TESTO Uscire dalla mediocrità
padre Gian Franco Scarpitta S. Vito Equense
XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (15/10/2006)
Vangelo: Mc 10,17-30
17Mentre andava per la strada, un tale gli corse incontro e, gettandosi in ginocchio davanti a lui, gli domandò: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?». 18Gesù gli disse: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, se non Dio solo. 19Tu conosci i comandamenti: Non uccidere, non commettere adulterio, non rubare, non testimoniare il falso, non frodare, onora tuo padre e tua madre». 20Egli allora gli disse: «Maestro, tutte queste cose le ho osservate fin dalla mia giovinezza». 21Allora Gesù fissò lo sguardo su di lui, lo amò e gli disse: «Una cosa sola ti manca: va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri, e avrai un tesoro in cielo; e vieni! Seguimi!». 22Ma a queste parole egli si fece scuro in volto e se ne andò rattristato; possedeva infatti molti beni.
23Gesù, volgendo lo sguardo attorno, disse ai suoi discepoli: «Quanto è difficile, per quelli che possiedono ricchezze, entrare nel regno di Dio!». 24I discepoli erano sconcertati dalle sue parole; ma Gesù riprese e disse loro: «Figli, quanto è difficile entrare nel regno di Dio! 25È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno di Dio». 26Essi, ancora più stupiti, dicevano tra loro: «E chi può essere salvato?». 27Ma Gesù, guardandoli in faccia, disse: «Impossibile agli uomini, ma non a Dio! Perché tutto è possibile a Dio».
28Pietro allora prese a dirgli: «Ecco, noi abbiamo lasciato tutto e ti abbiamo seguito». 29Gesù gli rispose: «In verità io vi dico: non c’è nessuno che abbia lasciato casa o fratelli o sorelle o madre o padre o figli o campi per causa mia e per causa del Vangelo, 30che non riceva già ora, in questo tempo, cento volte tanto in case e fratelli e sorelle e madri e figli e campi, insieme a persecuzioni, e la vita eterna nel tempo che verrà».
Direi che la Parola di Dio di questa Domenica ci invita a riflettere su quale debba essere l'atteggiamento del cristiano nella vita di tutti i giorni, e soprattutto in che cosa noi credenti in Cristo siamo differenti da tutti gli altri?
Questo è almeno il significato intrinseco del colloquio fra Gesù e il giovane benestante di cui alla parabola evangelica. Prestiamo attenzione: la reazione di Gesù nei suoi confronti è tutt'altro che negativa; una volta osservato che il giovanotto sin dalla più tenera età è un osservatore zelante dei ben noti comandamenti di Dio, lo fissa intensamente con amore. Cioè gli vuole bene, lo predilige. La nota dolente si verifica qualche istante dopo, quando Gesù lo invita a non accontentarsi della semplice osservanza delle prescrizioni della Legge ma ad andare oltre, cioè a rinunciare a tutto quello che possiede e a seguirlo. A tal punto infatti il giovane cosa fa? Considera probabilmente l'ammontare dei beni e delle sostanze in suo possesso, che potavano anche essergli provenute in eredità, valuta le comodità e gli agi procuratigli dal denaro, la vastità del suo patrimonio e di conseguenza oppone all'invito di Gesù un fortissimo diniego.
La lezione certamente vale per i candidati alla vita religiosa e al sacerdozio, ai quali si predica continuamente che il seguire Gesù con particolare dedizione attraverso una consacrazione speciale comporta la rinuncia affettiva ed effettiva alla proprietà privata, al possesso personale (almeno per i religiosi) dei beni materiali e di consumo, alla possibilità di usufruire personalmente delle sostanze e per esteso tale consacrazione comporta altresì la sottomissione della propria volontà al Signore nella persona dei Superiori (obbedienza) come pure la rinuncia ai beni in sé apprezzabili del matrimonio e della carnalità (castità). E qui la faccenda vocazione diventa abbastanza seria: la risposta alla chiamata divina al sacerdozio e alla vita religiosa non si verifica molte volte soprattutto per la tendenza dei giovani a rifuggire dalle rinunce e ad appoggiarsi sulle sicurezze materiali, oltre che sui piaceri: non che i giovani siano indifferenti al sacro e alla Parola del Signore (più volte abbiamo affermato il contrario!) ma difficilmente riescono ad andare oltre l'ordinario e a scorgere la positività delle rinunce che la vita consacrata richiede. Dio chiama, anzi urla, ma i nostri giovani in genere sono presi dalla considerazione di dover escludere dalla propria vita la scelta vocazionale di speciale consacrazione appunto perché assai più... "pretestuosa" delle altre. Un vero problema, considerando quella che è la società dei consumi al giorno d'oggi.
Tuttavia la pedagogia evangelica non ha come destinatari i soli possibili sacerdoti e religiosi. Potremmo dire anzi che si rivolge a tutti i cristiani, manifestando nei fatti l'esistenza di un problema di fondo risolto il quale, probabilmente, avrebbe soluzione più rapida anche quello appena esposto: l'attaccamento al denaro e al superfluo.
Seguire Cristo infatti comporta che ci si disponga a vivere qualcosa in più rispetto al classico "non rubare", "non uccidere", e altro che ben conosciamo: oltre che a non commettere il male dovremmo porci il problema su come realizzare il bene e soprattutto come ESSERE uomini d'amore con qualche marcia in più rispetto ai pagani e ai non credenti. Il cristianesimo impone insomma che amiamo il prossimo più degli altri, prodigandoci generosamente verso tutti con sincerità della nostra persona nelle attenzioni e negli atti concreti di amore verso chiunque abbia bisogno; in particolar modo verso coloro che Gesù predilige maggiormente ossia i miseri e gli indigenti.
Uscire dalla mediocrità, ecco il nocciolo della questione che ci si pone in questa Domenica. Non dobbiamo contentarci soltanto di non aver rubato, non aver ammazzato o esserci fatti i fatti nostri pregando, andando a Messa senza infastidire nessuno; occorre anche avere la prontezza e a volte anche il coraggio di sconfiggere il male facendo il bene (San Paolo), di adoperarci nella carità effettiva in modo tale da essere di esempio agli altri preoccupandoci del prossimo anche nelle minuscole attività di tutti i giorni e nella minuziosità dei particolari.
Ora, questo valicare la mediocrità come potrà mai realizzarsi se da parte nostra vi sarà affezione oltre misura al denaro e ai beni materiali? Come potremmo noi essere uomini di amore se continueremo a finalizzare tutte le nostre attività al solo guadagno, al successo, alle affermazioni sugli altri e alle ricchezze?
Chi più possiede, maggiormente tende a possedere e mira ad accumulare, chiudendosi di volta in volta alle necessità degli altri per la strenua tutela del proprio patrimonio; il che comporta diffidenza, ritrosia e sfacciata considerazione del prossimo solo in vista del proprio interesse. Per di più è anche vero che i più vili atti di egoismo e di mancanza di generosità li si riscontra proprio nelle persone possidenti, che difficilmente concedono più di tanto ai bisognosi.
Naturalmente vi sono delle eccezioni. Non tutti i ricchi e i benestanti sono deplorevoli, e molte volte chi possiede dei beni ha anche la possibilità di gestirli a beneficio degli altri, come per esempio gli uomini di affari, gli industriali, che tanto bene possono fare alla società nel campo delle occupazioni e del lavoro.
Non si vuole quindi condannare il possesso dei beni in se stesso, quanto piuttosto la cupidigia e l'avidità che ostruisce il nostro interesse verso gli altri e non ci rende certo meritori del regno di Dio.
Essere poveri è la via più congeniale che risiede nel giusto mezzo fra la miseria e la lussuria; povero non è necessariamente il nullatenente (questo comunque sempre privilegiato da Dio) ma colui che non ripone la propria certezza nel denaro, non pone i beni materiali come obiettivo primario della propria vita, non si accanisce per il possesso a tutti i costi specialmente per via illecita e soprattutto riconosce che nulla gli è dovuto ma che piuttosto tutto gli proviene da qualcuno. "Il Signore ha dato, il Signore ha tolto"(Tobia); neppure noi apparteniamo a noi stessi (San Poalo). Finalmente, il povero gradito a Dio è chi si dispone a mettere i propri beni al servizio degli altri, nulla omettendo ai fini della carità e dell'apertura al prossimo. In tutti questi sensi la povertà è una prospettiva di vita privilegiata che ci rende in realtà signori del mondo (Regola dell'Ordine dei Minimi) e ci aiuta a vivere soddisfatti perché liberi dalle tenaglie del vizio e del possesso, esaltando il nostro essere nella riscoperta di quanto bene possiamo così fare agli altri. La povertà è il passaporto per uscire dalla mediocrità.
Del resto, come affermano il libro della Sapienza e del Siracide, La ricchezza considerata in se stessa è un'illusione di felicità passeggera che logora il soggetto umano relegandolo ad una felicità del tutto apparente.