TESTO L' incompiuto, la coralità, la casa
don Angelo Casati Sulla soglia
Domenica della Dedicazione del Duomo di Milano, Chiesa Madre di tutti i fedeli ambrosiani (Anno B) (20/10/2024)
Vangelo: Gv 10,22-30
22Ricorreva allora a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno. 23Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone. 24Allora i Giudei gli si fecero attorno e gli dicevano: «Fino a quando ci terrai nell’incertezza? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente». 25Gesù rispose loro: «Ve l’ho detto, e non credete; le opere che io compio nel nome del Padre mio, queste danno testimonianza di me. 26Ma voi non credete perché non fate parte delle mie pecore. 27Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola».
Festa della Dedicazione del Duomo di Milano. Di un Duomo - potremmo dire - più volte dedicato nel tempo. Di una cattedrale - anche questo potremmo dire - mai compiuta, sempre in costruzione. E non sarà anche questa la sua bellezza: l'incompiutezza? E ogni generazione può metterci qualcosa di suo, per darle bellezza o per restituirle bellezza. Simbolo dunque di una chiesa, anche di una comunità, anche di una vita, che hanno sempre dell'incompiuto, sempre in divenire, sempre in sete di bellezza. Forse non tutti sanno che stiamo parlando di una chiesa che ha una sua stranezza o, se volete, una caratteristica non comune: il Duomo di Milano non è dell'Arcivescovo, non è nemmeno del Comune, è dei milanesi.
A presiedere è la "Veneranda - così la chiamano - Fabbrica del Duomo", istituita nel lontano 1387 da Gian Galeazzo Visconti. Dunque un ente non prettamente ecclesiastico, che sembra quasi richiamare la vocazione della cattedrale ad essere di tutti, una casa per tutti, la coralità. E che bello che il richiamo alla "casa" sia rimasto - anche se spesso ce lo scordiamo - nel nome "duomo", dal latino "domus", casa, il calore di una casa. Di tutto questo il Duomo è segno: la bellezza dell'incompiuto, la bellezza della coralità, la bellezza del calore di una casa. Calore nel tempio. Non è scontato che ci sia, non bastano le pietre, per sfolgoranti che siano. Può sembrare quindi una stranezza che la Liturgia oggi ci abbia fatto leggere un brano di Giovanni in cui si parla della dedicazione di un tempio, quello di Gerusalemme, ma con un incipit raggelante, non solo dal punto di vista meteorologico, il contrasto è stridente.
Eccolo: "Ricorreva a Gerusalemme la festa della Dedicazione. Era inverno. Gesù camminava nel tempio, nel portico di Salomone". Era inverno. Inverno in tutti i sensi. Un tempio è vuoto, vuoto anche se affollato - è inverno nel tempio - quando è assente la tenerezza. Non è forse questa la sensazione che proviamo ascoltando le parole dei capi dei Giudei, gelide nei confronti di Gesù? Le pietre sono diventate gelide e il cuore gelido come pietra: un tempio vuoto di Dio, loro si sono impadroniti di Dio e della religione, ne hanno fatto un pretesto per il loro potere, per i loro interessi, per la loro ambizione. La sete di dominio, di ricchezza, di successo fa loro guardare con sospetto e acredine il Rabbi di Nazaret: sia salva la istituzione, salva nelle loro mani! Dirà loro Gesù: "Guai a voi, dottori della legge, che avete tolto la chiave della scienza. Voi non siete entrati, e a quelli che volevano entrare l'avete impedito"
Ebbene in una chiesa noi non cerchiamo funzionari, tanto meno funzionari di Dio, cerchiamo Dio e il suo respiro di vita, non il gelo dell'inverno. Una delle sensazioni da brivido, brivido tenero, che provavo - e penso anche voi proviate - entrando e sostando nel nostro Duomo, anche in assenza di celebrazioni, era ed è quella di sentirci avvolti dall'ombra delle alte volte come da un mistero buono, da una presenza benedicente. Ti sfiora la pelle. Varcando poi le porte per uscire, la sensazione è di portarla con te nella vita: non hai incontrato gerarchie da ossequiare, hai incontrato l'ombra tenera di Dio. D'altro canto il nostro Duomo, quasi evocando la bontà infinita di Dio,"ha sì gran braccia" da assicurare accoglienza a chiunque chieda dimora. Celebrazione della moltitudine e casa di tutti.
Le due cose insieme: nessuna esclusione, ma insieme il calore della casa, calore negli sguardi, calore sui visi. Ebbene è proprio questa dimensione della tenerezza che, come racconta il Cantico dei cantici, mette alle spalle il gelo dell'inverno: Perché, ecco, l'inverno è passato, è cessata la pioggia, se n'è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato. Vorrei così far ritorno al brano di Giovanni che con le parole di Gesù cambia il colore della pagina: dall'inverno alla primavera. Gesù risponde ai funzionari con l'immagine del pastore. C'è un abisso. La insidiosa domanda a Gesù se sia o no il messia è solo a scopo di cattura. Lui risponde parlando di gregge, di pecore e di pastore. Da una parte la sete di potere, dall'altra la relazione. Il tempio di sua natura è chiamato ad essere un luogo dove imparare a mettere alle spalle l'inverno dell'uso e del possesso dell'altro, dove imparare a dare spazio al fiorire della relazione. Esci poi, non a portare l'inverno, ma un fiorire, se pur minimo, di primavera: la tenerezza che fa lago negli occhi del pastore.
Sentite se non sono un canto alla tenerezza dei rapporti queste parole: "Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo una cosa sola". Ricordiamolo: Gesù è, e rimane, il vero nostro pastore; e noi, tutti, siamo pecore, dal primo all'ultimo, nel senso più suggestivo dell'immagine, anche se nessuna pecora fotocopia dell'altra. E riconoscerlo cambia il mondo, cambia la chiesa, cambia il modo di vedere gli altri: in primo piano non è più l'interesse personale, o di un gruppo, o di una nazione, o di una chiesa, ma la coralità che sta nei pascoli del gregge, l'ascoltarsi e il conoscersi, la passione che nessuno vada perduto, perché è questo che si impara seguendo il pastore. Si impara ad avere la dimensione della grandezza di cuore, della grandezza della mente, della grandezza dell'anima. Ce lo sembra ricordare il nostro Duomo.
Un tempo - oggi la parola non la sento quasi più nell'aria - la chiamavano la "milanesità", "Milan col coeur in man". Sono arrivato a pensare che fosse anche per contagio del Duomo, e ad augurarmi che il contagio si riaccenda. Che non si perda nessuno. La passione per tutti.