TESTO Commento su Giovanni 13,31-33.34-35
V Domenica di Pasqua (Anno C) (06/05/2007)
Vangelo: Gv 13,31-33.34-35
31Quando fu uscito, Gesù disse: «Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. 32Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. 33Figlioli, ancora per poco sono con voi; voi mi cercherete ma, come ho detto ai Giudei, ora lo dico anche a voi: dove vado io, voi non potete venire. 34Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. 35Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri».
Quasi ormai al termine di un lungo viaggio missionario – che li ha duramente impegnati per circa tre anni – Paolo e Barnaba (At. 14, 21-27: I lettura) ripercorrono un buon tratto del cammino già fatto, ripassando in alcune città dove avevano annunziato il Vangelo e fondato una comunità. Il motivo? Incoraggiare i nuovi convertiti a rimanere fedeli nelle prove legate alla vita cristiana: "E' necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel Regno di Dio". Ciò che era stato necessario per Cristo (cfr. Lc 24,26), lo è anche per i suoi discepoli. Un secondo motivo: costituire in ogni comunità degli "anziani" (letteralmente: "presbiteri"), cioè dei responsabili che continuino quest'opera di animazione ed esortazione. Si tratta di un servizio essenziale alla Chiesa di ogni tempo. I missionari concludono il loro viaggio ad Antiochia, da dove erano partiti. Alla comunità, che li aveva inviati, fanno il loro rapporto sul lavoro di evangelizzazione che avevano svolto, anzi su quanto "Dio aveva compiuto per mezzo loro". Il coinvolgimento della comunità cristiana che in tutte le sue componenti si sente cointeressata e responsabile, il comunicare l'esperienza di quanto Dio opera in noi e attraverso di noi: tutto questo rientra nello stile e nello spirito di famiglia che deve caratterizzare la comunità Diocesana, parrocchiale e di altro tipo.
La Chiesa – che è nata dalla Pasqua di Gesù e nel suo impegno di annunziare a tutti il Cristo risorto avanza in mezzo a tribolazioni e persecuzioni – avrà uno splendido futuro: "un nuovo cielo e una nuova terra" (Ap. 21, 1-5: II lettura). Una realtà che supera ogni immaginazione e ogni sogno dell'uomo. L'autore sacro la evoca con l'intreccio di due immagini ricche di significato. L'immagine sociale della città che indica l'unità di un popolo che la abita. La città di Gerusalemme richiama il popolo di Dio e la presenza di Dio in mezzo ad esso nel tempio. Il tutto in forma radicalmente nuova. L'altra immagine è affettiva (la "sposa"). Dice una relazione d'amore che legherà in modo definitivo e nella perfetta reciprocità Dio e il suo popolo. La Chiesa, cioè, amerà Cristo come Cristo ama lei: un amore... "alla pari", che è appunto la caratteristica del rappporto nuziale. Ecco il dono che riempie di meraviglia. Nulla potrà più ostacolare la pienezza di questa vita. Infatti il mondo attuale, inquinato dal male, e il "mare" (simbolo di tutte le forze ostili a Dio e all'uomo) saranno scomparsi. "Non ci sarà più la morte, né lutto...perché le cose di prima sono passate". "Colui che sedeva sul trono (=Dio) disse: Ecco io faccio nuove tutte le cose". Letteralmente: Guarda! Guardate! Sto facendo nuova ogni cosa. Dio, che in tutto il libro dell'Apocalisse non ha mai parlato, lo fa ora per l'unica volta nella parte conclusiva. Lo fa per assicurare che sta creando un'assoluta novità. Questa novità è la risurrezione di Gesù, la sua vita di risorto, e quanto Dio ha cominciato a compiere in coloro che appartengono al Cristo risorto. Un rinnovamento che investe il loro essere e il loro agire nella misura in cui cresce il loro rapporto con Lui. La grande novità finale, mentre l'attendiamo nella speranza e nella gratitudine, possiamo quindi già sperimentarla come in anticipo. Il segreto? Lasciar vivere Gesù risorto in noi e fra noi, attuando il suo "comandamento nuovo".
Il Vangelo riporta l'inizio di un lungo discorso di addio che Gesù nell'ultima cena tiene ai discepoli, dai quali la morte sta per separarlo. Morte che per Gesù inaugura la "glorificazione", cioè la manifestazione e comunicazione piena di Dio e del suo amore attraverso di Lui. Nel tempo che intercorre tra la partenza visibile di Gesù e la sua ultima venuta, i suoi discepoli come devono comportarsi? "Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri". "Nuovo" in che senso? Esisteva già l' "Amerai il prossimo tuo come te stesso" (Lev. 19,18). Gesù l'aveva legato inseparabilmente all'amore per Dio (cfr. es. Mc. 12, 28-31) e aveva allargato il concetto di "prossimo" fino ad abbracciare ogni persona bisognosa (cfr. Lc 10, 29-37). Qui però l'amore che propone ha delle caratteristiche specifiche: E' reciproco. Ha il suo modello, la sua misura e la sua sorgente inesauribile nell'amore stesso di Gesù. Non: come ami te stesso. Ma: come ci ama Gesù. "...come io vi amato". Questo "come", se lo prendo sul serio, è inquietante. Non dà pace. Non consente una sosta, un attimo di respiro per me. Questo "come" infatti significa "fino al dono della propria vita": "Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici" (Gv 15,3). E ancora: "...li amò sino alla fine" (Gv 13,1). La profondità e la forza provocatoria di questo "come" Gesù l'aveva mostrata col gesto di lavare i piedi ai discepoli e con l'appello "come ho fatto io, così fate anche voi". (cfr.Gv 13,14-15). Ma il "come" ha anche un significato causale. Cioè, siccome, poiché io vi ho amato, questo amore, che vi comunico e che vi invade, riversatelo gli uni sugli altri. Nessuno dica "mi è impossibile amare", perché Gesù ci dona l'amore con cui amare e ce lo dona soprattutto quando lo incontriamo nella sua Parola e nei Sacramenti. Altra caratteristica: tale amore, praticato dai discepoli, manifesterà al mondo l'amore vissuto da Gesù. Se infatti essi si amano come Gesù li ama e con l'amore stesso che Gesù partecipa loro, chiunque li avvicina non potrà non avvertire l'amore stesso di Gesù, che è poi l'amore della Trinità. "Vedi la Trinità, se vedi la carità" (s. Agostino). Allora l'affermazione di Gesù ("Vi do un comandamento nuovo...") non va intesa solo nel senso di un ordine categorico. Ma piuttosto nel senso che Gesù fa un dono ("Vi do"), il suo dono di addio. Quale dono? "Un comandamento nuovo", cioè un modo nuovo di vivere e di amare, che è il suo proprio modo di vivere e di amare, cioè l'amore trinitario (cfr. Gv 15,12: "il mio comandamento"). Tutto questo ce lo comunica in modo speciale quando nell'Eucaristia ci dona interamente la sua persona. Un dono impegnativo.
Non ci sono altri segni che permettono di identificare i cristiani. "Da questo tutti sapranno che siete i miei discepoli". Discepoli non di un morto, ma di uno che vive in mezzo a loro, perché risorto. Lo scopriranno "tutti", anche i più distratti e i più disperati. Lo riconosceranno non dai bei discorsi che saprete fare, dalla vostra capacità organizzativa, dalla vostra attività instancabile...Ma lo scopriranno "dall'amore che avrete gli uni per gli altri". Un amore con le proprietà sopra ricordate.
Non esiste un programma più rivoluzionario di quello che Gesù ci consegna come il suo "testamento". L'attuazione di tale programma definisce la fisionomia inconfondibile della comunità cristiana, senza possibilità di equivoci.
Provo a fare un sogno. Ogni volta che due o più cristiani si incontrano, in ognuno scatta un pensiero, un'intenzione: "Io sono pronto a dare la vita per te, per ciascuno". Non sarebbe questa che l'attuazione iniziale di quel "come io vi ho amati". Non so se nel caso concreto avrei il coraggio di dare la vita. Ma intanto ora rinnovo dentro di me questa disposizione, che posso subito tradurre nella pratica. Per es., mi rendo conto che a questo fratello posso offrire (ora, non domani) una prestazione, un piccolo servizio, un po' di tempo per ascoltarlo. Se in me è viva la decisione di dare la vita per lui, lo amerò subito compiendo questo mio gesto con tutto l'amore che mi è possibile in quel momento. "Egli (Gesù) ha dato la sua vita per noi. Quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli" (1Gv 3,16). Come riferisce Tertulliano, i pagani dicevano con stupore dei primi cristiani: "Guarda come si amano! Sono pronti a morire l'uno per l'altro". Cosa accadrebbe se nel rapporto di coppia, in famiglia, in parrocchia, in una comunità religiosa, tra preti, tra compagni di lavoro o di gioco, molti cercassero di investire il meglio di sé nel vivere la reciprocità dell'amore prima che in ogni altra cosa? Che cosa accadrebbe se uno schieramento politico accogliesse il positivo che c'è nell'altro, se in famiglia i genitori scoprissero e accettassero tutto il bene che c'è nei figli e il marito quello che c'è nella moglie, e così via? Quale rivoluzione! E' a questo che il mondo aspira. E' il sogno di ogni cuore e, prima ancora, è il sogno di Dio stesso.
Maria come nessun altro conosce l'arte di amare, Lei che è invocata come "la madre del bell'amore" ed esulta quando vede i figli che riprendono a volersi bene. Ogni sera proviamo a contare le volte in cui l'abbiamo pregata di insegnarci quest'arte e le volte in cui, ascoltando l'appello di Gesù, abbiamo fatto un passo concreto nell'amore reciproco.