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TESTO Commento su Matteo 18,15-20

Missionari della Via   Missionari della Via - Veritas in Caritate

Mercoledì della XIX settimana del Tempo Ordinario (Anno II) (14/08/2024)

Vangelo: Mt 18,15-20 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Il Vangelo di oggi ci presenta un'opera di misericordia spirituale di fondamentale importanza, sia da ricevere che da fare: la correzione fraterna. Quest'atto d'amore è inserito nel contesto del “discorso ecclesiale”: Gesù sta dicendo che nella comunità, se ci si ama davvero, ci si aiuta a crescere. E se si vuol crescere, è fondamentale correggere e lasciarsi correggere. I passi che Gesù elenca (prima da solo, poi con due o tre, poi con la comunità) non vanno letti meccanicamente, schematicamente, ma indicano quell'amore ostinato che non si arrende al perdere il fratello o la sorella e fa di tutto per recuperarlo («guadagnare il fratello»). Tutto parte dal chiarire personalmente («vai tra te e lui solo»). Occorre qui un cuore toccato dalla grazia, un cuore nuovo; sappiamo bene quanto sia più facile dire l'errore a tutti tranne al diretto interessato. Non solo: occorrono tre caratteristiche molto importanti. La prima, a cui abbiamo già accennato, è voler bene al fratello o alla sorella e voler il suo bene. Il fine della correzione è il recupero della persona, non lo sbattergli in faccia la verità (ammesso che sia); si tratta di aiutarla a prendere consapevolezza del male commesso per il suo bene. Le altre due caratteristiche della correzione fraterna ce le consegna san Paolo e sono l'umiltà e il non giudicare le intenzioni. Anzitutto l'umiltà; rivolgendosi ai Galati, san Paolo scrive: «Fratelli, qualora uno venga sorpreso in qualche colpa, voi che avete lo Spirito (Santo) correggetelo con dolcezza. E vigila su te stesso, per non cadere anche tu in tentazione. (...) Se infatti uno pensa di essere qualcosa mentre non è nulla, inganna se stesso. Ciascuno invece esamini la propria condotta e allora solo in se stesso e non negli altri troverà motivo di vanto: ciascuno infatti porterà il proprio fardello» (6,1-5). L'apostolo delle genti ci ricorda di riprendere gli altri con dolcezza, facendo attenzione a non sentirmi meglio di loro, perché potrei fare lo stesso (se non di peggio) e, di certo, ne ho combinate tante anche io. Altrimenti rischierei di assumere modi altezzosi e acidi che non aiutano di certo...

Quindi, l'apostolo ci mette in guardia dai pregiudizi; rivolgendosi ai Corinzi, Paolo scrive: «Non vogliate giudicare nulla prima del tempo, finché venga il Signore. Egli metterà in luce i segreti delle tenebre e manifesterà i segreti dei cuori; allora ciascuno avrà la sua lode da Dio» (I Cor 4,5). Come a dire: prima di partire in quarta e giudicare, ascolta! Tante volte le cose non sono come pensiamo e spesso le nostre interpretazioni non corrispondono alle reali intenzioni degli altri. E, in ogni caso, il giudizio ultimo lascialo a Dio. Solo lui conosce ciascuno fino in fondo e sa ciò che ognuno porta dentro, quali battaglie vive, che storia ha vissuto... Che il Signore ci aiuti ad assumere e a crescere in queste disposizioni, e a saper accogliere e fare le giuste correzioni, preziosi strumenti d'amore per crescere e poter somigliare un po' di più al nostro Signore Gesù.

IL MARTIRIO DI S. MASSIMILIANO KOLBE

raccontato dall'uomo sopravvissuto grazie al sacrificio della sua vita

(Francesco Gajowniczek)

Verso la fine di luglio del 1941, nel lager nazista di Oswiecim - ribattezzato dai tedeschi Auschwitz - avvenne un fatto unico nella storia di quel campo di sterminio e a raccontarmelo, nel 1971, fu proprio uno dei due protagonisti. Era successo che un detenuto era riuscito a fuggire e secondo una disposizione vigente allora, dieci suoi colleghi vennero condannati a morire di fame in uno dei “block” in cui era suddiviso il lager.

Tra questi c'era anche un padre di famiglia, Francesco Gajowniczek, che quando sentì pronunciare il suo nome nella lista dei dieci si mise a piangere pensando a sua moglie e ai suoi due bambini che non avrebbe più rivisto. Ma fu salvato perché un frate francescano, padre Massimiliano Kolbe, si offrì di morire al suo posto e il suo sacrificio fu accettato.

Lui era arrivato ad Auschwitz l'8 novembre 1940, il santo frate vi sarebbe giunto il 28 maggio 1941. Non si conoscevano, ma Francesco, senza sapere chi fosse lo aveva visto vittima di una scena raccapricciante: «Una mattina», «stavo scavando il letame da una fossa per portarlo nei campi. Arrivò una guardia con un cane e domandò al prigioniero che riceveva il letame e lo buttava fuori perché ne caricasse così poco, e senza dargli il tempo di rispondere cominciò a bastonarlo e ad aizzargli contro il cane, che lo morse ripetutamente. Ma quell'uomo se ne stava calmo, senza lasciarsi sfuggire un lamento. In tedesco disse di essere un sacerdote, il che fece andare in bestia l'aguzzino che lo colpì ancor più duramente. Dopo la morte del frate, che fece notizia in tutto il lager, rievocando l'episodio con alcuni amici, venni a sapere che quel prigioniero era proprio Kolbe».

Verso il 28 o il 29 luglio, il francescano fu trasferito nel block 14 e dopo alcuni giorni avvenne il fatto decisivo: un prigioniero di quello stesso block era riuscito a fuggire e per rappresaglia tra i suoi compagni ne vennero scelti dieci, che furono condannati a morire di fame in un bunker sotterraneo. Fu una giornata terribile: per circa tre ore rimasero sull'attenti fino alle tre del pomeriggio, sotto un sole cocente, poi non fu data loro la cena e le loro razioni di cibo furono gettate. Il giorno dopo, visto che il fuggitivo non era stato rintracciato, durante l'appello serale il comandante scelse i dieci condannati, tra i quali Francesco Gajowniczek. Fu allora che padre Kolbe si offrì vittima al suo posto, meravigliando tutti, compresi i nazisti. Il 14 agosto, dopo due settimane, in quel bunker erano ancora vivi in quattro, ma il frate era l'unico in grado di parlare. Pochi minuti dopo furono tutti uccisi con una iniezione di fenolo.

«Devo essere sincero», mi disse Gajowniczek: «Per lungo tempo pensando a Massimiliano provai rimorso. Accettando di essere salvo, avevo firmato la sua condanna. Ma ora, a distanza di anni, mi sono convinto che un uomo come lui non avrebbe potuto agire diversamente. Nessuno l'aveva obbligato a farlo. Inoltre, lui era un prete¸ forse avrà pensato che la sua presenza a fianco dei condannati fosse necessaria per evitare loro il dramma della disperazione. Li ha assistiti fino all'ultimo».

http://www.famigliacristiana.it/articolo/quel-giorno-padre-kolbe--mi-salvo-la-vita.aspx

 

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