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TESTO Come finirà la parabola?

don Andrea Varliero

IV Domenica di Quaresima - Laetare (Anno C) (30/03/2025)

Vangelo: Lc 15,1-3.11-32 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 15,1-3.11-32

1Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3Ed egli disse loro questa parabola:

11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. 20Si alzò e tornò da suo padre.

Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. 22Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.

25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. 31Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».

Un uomo aveva due figli: nel cuore della Quaresima entriamo nella più bella tra le parabole. Oggi la rivivo attraverso un dipinto, «Il ritorno del Figliol Prodigo», capolavoro di Rembrandt, di casa al Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo. Alcuni particolari mi aiutano: gli occhi quasi ciechi del vecchio, tanto si sono sfiniti a fissare oltre l'orizzonte. Le mani di quel vecchio diverse una dall'altra: una è maschile, callosa e imbrunita, ma l'altra è delicata e rosea, più protesa in avanti, una mano femminile. Due mani insieme, il maschile e il femminile, il paterno e il materno: ecco la Misericordia. Il mantello rosso: è una tenda che cammina insieme all'uomo, un rosso di passione e di carità che tutto avvolge. Ecco la tenda della Misericordia. Il figlio errante è tornato a casa: ridotto vestito di stracci, una storia sbagliata. La pianta di un piede è completamente nuda, screpolata e lacerata, mentre l'altro piede calza ormai brandelli di un sandalo. Un viaggio impossibile scritto sui piedi: saliti fino alla vetta del proprio narcisismo e scesi nel più desolato e avvilente squallore della solitudine. Piedi inciampati immense volte nei sassi dell'orgoglio. Pochi sono i capelli rimasti, sfibrati da una vita randagia: a ben guardare è la testa di un bambino. Sì, è come se fosse un bambino appena ripartorito dal grembo del padre: ecco la Misericordia, un ripartorirmi alla vita. Dalla penombra infiniti occhi increduli e furtivi, si sentono i sibili e i mormorii: sono i servi, i mezzi sorrisi, i pettegolezzi moltiplicati. Ritto, impietrito, livido di silenzio, sta il fratello maggiore. Assomiglia tantissimo al padre: il mantello è lo stesso, stessa è la nobiltà dei volti, eppure sono distantissimi, una distanza siderale.

Quel figlio minore da sempre tocca in tutti noi «un punto unico, un punto segreto, un punto misterioso», piantato «come un chiodo di tenerezza». Qual è questo punto? È dove si insinua il dolore, la disperazione, l'inquietudine, la vergogna del peccato, il dubbio e la paura di esserci perduti; una cicatrice che «non si deve premere», perché fa male. Proprio lì, in quella ferita, entra la Speranza, «come una piccola suora dei poveri che non ha paura di maneggiare un malato», e lancia la propria sfida: «Dovunque andrai, io andrò». Lei, la Speranza, è come «un cane maltrattato, che torna sempre», perché ci insegna «che non tutto è perduto» (Charles Peguy). È lei, la Speranza, a sussurrare: «Mi alzerò, e tornerò da mio padre».

Quel fratello maggiore so che cosa significhi: la responsabilità, il centro dell'attenzione, le ansie e le fatiche per il primo nato. E poi un minore a cui fare posto, imparare il linguaggio della fraternità. Condividere i giochi, gli spazi, le discussioni, la vita. È per lui, per il fratello maggiore, questa parabola. Per quel fratello maggiore che porto dentro, quando vivo da servo obbediente, per quando il cuore è altrove, per quando non amo quello che vivo. Per quando la vita tutto sembra, fuorché la festa di una famiglia. Un fratello maggiore alle prese con l'infelicità, un cuore di servo, quando invece «il segreto di una vita riuscita è amare ciò che fai, e fare ciò che ami» (Dostoevskij). Noi, fratelli maggiori, continuiamo a intonare Dio come un dovere, il più mortale tra i doveri. Noi, fratelli maggiori, siamo di casa nelle sue stanze, con il rischio di non averlo mai conosciuto, di non averlo mai ascoltato, di non averlo mai abbracciato. Noi, fratelli maggiori, siamo chiamati a combattere con la pretesa di una giustizia dovuta, di una ricompensa meritata, del giusto premio per la fedeltà alla causa. Nessun premio, quello che è mio è suo. Nessuna festa, se sono io il primo a non vivere di festa e di misericordia.

Tra un figlio minore e un figlio maggiore, nessuno di loro si è reso conto del Padre. Nessuno dei due ha avuto il coraggio di chiamare l'altro fratello: «Dammi la mia parte!»; «Questo tuo figlio!». Entrambi, per vivere, hanno avuto urgenza di uccidere proprio lui, il padre. Hanno preferito fuggire, uno fuori di sé e l'altro dentro se stesso, pur di non rischiare a incontrare un Dio scandalosamente buono, che preferisce la felicità dei suoi figli alla loro fedeltà, che non è giusto, è di più, esclusivamente amore.

Come finirà la parabola? Riuscirà a rimanere il figlio minore o la fragilità, l'inconsistenza, il richiamo della foresta, avranno la meglio? Abbraccerà il fratello maggiore quel fratello minore che gli ha fatto da specchio per tutto il dolore represso da una vita? Riuscirà il padre a mangiare insieme nella tavola dei figli? Ritornerà la festa in quella casa di solitudini? Non lo sappiamo, sta a noi scrivere il finale, sta alle nostre vite.

 

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