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TESTO Commento su Giovanni 10,31-42

Missionari della Via   Missionari della Via - Veritas in Caritate

Venerdì della V settimana di Quaresima (11/04/2025)

Vangelo: Gv 10,31-42 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Il rifiuto di riconoscere Gesù non si limitava alle sue opere (e che di per sé non erano l'ostacolo principale). Il vero problema era che i suoi interlocutori avevano compreso perfettamente il significato delle sue parole: Egli si dichiarava Dio! Questa affermazione, così straordinaria e sconvolgente, superava i loro schemi e li spingeva a un rifiuto radicale, nonostante l'evidenza delle sue azioni straordinarie. La difficoltà stava proprio nell'accettare l'identità divina che Gesù proclamava con chiarezza. Quest'affermazione che rappresentava per loro una bestemmia era inaccettabile, perciò cercavano di catturarlo e ucciderlo. Il brano che oggi meditiamo, infatti, inizia con queste parole: «raccolsero delle pietre per lapidare Gesù». E Gesù cosa faceva? Fuggiva. Davanti ai farisei che non sono predisposti verso Gesù e che lo minacciano, non possiamo pensare in modo semplicistico ad un tipico buonismo umano. Gesù non era un “buonista” che viveva di fantasie, Egli è morto per la verità. Egli scappava quando volevano ucciderlo, non si metteva lì a farsi torturare; ha accettato la follia del male solo quando era giunta la sua ora. A una vittima potremmo dire: “Se quella persona ti ha fatto del male, tu dimostrale che le vuoi bene!”. Per quanto possa essere un consiglio poeticamente sincero e astrattamente vero, si tratta di un discorso non immerso nella carne delle vittime, che hanno bisogno di un percorso di riconciliazione che prevede la riaffermazione della verità e della giustizia. Non si può chiedere a una vittima di banalizzare il male; si può chiedere di avviare un processo di riconciliazione che ristabilisca la verità. L'essere cristiani non è farci vittime degli altri o essere dei masochisti amanti del dolore e della morte, ma è accogliere nella verità quello che ci accade, portare la vita di Dio nella storia. Noi non dobbiamo dimostrare il bene esponendoci al male, non siamo chiamati al vittimismo ma ad essere innalzati sulla croce, a rivelare che Dio è con noi anche nei momenti in cui siamo rinnegati, a rivelare che il dolore che irrimediabilmente incontriamo non ha l'ultima parola. Gesù non sorride sotto la croce, non minimizza, vive nella carne il cielo, dice: “Perdonali, perché non sanno quello che fanno!”. Gesù sa perfettamente che stanno compiendo il male, non fa finta che il male non ci sia! Perdonare non vuol dire far finta che il male non ci sia stato. Possiamo capire così perché il Signore con i farisei avesse questo linguaggio schietto, fermo, che ad alcuni suscitava la fede, ad altri, invece, suscitava di volerlo uccidere. Gesù è veramente l'immagine perfetta dell'umanità che ama. Gesù vede l'uomo accecato che lo vittimizza, vede i suoi amici abbandonarlo, vede gli altri crocifissi agonizzare, vede sua madre ai piedi della croce e rivela come muore Dio, con le braccia aperte, vittima gloriosa di coloro che ama. Ha provato a fuggire dalla lapidazione, è andato da una città all'altra, ha parlato, ha chiesto conto del perché lo schiaffeggiassero, ha rimproverato la mancanza di giustizia ponendo al centro i poveri e gli esclusi, ha resistito sotto i colpi di frusta, ha rivolto lo sguardo a chi lo tradiva, si è definito verità, e poi ha accolto le conseguenze del suo mostrarsi senza infingimenti: Dio con noi, Io sono! Gesù non era un bonaccione ma la bontà in persona, perciò sulla croce Dio non dimostra amore ai suoi crocifissori ma dona amore gratuito. Il concetto di dimostrazione inteso come atto di convincimento può farci cadere in situazioni abusanti, che partono dal dover convincere chi ci fa del male a volerci bene. Perché Gesù invece di farsi lapidare è andato via? Non doveva avvicinarsi a coloro che lo volevano uccidere e fargli una carezza mentre alzavano la pietra per scagliarla contro di lui? O forse all'uomo accecato dall'odio doveva dare spiegazioni? Perché Gesù chiede conto e sollecita anche con il silenzio la coscienza di chi ha di fronte? Perché Gesù sulla croce non muore in silenzio ma invoca il perdono per i suoi carnefici? Una donna maltrattata dovrebbe resistere ai colpi ricevuti per dimostrare l'amore? Un uomo abusato dovrebbe stare in silenzio per dimostrare di essere buono o virile? Il cristiano è chiamato a farsi uccidere eroicamente per i suoi ideali come un buon filosofo o ad amare come Gesù, nella verità? Forse si potrebbe pensare che non denunciare il male sia un modo di dimostrare la nostra bontà o che non fuggire davanti ai colpi sia un giusto dono da fare a Dio, una dimostrazione del bene. Quando l'amore deve essere “dimostrato”, fallisce nella presunzione di voler essere riconosciuto. L'amore non si impone, non si dimostra ma si dona, disarma l'altro, rinuncia alla violenza, fa gesti di custodia davanti all'orrore e all'errore, si compiace della verità, crede nel bene, scommette sul ristabilimento delle relazioni, e quando chi ama è costretto a morire, fa diventare la croce uno strumento di salvezza e di pace. Nella spiritualità della comunità c'è una frase che accompagna la meditazione della preghiera delle comunità: “La verità senza carità ferisce, la carità senza verità fallisce!”.

«Il Signore si riferisce alle situazioni più difficili, quelle che costituiscono per noi il banco di prova, quelle che ci mettono di fronte a chi ci è nemico e ostile, a chi cerca sempre di farci del male. In questi casi il discepolo di Gesù è chiamato a non cedere all'istinto e all'odio, ma ad andare oltre, molto oltre. Andare oltre l'istinto, andare oltre l'odio. Gesù dice: «Amate i vostri nemici, fate del bene a quelli che vi odiano» (Lc 6,27). E ancora più concreto: «A chi ti percuote sulla guancia, offri anche l'altra» (v. 29). Quando noi sentiamo questo, ci sembra che il Signore chieda l'impossibile. E poi, perché amare i nemici? Se non si reagisce ai prepotenti, ogni sopruso ha via libera, e questo non è giusto. Ma è proprio così? Davvero il Signore ci chiede cose impossibili, anzi ingiuste? È così? [...] Durante la passione, nel suo ingiusto processo davanti al sommo sacerdote, a un certo punto riceve uno schiaffo da una delle guardie. E Lui come si comporta? Non lo insulta, no, dice alla guardia: «Se ho parlato male, dimostrami dov'è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18,23). Chiede conto del male ricevuto. Porgere l'altra guancia non significa subire in silenzio, cedere all'ingiustizia. Gesù con la sua domanda denuncia ciò che è ingiusto. Però lo fa senza ira, senza violenza, anzi con gentilezza. Non vuole innescare una discussione, ma disinnescare il rancore, questo è importante: spegnere insieme l'odio e l'ingiustizia, cercando di recuperare il fratello colpevole» (papa Francesco).

«Il perdono deve essere accompagnato dalla verità. Non perdoniamo soltanto perché ci sentiamo impotenti e complessati. Spesso si è confusa l'espressione «porgi l'altra guancia” con l'idea della rinuncia ai nostri legittimi diritti. Non si tratta di questo. Porgere l'altra guancia significa denunciare e interpellare a chi lo ha fatto, con un gesto pacifico però deciso, l'ingiustizia che ha commesso; è come dirgli «Mi hai picchiato in una guancia. Allora, vuoi picchiarmi anche nell'altra? Ti sembra corretto il tuo comportamento?». Gesù rispose con serenità al servo insolente del sommo sacerdote: «Se ho parlato male, dimostrami dov'è il male; ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18,23). Vediamo, dunque, quale deve essere la condotta del cristiano: non cercare la rivincita, però si mantenersi fermi; essere disposti al perdono e dire le cose con chiarezza. Certamente non è un'arte facile, però è l'unico modo di frenare la violenza e manifestare la grazia divina a un mondo spesso privo di grazia. San Basilio ci consiglia: «Fate caso e dimenticherete le ingiurie e gli oltraggi che vi giungano dal prossimo. Potrete vedere i nomi diversi che avrete l'uno e l'altro; a lui lo chiameranno collerico e violento, e a voi mansueti e pacifici. Lui si pentirà un giorno della sua violenza e voi non vi pentirete mai della vostra mansuetudine» (don Joaquim Meseguer García).

«Sono i gesti di Gesù che spiegano le sue parole: quando riceve uno schiaffo nella notte della prigionia, Gesù non risponde porgendo l'altra guancia, ma chiede ragione alla guardia: se ho parlato male dimostramelo. Lo vediamo indignarsi, e quante volte, per un'ingiustizia, per un bambino scacciato, per il tempio fatto mercato, per le maschere e il cuore di pietra dei pii e dei devoti. E collocarsi così dentro la tradizione profetica dell'ira sacra. Non ci chiede di essere lo zerbino della storia, ma di inventarsi qualcosa - un gesto, una parola - che possa disarmare e disarmarci. Di scegliere, liberamente, di non far proliferare il male» (p. Ermes Ronchi).

 

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