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TESTO Non ci si sbarazza facilmente dell'altro...

don Alberto Brignoli   Amici di Pongo

XXVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (06/10/2024)

Vangelo: Mc 10,2-16 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mc 10,2-16

2Alcuni farisei si avvicinarono e, per metterlo alla prova, gli domandavano se è lecito a un marito ripudiare la propria moglie. 3Ma egli rispose loro: «Che cosa vi ha ordinato Mosè?». 4Dissero: «Mosè ha permesso di scrivere un atto di ripudio e di ripudiarla». 5Gesù disse loro: «Per la durezza del vostro cuore egli scrisse per voi questa norma. 6Ma dall’inizio della creazione li fece maschio e femmina; 7per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie 8e i due diventeranno una carne sola. Così non sono più due, ma una sola carne. 9Dunque l’uomo non divida quello che Dio ha congiunto». 10A casa, i discepoli lo interrogavano di nuovo su questo argomento. 11E disse loro: «Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio verso di lei; 12e se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio».

13Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono. 14Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. 15In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». 16E, prendendoli tra le braccia, li benediceva, imponendo le mani su di loro.

Un giorno, mi trovavo in gita con un gruppo di parrocchiani in una bellissima città del nordest d'Italia. Giunti di sera nella piazza principale, affacciata sul mare, circondata da maestosi palazzi, illuminata in maniera meravigliosamente romantica, mentre tutti contemplavamo la bellezza del posto, uno dei partecipanti disse: “Chissà che brutto, qui vicino al mare, quando soffia la bora!”. Oltre ad avervi svelato che sto parlando della meravigliosa Piazza Unità d'Italia di Trieste, mi premeva di far comprendere quanto fosse fuori luogo l'espressione poco poetica del soggetto... invece di contemplare la bellezza, la sua preoccupazione era quella di intravedere rischi e pericoli di trovarsi lì in determinati momenti.

Ho narrato questo episodio perché mi sembra qualcosa di simile a quanto abbiamo ascoltato nel brano di Vangelo di oggi: i farisei (come sempre, per mettere alla prova Gesù) invece di annunciare la grandezza, la bellezza e la bontà dell'amore nella vita di coppia, sono preoccupati di sapere cosa sia “lecito o non lecito fare” nel momento in cui il rapporto non funziona più. Tipico atteggiamento moralista, molto diffuso anche in buona parte del clero cristiano (l'ultimo autorizzato a parlare in maniera sensata di vita matrimoniale, tra l'altro...), preoccupato più di dire ciò che nel matrimonio “si deve o non si deve fare”, invece che di annunciare “la verità” sul matrimonio cristiano, ovvero di dire “ciò che è”, nella sua essenza, di dirne tutta la bellezza e la grandezza. Orientare i discorsi sul matrimonio solo verso la morale matrimoniale, quindi, non è solo riduttivo, ma è poco onesto e anche teologicamente scorretto. Non si può pensare di parlare correttamente di una realtà bella come l'amore tra l'uomo e una donna ponendo attenzione solamente alle possibili conseguenze che comporta la vita a due, dando quindi delle indicazioni morali su ciò che bisogna fare e non fare in simili situazioni.

Gesù nel Vangelo va al “cuore” del problema: non preoccupiamoci di “ciò che è giusto e ciò che è sbagliato fare” in una relazione d'amore tra un uomo e una donna, ma di viverla nella sua pienezza e di essere testimoni della sua bellezza e della sua grandezza proprio perché benedetta e voluta da Dio! La preoccupazione sulla “morale”, sul “è lecito o no”, nasce - come Gesù dice nel brano di oggi - dalla “durezza del cuore”, ovvero da quell'atteggiamento dell'uomo che gli fa perdere il senso più vero dell'amore perché non è più capace di amare, perché non è più capace di vivere l'amore in maniera “originale”, ossia come era alle origini. Con la loro domanda “moraleggiante”, i farisei - ma anche i discepoli, più tardi, in casa - tradiscono la loro incapacità di amare: sono preoccupati di trovare la forma “legalmente corretta” di interrompere un rapporto d'amore (tra l'altro, sempre a scapito della parte più debole, la donna) prima ancora di cercare di viverlo nella sua pienezza. E se vogliamo andare a vedere “come era agli inizi”, la prima lettura di Genesi ci fa vedere la bellezza dell'amore tra un uomo e una donna.

Innanzitutto, c'è la presa di coscienza da parte di Dio che “non è bene che l'uomo sia solo”. Ciò significa, al di là di come questo poi si declini nello stato di vita di ognuno di noi, che nessun uomo è un'isola. Nessuno può pensare di vivere la propria vita da solo, senza entrare in relazione con gli altri e con il mondo che lo circonda. Tant'è vero che uno dei grandi mali che l'uomo e la donna di ogni tempo vivono nella propria carne è esattamente la solitudine. Dio stesso è Trinità: nemmeno lui può restare solo... È poi interessante notare come nessuno degli esseri viventi creati da Dio a cui l'uomo “impone un nome” riesca a essere per lui “un aiuto che gli corrisponda”: forse proprio perché egli aveva la pretesa, imponendo loro il nome, di creare uno stato di dipendenza, di sottomissione, da cui possa scaturire un aiuto.

Ma amare non significa dominare; aiutarsi reciprocamente non può presupporre un atteggiamento di “schiavitù”, di sottomissione. Se l'amore non libera, e non crea uguaglianza, reciprocità, sostegno vicendevole, non può essere amore. I farisei, con il loro “atto di ripudio da firmare” per cacciare via la compagna della propria vita (come se fosse un dipendente da licenziare), hanno fallito tutto nella comprensione del senso dell'amore. L'uomo dell'Eden non capisce ancora il vero senso dell'amore, lo interpreta come “dominio”. Ha bisogno di capire, di ascoltare Dio. E allora, Dio lo zittisce, lo fa addormentare (nella Bibbia, il sonno è spesso il segno dell'entrare nel mistero di Dio), per aiutarlo a comprendere il senso vero dell'amore, ovvero che l'altro è “ossa delle mie ossa e carne della mia carne”, che l'altro è - in fondo - il tuo essere pienamente “te stesso”, che l'altro è la piena realizzazione di te, che non è qualcosa che ti appartiene come un oggetto, ma è qualcosa che fa parte di te come la tua stessa vita, e che ripudiarlo e rigettarlo è ripudiare e rigettare te stesso! Ecco perché (conclude Genesi) “l'uomo - e pari passo vale anche per la donna - lascerà suo padre e sua madre per unirsi alla sua donna e i due saranno una cosa sola”: perché andare in cerca dell'altro, di quell'altro che la vita ti fa incontrare, è andare a ricostituire quella parte di te che ti manca, che ti è stata tolta, che è “te stesso”, da sempre.

Questo ci aiuta a capire come le molte crisi e difficoltà che esistono nella vita di coppia, oggi più che mai, non sono causate da una dilagante immoralità o da una società che permette tutto. C'è anche questo, senz'altro: ma il problema è più a monte, ovvero nel fatto che oggi abbiamo smarrito il senso profondo e originario dell'amore. E questo smarrimento del senso dell'amore lo manifestiamo in tutti quegli atteggiamenti di superiorità, da “superuomo”, con i quali mettiamo su un piano di inferiorità coloro che culturalmente e fisicamente riteniamo deboli (le donne, ma anche i bambini, come abbiamo ascoltato nel Vangelo); lo manifestiamo ogni volta che confondiamo le prove della nostra maturità umana con atteggiamenti maschilisti, oppure con atteggiamenti (sia maschili che femminili) che esaltano ed esasperano la sensualità e lo sfacciato desiderio di “apparire” come unica “via”, unico “modo” per entrare nella vita dell'altro; lo manifestiamo ogni volta che riempiamo di relativismo tutto ciò che facciamo e che viviamo, e quindi anche le nostre relazioni d'amore (“viviamola finché va, e quando non va più, buttiamola al vento”), quando in realtà Dio ci ha insegnato a mettere semi di assoluto e di eterno in tutto ciò che facciamo e che viviamo, e quindi di non sbarazzarci con tanta facilità di ciò che lui ha faticato per rendere assoluto, e perciò vero.

Il tema di fondo della vita matrimoniale, quindi, non è da leggere in chiave moralista (“Sto con mia moglie, quindi sono buono - mi sono separato, quindi sono cattivo”, come se una situazione matrimoniale formalmente regolare bastasse a rendere già di per sé “buono” un matrimonio...fosse così semplice...). Il problema è: cos'è la mia relazione con l'altro? Di che spessore, di che qualità è? Amo veramente l'altro oppure “gli impongo il nome”, lo domino (e quindi sono falso)? Condivido con l'altro ciò che io vivo, oppure mi isolo da lui, pur continuando a vivere sotto lo stesso tetto? Nella mia relazione con l'altro, mi sento felice e faccio di tutto per farlo sentire felice, oppure l'altro è per me una comodità, un insieme di cose che fa per me “a buon prezzo”, del quale mi posso sbarazzare come e quando voglio?

Penso che da riflettere ce ne sia abbastanza per tutta la durata di una vita di coppia...

 

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