e prezioso agli occhi di Dio, quando agiamo per un motivo di religione e di carità, perché Gesù Cristo ci dice che un bicchiere d'acqua non rimane senza ricompensa. Vedete dunque che, benché siamo assai poveri, possiamo facilmente fare l'elemosina.

Dico che, per grandi che siano le nostre occupazioni, c'è una specie di preghiera che possiamo fare di continuo, anche senza distoglierci dalle nostre occupazioni, ed ecco come si fa. Consiste, in tutto quello che facciamo, nel non fare altro che la volontà di Dio. Ditemi, vi pare molto difficile lo sforzarsi di fare soltanto la volontà di Dio in tutte le nostre azioni, per quanto piccole esse siano?

digiunaredigiunopreghieraelemosinaquaresima

5.0/5 (1 voto)

inviato da Parrocchia S. Giovanni M. Vianney - Roma, inserito il 26/06/2009

PREGHIERA

31. Tu... la risposta

Fr. Dario Rossetti RCJ

Signore, se penso perché sono nato
tu sei la risposta più bella,
perché mi dici "sei nato perché ti amo".

Signore, se mi chiedo dove sono nato
tu sei la risposta più dolce,
perché mi dici "eri nel mio cuore,
e sempre ci resterai".

Signore, se penso dove finirà la mia vita
ancora tu sei la risposta più serena,
perché mi dici "riposando
vivrai nel mio amore".

Signore, sono sempre io,
ora penso come vivere la mia vita
e, pensa un po', tu sei la risposta più sicura,
perché ti dico "tu sei con me, perciò
non ho nessuna paura di vivere con te".

Parlami sempre, ogni giorno di più,
perché io ogni giorno di più ti ami.

vitarispostavocazionecuoreamorevivere

inviato da Fr. Dario Rossetti RCJ, inserito il 29/05/2009

RACCONTO

32. Della vera e perfetta letizia

San Francesco d'Assisi, Fioretti

Un giorno il beato Francesco, presso Santa Maria [degli Angeli], chiamò frate Leone e gli disse: "Frate Leone, scrivi". Questi rispose: "Eccomi, sono pronto". "Scrivi disse - quale è la vera letizia".

"Viene un messo e dice che tutti i maestri di Parigi sono entrati nell'Ordine, scrivi: non è vera letizia. Cosi pure che sono entrati nell'Ordine tutti i prelati d'Oltr'Alpe, arcivescovi e vescovi, non solo, ma perfino il Re di Francia e il Re d'lnghilterra; scrivi: non è vera letizia. E se ti giunge ancora notizia che i miei frati sono andati tra gli infedeli e li hanno convertiti tutti alla fede, oppure che io ho ricevuto da Dio tanta grazia da sanar gli infermi e da fare molti miracoli; ebbene io ti dico: in tutte queste cose non è la vera letizia".

"Ma quale è la vera letizia?".

"Ecco, io torno da Perugia e, a notte profonda, giungo qui, ed è un inverno fangoso e così rigido che, alI'estremità della tonaca, si formano dei ghiacciuoli d'acqua congelata, che mi percuotono continuamente le gambe fino a far uscire il sangue da siffatte ferite. E io tutto nel fango, nel freddo e nel ghiaccio, giungo alla porta e, dopo aver a lungo picchiato e chiamato, viene un frate e chiede: "Chi è?". Io rispondo: "Frate Francesco". E quegli dice: "Vattene, non è ora decente questa, di andare in giro, non entrerai". E poiché io insisto ancora, I'altro risponde: "Vattene, tu sei un semplice ed un idiota, qui non ci puoi venire ormai; noi siamo tanti e tali che non abbiamo bisogno di te". E io sempre resto davanti alla porta e dico: "Per amor di Dio, accoglietemi per questa notte". E quegli risponde: "Non lo farò. Vattene al luogo dei Crociferi e chiedi là". Ebbene, se io avrò avuto pazienza e non mi sarò conturbato, io ti dico che qui è la vera letizia e qui è la vera virtù e la salvezza dell'anima".

letiziagioiainterioritàserenitàforza interiore

3.5/5 (2 voti)

inviato da Pier Luca Bancale, inserito il 07/09/2008

TESTO

33. Dio cerca casa

- Ho appeso un cartello all'uscio del mio cuore - affittasi.
Un giorno Dio ha bussato in cerca di un abitazione per suo Figlio.
- Do in affitto a un prezzo basso - dico io.
- Non voglio prendere in affitto, intendo comprare - dice Dio.
- Questa storia l'ho già sentita; da quel che si dice in giro ci stai provando con tutti. Non so ancora se venderò, ma puoi entrare a dare un'occhiata.
- Si, certo - dice Dio.
- Potrei cederti una o due stanze...
- Mi piacciono - dice Dio. - Prenderò le due stanze. Un giorno forse ti deciderai a darmene altre. Posso aspettare.
- Vorrei darti di più, ma è un po' difficile. Ho bisogno di un certo spazio per me.
- Capisco - dice Dio - comunque aspetterò. Mi piace questa casa.
- Beh, forse posso cederti un'altra stanza, in fin dei conti non è che ne abbia poi tanto bisogno per me.
- Grazie - dice Dio - non ti butterei certo in mezzo alla strada. La tua casa sarebbe la mia casa e ci abiterebbe mio Figlio. E tu avresti più spazio di quanto non ne abbia mai avuto prima.
- Non ci capisco niente.
- Lo so - dice Dio - ma non te lo posso spiegare. Dovrai capirlo da te. E questo capiterà solo se gli darai tutta la casa.
- È un po' rischioso - dico io.
- Si - dice Dio - ma provaci con me.
- Non so proprio... Ci penserò e poi ti dirò qualcosa.
- Posso aspettare - dice Dio - Mi piace questa casa.

E tu, sei disposto ad accogliere Dio nella tua casa?

rapporto con Dioconversionecoerenza

inviato da Bianco Alessandro, inserito il 13/04/2008

RACCONTO

34. Il club del novantanove   6

Bruno Ferrero, Ma noi abbiamo le ali

C'era una volta un re molto triste che aveva un servo molto felice che circolava sempre con un grande sorriso sul volto. «Paggio», gli chiese un giorno il re, «qual è il segreto della tua allegria?».

«Non ho nessun segreto. Signore, non ho motivo di essere triste. Sono felice di servirvi. Con mia moglie e i miei figli vivo nella casa che ci è stata assegnata dalla corte. Ho cibo e vestiti e qualche moneta di mancia ogni tanto».

Il re chiamò il più saggio dei suoi consiglieri: «Voglio il segreto della felicità del paggio!».
«Non puoi capire il segreto della sua felicità. Ma se vuoi, puoi sottrargliela».
«Come?».
«Facendo entrare il tuo paggio nel giro del novantanove».
«Che cosa significa?».
«Fa' quello che ti dico...».

Seguendo le indicazioni del consigliere, il re preparò una borsa che conteneva novantanove monete d'oro e la fece dare al paggio con un messaggio che diceva: «Questo tesoro è tuo. Goditelo e non dire a nessuno come lo hai trovato».

Il paggio non aveva mai visto tanto denaro e pieno di eccitazione cominciò a contarle: dieci, venti, trenta, quaranta, cinquanta, sessanta... novantanove! Deluso, indugiò con lo sguardo sopra il tavolo, alla ricerca della moneta mancante. «Sono stato derubato!» gridò. «Sono stato derubato! Maledetti!».

Cercò di nuovo sopra il tavolo, per terra, nella borsa, tra i vestiti, nelle tasche, sotto i mobili... Ma non trovò quello che cercava.

Sopra il tavolo, quasi a prendersi gioco di lui, un mucchietto di monete splendenti gli ricordava che aveva novantanove monete d'oro. Soltanto novantanove. «Novantanove monete. Sono tanti soldi», pensò. «Ma mi manca una moneta. Novantanove non è un numero completo» pensava. «Cento è un numero completo, novantanove no».

La faccia del paggio non era più la stessa. Aveva la fonte corrugata e i lineamenti irrigiditi. Stringeva gli occhi e la bocca gli si contraeva in una orribile smorfia, mostrando i denti.

Calcolò quanto tempo avrebbe dovuto lavorare per guadagnare la centesima moneta, avrebbe fatto lavorare sua moglie e i suoi figli. Dieci dodici anni, ma ce l'avrebbe fatta! Il paggio era entrato nel giro del novantanove...

Non passò molto tempo che il re lo licenziò. Non era piacevole avere un paggio sempre di cattivo umore.

E se ci rendessimo conto, così di colpo, che le nostre novantanove monete sono il cento per cento del tesoro. E che non ci manca nulla, nessuno ci ha portato via nulla, il numero cento non è più rotondo del novantanove. È soltanto un tranello, una carota che ci hanno messo davanti al naso per renderci stupidi, per farci tirare il carretto, stanchi, di malumore, infelici e rassegnati. Un tranello per non farci mai smettere di spingere.

Quante cose cambierebbero se potessimo goderci i nostri tesori così come sono.

tesorodenarocupidigiaavariziafelicitàinterioritàesterioritàgratitudinesoldibeni materiali

4.3/5 (3 voti)

inserito il 25/11/2007

TESTO

35. Vi auguro la fede!

Filippo Franceschi

È la stessa espressione che uso nelle omelie in parrocchia quando mi rivolgo ai ragazzi che si preparano a ricevere la Confermazione. Dico quelle parole per dirle anche a me stesso. Auguro la fede. Ai ragazzi verrebbe anche voglia di augurare la felicità, ma noi che abbiamo vissuto sappiamo che rischia di essere una parola, un miraggio, un sogno che si dissolve all'alba. Allora auguro la fede. Non so dirvi molto di più. Io vi auguro che custodiate la fede nel Signore, la fede nel suo significato più profondo, più vero, che è la certezza che Dio c'è, ed è anche la certezza che Dio ci ama, anche nei momenti più drammatici in cui siamo più soli, in cui intorno a noi sembra esserci soltanto il deserto. Anche nei momenti della prova, anche nei momenti della sofferenza. Questa fede che è grazia e domanda.
Custodire la fede. Non vi sembri soltanto una cosa pia o una esortazione buona: è qualcosa di molto di più. Custodire la fede come un dono prezioso, come ciò che di più grande abbiamo. Poi toccherà a ciascuno di noi pagare il prezzo della propria fede, viverla. Ma custoditela!

fede

5.0/5 (1 voto)

inviato da Cristiano Ballan, inserito il 25/02/2007

PREGHIERA

36. Quando ti dico "ti amo"

Daniele Pasini

Amore non è possesso
Amore è desiderare il vero bene
Amore non si pronuncia
se non è ispirato dall'amore di Dio.
Voglio dirti "ti amo"
perché sei importante e speciale
ogni volta che t'incontro
perché te come tutti gli altri
siete dono particolare,
ognuno con una diversa qualità!
Non te lo dico per desiderare
un abbraccio.
Non te lo dico per avere
un consenso.
Te lo dico perché desidero
che i tuoi occhi brillino d'amore
per donarlo agli altri
con l'ascolto,
nel dolce silenzio amico,
e perché desidero donarti il mio cuore
che non può essere esclusivo
in quanto sempre sovrabbonda...
E prima che giunga un qualsiasi peccato
voglio approfittarne,
sia con la parola che con l'azione
per dimostrare a tutti,
- da quelli che conosco
a quelli che "capitano" -
che voglio amare
e voglio poterlo dire
a chi ha un cuore così puro
da saper accogliere nel giusto
una parola così bella!

amoregratuitàamicizia

5.0/5 (1 voto)

inviato da Luisa Mugheddu, inserito il 05/02/2006

PREGHIERA

37. Signore, io ti chiedo sempre perdono   1

Signore, io ti chiedo sempre perdono, ad ogni mancanza mi ricordo che tu soffri per questo mio peccato che potevo evitare.
Dico parolacce e la sera prima di addormentarmi ti chiedo di perdonarmi.
...Ma un mio amico mi offende e non riesco a dimenticare tale offesa...
Non aiuto in casa e sono menefreghista nei confronti dei miei genitori che fanno sacrifici per me. Scusa Signore per la mia indifferenza.
...Però un mio amico non mi aiutato in un compito ed ho deciso che d'ora in poi con me ha chiuso...
Signore, perdonami perché ti penso poco e dedico poco tempo alla preghiera e al dialogo con te.
...Però un mio ex compagno di classe non si fa più sentire e ho deciso di dimenticarlo perché non merita le mie attenzioni....
C'è qualcosa che non quadra Signore: ti chiedo di perdonarmi azioni che io stesso non sono capace di perdonare ad altri.... Ma è difficile...
Signore, dammi la forza di riuscire a perdonare perché il mio piccolo mondo possa essere un mondo di pace.

perdonopacemisericordiamisericordia di Dio

inviato da Lisa Gleria, inserito il 02/10/2005

ESPERIENZA

38. L'esperienza che si fa messaggio

Tonino Bello

Carissimi catechisti,

è autentica. Ieri sera stavo amministrando l'eucarestia, durante la messa solenne, quando si è presentato un papà con la figlioletta in braccio. Il Corpo di Cristo. Amen. E gli ho fatto la comunione.

La bambina allora, che osservava con occhi colmi di stupore, si è rivolta a suo padre e gli ha chiesto: «È buona?». Sono rimasto letteralmente bruciato da quell'interrogativo. A tal punto, che mi son dovuto fermare. Poi, con la pisside in mano, mi son fatto largo fra la gente, ho raggiunto quel signore che si era già allontanato, e ho sentito il bisogno di dare un bacio alla sua bambina.

Quella domanda mi è parsa splendida. E siccome nell'omelia avevo detto che in fatto di fede possiamo trasmettere agli altri solo ciò che sperimentiamo noi stessi, ho pensato che il Signore, con la battuta ingenua di una bambina e nel linguaggio spontaneo dei semplici, avesse voluto restituirmi la sintesi del mio lungo discorso.

In effetti, ciò che rende credibili sulle nostre labbra di annunciatori la trasmissione del messaggio di Gesù è soltanto l'esperienza che noi per primi facciamo della sua verità. Una verità che non passa, se chi la trasmette non ne pregusta un assaggio e non se ne nutre in abbondanza.

La domanda di quella bambina, perciò, ci stringe d'assedio, perché chiama in causa non tanto il nostro sapere religioso, quanto lo spessore del nostro vissuto concreto.

«È buona?». Perché, se la mensa di cui tu parli ti riempie di forze, desidero sedermi anch'io alla tua tavola. Spezzane un po' anche per me di quel pane che tu gusti avidamente. Fammi bere alla stessa brocca, se è vero che quell'acqua toglie la sete e ti placa l'arsura dell'anima.

«È buona?». Perché se l'hai già provato tu che la legge del Signore è perfetta e rinfranca l'anima, come dicono i salmi, o che gli ordini del Signore fanno gioire il cuore, e le sue parole sono più dolci del miele e di un favo stillante... fa' assaporare pure a me queste delizie del palato e non escludermi da condivisioni di così squisita bontà.

Carissimi catechisti, io non so bene cosa ieri sera, a messa, avesse voluto da me il Signore, il quale per dirla ancora con le Scritture, si esprime spesso con la bocca dei bimbi e dei lattanti.

Ha voluto provocarmi a uscire dall'assuefazione ad un cibo troppo distrattamente consumato? Ha inteso rimproverarmi la sistematica assenza di gratitudine per il Suo Pane disceso dal cielo? Ha voluto farmi prendere coscienza con quanto poco stupore accolgo la ricchezza dei suoi doni?

Non lo so.

Certo è che, se quella bambina avesse potuto capirmi e io mi fossi sentito meno indegno di accreditarmi certi meriti, avrei risposto per conto del suo papà, rimasto muto, e avrei voluto dirle: «Sì che è buona l'eucarestia. Così come è buona la sua Parola. Così come è buona la sua amicizia. Così come è buona la sua croce. Te lo dico io che non posso più resistere senza quell'ostia. Che non so più fare a meno della sua Parola di vita eterna. Che sperimento la sua amicizia, sia nel gaudio di quando Lui mi è accanto, come nella nostalgia quando mi manca. Te lo dico io che ho una croce leggera sul petto, e una pesante sulle spalle. Quest'ultima, però, da quando ho capito che è una scheggia di quella portata da Lui, da simbolo delle mie sconfitte, si è tramutata in fontana di speranza. Per me e per gli altri. Parola di uomo!».

eucaristiatestimonianzacristianesimo

inviato da Michelangelo Dessì Sdb, inserito il 08/12/2004

PREGHIERA

39. Angelo buono

Adolfo Rebecchini

Angelo caro, stammi vicino,
aiuta me che son piccino.
Sono un bambino un po' capriccioso
fammi essere poco noioso.

Angelo mio ti voglio pregare
aiuta il mio piede a non inciampare.
Se la strada in salita mi fa scoraggiare
sostienimi sempre e fammi rialzare!

Angelo buono, paziente e sincero,
aiuta me a dire sempre il vero.
A volte son pigro e dico bugie,
dammi una mano a non fare pazzie.

Angelo santo del paradiso
ad ogni bambino dona un sorriso.
Ai genitori dai pure una mano
perché si tengan sempre per mano.

Angelo del cielo che sei amico mio
aiutami sempre a ricordarmi di Dio.
Se a volte mi scordo pure di Lui,
scusami tanto davanti a Lui.

Angelo custode
che vegli su di me
aiutami ad essere
un po' come te.

angelo custode

5.0/5 (1 voto)

inviato da Adolfo Rebecchini, inserito il 08/12/2004

PREGHIERA

40. Maranatha, vieni Signore Gesù   1

"Il popolo che camminava nelle tenebre,
ha visto una gran luce;
sopra coloro che abitavano in terra tenebrosa,
una grande luce ha brillato"
(Isaia 9,1).

Quando dici:... "Non ce la faccio a risolvere i miei problemi..."
Dio ti dice "Io guido i tuoi passi".

Quando dici: "E' impossibile..."
Dio ti dice "Ciò che è impossibile agli uomini, è possibile a Dio".

Quando dici: "Mi sento molto solo..."
Dio ti dice "Non ti lascerò e non ti abbandonerò".

Quando dici: "Come posso fare questo che mi chiedi? Chi mi aiuterà?..."
Dio ti dice "Ti coprirà con le sue penne, sotto le sue ali troverai rifugio".

Quando dici: "Non merito perdono..."
Dio ti dice "Io ti perdono".
"Anche se i vostri peccati fossero scarlatto, diventeranno bianchi come neve" (Isaia 1,18).

Quando dici: "Ho paura..."
Dio ti dice "Non temere, perché io sono con te".

Quando dici: "Sono molto stanco..."
Dio ti dice "Io ti ristorerò".

Quando dici: "Nessuno mi vuole bene e nessuno mi considera..."
Dio dice "Io ti amo, ti porto disegnato sul palmo delle mie mani".

Quando dici: "Non so come andare avanti..."
Dio ti dice "Io ti indicherò il cammino".

Quando ti domandi... "Quale è la via che mi conduce a te...?"
Dio ti risponde: "Il mio Figlio amato Gesù Cristo".

C'è un fatto straordinario che sta accadendo in questi giorni:
Dio si fa uomo e viene ad abitare in mezzo a noi.
Apriamo gli occhi, stiamo attenti e vigilanti,
non perdiamo anche questa occasione
per incontrarci con il Signore.

"State attenti, vegliate, perché non sapete quando sarà il momento preciso. Quello che dico a voi, lo dico a tutti: Vegliate!" (Marco 13,33).

Avventosperanzarapporto con Diofiduciapaurasolitudine

inviato da Eleonora Galassi, inserito il 06/11/2004

TESTO

41. Risorgerò nel mio popolo

Oscar Arnulfo Romero

Spesso hanno minacciato di uccidermi. Come cristiano devo dire che non credo nella morte senza resurrezione: se mi uccidono, risorgerò nel popolo salvadoregno. Lo dico senza superbia, con la più grande umiltà. In quanto pastore ho l'obbligo, per divina disposizione, di dare la mia vita per coloro che amo ossia per tutti i salvadoregni, anche per coloro che potrebbero assassinarmi. Se le minacce giungessero a compimento, fin d'ora offro a Dio il mio sangue per la redenzione del Salvador.

Il martirio è una grazia di Dio che non credo di meritare. Ma se Dio accetta il sacrificio della mia vita, il mio sangue sia seme di libertà e segno che la speranza sarà presto realtà. La mia morte, se Dio l'accetta, sia per la libertà del mio popolo e sia una testimonianza di speranza per il futuro.

Può dire anche, se mi uccideranno che perdono e benedico quelli che lo faranno. Dio voglia che si convincano di perdere il loro tempo.

Morirà un vescovo, ma la Chiesa di Dio, ossia il popolo, non perirà mai.

sacrificiooffertamortemartiriofederisurrezioneresurrezione

inviato da Massimo Di Lullo, inserito il 29/07/2004

TESTO

42. Fare spreco di generosità

Tonino Bello, Ti voglio bene, omelia pronunciata il 19 marzo 1993 durante il rito di Ammissione di due giovani seminaristi tra i candidati agli Ordini Sacri

... La cosa più importante che vi voglio dire è quello di fare veramente con il Signore spreco di generosità. Guardate, non impressionatevi per i problemi che ci sono nel mondo, per le difficoltà che dovete incontrare per arrivare alla meta del sacerdozio. È difficile che oggi dei giovani scelgano di seguire Gesù Cristo con totalità, con libertà, con amore, lusingati come sono da tante seduzioni: le seduzioni della strada, della piazza, del successo, non dico del denaro, perché forse, grazie a Dio, nonostante la promessa di povertà, di fame non morrete nella Chiesa. Però dovete rimanere poveri, nella condizione di dipendenza da Dio, sentirvi poveri davanti a lui.

Ci sono lusinghe, le lusinghe della ricchezza, che vi attraggono, che attraggono tanti giovani: voi resistete a queste lusinghe e andate avanti con gioia perché volete seguire il Signore. Ma è difficile, oggi.

Ci sono le lusinghe bellissime, dolcissime, nella cui trama di rugiada, carica di luce, che sa di cancelli che immettono nell'aldilà, nell'ulteriorità, è facile abbandonarsi: la lusinga dell'amore, dell'amore per una donna. Pure dentro di voi batte il cuore per queste cose sante, pure e nobili. Eppure voi con grazia, con garbo, accantonate e mettete da parte con la stessa delicatezza con cui accarezzate il volto di Gesù Cristo. Mettete da parte tutta questa potenziale esperienza che potete avere per dire: "Signore, io seguo Te più da vicino, in modo più stretto. Voglio vivere in un legame più forte per poter essere più pronto a darti una mano, più agile perché i miei piedi che annunciano la pace sui monti possano essere salutati con gioia da chi sta a valle".
"Beati i piedi di coloro che sui monti annunciano la pace".

Coraggio, non lasciatevi lusingare oppure tirar dietro: guardate avanti con grande fierezza, con grande gioia perché il Signore è vicino. Il Signore ha bisogno di voi.

Il tempo si è fatto breve. Tantissimi giovani hanno bisogno di Lui, hanno bisogno di sentir parlare di Lui. I figli chiedono il pane e non c'è chi lo spezza per loro - dice un salmo; voi fate questa prova di gettarvi a capofitto in questo abisso di luce che è Gesù Cristo. Egli poi vi dà la forza di andare avanti. Vi sostiene. Vi dà l'entusiasmo, il gusto di vivere in mezzo al popolo, non lontano, non astratti dal mondo.

Io vi auguro che non stiate mai in testa e neppure in coda, ma possiate stare in mezzo al popolo, come Gesù: "Gesù, allora si sedette in mezzo ai dottori, aprì la bocca e disse...". Si sedette in mezzo. Gesù che si siede in mezzo...

Anche voi, sedetevi in mezzo alla gente, sentite il sapore e il profumo del popolo, inebriatevi di questo grande ideale di annunciare Gesù Cristo.

È splendido: dà significato alla vostra vita. Parola di uomo. È così. Il Signore Gesù è in grado di renderci felici al punto tale che questa felicità sentite il bisogno di trasferirla agli altri, a tutti coloro che vi accostano.

...Chiedete ogni giorno a Dio che vi dia un cuore umano che batta secondo i suoi ritmi. Quanti saranno i battiti di Gesù Cristo?

Come vorrei che il mio cuore battesse come il suo, in sintonia col suo per poter trascinare tutti quanti in un vortice di amore, di tenerezza, di bontà!

Chiedete al Signore che vi dia un cuore umano perché possiate essere capaci di capire la povertà della gente, la tristezza della gente, il pianto della gente; nessuno legge più questi "audiovisivi". Sono degli audiovisivi il pianto, la sofferenza, il dolore.

Il Signore si prende gioco della morte. Cos'è la morte davanti a Lui? Cos'è la malattia davanti a Lui? Cos'è un tumore davanti a Lui? Cosa volete che sia! Come facciamo a non vivere nella gioia, nel gaudio, nella speranza del Signore? Della morte lui si prende gioco. Il Signore non ci abbandona mai.

Il Signore vi dà la mano stasera, e la tiene sempre inevitabilmente stretta. E a meno che non siate voi a dichiarare il divorzio, state tranquilli che Lui da voi non si allontanerà più. È l'augurio che vi faccio ed è anche l'offertorio che presentiamo al Signore.

generositàvocazionesacerdozioseminaristichiamata

inviato da Sandra Aral, inserito il 27/07/2004

ESPERIENZA

43. Il mio cammino con Gesù crocifisso e abbandonato

E.l.

E' iniziato così il mio cammino con Gesù Crocifisso e abbandonato.

Ero seduta di fronte al mio neurologo che con il volto preoccupato leggeva i risultati degli accertamenti da me eseguiti perché da tempo avevo dei proplemi alla vista e alle articolazioni, tanto da non riuscire a camminare bene. Mi aveva accompagnato una mia carissima amica.

Il neurologo mi guardava e comincia a parlare con termini medici a me poco chiari. Allora lo interrompo e gli dico: "Senti, parlami chiaramente, non ho problemi ad accettare qualunque sia la diagnosi". Mi guarda ancora quasi impacciato e mi dice: "Purtroppo è una forma di sclerosi multipla".

La mia amica rimane quasi senza respiro, io non faccio certo salti di gioia, ma in quel momento guardo un piccolo crocifisso posto nel muro dietro la scrivania del dottore. Non ascolto più le sue parole, il mio dialogo è con Gesù crocifisso e abbandonato che in quel momento mi chiama a condividere con Lui la croce della sofferenza, come il Cireno che sulla strada del Calvario prende la croce di Gesù.

Quella sera non dissi niente a mia figlia e mio marito, ma ho preso il Vangelo e leggo il discorso della montagna che Gesù fa alla folla e dice: "...beati i poveri, beati gli afflitti, beati gli operatori di pace, beati i poveri di spirito perché di loro sarà il regno de cieli...". Con quete parole ho messo nelle mani di Gesù le mie preoccupazioni, la mia sofferenza e la croce è diventata "un giogo leggero e soave" perché Gesù dice ancora: "venite a me voi tutti che siete affaticati e oppressi ed io vi ristorerò".

Questo dialogo con Gesù scaturisce dalla preghiera e meditazione della sua Parola, mi aiuta a liberare lo spirito da ogni cosa che mi impedisce di entrare in comunione con il Padre sempre pronto ad ascoltarci e risollevarci. L'apostolo Luca nella prima domenica di avvento ci dice "vegliate e pregate, alzate il capo non lasciatevi appessantire dagli eventi della vita". Ma gettiamo ogni preoccupazione nelle mani di Dio ed egli ci soleverà. Solo così si può accogliere Gesù che per amore nostro nasce nella povertà e umiltà, Dio mi ama e ci ama di un amore infinito, sono felice di averlo incontrato, in modo particolare, in questo momento di prova.

Ogni giorno offro a Lui la mia malattia, la mia sofferenza per tutti gli ammalati, chi si sente solo, i giovani, affinché possiamo riscoprire la tenerezza dell'amore di un Padre che non ci abbandona mai.

doloresofferenzacrocesacrificio

inviato da E.l., inserito il 22/12/2003

PREGHIERA

44. Vengono meno le mie forze   1

S. Gregorio di Nazianzo

Signore mio Dio,
vengono meno le mie forze
e attendo la fine delle sofferenze.
Ho conosciuto molte realtà di questa terra:
ricchezza, povertà,
eventi lieti ed eventi tristi,
gloria e infamia, nemici, amici...
Ormai desidero gustare
ciò che non è di questa terra.
Dopo queste mie parole,
io ti parlo audacemente,
e tu accogli quello che ti dico:
"Se non sono nulla, mio Cristo,
perché mi hai plasmato?
Se invece sono prezioso per te,
perché sono tormentato da questi mali?".
Amen.

anzianitàvecchiaia

2.0/5 (1 voto)

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 16/12/2003

TESTO

45. Ama i tuoi amici   1

Tonino Lasconi

Tutti vi dicono: «Tenetevi cari i vostri amici, perché altrimenti potrete rimanere soli!». Ma io vi dico: «Fatevi sempre nuovi amici, così tanti non saranno più soli!»

Tutti vi dicono: «State attenti ai compagni cattivi, perché vi possono creare fastidi!». Ma io vi dico: «Createvi dei fastidi per i compagni cattivi. Il bene deve essere diffuso».

Tutti vi dicono: «Mettetevi insieme a quelli bravi, a quelli intelligenti, a quelli educati». Ma io vi dico: «State vicino a quelli più in difficoltà, ai più timidi, ai più poveri, a quelli presi in giro da tutti».

Tutti vi dicono: «Non andate con chi non conoscete». Ma io vi dico: «Fate che nessuno sia per voi uno sconosciuto». Solo così ci sarà più gioia.

amiciziaamare i nemicifare il primo passo

5.0/5 (1 voto)

inviato da Maria Teresa Zanfini, inserito il 12/08/2003

TESTO

46. Dare

Ogni uomo che ti cerca, viene per chiederti qualche cosa;
il ricco annoiato, la dolcezza della tua conversazione;
il povero, il tuo danaro; il triste, un po' di consolazione;
il debole, uno stimolo; colui che lotta, uno stimolo morale;
l'ammalato, un vero sollievo.
Ogni uomo viene per chiederti qualcosa.
E tu, ti permetti di perdere la pazienza!
Tu osi pensare: "Che fastidio!". Che infelice!
La legge nascosta che distribuisce misteriosamente
le cose eccelse si è degnata di donarti
il privilegio dei privilegi, il bene dei beni,
la prerogativa delle prerogative: dare!
Tu puoi dare! Per quante ore ha il giorno tu dai;
benché sia un sorriso, benché sia una stretta di mano,
benché sia una parola di sollievo.
Per quante ore ha il giorno, tu rassomigli a Lui,
che altro non è se non donazione perfetta,
diffusione perfetta e regalo perpetuo.
Dovresti inginocchiarti davanti al Padre e dirgli:
"Grazie perché posso dare, Padre mio!
Mai passerà sul mio volto l'ombra dell'impazienza!".
"In verità vi dico che vale più dare che ricevere!".

donaregratuitàamorecaritàsolidarietàaltruismoascoltodisponibilità

5.0/5 (1 voto)

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 27/06/2003

TESTO

47. La Scrittura

S. Giovanni Crisostomo

Si sente dire: "Non è mio compito leggere la Scrittura. Tocca a coloro che hanno rinunciato a questo mondo". Ebbene, io vi dico che avete più bisogno delle Scritture voi che non i monaci. Quanto ad essi, ciò che li salva è il loro genere di vita! Voi, al contrario, siete nel pieno della mischia, siete esposti senza tregua a nuove ferite.

Perciò voi avete bisogno della Scrittura: un bisogno continuo per attingervi la forza...

Molti mi diranno: "E gli affari... e il lavoro?". Bel pretesto, in verità! Voi discutete con i vostri amici... andate allo spettacolo... assistete agli incontri sportivi... Allora? Quando si tratta della vita spirituale pensate che sia cosa senza importanza?

Ah, dimenticavo! Vi è un'altra scusa: "Noi non abbiamo libri!". Questo pretesto merita solo una bella risata!

BibbiaSacra ScritturaParola di Diospiritualitàvita spirituale

inviato da Eleonora Polo, inserito il 14/12/2002

TESTO

48. Vuoi onorare il corpo di Cristo?   2

San Giovanni Crisostomo

Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia oggetto di disprezzo nelle sue membra, cioè nei poveri, privi di panni per coprirsi. Non onorarlo qui in chiesa con stoffe di seta, mentre fuori lo trascuri quando soffre per il freddo e la nudità. Colui che ha detto: "Questo è il mio corpo", confermando il fatto con la parola, ha detto anche: "Mi avete visto affamato e non mi avete dato da mangiare" e "ogni volta che non avete fatto queste cose a uno dei più piccoli fra questi, non l'avete fatto neppure a me".

Il corpo di Cristo che sta sull'altare non ha bisogno di mantelli, ma di anime pure; mentre quello che sta fuori ha bisogno di molta cura. Impariamo dunque a pensare e a onorare Cristo come egli vuole. Infatti l'onore più gradito, che possiamo rendere a colui che vogliamo venerare, è quello che lui stesso vuole, non quello escogitato da noi.

Che vantaggio può avere Cristo se la mensa del sacrificio è piena di vasi d'oro, mentre poi muore di fame nella persona del povero? Prima sazia l'affamato, e solo in seguito orna l'altare con quello che rimane. Gli offrirai una calice d'oro e non gli darai in bicchiere d'acqua? che bisogno c'è di adornare con veli d'oro il suo altare, se poi non gli offri il vestito necessario? che guadagno ne ricava egli? Dimmi: se vedessi uno privo del cibo necessario e, senza curartene, adornassi d'oro solo la sua mensa, credi che ti ringrazierebbe, o piuttosto non s'infurierebbe contro di te? e se vedessi uno coperto di stracci e intirizzito dal freddo, e, trascurando di vestirlo, gli innalzassi colonne dorate, dicendo che lo fai in suo onore, non si riterrebbe forse di essere beffeggiato e insultato in modo atroce?

Pensa la stessa cosa di Cristo, quando va errante e pellegrino, bisognoso di un tetto. Tu rifiuti di accoglierlo nel pellegrino e adorni invece il pavimento, le pareti, le colonne e i muri dell'edificio sacro. Attacchi catene d'argento alle lampade, ma non vai a visitarlo quando lui è incatenato in carcere. Dico questo non per vietarvi di procurare tali addobbi e arredi sacri, ma per esortarvi a offre, insieme a questi, anche il necessario aiuto ai poveri, o, meglio, perché questo sia fatto prima di quello. Nessuno è mai stato condannato per non aver cooperato ad abbellire il tempio, ma chi trascura il povero è destinato alla geenna, al fuoco inestinguibile e al supplizio con i demoni. Perciò, mentre adorni l'ambiente per il culto, non chiudere il tuo cuore al fratello che soffre. Questo è il tempio vivo più prezioso di quello.

Clicca qui per la versione breve.

caritàamoresolidarietàgiustiziaricchezzapovertàcultoeucaristia

5.0/5 (2 voti)

inviato da Eleonora Polo, inserito il 14/12/2002

TESTO

49. Il nostro compagno più vicino

S. Teresa di Gesù

Rivolgi gli occhi su di te e guardati dentro. Lì troverai il tuo Signore.

Vorrei trovare le parole per spiegare che cos'è quest'amicizia sacra con il Compagno della nostra anima, il più santo dei santi, dove non esiste ostacolo che impedisca all'anima e al suo Sposo di restare soli insieme ogni volta che l'anima sceglie di entrare nella propria interiorità e di chiudersi la porta alle spalle, per non lasciare entrare nulla di ciò che è terreno e vivere in quel paradiso con il suo Dio.

Dico "sceglie", perché è necessario capire che non mi sto riferendo ad uno stato soprannaturale, ma ad una condizione che dipende da una nostra scelta e in cui, per grazia di Dio, possiamo entrare volontariamente.

Il problema è che non ci rendiamo conto che Egli è vicino a noi e lo immaginiamo lontano... così lontano da dover andare in paradiso per trovarlo.

Oh Signore, perché non rivolgiamo lo sguardo al tuo volto, quando è così vicino a noi?

interioritàpreghierarapporto con Diovita spirituale

5.0/5 (1 voto)

inviato da Elena Mencarelli, inserito il 14/12/2002

TESTO

50. Il lavoro

Kahlil Gibran, Il profeta

Allora un contadino disse: Parlaci del Lavoro.
E lui rispose dicendo:
Voi lavorate per assecondare il ritmo della terra e l'anima della terra.
Poiché oziare è estraniarsi dalle stagioni e uscire dal corso della vita, che avanza in solenne e fiera sottomissione verso l'infinito.

Quando lavorate siete un flauto attraverso il quale il sussurro del tempo si trasforma in musica.
Chi di voi vorrebbe essere una canna silenziosa e muta quando tutte le altre cantano all'unisono?

Sempre vi è stato detto che il lavoro è una maledizione e la fatica una sventura.
Ma io vi dico che quando lavorate esaudite una parte del sogno più remoto della terra, che vi fu dato in sorte quando il sogno stesso ebbe origine.
Vivendo delle vostre fatiche, voi amate in verità la vita.
E amare la vita attraverso la fatica è comprenderne il segreto più profondo.

Ma se nella vostra pena voi dite che nascere è dolore e il peso della carne una maledizione scritta sulla fronte, allora vi rispondo: tranne il sudore della fronte niente laverà ciò che vi è stato scritto.

Vi è stato detto che la vita è tenebre e nella vostra stanchezza voi fate eco a ciò che è stato detto dagli esausti.
E io vi dico che in verità la vita è tenebre fuorché quando è slancio,
E ogni slancio è cieco fuorché quando è sapere,
E ogni sapere è vano fuorché quando è lavoro,
E ogni lavoro è vuoto fuorché quando è amore;
E quando lavorate con amore voi stabilite un vincolo con voi stessi, con gli altri e con Dio.

E cos'è lavorare con amore?
E' tessere un abito con i fili del cuore, come se dovesse indossarlo il vostro amato.
E' costruire una casa con dedizione come se dovesse abitarla il vostro amato.
E' spargere teneramente i semi e mietere il raccolto con gioia, come se dovesse goderne il frutto il vostro amato.
E' diffondere in tutto ciò che fate il soffio del vostro spirito,
E sapere che tutti i venerati morti stanno vigili intorno a voi.

Spesso vi ho udito dire, come se parlaste nel sonno:
"Chi lavora il marmo e scopre la propria anima configurata nella pietra, è più nobile di chi ara la terra.
E chi afferra l'arcobaleno e lo stende sulla tela in immagine umana, è più di chi fabbrica sandali per i nostri piedi".
Ma io vi dico, non nel sonno ma nel vigile e pieno mezzogiorno, il vento parla dolcemente alla quercia gigante come al più piccolo filo d'erba;
E che è grande soltanto chi trasforma la voce del vento in un canto reso più dolce dal proprio amore.

Il lavoro è amore rivelato.
E se non riuscite a lavorare con amore, ma solo con disgusto, è meglio per voi lasciarlo e, seduti alla porta del tempio, accettare l'elemosina di chi lavora con gioia.
Poiché se cuocete il pane con indifferenza, voi cuocete un pane amaro, che non potrà sfamare l'uomo del tutto.
E se spremete l'uva controvoglia, la vostra riluttanza distillerà veleno nel vino.
E anche se cantate come angeli, ma non amate il canto, renderete l'uomo sordo alle voci del giorno e della notte.

lavoro

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 11/12/2002

TESTO

51. Capendo noi stessi   1

Kahlil Gibran

Dicono che capendo noi stessi, capiremo meglio gli altri.
Ma io vi dico, amando gli altri impareremo qualcosa di più su noi stessi.

amoregratuità

inviato da Barbara, inserito il 03/12/2002

TESTO

52. Le dieci ricette per farmi felice   1

1. Non mi buco in continuazione il dito per controllare il tasso di zucchero nel sangue.
2. Ricarico le mie riserve emotive guardando un tramonto, la luna piena, il volto di un bimbo, un fiore.
3. Non dico mai: "le rane gracidano", ma dico: "le rane cantano".
4. Non voglio essere perfetto: potrei diventare nevrotico.
5. Quando mi osservo nello specchio, non mi guardo: "mi sorrido".
6. Uso il contagocce per dire "io".
7. Saluto sempre per primo.
8. Mi immagino mentre sbraito, mi agito, urlo... Non sono forse un tantino ridicolo?
9. Mi riempio il cervello di parole-vitamine: "ce la farò"; "sono piccolo, ma non basso"; "non sono bello, ma luminoso"; "finché vivo, voglio ardere"...
10. Penso: le avversità ci sono sempre, ma Dio anche. Perciò sono sempre in vantaggio!

accettazione di séumiltà

5.0/5 (1 voto)

inviato da Patrizia Traverso, inserito il 27/11/2002

ESPERIENZA

53. Il racconto di Faith

Silvia Pillin, SCF Caritas Concordia-Pordenone

Faith ha 17 anni. È una bella ragazza. Alta. Occhi scuri. Fisico tonico e proporzionato messo in evidenza da vestiti attillati e scarpe col tacco alto.

Faith parla inglese. È qui in Italia da poche settimane. È venuta per studiare. A casa ha lasciato sua madre e i fratelli. Il padre è morto. E lo dice con un tale distacco che sembra che parli del padre di qualcun altro.

Faith ha passato le sue prime settimane a Torino. Poi ha preso un treno. Ha aspettato cinque o sei ore ed è arrivata qui, in questa stazione ferroviaria. Stanca, spaventata, affamata.

Faith è nigeriana. Ha lasciato il suo paese insieme ad altre ragazze perché le avevano promesso l'Italia.

Le avevano promesso che avrebbe terminato gli studi, affinato le sue doti atletiche e guadagnato molti soldi.

Faith ha lasciato la Nigeria con un futuro migliore negli occhi. Faith ha lasciato la Nigeria per venire a prendere il suo sogno nel Paese dei Balocchi.
E mentre parla attraversiamo la città in autobus.

Faith è invitata a pranzo a casa mia. Saliamo. La faccio accomodare in cucina. Mi chiede se si può togliere le scarpe col tacco. Evidentemente le stanno strette. Le porgo le mie ciabatte. Le infila, poi appoggia lo zaino accanto a sé. Non se ne vuole separare.
Probabilmente lì dentro c'è tutta la sua vita, penso.
Le offro dell'acqua. Beve.
Poi inizia a raccontare davvero.

"A Torino hanno portato me e delle altre ragazze in un appartamento. Qui, la prima sera, le stesse persone che ci avevano regalato il sogno di un futuro migliore ci hanno fatto cambiare d'abito e ci hanno obbligato ad andare in strada. Mi sono prostituita per due settimane. Venivo picchiata ogni sera. Sostenevano che non guadagnavo abbastanza. Io stavo male. Avevo dei forti mal di pancia. Loro mi obbligavano a prostituirmi. Poi mi picchiavano. Mi picchiavano. Mi picchiavano. Alla fine sono scappata, ma non potevo certo rimanere a Torino. Se mi avessero trovato sarebbero stati capaci di uccidermi".

Si interrompe per qualche secondo. Si guarda attorno. Non sta piangendo. Le chiedo se è stanca. Accenna un sì con la testa. La porto sul divano. Le offro una coperta. Le prometto che tra una mezzora sarà pronto il pranzo. E mentre lei si avvolge nella coperta io torno in cucina. Metto a bollire dell'acqua per la pasta e apparecchio la tavola e mi chiedo com'è possibile che una ragazza di soli diciassette anni possa essere trattata come un oggetto, venduta e barattata e sfruttata e picchiata. Mi chiedo chi può commettere un'azione del genere e chi con il silenzio asseconda quell'orrore. E nel frattempo due bei piatti fumanti di spaghetti con il pomodoro aspettano le nostre bocche affamate.

Così vado da Faith, le dico di venire in cucina. La osservo, cercando di essere il più discreta possibile, mentre mangia avidamente. Poi alza la testa. Mi sorride. Le sorrido. Riprende a raccontare.

"A Torino, mentre stavo piangendo seduta su una panchina, un uomo mi ha chiesto il perché. Ho cercato di spiegarglielo. Mi ha dato un numero di telefono".

Le chiedo se ha provato a chiamarlo. Dice di no. Poi infila la mano in tasca e ne estrae un libricino. Lo sfoglia fino a trovare un pezzo di carta ripiegato che mi porge. Guardo il numero, secondo quello che leggo sul foglietto si riferisce ad un organismo ministeriale che si occupa delle donne vittime della tratta. Le restituisco quel piccolo ritaglio di speranza e mentre chiamo l'assistente sociale mi accorgo che il libricino è un Vangelo.

prostituzionesfruttamentosperanza

inviato da Federico Bernardi, inserito il 25/11/2002

RACCONTO

54. Il quarto Re Magio

Henry van Dyke, The Story of the Other Wise Man

I Magi, mentre scrutavano la volta celeste, scoprirono una nuova stella che brillò per una notte e poi sparì. Dopo qualche tempo, il cielo fu solcato da una scintilla blu che roteando emetteva splendore di porpora, finché divenne una sfera scarlatta con raggi lucenti e un vivissimo punto centrale bianco. Era il segnale della nascita del Re atteso da secoli. Lo videro i magi di Borsippa. Lo vide anche Artibano, che abitava a Ecbatana, distante dieci giorni di cammino.

Gaspare, Baldassare e Melchiorre decisero di partire per Gerusalemme. Anche Artibano, si preparò per il viaggio. Vendette tutti i suoi beni e acquistò uno zaffiro, un rubino e una perla da portare al Re e, montato in sella al velocissimo Vosda, galoppò verso Borsippa. Attraversò boschi, guadò fiumi, s'inerpicò per colline e montagne, quando a una svolta pericolosa trovò un moribondo abbandonato sulla strada.

Artibano saltò dal suo corsiero e, caricatosi l'infelice sulle spalle, lo adagiò sotto una palma, gli bagnò le labbra riarse, lo ristorò e il moribondo dopo qualche tempo aprì gli occhi. «Voglia il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe ricompensarti - disse - faccia prosperare il tuo viaggio fino a Betlemme, perché è lì che deve nascere il Messia, che tu vai cercando».

Artibano si rimise in cammino verso la mezzanotte... e alle prime luci dell'undicesimo giorno entrò in Borsippa, ma non trova i compagni. Essi avevano atteso 10 giorni, poi erano partiti lasciandogli un messaggio: «T'abbiamo aspettato sino alla mezzanotte..., seguici attraverso il deserto».

Arabano, allora, vende lo zaffiro, appalta una carovana e riprende il viaggio affrontando i pericoli e i disagi del deserto.

Giunse a Betlemme dopo tre giorni che i suoi compagni avevano deposto ai piedi del Re l'oro, l'incenso e la mirra... ed erano ripartiti per un'altra via.

Il villaggio pareva deserto: gli uomini erano nei campi e i ragazzi al pascolo delle greggi. Dalla parte di una casupola sulla strada udì una flebile nenia. Entrato vide una giovane madre. La donna ospitò il forestiero, ristorandolo e parlandogli di tre stranieri, vestiti come lui, giunti dall'Oriente poco prima, guidati da una stella al luogo dove abitava Giuseppe, la sua sposa e il Bambino. Essi l'avevano adorato lasciandogli in omaggio ricchi doni; ma poi erano spariti misteriosamente, come pure, in segreto, la notte successiva scomparve la Famiglia di Nazareth, dirigendosi forse in Egitto.

Artibano si diresse allora verso Ebron alla volta dell'Egitto. Egli sperava di raggiungere la Sacra Famiglia nelle oasi del deserto, sotto le palme o i sicomori, ma invano. Si spinse fino a Elaiopoli e a Menfi; percorse le rive fiorite dei Nilo, si aggirò tra le Piramidi dei Faraoni, all'ombra della sfinge; ma le sue ricerche non approdarono a nulla.

Scoraggiato e deluso tornò in Palestina nella speranza di poterli trovare. Dopo alcuni anni di peregrinazioni si rivolse ad un rabbino perché gli indicasse in quali paraggi avrebbe potuto incontrare il Messia. Il rabbino, preso un papiro, lesse: «Il Messia conviene cercarlo tra i poveri, tra gli umili, tra i sofferenti e gli oppressi».

A tali parole, Artibano vendette il rubino e si diede a nutrire gli affamati, a rivestire gli ignudi, a curare gli infermi, a visitare i carcerati. Passarono così trentatré anni da quando era partito in cerca della «Vera Luce». I suoi capelli, allora di un bel nero lucido, si erano fatti bianchi. Lacero ed esausto, ma tuttora in cerca del Re, era tornato per l'ultima volta a Gerusalemme nel periodo della Pasqua.

La città santa brulicava di gente, venuta dalle terre più lontane alla festa del Tempio. Era il venerdì della Parasceve... e nella folla si notava un'agitazione particolare. Egli, imbattutosi in un gruppo, domandò la causa del tumulto e dove andavano tutti. «Noi andiamo - risposero - al luogo dei Teschio fuori le mura, dove c'è la crocifissione di due malfattori e di un altro chiamato Gesù di Nazareth, il quale ha fatto molte opere prodigiose in mezzo al popolo ed ora è messo a morte perché si dice Figlio di Dio e Re dei Giudei».

Artibano pensò fra sé: «Non potrebbe essere quel Gesù, nato a Betlemme trentatré anni fa? Che abbia trovato finalmente il mio Re nelle mani dei suoi nemici? Arriverò in tempo almeno per offrire la mia perla per il suo riscatto, prima che Egli muoia?».

Così il buon vecchio seguì la moltitudine, quando, lungo la salita, una fanciulla di Ecbatana, riconosciutolo dal costume per suo connazionale, gli si avvicinò scongiurandolo in ginocchio: «Per amore del Dio della Purezza, abbi pietà di me; sono una misera schiava della tua stessa fede; salvami, ridandomi la libertà».

Il vecchio, non possedendo che un'unica perla, la consegnò alla sventurata concittadina per il suo riscatto.

Improvvisamente si udì un boato; la terra sussulta; il cielo si oscura; le mura delle case si spalancano e crollano; nuvole di polvere riempiono l'aria; soldati e popolo fuggono terrorizzati.

Artibano e la fanciulla si rifugiano sotto i loggiati del Pretorio. Una nuova scossa di terremoto, più violenta, fa cadere una pietra contro le tempie di Artibano, che traballa pallido, esanime.

La ragazza lo sostiene con le sue braccia, mentre il sangue scorre a rivoli dalla ferita. Non è morto, lo si sente pronunziare queste estreme parole: «Non così o mio Signore... quando mai ti vidi affamato e ti nutrii? Assetato e ti porsi da bere? Quando mai ti vidi forestiero e ti ospitai? In carcere e ti visitai? Nudo e ti rivestii? Per ben trentatré anni ti ho cercato ansiosamente, ma non ho mai avuto la soddisfazione di poter contemplare il tuo volto, né di renderti il minimo servizio, o mio dolce Re!».

Artibano cessò di parlare. Ma un'altra voce si fece udire a suo conforto: «In verità in verità ti dico, che ogni volta che tu hai fatto ciò ai tuoi simili, ai miei fratelli, tu l'hai fatto a me». Un grande respiro di sollievo gli uscì dalle labbra. Egli aveva finito il suo lungo viaggio. I suoi doni erano stati veramente graditi. Artibano, il quarto dei Magi aveva finalmente trovato il Re.

caritàamoreservizioparadisogiudizio universale

5.0/5 (1 voto)

inviato da Don Angelo, inserito il 24/11/2002

TESTO

55. L'attimo presente

Andrea Panont, L'alfabeto di Dio

Una volta camminavo sul marciapiede mentre infuriava un temporale e il vento soffiava così forte da portarmi via il cappello: davanti a me, a un metro di distanza, cadde improvvisamente dal balcone di un terzo piano, sfracellandosi a terra, un grosso vaso di fiori. Un attimo di smarrimento; ma poi mi resi conto che potevo, dovevo con­tinuare a camminare.

Si deve vivere sempre come se ogni momento, vaso o no, temporale o no, malattia o no, fosse l'ultimo della vita.
L'ultimo attimo può essere il primo: il primo e l'ultimo attimo di una vita coincidono.
È bene, allora, vivere ogni momento come se fosse il primo, l'ultimo, l'unico della vita.
"Chi vive e crede in me - cioè chi ama - non morrà in eterno."

Mi piace canticchiare durante la giornata le parole-preghiera d'una vecchia canzone del Gen verde:
"Fammi parlare sempre come fosse l'ultima parola che dico.
Fammi agire sempre come fosse l'ultima azione che faccio.
Fammi soffrire sempre come fosse l'ultima sofferenza che ho da offrirti.
Fammi pregare sempre come fosse l'ultima possibilità che ho qui in terra di parlare con te".

presentecogliere l'attimo

inviato da Luca Mazzocco, inserito il 24/09/2002

RACCONTO

56. I due lumini   2

G. Francesco

C'era in un piccolo paese di montagna un chiesa molto famosa per i suoi meravigliosi quadri, dipinti da artisti di ogni secolo. Questa chiesa era così famosa che andava a visitarla anche gente proveniente da paesi lontani.
Oltre a questi meravigliosi capolavori, in un angolo quasi dimenticato, vi era anche un crocifisso di legno; a differenza dei quadri, ben visibili a tutti i visitatori perché illuminati da potentissimi fari che evidenziavano contorni e colori delle immagini, il piccolo crocifisso, posto nel buio, passava quasi sempre inosservato. Così era molto triste e sconfortato, perché si rendeva conto che nessuno poteva vederlo e quindi non poteva fare quello che doveva fare.
Un giorno, uno spiraglio di luce riuscì ad illuminare una zona di quell'angolino. Il crocifisso, incuriosito da questo fascio di luce, cercò di vedere cosa c'era lì attorno e con grande sorpresa, notò proprio accanto a lui, due lumini.

Con un po' di coraggio tentò di attirare la loro attenzione:
"Salve, io sono il Crocifisso di legno ed avrei un gran bisogno del vostro aiuto".
Uno dei due lumini, con aria da superiore e un po' infastidito, rispose:
"Il mio aiuto? E perché dovrei aiutarti? Non ho proprio voglia di fare niente! E poi non saprei proprio cosa poter fare per te".
Il crocifisso, turbato dalla risposta, ribatté al primo lumino: "Come non sai come potermi aiutare?! Non sai che tu hai la capacità di generare luce?!".
Riprese il primo lumino: "Luce? E come potrei produrla? A me nessuno ha mai detto per che cosa sono stato creato; mi hanno lasciato qui e qui sono rimasto, senza farmi tante domande".
Replicò il crocifisso: "Allora te lo dico io. Tu, con la tua cera e con il tuo stoppino, hai la possibilità di dar vita ad una luce piccola, ma sufficiente ad illuminarmi. Purtroppo però, questa luce non è eterna: la fiamma da cui proviene scioglie, con il suo calore, la cera e la consuma".
E il primo lumino, spaventato: "Cosa vuoi dire? Che perderò la mia forma rotonda e alta? Che mi vedrò morire a poco a poco?".
Rispose il crocifisso: "Sì. E voglio dirti che ad un certo punto non ci sarai più".
"Neanche a pensarci!" disse il lumino, "io non farò niente di quello che tu mi hai detto. Preferisco stare qui, in questo angolo buio, piuttosto che rovinarmi e perdere ciò che ho".
Il crocifisso, ascoltate le parole del lumino, perse la speranza.

Ad un tratto però, si sentì chiamare: "Scusa. Ehi crocifisso, mi senti? Posso parlarti un secondo?".
Il crocifisso volse lo sguardo; capì che quella vocina proveniva dal secondo lumino e rispose: "Sì che puoi parlarmi!".
Allora il secondo lumino domandò: "Ma è vero che io ho il dono di creare luce? E che così facendo potrei aiutarti?".
Rispose il crocifisso: "Sì, è proprio vero. Ma è anche vero che per aiutarmi dovrai sacrificare te stesso".
Il secondo lumino stette un po' in silenzio; poi, con sicurezza, sentenziò: "Ok, ti aiuterò. Lo faccio perché è ciò che voglio fare. Ora che sono a conoscenza del mio dono, voglio farlo fruttificare, anche se dovrò andare incontro alla mia fine. Tu non preoccuparti perché aiutando te, farò qualcosa anche per me stesso: mi potrò realizzare".
Il crocifisso, commosso, ringraziò di tutto cuore il lumino. Si sentiva molto felice perché adesso, illuminato dal suo piccolo amico, poteva fare ciò per cui era stato creato.

Da quel giorno, nella chiesetta, non sono più solo i quadri ad attirare l'attenzione dei fedeli visitatori: c'è un oggettino che esprime umiltà e semplicità; è illuminato da una luce tiepida e tenue che misteriosamente richiama chiunque lo noti, a fermarsi un attimo. Non è un quadro artisticamente meraviglioso, ma ha qualcosa di particolare: mostra l'immagine del Figlio di Dio, Gesù, colui che ha posto i doni del Padre al nostro servizio, dando loro così, un valore ancora più grande. E come se non bastasse, ha infine sacrificato se stesso, facendosi crocifiggere, per noi, perché quello era il destino che Qualcuno aveva disegnato.
Nella chiesetta risuona ancora oggi la storia di un lumino, che oramai vecchio e coperto di polvere, è rimasto abbandonato e solo nel suo buio angolino; e di un lumino che ormai non c'è più, ma che ha fatto la sua storia, lasciando traccia di sé nel cuore di un crocifisso che, grazie al suo amico lumino, narra, ancora oggi, l'umiltà e la bontà di chi ha scelto di vivere e morire per noi.

vitatalentisacrificioGesù Cristocrocesofferenza

5.0/5 (2 voti)

inviato da Giaccaglia Francesco, inserito il 29/08/2002

TESTO

57. La tua, la mia messa

Chiara Lubich

Quando soffro e il mio soffrire è tale
che mi impedisce ogni attività,
mi ricordo della messa.
Tu nella messa, Signore Gesù,
oggi come allora,
non lavori, non predichi:
ti sacrifichi per amore.
Nella vita
si possono fare tante cose,
dire tante parole,
ma la voce del dolore,
del dolore offerto per amore,
è la parola più forte,
quella che ferisce il cielo.
Quando soffro,
immergo il mio dolore nel tuo:
dico la mia messa;
e lascio scorrere la mia sofferenza
a beneficio dell'umanità:
come hai fatto tu, mio Signore!

sofferenzacrocedoloreMessasacrificioofferta

5.0/5 (2 voti)

inviato da Luca Mazzocco, inserito il 15/06/2002

PREGHIERA

58. Mi hai fatto proprio bene!   2

Card. Anastasio Ballestrero

Signore, nel realizzare il tuo disegno eterno, mi hai chiamato all'esistenza in quel contesto di dati che sono la mia storia.
Perché così e non in altro modo?
Ti sei forse sbagliato? No.
Tu non mi hai creato per sbaglio, né per distrazione, né per contrattempo. Al momento giusto, all'ora tua, secondo il tuo disegno e la tua volontà, secondo la tua scelta, tu mi hai formato.
Sono fatto bene per essere santo.
Se dicessi di no mi parrebbe di mancarti di riguardo, di dire che neppure a te riescono le cose come le vuoi, che anche a te capitano gli infortuni.
Signore, sono fatto bene per te.
Alle volte perdonami se te lo dico, mi trovo fatto un po' meno bene per me.
Ma confesso, sia pure con un po' di fatica, che è più importante essere fatto bene per te che per me.
I miei limiti non devono essere motivo di cruccio per la mia superbia, né motivo di malumore quando gli altri li vedono.
Signore, ti benedico e ti ringrazio che mi hai fatto come mi hai fatto.
Gli altri possono dire quello che vogliono. Io ho solo da dirti: grazie.
Ho solo da benedirti, ho solo da sentire una riconoscenza eterna perché mi hai fatto come mi hai fatto.
E quando gli altri trovano che sono uno sgorbio, più che una cosa buona, io, Signore, credo a te.
Alle volte mi prende la voglia di vedere come te la caverai con questa povera creatura che io sono.
E penso che la vita eterna sarà beata anche per questo: perché là capirò quello che adesso non capisco e mi spiegherò ciò che adesso è un mistero.

vocazioneprogetto di Diorapporto con Diostima di séaccettazione di sé

5.0/5 (1 voto)

inviato da Stefania Raspo, inserito il 14/06/2002

RACCONTO

59. Father forgets   1

W. Livingstone Larned

Ascolta, figlio: ti dico questo mentre stai dormen­do con la manina sotto la guancia e i capelli biondi appiccicati alla fronte. Mi sono introdotto nella tua camera da solo: pochi minuti fa, quando mi sono se­duto a leggere in biblioteca, un'ondata di rimorso mi si è abbattuta addosso, e pieno di senso di colpa mi avvicino al tuo letto.

E stavo pensando a queste cose: ti ho messo in croce, ti ho rimproverato mentre ti vestivi per andare a scuola perché invece di lavarti ti eri solo passato un asciugamano sulla faccia, perché non ti sei pulito le scarpe. Ti ho rimproverato aspramente quando hai buttato la roba sul pavimento.

A colazione, anche lì ti ho trovato in difetto: hai fatto cadere cose sulla tovaglia, hai ingurgitato cibo come un affamato, hai messo i gomiti sul tavolo. Hai spalmato troppo burro sul pane e, quando hai comin­ciato a giocare e io sono uscito per andare a prendere il treno, ti sei girato, hai fatto ciao ciao con la manina e hai gridato: «Ciao, papino!» e io ho aggrottato le sopracciglia e ho risposto: «Su diritto con la schiena!». E tutto è ricominciato da capo nel tardo pome­riggio, perché quando sono arrivato eri in ginocchio sul pavimento a giocare e si vedevano le calze buca­te. Ti ho umiliato davanti agli amici, spedendoti a casa davanti a me. Le calze costano, e se le dovessi comperare tu, le tratteresti con più cura. Ti ricordi più tardi come sei entrato timidamente nel salotto dove leggevo, con uno sguardo che parlava dell'offesa subita? Quando ho alzato gli occhi dal giornale impaziente per l'interruzione sei rimasto esitante sulla porta. "Che vuoi?", ti ho aggredito brusco. Tu non mi hai detto niente, sei corso verso di me e mi hai buttato le braccia al collo e mi hai baciato e le tue braccine mi hanno stretto con l'affetto che Dio ti ha messo nel cuore e che, anche se non raccolto, non appassisce mai. Poi te ne sei andato sgambettando giù dalle scale. Be', figlio, è stato subito dopo che mi è scivolato di mano il giornale e mi ha preso un'angoscia terri­bile. Cosa mi sta succedendo? Mi sto abituando a tro­vare colpe, a sgridare; è questa la ricompensa per il fatto che sei un bambino, non un adulto? Nient'altro per stanotte, figliolo. Solo che son venuto qui vicino al tuo letto e mi sono inginocchiato, pieno di vergo­gna.

E' una misera riparazione, lo so che non capiresti queste cose se te le dicessi quando sei sveglio. Ma domani sarò per te un vero papà. Ti sarò compagno, starò male quando tu starai male e riderò quando tu riderai, mi morderò la lingua quando mi saliranno alle labbra parole impazienti. Continuerò a ripeter­mi, come una formula di rito: «E' ancora un bambi­no, un ragazzino!». Ho proprio paura di averti sempre trattato come un uomo. E invece come ti vedo adesso, figlio, tutto appallottolato nel tuo lettino, mi fa capire che sei an­cora un bambino. Ieri eri dalla tua mamma, con la testa della spalla. Ti ho sempre chiesto troppo, troppo.

paternitàmaternitàaffettotenerezzabambinipretesefamigliagenitorieducatorieducare

inviato da Luca Mazzocco, inserito il 11/06/2002

RACCONTO

60. Chi toglierà il sasso?

Anthony De Mello, La preghiera della rana. Saggezza popolare dell'Oriente, Volume 1, Paoline

Un giorno Diogene stava all'angolo della strada, piegato in due dalle risate.
Il suo amico Archippo, allora, gli chiese: «Ma che cosa hai da ridere?»
«Vedi quel sasso che c'è li in mezzo alla strada? Da quando sono qui ci avranno inciampato già dieci persone! Ci sono rimaste tutte male, ma non ce n'è una, dico una, che si sia presa il disturbo di toglierlo di mezzo in modo che non ci inciampino altre persone.»

responsabilitàimportanza del singolo

4.0/5 (3 voti)

inviato da Filippa Castronovo, inserito il 28/05/2002

TESTO

61. Ho un sogno...   1

Martin Luther King

Oggi, amici miei, vi dico: anche se dobbiamo affrontare le difficoltà di oggi e di domani, io continuo ad avere un sogno.
È un sogno che ha radici profonde nel sogno americano.

Ho un sogno, che un giorno questa nazione sorgerà e vivrà il significato vero del suo credo: noi riteniamo queste verità evidenti di per sé, che tutti gli uomini sono creati uguali.

Ho un sogno, che un giorno sulle rosse montagne della Georgia i figli degli ex schiavi e i figli degli ex padroni di schiavi potranno sedersi insieme alla tavola della fraternità.

Ho un sogno, che un giorno perfino lo stato del Mississippi, dove si patisce il caldo afoso dell'ingiustizia, il caldo afoso dell'oppressione, si trasformerà in un'oasi di libertà e di giustizia.

Ho un sogno, che i miei quattro bambini un giorno vivranno in una nazione in cui non saranno giudicati per il colore della pelle, ma per l'essenza della loro personalità.
Oggi ho un sogno.

Ho un sogno, che un giorno, laggiù nell'Alabama, dove i razzisti sono più che mai accaniti, dove il governatore non parla d'altro che di potere di compromesso interlocutorio e di nullification delle leggi federali, un giorno, proprio là nell'Alabama, i bambini neri e le bambine nere potranno prendere per mano bambini bianchi e bambine bianche, come fratelli e sorelle.
Oggi ho un sogno.

Ho un sogno, che un giorno ogni valle sarà innalzata, ogni monte e ogni collina saranno abbassati, i luoghi scoscesi diventeranno piani, e i luoghi tortuosi diventeranno diritti, e la gloria del Signore sarà rivelata, e tutte le creature la vedranno insieme.

pacegiustiziadiscriminazionemulticulturalitàrazzismointegrazione

5.0/5 (1 voto)

inviato da Mariangela Molari, inserito il 26/05/2002

PREGHIERA

62. Conducimi   2

John Henry Newman

Signore, fa' di me ciò che vuoi!
Non cerco di sapere in anticipo i tuoi disegni su di me,
voglio ciò che tu vuoi per me.

Non dico:
"Dovunque andrai, io ti seguirò!",
perché sono debole,
ma mi dono a te perché sia tu a condurmi.
Voglio seguirti nell'oscurità,
non ti chiedo che la forza necessaria.

O Signore, fa' ch'io porti ogni cosa davanti a te,
e cerchi ciò che a te piace in ogni mia decisione
e la benedizione su tutte le mie azioni.

Come una meridiana non indica l'ora se non con il sole,
così io voglio essere orientato da te,
Tu vuoi guidarmi e servirti di me.
Così sia, Signore Gesù!

Fedeabbandono in Dioprogetto di Dio

4.0/5 (1 voto)

inviato da Suor Irina Mandro, inserito il 24/05/2002

PREGHIERA

63. L'invito alla festa

Rabindranath Tagore

Ho ricevuto il mio invito
alla festa di questo mondo;
la mia vita è stata benedetta.
I miei occhi hanno veduto,
le mie orecchie hanno ascoltato.
In questa festa dovevo soltanto
suonare il mio strumento:
ho fatto come meglio potevo
la parte che mi era stata assegnata.
Ora dico: è venuto
alfine, il momento di entrare
e guardare il tuo volto e offrirti
il mio silenzioso saluto.

vocazioneresponsabilitàparadisomortevita eterna

inviato da Mariangela Molari, inserito il 22/05/2002

PREGHIERA

64. Agenda

poesia francese

Gli uomini sono folli, dice Dio,
Essi vogliono avere sempre più tempo.
Essi vogliono possedere il tempo.
Essi non sanno dire altro che:
Non perder tempo!
Poveri uomini che non hanno compreso
che, a volerlo guadagnare,
si può perdere il proprio tempo.

Quando li vedo, il piede sull'acceleratore
e l'occhio rivolto al quadrante dell'orologio,
io mi dico, mio Dio,
che il tempo di viver è impazzito
poiché è troppo pieno
di avvenimenti e di stanchezze,
di chiacchiere e trambusto,
d'agitazione e precipitazione.
Poveri uomini, passati troppo in fretta
dal quadrante solare al cronometro!
Essi misurano sempre meglio il tempo
ma non ne conoscono più il mistero.

Allora, ho riflettuto, dice Dio,
io voglio regalare loro un'agenda,
la mia agenda,
piena di appuntamenti importanti.
Ogni giorno un incontro con me...
qualche minuto d'ebbrezza
nel grigiore del tempo,
poiché io sono l'Eterno, colui che possiede il tempo.
Ogni giorno dei lunghi momenti
con la sposa o lo sposo,
insieme con gli amici, con i figli...

E' deciso, dice Dio,
offrirò loro la mia agenda
perché, dal più grande al più piccolo,
scoprano finalmente che solo il tempo passato ad amare
è tempo guadagnato.

tempovalore del tempoprogetto

inviato da Emilio Centomo, inserito il 08/05/2002

TESTO

65. Voi siete un miracolo   1

Leo Buscaglia, Vivere amare capirsi

Abbiamo paura di vivere la vita, e perciò non facciamo esperienze, non vediamo. Non sentiamo. Non rischiamo! Non prendiamo a cuore nulla! Non viviamo... perché la vita significa essere coinvolti attivamente. Vivere significa sporcarvi le mani. Vivere significa buttarvi con coraggio. Vivere significa cadere e sbattere il muso. Vivere significa andare al di là di voi stessi... tra le stelle!

Ma dovete decidere voi, per voi stessi. "Cosa significa per me la vita?" Sono convinto che se ogni giorno dedicassimo a pensare alla vita e a vivere e ad amare lo stesso tempo... no, un quarto del tempo che dedichiamo a preparare i pasti, saremmo incredibili!

Ma la vita ha un modo meraviglioso per risolvere questo problema. Per me è sempre affascinante perché, quando la vita non viene vissuta, esplode in noi. E' come cercare di bloccare il coperchio di una pentola che bolle. Succederà qualcosa, ne sono convinto. Finirete per piombare nella paura, nella sofferenza, nella solitudine, nella paranoia o nell'apatia. Tutti segni del fatto che non state vivendo! Quindi, se avvertite uno di questi sintomi, rimboccatevi le maniche e dite: "Ora devo vivere". Nell'attimo in cui incominciate a lasciarvi coinvolgere nella vita, il vapore fuoriesce, e siete salvi. Non è facile: ma la vita ci fa sapere che deve essere vissuta. Meraviglioso!

Perché c'è la morte? Io non so perché c'è la morte. Perché c'è la sofferenza? Vorrei che non ci fosse, ma non so perché c'è. Se passassi la vita a cercare le risposte a questi interrogativi, non vivrei mai.

Però a quelli che vengono da me dico che so qualcosa della vita. C'è una cosa chiamata gioia, perché io l'ho provata. E c'è una cosa chiamata follia meravigliosa, perché l'ho vissuta. E so che c'è una cosa chiamata amore perché ho amato. E so che c'è una cosa chiamata estasi perché ho conosciuto l'estasi. E so anche - perché ho conosciuto gente che ne ha fatto l'esperienza - che c'è una cosa chiamata rapimento. Oh, mi piace questa parola, "rapimento"! Cercate il rapimento! Mi rifiuto di morire fino a quando non avrò imparato che cos'è!

Perché uno si comporti così, bisogna che faccia molte scelte. Una delle più importanti è "scegliere se stesso".
Scegliete voi stessi.

Finitela di odiarvi. Finitela di buttarvi giù. Abbracciatevi e dite: "Sai, va bene così! Starai perdendo i capelli, ma sei tutto ciò che ho!".

Quando vi riconciliate con le vostre debolezze, ce l'avete fatta! Non sono enormi, sono soltanto una piccola parte di voi.

Dovete scegliere voi stessi. Sono sicuro che coloro che si tolgono la vita, che non vivono, sono soprattutto coloro che non hanno rispetto per se stessi. Non so quando è stata l'ultima volta che qualcuno ha detto questo, ma voglio sottolinearlo: Voi siete un miracolo.

senso della vitaricerca di sensosuicidiomortevitaprogettostuporeaccettazione di séottimismosperanza

inviato da Emilio Centomo, inserito il 05/05/2002

TESTO

66. Preghiera di un pupazzo di stracci   1

Gabriel Garcia Marquez

Se per un istante Dio dimenticasse che io sono un pupazzo di stracci e mi regalasse un poco di vita, forse non direi tutto quello che penso ma in definitiva penserei tutto quello che dico.

Darei valore alle cose, non per ciò che valgono, ma per quello che significano.

Dormirei poco, sognerei di più, sapendo che per ogni minuto che chiudiamo gli occhi perdiamo sessanta secondi di luce.

Andrei quando gli altri si fermano, starei sveglio quando gli altri dormono.

Ascolterei quando gli altri parlano, e come gusterei un buon gelato di cioccolata.

Se Dio mi concedesse un poco di vita, vestirei leggero, mi appiattirei al sole, lasciando scoperto non solo il mio corpo ma anche la mia anima.
Dio mio, se avessi un cuore...

Scriverei il mio odio sul ghiaccio e aspetterei il sorgere del sole.

Dipingerei sulle stelle una poesia di Benedetti con un sogno di Van Gogh, e una canzone di Serrat sarebbe la serenata che dedicherei alla luna.

Annaffierei con le mie lacrime le rose, per sentire il dolore delle spine e il bacio incarnato dei petali.
Dio mio, se avessi un poco di vita...

Non lascerei passare un solo giorno senza dire alla gente che amo, che la amo.

Convincerei ogni donna o uomo che sono i miei preferiti e vivrei innamorato dell'amore.

Agli uomini dimostrerei quanto si sbagliano a pensare che si smette di innamorarsi quando si invecchia, senza sapere che si invecchia quando si smette di innamorarsi.

A un bambino darei ali, ma lascerei che imparasse a volare da solo.

Ai vecchi insegnerei che la morte non arriva con la vecchiaia, ma con il dimenticare.
Tante cose ho appreso da voi uomini...

Ho appreso che ognuno vuole vivere in cima alla montagna, senza sapere che la vera felicità sta nel modo di salire la scarpata.

Ho appreso che quando un neonato stringe con il suo piccolo pugno, per la prima volta, il dito di suo padre, lo tiene intrappolato per sempre.

Ho appreso che un uomo ha il diritto di guardarne un altro dall'alto in basso soltanto quando deve aiutarlo ad alzarsi.

Sono tante le cose che ho potuto imparare da voi, ma alla fine non potranno servirmi molto, perché, quando mi riporrete dentro la valigia, purtroppo io starò morendo...

vitaprogettofuturorinasceresperanza

inviato da Michela De Santis, inserito il 04/05/2002

TESTO

67. Amami come sei (versione lunga)   2

Mons. Lebrun

Conosco la tua miseria, le lotte e le tribolazioni della tua anima, le deficienze e le infermità del tuo corpo; so la tua viltà, i tuoi peccati, e ti dico lo stesso: Dammi il tuo cuore, amami come sei...

Se aspetti di essere un angelo per abbandonarti all'amore, non amerai mai. Anche se sei vile nella pratica della virtù e del dovere, se ricadi spesso in quelle colpe che vorresti non commettere più, non ti permetto di non amarmi. Amami come sei.

In ogni istante e in qualunque situazione tu sia, nel fervore o nell'aridità, nella fedeltà o nell'infedeltà, amami... come sei... voglio l'amore del tuo povero cuore; se aspetti di essere perfetto, non mi amerai mai.

Non potrei forse fare di ogni granello di sabbia un serafino radioso di purezza, di nobiltà e di amore? Non sono io l'Onnipotente? E se mi piace lasciare nel nulla quegli esseri meravigliosi e preferire il povero amore del tuo cuore, non sono io padrone del mio amore?

Figlio mio, lascia che ti ami, voglio il tuo cuore. Certo voglio col tempo trasformarti, ma per ora ti amo come sei... e desidero che tu faccia lo stesso; io voglio vedere dai bassifondi della miseria salire l'amore. Amo in te anche la tua debolezza, amo l'amore dei poveri e dei miserabili; voglio che dai cenci salga continuamente un gran grido: Gesù ti amo.

Voglio unicamente il canto del tuo cuore, non ho bisogno né della tua scienza, né del tuo talento. Una cosa sola mi importa, di vederti lavorare con amore.

Non sono le tue virtù che desidero; se te ne dessi, sei così debole che alimenterebbero il tuo amor proprio; non ti preoccupare di questo. Avrei potuto destinarti a grandi cose; no, sarai il servo inutile; ti prenderò persino il poco che hai... perché ti ho creato soltanto per l'amore.

Oggi sto alla porta del tuo cuore come un mendicante, io il Re dei Re! Busso e aspetto; affrettati ad aprirmi. Non allargare la tua miseria; se tu conoscessi perfettamente la tua indigenza, moriresti di dolore. Ciò che mi ferirebbe il cuore sarebbe di vederti dubitare di me e mancare di fiducia.

Voglio che tu pensi a me ogni ora del giorno e della notte; voglio che tu faccia anche l'azione più insignificante soltanto per amore. Conto su di te per darmi gioia...

Non ti preoccupare di non possedere virtù; ti darò le mie. Quando dovrai soffrire, ti darò la forza. Mi hai dato l'amore, ti darò di poter amare al di là di quanto puoi sognare...
Ma ricordati... Amami come sei...

Ti ho dato mia Madre: fa passare, fa passare tutto dal suo Cuore così puro.

Qualunque cosa accade, non aspettare di essere santo per abbandonarti all'amore, non mi ameresti mai... Va...

Clicca qui per la versione breve.

accettazione di séamare Dioamore di Dio

4.0/5 (2 voti)

inviato da Sara D'Erasmo, inserito il 26/04/2002

TESTO

68. Beati gli operatori di pace   1

Chiara Lubich

Sai chi sono gli operatori di pace di cui parla Gesù? Non sono quelli che chiamiamo pacifici, che amano la tranquillità, non sopportano le dispute e si manifestano per natura loro concilianti, ma spesso rivelano un recondito desiderio di non essere disturbati, di non volere noie.

Gli operatori di pace non sono nemmeno quelle brave persone che, fidandosi di Dio, non reagiscono quando sono provocate o offese.

Gli operatori di pace sono coloro che amano tanto la pace da non temere di intervenire nei conflitti per procurarla a coloro che sono in discordia.

Può essere portatore di pace chi la possiede in se stesso.

Occorre essere portatore di pace, anzitutto nel proprio comportamento di ogni istante, vivendo in accordo con Dio e facendo la sua volontà.

Gli operatori di pace si sforzano poi di creare legami, di stabilire rapporti fra le persone, appianando tensioni, smontando lo stato di guerra fredda che incontrano in tanti ambienti di famiglia, di lavoro, di scuola, di sport, fra le nazioni, ecc.

Anche in casa tua, forse, sei al corrente, magari da tutta la vita, che il papà non rivolge la parola allo zio, da quando una volta hanno litigato. Così sai che la tua nonna non parla con la signora del piano di sopra perché fa sempre rumore. Conosci rivalità sul lavoro fra qualche tuo amico. Sei forse tu stesso in lite con i compagni di scuola; e i rapporti con i coetanei, che frequentano gli stessi tuoi sport, non sono sempre esemplari; domina in te il desiderio sfrenato di essere il primo, di superare l'altro e non sempre per pura emulazione.

Se vivi in una comunità hai osservato certamente quanti piccoli e grandi dissapori nascono e si alimentano. La televisione, il giornale, la radio ti dicono ogni giorno come il mondo è un immenso ospedale e le nazioni sono spesso grandi malate che avrebbero estremo bisogno di operatori di pace per sanare rapporti spesso tesi e insostenibili che rappresentano minacce di guerra, quando essa non è già in atto.

La pace è un aspetto caratteristico dei rapporti tipicamente cristiani che il credente cerca di instaurare con le persone con le quali sta in contatto o che incontra occasionalmente: sono rapporti di sincero amore senza falsità né inganno, senza alcuna forma di implicita violenza o di rivalità o di concorrenza o di egocentrismo.

Lavorare e stabilire simili rapporti nel mondo è un fatto rivoluzionario. Le relazioni che esistono nelle società sono infatti generalmente di tutt'altro tenore e, purtroppo, rimangono spesso immutate.

Gesù sapeva che la convivenza umana era tale e per questo ha chiesto ai sui discepoli di far sempre il primo passo, senza aspettare l'iniziativa e la risposta dell'altro, senza pretendere la reciprocità: "Io vi dico: amate i vostri nemici... Se date il saluto soltanto ai vostri fratelli, che cosa fate di straordinario?".

paceperdononon violenza

5.0/5 (1 voto)

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 10/04/2002

PREGHIERA

69. La pace dipende anche da me

Carla Zichetti

Non costruisco la pace quando non apprezzo lo sforzo, la virtù degli altri;
quando pretendo l'impossibile, quando sono indifferente al bene e al male degli altri;
non costruisco la pace quando lavoro per due per poter comprare e mantenere il superfluo,
mentre c'è chi non trova lavoro e non ha il necessario, l'indispensabile per vivere;
non costruisco la pace quando non perdono, quando non chiedo scusa,
quando non faccio il primo passo per riconciliarmi, anche se mi sento offesa o credo di aver ragione;
non costruisco la pace quando lascio solo chi soffre e mi scuso dicendo: «Non so cosa dire, cosa fare, non lo conosco»;
non costruisco la pace quando chiudo la porta del cuore, quando chiudo le mani, la bocca e non faccio niente per unire, conciliare, scusare;
non costruisco la pace quando penso solo ai fatti miei, al mio interesse e tornaconto, al mio benessere e ai miei beni;
non costruisco la pace quando rispondo: «non ho tempo» e tratto il prossimo come uno scocciatore, un rompiscatole;
non costruisco la pace quando mi metto volentieri e di preferenza dalla parte di chi ha potere, ricchezza, sapienza, furbizia,
anziché dalla parte del debole, dell'indifeso, del dimenticato, dalla parte di colui il cui nome non è scritto sull'agenda di nessuno;
non costruisco la pace quando non aiuto il colpevole a redimersi;
non costruisco la pace quando taccio di fronte alla menzogna, all'ingiustizia, alla maldicenza, alla disonestà, perché non voglio noie;
non costruisco la pace quando non compio il mio dovere sia nel luogo di lavoro che verso i miei familiari;
non costruisco la pace quando sfrutto il mio prossimo in stato di dipendenza, inferiorità, indigenza, malattia;
non costruisco la pace quando rifiuto la croce, la fatica;
non costruisco la pace quando dico no alla vita;
non costruisco la pace quando non mi metto in ginocchio per invocarla, per ottenerla, per viverla.

Allora quand'è che costruisco la pace?
Quando al posto del «no» metto un «sì»
quando al posto del rancore, metto il perdono
quando al posto della morte, metto la vita,
quando al posto dell'io, metto Dio.

La pace è un tuo dono, Signore.
Per ottenerla occorre pregare, amare, soffrire.
Occorre pagare di persona. Scomparire.
Eccomi o Signore.
Fammi seminatrice di pace.
Signore, donaci la tua pace.

pacegiustiziaimpegno

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 10/04/2002

TESTO

70. Amami come sei (versione breve)   1

Mons. Lebrun

Figlio mio, dice il Signore
conosco la tua miseria, le lotte
e le tribolazioni della tua anima,
so la tua debolezza e le tue infermità,
i tuoi cedimenti e i tuoi peccati,
ma ti dico ugualmente:
dammi il tuo cuore,
amami così come sei!
Se aspetti di essere Santo
per abbandonarti all'amore,
non mi amerai mai.
E' il canto del tuo cuore
che mi interessa
perché ti ho creato per amare.
In tutto ciò che vivi,
nel fervore o nell'aridità,
nella fedeltà o nell'abbandono
amami così come sei.
E allora ti concederò di amare
più di quanto possa immaginare.

Clicca qui per la versione lunga.

accettazione di séamare Dioamore di Dio

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 10/04/2002

RACCONTO

71. L'uomo che pregava in silenzio

Una volta un sacerdote stava camminando in chiesa, verso mezzogiorno, passando dall'altare decise di fermarsi lì vicino per vedere chi era venuto a pregare. In quel momento si aprì la porta, il sacerdote inarcò il sopracciglio vedendo un uomo che si avvicinava; l'uomo aveva la barba lunga di parecchi giorni, indossava una camicia consunta, aveva una giacca vecchia i cui bordi avevano iniziato a disfarsi. L'uomo si inginocchiò, abbassò la testa, quindi si alzò e uscì. Nei giorni seguenti lo stesso uomo, sempre a mezzogiorno, tornava in chiesa con una valigia... si inginocchiava brevemente e quindi usciva.

Il sacerdote, un po' spaventato, iniziò a sospettare che si trattasse di un ladro, quindi un giorno si mise davanti alla porta della chiesa e quando l'uomo stava per uscire dalla chiesa gli chiese: "Che fai qui?". L'uomo gli rispose che lavorava nella zona e aveva mezz'ora libera per il pranzo e approfittava di questo momento per pregare, "Rimango solo un momento, sai, perché la fabbrica è un po' lontana, quindi mi inginocchio e dico: "Signore, sono venuto nuovamente per dirTi quanto mi hai reso felice quando mi hai liberato dai miei peccati... non so pregare molto bene, però Ti penso tutti i giorni... Beh Gesù... qui c'è Jim a rapporto".

Il padre si sentì uno stupido, disse a Jim che andava bene, che era il benvenuto in chiesa quando voleva. Il sacerdote si inginocchiò davanti all'altare, si sentì riempire il cuore dal grande calore dell'amore e incontrò Gesù. Mentre le lacrime scendevano sulle sue guance, nel suo cuore ripeteva la preghiera di Jim: "Sono venuto solo per dirti, Signore, quanto sono felice da quando ti ho incontrato attraverso i miei simili e mi hai liberato dai miei peccati... non so molto bene come pregare, però penso a te tutti i giorni... beh, Gesù... eccomi a rapporto!".

Un dato giorno il sacerdote notò che il vecchio Jim non era venuto. I giorni passavano e Jim non tornava a pregare. Il padre iniziò a preoccuparsi e un giorno andò alla fabbrica a chiedere di lui; lì gli dissero che Jim era malato e che i medici erano molto preoccupati per il suo stato di salute, ma che tuttavia credevano che avrebbe potuto farcela. Nella settimana in cui rimase in ospedale Jim portò molti cambiamenti, egli sorrideva sempre e la sua allegria era contagiosa. La caposala non poteva capire perché Jim fosse tanto felice dato che non aveva mai ricevuto né fiori, né biglietti augurali, né visite. Il sacerdote si avvicinò al letto di Jim con l'infermiera e questa gli disse, mentre Jim ascoltava: "Nessun amico è venuto a trovarlo, non ha nessuno". Sorpreso il vecchio Jim disse sorridendo: "L'infermiera si sbaglia, però lei non può sapere che tutti i giorni, da quando sono arrivato qui, a mezzogiorno, un mio amato amico viene, si siede sul letto, mi prende le mani, si inclina su di me e mi dice: «Sono venuto solo per dirti, Jim, quanto sono stato felice da quando ho trovato la tua amicizia e ti ho liberato dai tuoi peccati. Mi è sempre piaciuto ascoltare le tue preghiera, ti penso ogni giorno... beh, Jim... qui c'è Gesù a rapporto!»".

preghierarapporto con Dioperseveranza

5.0/5 (1 voto)

inviato da Don Giovanni Benvenuto, inserito il 09/04/2002