TESTO Vegna ver' noi la pace del tuo regno
don Angelo Casati Sulla soglia
Domenica di Cristo Re (Anno B) (10/11/2024)
Vangelo: Lc 23,36-43
36Anche i soldati lo deridevano, gli si accostavano per porgergli dell’aceto 37e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso». 38Sopra di lui c’era anche una scritta: «Costui è il re dei Giudei».
39Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!». 40L’altro invece lo rimproverava dicendo: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena? 41Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male». 42E disse: «Gesù, ricòrdati di me quando entrerai nel tuo regno». 43Gli rispose: «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso».
E io penso che non sia cambiato, e anche per questo lo adoro, lo amo; e ancora mi commuovo leggendo di lui, di Gesù, a cui diamo oggi nome di re alla fine dell'anno liturgico. Ma da quale altura gli diamo nome di re? Qui sta il problema, qui sta la differenza: la possibilità che accetti, o no, le nostre declamazioni della sua regalità e del suo regno. Dipende da quale altura. Perché, vedete, io penso che lui non sia cambiato e che ancora oggi, come allora, da certe immagini di re e di regno lui rifugga. Dico re: da quale altura? Dal monte della condivisione del pane e dei pesci o dal dosso, oggi evocato, dal calvario? Voi ricordate, sul monte, alla fine un tripudio generale, un delirio collettivo: Gesù è come se avvertisse pericolo di fraintendimento. È scritto: "Ma Gesù, sapendo che stavano per venire a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sulla montagna, tutto solo".
Re a quella maniera non ci stava. Non era il re dei troni; anche se poi - e dovremmo provare un certo imbarazzo - di troni, pochi o tanti, abbiamo finito per dargliene. Scolorendo a volte la regalità vera, quella dall'altra altura, l'altura del dosso del Calvario. Da quella, dall'altura della croce, Gesù non fuggì via, anche se glielo urlavano di sotto: "Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso e noi". E noi? Noi dovremmo sostare a lungo a questo momento della croce che oggi Luca ci ha fatto rivivere, per capire. Per capire che cosa diciamo quando diciamo "Gesù re dell'universo". Sostare. E come non commuoverci a questo dialogo tra condannati? E chi l'avrà sentito? Un grumo di parole, quasi l'ultimo respiro per i tre della croce. Tutti, penso, proviamo una immensa gratitudine per chi, quel grumo di parole tra crocifissi, se l'è stampato nel cuore e poi l'ha raccontato. Il ladrone, che noi chiamiamo cattivo, era rimasto - ma non accade anche a noi? - all'immagine gridata, quella di una regalità onnipotente, la regalità dei potenti della terra. Loro aspirazione salvare sé stessi, in prima istanza i loro interessi e un occhio di privilegio per quelli del loro cerchio magico: "Salva te stesso e noi".
Così, il primo a parlare da vicino sulla croce. Poi la contestazione dell'altro, quello che noi chiamiamo il buon ladrone: rimprovera il compagno e apre un dialogo di una intimità inenarrabile, che stupisce e insieme emoziona, solo che tu pensi da dove si parlavano. Non potevano guardarsi negli occhi, si davano parole di vicinanza. E riuscivano, miracolo, a sentirsi dentro quel vociare disumano: una nicchia di umanità, oserei dire di tenerezza. Pensate il ladro che chiama Gesù con il suo nome, il suo nome e basta, senza titoli, perché il titolo di quel Rabbi era la passione per gli altri, di cui era giunta eco sino a lui: "Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno". Gli rispose: "ln verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso". E Gesù che si sente chiamare con tenerezza: assistito, diremmo, nella morte da un malfattore, sollevato da quelle parole che erano per lui come la prova, dico umana, che non aveva camminato invano.
Tutto poteva sembrargli umanamente un fallimento: dove il regno, il sogno, la strada aperta sulla terra? Non le folle, nessuno dei suoi. Disceso nella somiglianza con gli uomini - come ricorda la lettera ai Filippesi - sino a provare il fallimento. E a dirci - ma non con le parole - che anche nel fallimento può aprirsi una nicchia, una nicchia persino per Dio: lui sfiorato di tenerezza da un ladrone. Si può accendere anche su un legno un brivido di relazione: "ln verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso". Con me. Questo è il regno: combattere abbandoni e solitudini, costruire relazioni, uscire dall'indifferenza, vivere una vera solidarietà, costruire un mondo più umano nella fraternità e nella pace, toccare le ferite. Proprio in questi giorni un amico, a me caro. mi diceva di un libro ora in libreria dal titolo suggestivo: "Tocca le ferite", sottotitolo: "per una spiritualità della non indifferenza". È del teologo Tomas Halik: "Non credo", egli dice, "in fedi senza ferite", in cui mancano i 'segni dei chiodi'. E ancora: "Non credo in divinità che passano danzando per questo mondo senza essere toccate dal suo dolore... Il mio Dio è un Dio ferito". "Regnò dal legno" canta la Liturgia.
Pensate, proprio pochi giorni prima della sua crocifissione, il giorno in cui gli dissero che a cercarlo era un gruppo di Greci, a Gesù venne spontaneo dire: "Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me". Ora capisco che cosa vuol dire "re dell'universo": la vera attrazione, attrazione per tutti, è quella dell'amore. Non quella del potere mondano, che abbaglia, seduce, manovra le folle, alla fine indotte a scegliere Barabba. Altra la vera attrazione. la relazione, la cura. Ebbene non so - voi sapete che fantastico, troppo - mi ha attraversato un pensiero: chissà se, ascoltando il ladro in quel momento di intimità sulla croce, a Gesù sarà venuto spontaneo pensare che quelle parole, "Attirerò tutti a me" si stavano avverando: il primo attirato quel ladrone, il primo di un universo - e ci siamo anche noi -: re dell'universo. A partire dal legno, quello della croce, ci sembra dì intuire che cosa vuoI dire re, che cosa vuol dire, regno, che cosa vuoi dire venga il tuo regno, per che cosa preghiamo quando diciamo: "Venga il tuo regno".
"Vegna ver' noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s'ella non vien, con tutto nostro ingegno".