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TESTO Commento su Matteo 26,14-25

Missionari della Via   Missionari della Via - Veritas in Caritate

Mercoledì della Settimana Santa (16/04/2025)

Vangelo: Mt 26,14-25 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Trenta monete: ecco quanto vale la vita del Signore; vale poco la vita di chi è venduto, come fosse una merce! Un destino simile toccò a Giuseppe, venduto dai suoi fratelli per invidia, come narrato nel libro della Genesi (cf Gn 37,28): prima lo gettarono in una cisterna, poi lo cedettero per denaro. Un tradimento nato da sentimenti meschini, eppure Giuseppe, colui che venne venduto, sarà lo stesso che li salverà dalla carestia. Anche Gesù fu consegnato per invidia. Essa non fa provare giovamento, fa corrodere l'animo di chi la prova, rende infelici. L'invidioso subisce già la conseguenza del suo peccato! Chi invidia, infatti, non prova piacere, si strugge dentro e desidera vedere eliminato l'altro; quel desiderio di violare la dignità dell'altro, gli si tramuta in veleno che gli scorre dentro. Come diceva san Tommaso d' Aquino: «L'invidia è tristezza per il bene d'altri in quanto ostacolo alla propria superiorità» (Summa Th., II q. 36). Giuda, come i fratelli di Giuseppe, sentiva di aver capito tutto, di voler esercitare una certa superiorità sugli eventi, sulla storia, sulla stessa idea di Dio. È a Gesù che quel fratello scelto e amato darà un bacio traditore; e Gesù lo guardò negli occhi, gli mostrò di conoscere le sue intenzioni, e in qualche modo gli disse: “so già che dimenticherai l'amore che ho avuto per te per farti assoldare dal potere, per obbedire alle tue passioni e a quelle degli altri”. Giuda, ingannato dai farisei, inganna Gesù: bacia l'Amore per tradirlo. Oggi esaminiamoci, piangiamo pure se sentiamo il “sangue verde” dell'invidia che scorre dentro di noi; se sentiamo di essere così miseri da sperare miseria per gli altri. L'invidia è la prima figlia della superbia, che possiamo immaginare nel volto di Caino che pensa che Dio ami più Abele; la riconosciamo in azione con il codardo Pilato consapevole che: «i capi dei sacerdoti [avevano consegnato Gesù] per invidia» (cf Mc 15,10); la sentiamo citare nel canto delle donne che si accorsero del tarlo che rodeva Saul: «Saul ne ha ucciso mille, ma Davide diecimila» (cf 1 Sam 18, 7). L'invidia corrompe le relazioni e ci porta, come tutti i vizi, all'infelicità, come ha fatto con i personaggi che abbiamo citato, soli con la loro passione triste. Per riconoscere l'invidia possiamo dire che a primo acchito essa ci porta non a offendere l'altro ma a diffamarlo, perché l'invidioso ha sempre bisogno di complici e alleati. Teologicamente possiamo chiamare lo sparlare una “detrazione”: «Pare che la detrazione sia il più grave di tutti i peccati contro il prossimo. [...] La detrazione, [...] non nasce dall‘ira, come la contumelia, ma dall‘invidia, che tenta di sminuire in qualsiasi modo la fama del prossimo» (S. Tommaso d'Aquino, Summa Th., Questio 73). Anche in noi l'invidia si rivela e si accresce ogni volta che sparliamo del prossimo, ogni volta che superficialmente ci accostiamo alla vita altrui e tentiamo di sporcarla agli occhi degli altri e con la complicità degli altri! Esaminiamo perciò il nostro cuore.

«L'invidioso, quando avverte ogni innalzamento sociale di un altro al di sopra della misura comune, lo vuole riabbassare fino ad essa [...] Egli pretende che quell'uguaglianza che l'uomo riconosce, venga poi anche riconosciuta dalla natura e dal caso. E perciò si adira che agli uguali le cose non vadano in modo uguale» (F. Nietzsche).

«Vorreste vedere Dio glorificato da voi? Ebbene, rallegratevi dei progressi del vostro fratello, ed ecco che Dio sarà glorificato da voi. Dio sarà lodato si dirà dalla vittoria sull'invidia riportata dal suo servo, che ha saputo fare dei meriti altrui il motivo della propria gioia» (San Giovanni Crisostomo).

San Benedetto Giuseppe Labre, pellegrino

«"Il pellegrino della Madonna”, “Il povero delle Quarantore”, “Il penitente del Colosseo”, “Il nuovo sant'Alessio”. Così il popolo romano chiamava Benedetto Giuseppe Labre, che morì a Roma a 35 anni. Un francese che trascorse parte della sua breve vita come pellegrino, sostando in preghiera davanti alle immagini più care della Madonna e davanti all'Eucarestia. San Benedetto Giuseppe Labre, nacque ad Amette il 26 marzo del 1748, primo di quindici fratelli. Più tardi potè entrare nei Certosini, da cui usci quasi subito, e fra i trappisti di cui pure dovette allontanarsi per grave malattia. Di nuovo libero, si mosse al pellegrinaggio di Roma, secondo il voto fatto durante la convalescienza. Durante il viaggio ebbe una luce interna così viva sulla vocazione che gli era riservata, che non ne dubitò mai più. Egli diceva come S.Alessio: "Bisogna abbandonare la patria ed i propri parenti, per condurre una nuova specie di vita di estrema penitenza, ma in mezzo al mondo, visitando in pellegrinaggio i Santuari cattolici più celebrati". Si decise, adunque, dopo ripetute approvazioni di direttori spirituali, ad iniziare la lunga serie di pellegrinaggi, che durò tutta la sua vita. Vestì un abito rozzo e logoro, trascurando ogni norma di igiene personale: non domandò mai elemosina: visitò nei primi sei anni Loreto, Assisi, Compostella, nella Spagna, i Santuari della Svizzera e della Francia. Gli ultimi sei anni li trascorse a Roma, da dove ogni anno partiva per una visita alla Santa Casa di Loreto. Poiché la più dolce compagnia di Benedetto Labre è Gesù e Maria, il Santuario dove si compì il mistero della Incarnazione, il Santuario testimone di tutte le virtù intime della Sacra Famiglia, Benedetto che portava pure il nome di Giuseppe e che onorava grandemente il casto Sposo della Santa Vergine, vorrebbe non abbandonarlo mai: ed infatti egli non se ne allontanerebbe, se il senso cristiano di cui egli è ben penetrato, non gli avesse fatto conoscere in Roma una fonte ancor più feconda di vita religiosa che in qualsiasi altro luogo. A Roma passa i suoi giorni e, quando può, anche le sue notti nelle chiese: egli sa venerare tutte le memorie dei Santi Apostoli e dei Martiri. Là egli è assiduo in tutte le chiese, secondo i turni fissati, dinnanzi al Santissimo Sacramento, tanto che a voce di popolo viene battezzato il povero delle Quarantore. Lo si vedeva dinnanzi all'altare ora immobile come una statua, ora trasportato verso Dio da un impulso che si manifesta dal suo atteggiamento esteriore. Attraverso tutti gli strappi delle sue vesti il lume della grazia, direi quasi della gloria, sfolgora da ogni parte: "Vedete dunque questo povero, esclamava un giorno una donna, come è buono! come è bello! Bello?! Sì: la stessa scrittura che ci dipinge Gesù Cristo come l'uomo abietto e l'ultimo degli esseri, ce lo rappresenta altrove il più bello dei figli degli uomini. Ora Benedetto Labre ha conciliato in sè questo doppia caratteristica, che i profeti avevano dato di Cristo: un tipo superiore si rivela attraverso questa grossolana corteccia. Egli è il rifiuto del mondo, eppure né è il fiore. (Don Luca Roveda).

 

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