TESTO Commento su Pr 9,1-6; Sal 33; Ef 5,15-20; Gv 6,51-58
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XX Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (18/08/2024)
Vangelo: Pr 9,1-6; Sal 33; Ef 5,15-20; Gv 6,51-58
«51Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».
52Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: «Come può costui darci la sua carne da mangiare?». 53Gesù disse loro: «In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. 54Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 55Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 56Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. 57Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. 58Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno».
La sapienza (uno dei tanti nomi di Dio?) è la protagonista della prima lettura di questa ventesima domenica dell'anno ordinario: «A chi è privo di senno ella dice: «Venite, mangiate il mio pane, bevete il vino che io ho preparato. Abbandonate l'inesperienza e vivrete, andate diritti per la via dell'intelligenza». La sapienza è davvero l'aspirazione più alta, anche se apparentemente irraggiungibile, dell'umanità: un'aspirazione presente in tutte le grandi tradizioni spirituali che hanno attraversato e che attraversano le latitudini e le longitudini della nostra esperienza storica. Questa sapienza deve seguire le vie dell'intelligenza (del cervello e soprattutto del cuore) senza lasciarsi fuorviare da quella tendenza alla crisi di senso che sembra avere il suo culmine nella vita dei nostri giorni in cui la frenesia ha la meglio sull'uso assennato del tempo, sulla capacità di visioni aperte all'avvenire, soppiantate dal desiderio di avere tutto e subito. Abbandonare l'inesperienza di senso per recuperare il senso autentico della nostra esistenza terrena. Paolo, scrivendo ai cristiani di Efeso, ribadisce questo concetto applicandolo alla comunità cristiana: «Fate dunque molta attenzione al vostro modo di vivere, comportandovi non da stolti ma da saggi, facendo buon uso del tempo, perché i giorni sono cattivi. Non siate perciò sconsiderati, ma sappiate comprendere qual è la volontà del Signore (...) siate invece ricolmi dello Spirito, intrattenendovi fra voi con salmi, inni, canti ispirati, cantando e inneggiando al Signore con il vostro cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo». Nell'invito dei Proverbi a mangiare il pane e bere il vino aromatizzato, e in quello di Paolo che chiede alla sua comunità di cogliere con fantasia e con spirito profetico la volontà del Signore c'è la prefigurazione di ciò che Gesù affermava di se stesso: «Io sono il pane della vita». Un pane «per la vita del mondo». L'Eucaristia - Gesù, nel brano di Giovanni 6, la promette ai suoi amici - è la vita del mondo. Ma in quale senso?
Ancora una volta troviamo nel Vangelo una straordinaria analogia tra il matrimonio e l'Eucaristia. Come già per il matrimonio, Gesù non istituisce un rito, ma un sacramento, cioè un segno sensibile ed efficace della Grazia. Paolo, in 2 Cor dirà: (Ed egli mi ha detto) «Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza». Segno dunque per i deboli. Noi oggi viviamo spesso l'Eucaristia come un rito, rigido, talora escludente, che vorremmo riservato ai «degni», a coloro che si sentono buoni e quindi già giustificati. Ma l'Eucaristia o è per tutti o è un segno banalizzato e svuotato del suo significato più autentico. Considerare l'Eucaristia un segno significa collocarlo immediatamente in un contesto storico ed antropologico che, per sua stessa natura, è sempre in movimento e che ha a che fare con il nostro comportamento quotidiano; significa inserirlo nelle correnti tormentate del nostro tempo per farlo diventare, insieme con tutti i tempi della storia, un autentico «rendimento di grazie», questo significa appunto Eucaristia, al Signore che questa storia ha salvato, salva e salverà fino alla conclusione dei tempi.
C'era nelle famiglie patriarcali - e permane tuttora in alcune comunità religiose - un gesto sacro, quasi eucaristico. Quando ci si sedeva a tavola (il più delle volte una tavola molto povera) l'anziano della famiglia spezzava il pane per tutti i commensali. L'elemento base del pasto - il più povero ed il più comune, oggi disprezzato - veniva così messo a disposizione di tutti, in uno spirito di servizio, per un'alimentazione sobria ma al contempo gioiosa. Non c'erano sprechi, anche le briciole venivano raccolte; in questo colligite fragmenta di Giovanni 6,12 c'è un significato profondissimo che supera la raccolta delle briciole di pane per rappresentare la raccolta di ogni frammento di senso, ogni frammento di bontà, ogni frammento umano e di comunità, anche quello apparentemente più insignificante; il dialogo e una comunicazione semplice si instauravano tra gli abitanti della casa.
Gesù, il «primo» della comunità, spezza il pane ed esprime in tal modo la sua dedizione totale agli altri, invitando ognuno di noi a fare altrettanto. Gesù è il «pane del mondo», è cioè il progetto che serve a sanare il mondo, liberando gli esseri umani dagli idoli. Accogliere lo Spirito di Gesù, mangiare il suo pane è il simbolo che ci lega, un simbolo autenticamente eucaristico. Ci lega perché diventiamo alimento reciproco. Ricordo che da ragazzo ho provato un senso di rabbia e di impotenza vedendo un prete che, nel distribuire la comunione, saltava volutamente una persona in fila con gli altri (ho poi saputo che questa persona era dichiaratamente comunista); e un vescovo a saltare deliberatamente un giovane solo perché aveva osato chiedere il pane sulla mano (quando ancora non era «ammesso», ma già veniva fatto nel gruppo giovanile al quale questo giovane apparteneva). Paura dello scandalo? Oportet ut scandala eveniant... Che concezione avevano, quel prete e quel vescovo, dell'Eucaristia?
L'analogia con il matrimonio è, poi, di straordinaria evidenza. È molto bello pensare che gli sposi diventano «alimento» reciproco, che significa servizio e sostegno reciproco, condivisione di ogni emozione, di ogni sentimento, riconoscimento della fragilità di soggetti e di coppia e disponibilità a prendersi cura reciprocamente delle proprie fragilità, e al contempo disponibilità di lasciarci esistere reciprocamente come soggetti, di essere cioè quello che ognuno di noi è. Nel segno debole e fragile del pane - e del pane spezzato - vediamo, poi, che Dio stesso si fa fragile, assume la fragilità umana, si accompagna all'uomo e alla donna, alla coppia, nella loro fragilità.
Ma l'Eucaristia ci impegna anche a uscire da noi, coinvolgendoci nelle storie spesso dolorose degli altri, lavorando insieme con loro, offrendo loro umilmente il nostro servizio nella percezione della comune fragilità. Eliminando i conflitti, senza rimuovere le differenze che ci caratterizzano e che per la coppia e per la comunità diventano una risorsa. Facendo dunque della nostra vita un «alimento» per gli altri, «consegnandoci» agli altri. In questo modo facciamo Eucaristia nel (e del) quotidiano, diventando «vita del mondo», cioè «vita eterna». «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna», dice Gesù. Il verbo avere è al presente: «ha», e non al futuro «avrà». Perché Gesù non si limita a promettere: realizza. In un tempo in cui tutti promettono e non realizzano, quella di Gesù è davvero un'autentica rivoluzione. La rivoluzione dell'amore, non le fanfaronate dei politici di ambo i sessi.
Tutti, ma proprio tutti, sono chiamati a mangiare il pane e a bere il vino della vita, perché per tutti e non solo per i «buoni» e i «puri», è la vita. È soprattutto per i poveri, per gli affaticati e i delusi della vita. Per quelli che forse non hanno mai vissuto in dignità. Per quelli che non hanno mai sperimentato la gioia della comunione fraterna. «Il povero grida e il Signore lo ascolta - recita il salmo 33 - e lo libera da tutte le sue angosce... I poveri ascoltino e si rallegrino». La gioia che può penetrare in ognuno di noi, mangiando il pane insieme con i fratelli e bevendo, insieme con loro, il vino dell'allegria.
Se fossimo davvero capaci di comprendere questo movimento dell'essere durante la messa domenicale alla quale spesso partecipiamo un po' distrattamente, per abitudine, ancora immersi nelle attività che abbiamo appena lasciato - un po' come spesso facciamo (ecco un'altra analogia!) nella nostra vita matrimoniale, avremmo coscienza di compiere non un rito vuoto, ma il gesto più serio della nostra esistenza, l'esistere-per-gli altri, e usciremmo dalla chiesa (o dalla casa) in cui abbiamo celebrato l'Eucaristia con la consapevolezza di non aver tradito la speranza e l'invocazione di liberazione che sale dal mondo, da tutte le coppie e le famiglie, dalla nostra famiglia e dalla nostra stessa coppia.
Traccia per la revisione di vita
1) Come consideriamo l'Eucaristia alla quale partecipiamo: un rito, un gesto di devozione privata o il segno di una realtà che ci umanizza?
2) Che cosa facciamo per inserirla nelle correnti del quotidiano vissuto, nelle «strade» della nostra esistenza. nell'esperienza vitale del nostro rapporto di coppia?
3) Per noi l'Eucaristia è un dono o un compito?
4) Come «spezziamo il pane» insieme con tutti coloro con i quali condividiamo la fatica dell'esistere? Che cosa intendiamo concretamente quando diciamo tutti?
5) Siamo disponibili a richiamare la nostra comunità cristiana all'esigenza di celebrare Eucaristie che siano sempre più segno della nostra comunione di vita con gli altri?
Luigi Ghia - Direttore di “Famiglia Domani”