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TESTO L'amore che ci fa prossimo degli altri.

padre Tino Treccani

XV Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (15/07/2001)

Vangelo: Lc 10,25-37 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 10,25-37

In quel tempo, 25un dottore della Legge si alzò per metterlo alla prova e chiese: «Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?». 26Gesù gli disse: «Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?». 27Costui rispose: «Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso». 28Gli disse: «Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai».

29Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: «E chi è mio prossimo?». 30Gesù riprese: «Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. 31Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. 32Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. 33Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. 34Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. 35Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: “Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno”. 36Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?». 37Quello rispose: «Chi ha avuto compassione di lui». Gesù gli disse: «Va’ e anche tu fa’ così».

La parabola del "buon Samaritano" è propria di Luca ed ha le sue radici nella sintesi del "discorso della pianura": "Siate misericordiosi come il Padre vostro è misericordioso" (6,36). La misericordia non ha bisogno di un codice di leggi per manifestarsi; dipende solo dalla sensibilità delle persone in relazione alla vita, soprattutto quella dei bisognosi.

a. Insensibilità nei confronti della vita (vv. 25-32)

Il dottore della legge sembra voler tendere un tranello a Gesù (v. 25). È attaccato alle leggi che da sole non traducono la vita e non si interessa con la pratica della misericordia. Tuttavia lui sa, conosce la sintesi di ciò che significa essere umano: "Ama il Signore, tuo Dio,... ed il tuo prossimo come te stesso" (v. 27). Riesce ad unire la religione e l'etica, ma non sa uscire da se stesso perché gli manca la cosa più importante: la pratica della misericordia. Vuol sapere "chi è il mio prossimo" (v. 29). Con una parabola, Gesù gli mostra come essere prossimo degli altri. L'importante non è voler sapere, ma saper fare. Perciò è necessario essere misericordiosi come il Padre.

Lo sventurato caduto nelle mani dei briganti, probabilmente è un giudeo, vittima di quanti vivono secondo il detto: "ciò che è tuo è mio". Cosa può fare la legge per un moribondo?

La prima persona che passa è un sacerdote, un uomo di religione, preoccupato con il culto, il Tempio, con la paura di rischiare l'impurità, caso toccasse un cadavere o del sangue. Per lui, Dio è rinchiuso nel Tempio. Là possiamo incontrarlo. Là si vive la religione. Secondo i l sacerdote "ciò che è mio è mio". Per questo, vedendo il moribondo, "passa oltre, dall'altra parte" (v. 31).

La seconda persona è un levita. Anche lui è un uomo di religione, con le stesse preoccupazioni del sacerdote. Anche lui continua il suo cammino (v. 32) perché la sua preoccupazione consiste nel sapere "chi è il mio prossimo", e non nel sapersi avvicinare per essere lui prossimo di chi ha bisogno.

b. La misericordia fa rinascere la vita (vv. 33-35)

La terza persona che passa è un samaritano. I giudei detestavano i samaritani (cfr. Gv 4,9b). Secondo il punto di vista religioso dei giudei, il samaritano è un eretico; dal punto di vista della razza, un impuro; dal punto di vista sociale, un nemico e emarginato. Il samaritano non si aggrappa ad un codice di leggi. Agisce semplicemente a partire da ciò che sente e dalla sua esperienza di emarginato. Luca sottolinea che il samaritano, avvicinandosi al ferito, "sente compassione" (v. 33). Il verbo greco "splagchnizomai" (= aver compassione), in Luca è usato solo con Gesù (7,13) e col Padre (15,20), oltre che col samaritano. Aver compassione è un gesto eminentemente divino che si traduce nella piena solidarietà con i diseredati della vita. Solo il samaritano, perché vive nella pelle l'emarginazione, è capace di compassione, di farsi prossimo di colui che fu assaltato. L'eretico, l'impuro ed il nemico, fu capace di una attitudine religiosa perfetta. Gli uomini di religione, no. Il samaritano non volle sapere "chi è il mio prossimo". Il suo motto era "ciò che è mio, ti appartiene". Con la legge della vita, marcata nel suo cuore, si solidarizza. Tramite la sua misericordia, il suo peggior nemico ricupera la vita. Non fu nel Tempio, nei culti o nei riti che il samaritano incontrò Dio, ma nel nemico sull'orlo della morte.

c. Farsi prossimo degli emarginati (vv. 36-37)

La parabola presenta tre tentativi di vivere la religione (cfr. v. 36): quello dello specialista di leggi, quello del sacerdote e del levita e quello del samaritano. Il dottore della legge pensa di filtrare la religione attraverso il codice delle leggi e la domanda sistematica: questo fa parte della religione o no? La parabola gli risponde con l'esempio del samaritano: "Vai e fai la stessa cosa" (v. 37). Il sacerdote ed il levita credono di manifestare la loro fede nel recinto del Tempio. La parabola mostra loro che Dio ha abbandonato il Tempio ed i culti sterili e si è identificato con gli emarginati. Per incontrarlo è necessario assumer e il progetto del Padre misericordioso ed andare incontro a coloro che sono privati della vita.

Il samaritano, invece, vede nel suo peggiore nemico, il suo prossimo più prossimo e si solidarizza con la sua disgrazia. E lì incontrò Dio e la vera religione.

Per riflettere

L'amore deve inventare il prossimo, come l'umanità, piena di organizzazioni e religioni, di leggi e di codici, ha bisogno di farsi prossimo di sé stessa. Spesso mi si dice che il mio prossimo più prossimo è la stessa comunità religiosa in cui vivo; perché, mi si dice, è facile e a volte comodo, farsi prossimo dei lontani, dei parrocchiani o di qualche povero che ci è simpatico. Non sono convinto quando si vuol dribblare solo con teorie, senza avere la premura ed il coraggio di inventare un progetto di vita. Ed anche quando questo appare come un embrione, l'eterna legge ed i suoi codici, prendono il sopravvento, tanto per la persuasione, come con la coercizione. Il samaritano smonta ogni maschera e Gesù, con tanta calma, la fa in barba al sapiente e riverito dottore. L'invenzione che spesso manca a noi cristiani è proprio la misericordia, la compassione. Intendo questa non come far finta di niente, come se vivessimo in un mondo senza conflitti di ideologie, di personalità, bensì avere ben chiaro che niente è rose e fiori, nemmeno tra due innamorati cotti: è necessario che io faccia il primo passo concreto. Vivere l'emarginazione non è un bene per nessuno, ancor meno una virtù. Il mio "benessere spirituale" è tale se coniugato col farmi coraggiosamente prossimo degli ultimi. E l'amore a questi è sincero, quindi non fuga, se ho lo stesso coraggio di farmi prossimo in casa, in comunità, sul lavoro, nella società.

Purtroppo sento che siamo sempre infarciti di riti e convenevoli: belle apparenze, galateo, belle funzioni, il tutto all'insegna della lode di Dio e delle maniere civilizzate. Ma la forza creatrice di Dio è ancora imprigionata dalla mancanza di fantasia, perché ognuno di noi si stringe stretto il detto "ciò che è mio è mio". Abbiamo smarrito i sacramenti della vita. Misericordia è gratuità e sincerità di gesti concreti. La vita è sacramento. Noi religiosi, generalmente, piangiamo la "mancanza di vocazioni" in questi tempi. Siamo solamente ripiegati su noi stessi, preoccupati con la nostra evangelizzazione, numero, santità e forse abbiamo perso di vista che il Dio che annunciamo è diventato sordo e muto per la gente di oggi. Diamo colpa al mondo balordo, ai giovani di oggi, alla società; mai ci viene il dubbio che forse abbiamo perso il coraggio di dirci la vita, di avvicinarci, di guardarci, sorridere e piangere insieme. Facciamo le gare per vedere chi è migliore, chi è più furbo, più santo, più peccatore e non ci incontriamo, non ci avviciniamo. Preferiamo l'idolo della desistenza, ridipinta da luoghi comuni: incompatibilità di caratteri, formazione e cultura differente, difficoltà di convivenza, ecc. Come invece sarebbe bello poterci dire: caro fratello, sai bene che fatichiamo molto a convivere, sai bene che non siamo capaci di pensare insieme, di lavorare insieme, sai bene che fingiamo spesso una tranquillità sepolcrale, eppure in noi Qualcuno ha messo una forza incredibile che ci aiuta ad abbandonare i nostri progettini per seguirLo nel suo progetto di Vita. Vita piena e non di sopravvivenza, di mani strette e di cuori uniti. Non perdiamoci nelle gocce delle nostre piccole o grandi incomprensioni, c'è un oceano attorno a noi che ruggisce miseria e conclama ad un impegno di giustizia. Non prendiamocela se la stola non è dell'ultima moda liturgica, preghiamo l'incapacità di sentirci e farci prossimo l'uno dell'altro, preghiamo lo scandaloso non-amore che riempie le nostre bocche. Continuiamo sì le nostre devozioni quotidiane, senza dimenticare l'obbligo di ascoltarci, liberando il cuore dai nostri sottili sotterfugi di meriti e demeriti. La vita ci invita a scegliere: essere dottori di leggi mettendole al di sopra di tutto, di noi stessi; essere sacerdoti e leviti "indaffarati" che scusano il proprio egoismo frettoloso col dovere delle cose del Dio incarcerato; essere samaritani che non si fermano alle "inimicizie", perché nessun prezzo paga il "rivivere" di un uomo. Forse troveremo il Dio di cui tanto parliamo, proprio lì, nell'andare oltre i nostri particolarismi e soffermandoci a curare ciò che è essenziale nella nostra vita: la Vita stessa. Perché tutti siamo assaltati e... forse, anche noi, assaltiamo gli altri, lasciandoli ai margini della strada. Non perdiamo la compassione in questa vita, perché nell'altra sarà troppo tardi e là non potremo più chiedere: "chi è il mio prossimo?" Usciamo da noi stessi e guardiamo in faccia questo mondo che Dio ha scelto per incarnarsi. Il ghetto di strada, di club, di amici, di curia non ha prerogative di eternità. Ma allora la Chiesa è tutta un grigiore? Per fortuna, anche oggi, i samaritani sono più numerosi degli stessi briganti, sacerdoti e leviti, perché parlano poco, non fanno domande sistematiche e curano molti feriti.

 

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