TESTO Commento su Luca 15, 1-32
Giovedì della XXXI settimana del Tempo Ordinario (Anno I) (06/11/2003)
Vangelo: Lc 15,1-10
I destinatari dell'insegnamento sono gli scribi e i farisei. La parabola è un invito ai giusti perché si convertano dalla propria giustizia che condanna i peccatori, alla giustizia del Padre che li giustifica.
Mentre il peccatore sente il bisogno della misericordia di Dio, il giusto non la vuole né per sé né per gli altri, anzi si irrita grandemente con Dio, come Giona (Gio 4,29). In questo modo rifiuta Dio, che è misericordia, in nome della propria giustizia.
La contrapposizione tra uno e tutti sottolinea la condizione di precedenza di chi è fuori strada, malato e infelice rispetto a chi è al sicuro, in salute e nella gioia.
Nell'Antico Testamento il pastore è Dio (Ger 23,1-6; Ez 34,12-16; Sal 23; ecc.), nel Nuovo è Gesù (Gv 10,11ss). Il cuore del Padre si rivolge tutto verso l'unico figlio che manca. Non basta la presenza di tutti gli altri per consolarlo. Egli ha un amore totale per ognuno. La sofferenza per la perdita di uno solo ci rivela quanto valore ha ognuno di noi ai suoi occhi di Padre.
L'atteggiamento del Padre si rivela nel comportamento di Gesù che cerca l'uomo perduto e invita gli amici e i vicini perché condividano la gioia del ritrovamento.
L'iniziativa della salvezza è di Dio che non attende il ritorno del peccatore smarrito, ma gli va incontro e lo porta a casa sua. La gioia di Dio per il ritorno del peccatore sta nel vedere riconosciuta e accolta la sua misericordia.
La gioia di Dio sarà piena quando tutti, anche i giusti, si convertiranno. Secondo Paolo il punto di arrivo della storia è la conversione d'Israele (Rm 11,25-36). La gioia di Dio per la salvezza di uno solo lascia intravedere la sofferenza divina del Padre fino a quando non vede tutti i suoi figli nella sua casa.
In realtà la pecora non si è convertita. Non siamo noi che ritorniamo a Dio, ma è lui che viene a cercarci. Convertirsi è volgere il nostro sguardo dal proprio io a Dio, dalla nostra nudità all'occhio di colui che da sempre ci guarda con amore.
Nella parabola della pecora perduta il protagonista era un uomo, figura di Dio, pastore d'Israele. Nella parabola della dracma perduta è una donna, figura dell'amore materno di Dio. Dio mi è più madre di mia madre: è lui infatti che mi ha tessuto nel seno di mia madre (Sal 139,13). Egli ama ciascuno di amore pieno e totale. Se ne manca uno solo, la sua casa è vuota. Perché ama ogni figlio più di se stesso.
Dio non ci ama in questo modo infinito perché siamo bravi, ma perché siamo suoi figli. E il fatto che siamo peccatori, pecore perdute e dracme smarrite, ci rende oggetto di un amore più grande (Lc 5,32; 19, 10). Il valore di ogni cosa e di ogni persona si rivela nella sua perdita; il nostro valore si è rivelato nella morte stessa di Dio che si è perduto per ritrovarci. Il nostro valore è infinito, pari all'amore di Dio che l'ha portato a dare la vita per noi. Il Signore dice ad ogni uomo: "Tu sei prezioso ai miei occhi, sei degno di stimai e ti amo" (Is 43,4).
La dracma mantiene tutto il suo valore anche quando è perduta o ritrovata tra la spazzatura: l'uomo è il tesoro di Dio anche quando si perde e viene ritrovato nella spazzatura del peccato e della degradazione.
La parabola del Padre misericordioso e del figlio perduto e ritrovato rivela il centro del vangelo: Dio come Padre di tenerezza e di misericordia. Egli prova una gioia infinita quando vede tornare a casa il figlio da lontano, e invita tutti a gioire con lui.