TESTO Dare prati verdi e non erbe smunte
don Angelo Casati Sulla soglia
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IV domenica T. Pasqua (Anno B) (21/04/2024)
Vangelo: Gv 10,27-30
«27Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola».
Il brano di Giovanni che ora abbiamo letto è breve - quattro versetti - eppure ha il suono delle parole assolute. Quasi Gesù stesse sfidando qualcuno con questo timbro di voce così netto, inequivocabile. In effetti si tratta di una sfida, perché lui sta mettendo a confronto pastore e mercenari: uno cui importa delle pecore e altri che se ne servono, le sfruttano per i loro fini personali. Il gruppo dei capi Giudei ail'inizio sembrò non capire, ma poi, alle parole successive, fu loro chiaro che i mercenari, cui faceva allusione Gesù, erano loro. Tant'è, è scritto - versetto tralasciato -: "Di nuovo i Giudei raccolsero delle pietre per lapidarlo". Ebbene quella del pastore è una immagine che ci riguarda, in un duplice orizzonte: noi pecore in rapporto a Gesù, il grande pastore delle nostre anime; e noi, pastori tutti, in rapporto alle pecore affidate.
Ho detto "tutti": papa Francesco in questa giornata delle vocazioni ci dice che tutti abbiamo vocazione di pastore, in qualsiasi ambito operiamo. Lo siamo, e non solo nelle strutture ecclesiastiche, anche nella famiglia, nell'ambiente del lavoro, nella città, nell'economia, nella politica, nel destino della terra: mercenari o pastori? Purtroppo l'immagine del pastore è andata in parte impallidendo. Il termine è molto usato, inflazionato nella parlata ecclesiastica, ma il pericolo è che si riduca a gergo: si parla di pastori del popolo di Dio, di comunità pastorali, di consigli pastorali, di progetti pastorali, del bastone del vescovo che ha nome di "pastorale". E potremmo continuare; non senza alla fine chiederci se poi in tutto questo è rimasto qualcosa dell'anima del pastore. Ecco, l'anima del pastore!
E non sarà che dobbiamo ritornare a ricordare come vivevano, e come vivono oggi, i pastori, il loro modo di sentire nei confronti delle pecore, il loro condividerne i giorni e le notti. Nella concretezza. Se no, il rischio è che 'pastore', 'pastorale' siano parole e solo parole, planate accanto a realtà che non ne portano più il colore, appropriazione indebita. Essere pastori fa un clima. Quello che si respirava nella stanza al piano superiore, secondo il racconto degli Atti, a Troade. E' sera, si spezza il pane, e Paolo, che l'indomani sarebbe partito, non regge la piena del cuore, il conversare prende la notte. Ce la fanno a reggere gli adulti, ma un ragazzo, sopraffatto dal sonno, cade da presso una finestra al terzo piano. Paolo lo risolleva, e continua sino all'alba. Un po' sorrido all'effetto delle omelie lunghe: poteva permettersele Paolo, non io che non ho il dono di fare miracoli. Ma più del miracolo, per come sono fatto, mi affascina la tenerezza che si respirava in quella sala, illuminata da un buon numero di lampade nella notte. Pastore e gregge.
Gesù racconta di pastori e pecore per alludere a una relazione, che nasce da un vivere giorni e notti sotto lo stesso cielo, un vivere insieme, che è come essere di casa, una intimità, una familiarità, una confidenza, una conoscenza, come se il pastore, delle sue pecore, sentisse persino il bisbigliare dei sogni nella notte. Così la sua relazione: "Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono". La gente avvertiva con immediatezza la differenza tra il Rabbi di Nazaret e i loro capi: quella che passa tra l'essere guardati come persone che stanno a cuore ed essere guardati come estranei. Mi viene spontaneo pensare alla nostra relazione con Gesù pastore, a noi che ne ascoltiamo la voce, a noi che, al di là dei nostri tristi smarrimenti, rincorriamo, per acuto di nostalgia, le orme.
Un brivido di emozione ci prende al sentire l'assolutezza di queste parole: "Nessuno le strapperà dalla mia mano". La sua è una custodia assoluta. Nemmeno la morte ci strapperà. In qualche misura ci strapperà a qualcuno, che pure ci ama intensamente, ma dalle sue mani no. Non sarebbe prezioso di tanto intanto riandare con il cuore a momenti, situazioni della vita, che ci hanno dato prova di essere nelle sue mani, giorni in cui abbiamo toccato quasi con mano la sua custodia, tenera, assoluta? Ma parlando di Gesù come pastore, era come se ritornasse ad ogni passo la domanda: "E tu? E noi?". Mercenari o pastori? Ebbene la bellezza del mondo fiorisce quando ci facciamo pastori. La bruttezza del mondo avvampa quando ci facciamo mercenari. Evoco frammenti, allusi dal brano del vangelo, pochi; e lascio a voi l'arte di dilatare. Vivere sotto lo stesso cielo. E non come se fossimo in quali altri tempi, o in quali altre terre, qui e ora, nella terra e nelle stagioni delle pecore, nelle situazioni che vivono le persone che la vita ci fa incontrare. Consapevoli che è cambiato il mondo.
Avere a cuore una conoscenza reciproca. Il gregge non è una massa indistinta: il vangelo parla di chiamare per nome, parla di ascoltare la voce dell'altro - ci sono voci inascoltate - e non sovrapporre la nostra voce, un'abitudine purtroppo dilagante nei nostri giorni; conoscere: e non il preconcetto, il pregiudizio, non la classificazione, l'incasellamento. Accade quando pensiamo, parliamo, agiamo come se tutti fossero uguali, mentre non ce n'è uno uguale a un altro, non una situazione uguale a un'altra. Ignoriamo così la preziosità del silenzio, l'assenza delle parole per dare spazio agli sguardi. Dare vita. come fa Gesù, è dare entusiasmi e non lamenti, dare pensieri positivi e non pessimismi, dare coraggio e non sfiducia, dare respiro e non asfissia, dare sogni e non spegnere sogni, dare libertà e non chiudere in recinti, dare pace e non dare guerra. Condurre a pascoli e non a discariche, dare prati verdi e non erbe smunte. Essere pastori.
Non è un problema di titoli, è una questione di cuore.