TESTO Spazio alla Vita!
don Alberto Brignoli Amici di Pongo
XIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (30/06/2024)
Vangelo: Mc 5,21-43
21Essendo Gesù passato di nuovo in barca all’altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. 22E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi 23e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». 24Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno.
25Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni 26e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, 27udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. 28Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». 29E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male.
30E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». 31I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». 32Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. 33E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. 34Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male».
35Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». 36Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». 37E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. 38Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. 39Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». 40E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. 41Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». 42E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. 43E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare.
La mentalità corrente nella nostra società basa tutto quanto sull'apparenza, sull'immagine. È sintomatico che il social più diffuso e più antico tra quelli in uso attualmente abbia un nome traducibile con “libro di facce”, e potremmo benissimo tradurlo con “libro di facciata”, perché ciò che conta è l'immagine, l'apparenza, ciò che si vede. E ciò che è visibile agli occhi dev'essere all'apparenza efficiente, bello, gradevole, perfetto, senza difetti di sorta.
“All'apparenza”, per l'appunto, e non “nella sostanza”: ciò che appare, ciò che si vede o si vuol far vedere agli altri di noi stessi deve essere “piacevole, gradevole e perfetto”. Ciò che invece si è realmente, ciò che si è “nella sostanza”, ossia quello che c'è dentro la persona, può anche essere pieno di magagne, di immoralità, di scorrettezze e di disonestà, ma questo poco conta, perché in apparenza nessuno lo vede e perché - ci si giustifica spesso così - “quello che uno fa o quello che è nel privato, è un problema suo”, l'importante è che non appaia pubblicamente. Quello che, invece, c'è nella sostanza e nel cuore di una persona non appare all'esterno, per cui non “influenza” l'opinione pubblica, non fa “marketing”. Essere efficienti significa “rendere” da un punto di vista economico: e tu puoi “rendere” solo se sei capace di vendere un'immagine di te che poco importa se non corrisponde alla realtà, l'importante è che appaia come bella, proficua ed efficiente.
Ma l'efficientismo, il culto dell'apparire perfetti, pieni di vitalità e di potenzialità elevate all'infinito, si scontra ed entra in profonda contraddizione con quella che è la realtà della vita umana. Il mito del “bello, perfetto ed efficiente” (antichissimo, se pensiamo ai “belli e buoni” dell'antica Grecia) va costantemente a sbattere la testa contro il muro della quotidianità, fatta di limiti, di imperfezioni, di sofferenze, di malattie e - in definitiva - di morte. Sofferenze, malattie e morte che fanno male, soprattutto quando debilitano per lungo tempo (come nel caso emblematico della donna del vangelo, affetta da dodici anni di emorragie, sia fisiche che economiche) o quando colpiscono l'uomo nel fior fiore della sua efficienza e della sua giovane età, come nel caso della figlia di Giairo.
E il muro del male e della morte, entrato nel mondo - secondo quanto dice il libro della Sapienza nella prima lettura - a causa della disobbedienza dell'uomo che voleva pretendere di essere come Dio, è qualcosa contro il quale ci sbattono tutti, chi in maniera più serena, chi in maniera più drammatica: gente comune e gente nota, Vip e semplici uomini della strada, ricchi e poveri, signorotti e poveri diavoli. Perché tutti siamo, allo stesso tempo, un po' sani e un po' malati. Sani da morire, ma malati di vita.
Grazie a Dio, c'è chi alla vita crede e continua e credere non perché lotta contro la morte e la malattia in un disperato tentativo di essere sempre “più sano e più bello”, e quindi più “appetibile” agli occhi del mondo, ma perché sa che l'uomo ha una dimensione più profonda e più sincera del puro apparire, che va ben oltre la malattia e la morte e che addirittura riesce a sconfiggerle. Non le elimina affatto, ma contro di loro continua a giocare alla partita della vita. E tra l'altro, vince sempre.
Perché sa che c'è un Dio che può ridare vita anche solo imponendo le mani; perché sa che c'è un Dio che semplicemente lascia che a toccare il suo mantello sia un'umanità che cerca e ottiene vita; perché sa che c'è un Dio che è sollecito nei confronti dell'uomo e va in cerca di lui anche quando la società vorrebbe schiacciarlo, metterlo ai margini, ridurlo a un numero qualsiasi all'interno della folla; perché sa che c'è un Dio che si ostina a credere nella vita anche quando “sarebbe meglio non disturbarlo più” perché non c'è più nulla da fare, anche quando tutti lo deridono e si prendono gioco di lui perché insiste a voler prendere per mano e far rialzare verso la vita chi apparentemente giace nell'ombra della morte.
Ma questo Dio, che è signore e amante della vita, esige dall'uomo fede in lui e nella vita, non vuole inutili perdite di tempo verso apparenti segni di efficienza e di bellezza. Questo Dio, come dice Isaia, “non ha bellezza né apparenza”, perché è “l'uomo dei dolori che ben conosce il patire”: ma è proprio da queste “sue piaghe” che “siamo stati guariti”.
Perché le sue piaghe, in fondo, sono pure le nostre. Ed è questo che ci dà la salvezza: la sua condivisione con il nostro dolore e la nostra morte.
E in forza della sua condivisione con il nostro dolore e i nostri quotidiani sacrifici, egli ci aiuta a capire che la vita vera non passa attraverso una frenetica ed esasperata processione ai centri di chirurgia estetica, alle palestre, ai centri fitness, o davanti alle telecamere del reality di turno, né attraverso selfie fatti assumendo le facce e le posizioni più ammiccanti possibili, pur di “apparire”.
La vita vera è quella che va alla ricerca di ciò che conta, alla ricerca del Maestro, a volte spingendo per farsi spazio tra la folla; è condividere come lui e insieme con lui le sofferenze umane; è riempirle di eternità, è ridare loro la speranza che spesso hanno perduto correndo dietro alla stupida moda dell'essere “visibile a ogni costo”.