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TESTO Commento su Lv 13,1-2.45-46; Sal 31; 1Cor 10,31-11,1; Mc 1,40-45

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VI Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (11/02/2024)

Vangelo: Lv 13,1-2.45-46; Sal 31; 1Cor 10,31-11,1; Mc 1,40-45 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mc 1,40-45

40Venne da lui un lebbroso, che lo supplicava in ginocchio e gli diceva: «Se vuoi, puoi purificarmi!». 41Ne ebbe compassione, tese la mano, lo toccò e gli disse: «Lo voglio, sii purificato!». 42E subito la lebbra scomparve da lui ed egli fu purificato. 43E, ammonendolo severamente, lo cacciò via subito 44e gli disse: «Guarda di non dire niente a nessuno; va’, invece, a mostrarti al sacerdote e offri per la tua purificazione quello che Mosè ha prescritto, come testimonianza per loro». 45Ma quello si allontanò e si mise a proclamare e a divulgare il fatto, tanto che Gesù non poteva più entrare pubblicamente in una città, ma rimaneva fuori, in luoghi deserti; e venivano a lui da ogni parte.

La lebbra
Nelle letture di questa settimana si accampa, terrificante, l'incubo di una malattia che, ancor oggi, anche solo sentendola nominare, incute paura: la lebbra.
Il Levitico ne dà una descrizione minuziosa. Ai primi sintomi occorreva presentarsi alle autorità religiose che ne certificavano l'esistenza. Chi ne era colpito veniva subito estromesso dalla comunità per evitare la contaminazione di altre persone, ma soprattutto perché era considerato religiosamente impuro; nel caso di guarigione erano sempre i sacerdoti ad attestare la sparizione dei sintomi della malattia. La lebbra era infatti considerata una maledizione divina, un castigo per il peccatore. In linguaggio moderno si direbbe che la lebbra non solo è una terribile malattia (presente ancora, purtroppo, in alcune regioni del nostro pianeta), ma un vero e proprio “stigma”, una condizione fisica che in qualche misura richiama una condizione morale, tale da determinare l'esclusione del soggetto che ne è portatore.
Avvicinare un lebbroso, per la legge mosaica, era vietato non tanto per una pur “saggia” prudenza di carattere medico, ma per ragioni religiose: in nome di un principio morale di non contaminazione, chi non rispettava queste norme era considerato irreligioso, “ateo” diremmo oggi, passibile dunque di condanna.

L'”ateo” Gesù
Con queste premesse si comprende il gesto irrituale, irreligioso, a suo modo “ateo” (per le norme del tempo) compiuto da Gesù. Un lebbroso gli si presenta dinanzi. Se Gesù avesse obbedito alla legge - che riguardava anche lui, ebreo: anch'egli ne era soggetto - avrebbe dovuto evitarlo, abbandonarlo al proprio destino, alla sua condizione di escluso, come aveva fatto la comunità in cui viveva. Era “normale”, “giusto”, addirittura doveroso. Nessuno avrebbe trovato alcunché da ridire.
Gesù non fa così. Si muove a compassione, addirittura - in una corretta traduzione dell'espressione - a qualcosa di più, qualcosa che ha molto a che vedere con la rabbia, con l'indignazione. Fa obiezione di coscienza alla legge. Ad una legge, per giunta, “religiosa”. Con il suo stile sobrio, direi giornalistico, Marco riferisce: «Stese la mano, lo toccò e disse “Lo voglio, guarisci”». Stese la mano! Non solo si lascia avvicinare, ma lo tocca. Si pone manifestamente contro la legge. Si pone nei confronti di una norma religiosa come un “ateo”. Si pone contro il “Sacro” che ci spoglia di ogni razionalità. E per questa ed altre sue professioni comportamentali di “ateismo” sarà poi mandato a morte. Scrive Ernesto Balducci: “... Il Sacro, costringendo la ragione al silenzio, ha tutte le risposte perché annulla tutte le domande. Se così è, la religione è funesta” (L'uomo planetario, Camunia, Brescia 1985, p. 27).

Oggi, la strumentalizzazione della religione
Forse oggi, nei nostri contesti abituali di vita (ma in altri è ancora così), non mandiamo più a morte chi non la pensa come noi, chi non appartiene alla nostra religione, o chi non appartiene ad alcuna religione ed anzi tutte le rifiuta, ma riusciamo a non indignarci per alcune operazioni per certi aspetti ancora più ambigue: chiamare Dio a garanzia delle nostre scelte, spesso dei nostri misfatti, come quando - per chi ha conservato una memoria storica - l'allora arcivescovo di New York benediceva i soldati che andavano a trucidare i vietnamiti e a bruciare con il napalm le loro risaie, unico sostentamento di quelle popolazioni. Per quell'uomo “religioso”, funzionario anzi di un culto sacro, Dio voleva quella guerra! Ma Dio può volere l'odio, la vendetta, il massacro? Gli esempi potrebbero ancora continuare, purtroppo, con chiaro riferimento anche a vicende più recenti. Occorre dire con forza che la salvezza dell'uomo non è nella religione così intesa, una religione nella quale il nome di Dio non unisce, ma divide. La salvezza dell'uomo è in una nuova coscienza etica che per ora, tuttavia, si intravede solo come orizzonte.

Il peccato

“Ti ho manifestato il mio peccato,
non ho tenuto nascosto il mio errore.
Ho detto: «Confesserò al Signore le mie colpe»
e tu hai rimesso la malizia del mio peccato...”.

Così recita il salmo 31 (32) presente nella Liturgia di questa sesta domenica per annum e questo porta a fare un cenno al problema del peccato, non tanto per l'accostamento che veniva fatto dai contemporanei di Gesù (e che in alcune società sacrali viene fatto ancora oggi) tra lebbra e peccato, quanto piuttosto per il fatto che, come la lebbra, il peccato assume oggi una dimensione sociale e non solo riduttivamente privatistica.
A essere sinceri, nella celebrazione dell'eucaristia domenicale non siamo molto aiutati a cogliere questo aspetto. Quando il celebrante, mostrando il pane ai fedeli, pronuncia la frase: “Ecco Colui che toglie i peccati del mondo...” induce in due errori di interpretazione significativi dal punto di vista teologico. Sentendo il termine “peccati”, il fedele lo collega immediatamente a quelle infedeltà quotidiane in cui ognuno di noi incorre: il malum in mundo, quelle colpe che dobbiamo “confessare” al Signore (come dice il salmo) affinché Lui, il Signore, ci colmi del suo perdono e della sua misericordia, perché possiamo riprenderci in un cammino di redenzione. Ma c'è un “peccato” irredimibile con le sole forze umane, il malum mundi, il male “del” mondo, il peccato cosmico, sociale, quel peccato che non è solo in riferimento a una norma, a una categoria morale, ma l'opposizione cosciente dell'essere umano al progetto di liberazione di Dio. Sono i grandi peccati sociali, le distruzioni di corpi umani, delle città che li contenevano; è stata la Shoah, è la distruzione fisica e psicologica degli oppositori degli immarcescibili regimi fascisti, il disprezzo della donna e del diverso...la produzione e la vendita di armi... Potremmo continuare. Questo peccato è stato assunto dal Cristo, è stato “preso su di sé” e quando il celebrante mostra il pane e il vino dovrebbe far rilevare questa azione salvifica del Cristo “nascosto” sotto quelle specie: “Ecco Colui che ha preso su di sé il peccato del mondo”. Il Cristo non “toglie” (imperfetta traduzione del verbo latino tollere), ma prende su di sé questo peccato, in questa misteriosa opera di redenzione. Mi è successo qualche volta, devo essere sincero, di sentire il celebrante eliminare il concetto del “togliere” per inserire quello del “prendere su di sé”, ma molto, molto raramente. Ma perché abbiamo paura di dirla forte, di cantarla questa bella notizia? Questo è evangelo. E sarebbe una splendida catechesi. Derubrichiamola questa eucaristia: rendiamo grazie a misura di comunità, non sfogliando ossessivamente il messale per trovare la preghiera giusta, mentre il popolo attende che il celebrante continui a sfogliare pagine su pagine...

E la famiglia?
Qualcuno, me ne rendo conto, potrebbe risultare infastidito da questa lettura del brano di Marco. Certo, sarebbe assai meno traumatizzante una lettura “buonista” dell'episodio. Guarda quanto è bravo Gesù... quanta misericordia nei suoi gesti... quanta commozione per uno che soffre... Una lettura magari compatibile se per misericordia intendiamo l'atteggiamento di un cuore umile e povero, ma - a mio giudizio - ancora parziale e non disgiungibile dall'altra. Occorre avere il coraggio di credere che la religione è per l'uomo, non viceversa. Tutto ciò che non tiene conto dell'uomo, delle sue esigenze, della sua centralità nel progetto di Dio è, appunto, funesto, e va rifiutato.
E, ancora, chi è infastidito da questa lettura potrebbe chiedere: “Ma tutto questo che cosa c'entra con la coppia e con la famiglia?”.
Io credo che c'entri. È in famiglia che si impara ad avere il coraggio di disobbedire a ciò che è ingiusto. Ricordo che ormai molti anni fa, in una famiglia, due ragazzi che avevano fatto la scelta dell'obiezione di coscienza, perché rifiutavano l'uso delle armi, anche di quelle “giocattolo”, quando ancora questa scelta era una scelta “scomoda” e controcorrente, scrivevano più o meno così: Noi non abbiamo avuto alcuna esitazione di fronte a questa opzione; l'abbiamo appresa in famiglia, per la quale essa era una scelta “normale”.
A me pare un messaggio importante, da proporre sobriamente, senza commenti di sorta, come cammino, a tutte le coppie e a tutte le famiglie.

Traccia per la revisione di vita
- Quando in coppia, in famiglia, nella comunità cristiana, nella società dobbiamo assumere una decisione difficile, ponendoci magari controcorrente, siamo disposti a lasciarci guidare dalla nostra coscienza, senza tener conto dei rischi, delle critiche, delle posizioni conformiste che troviamo accanto a noi?
- Sappiamo far risuonare in noi la Parola di Dio e lasciarci giudicare da essa nelle nostre scelte concrete e quotidiane?
- Che cosa significa per noi “obbedire”?

Luigi Ghia - FAMIGLIA DOMANI

 

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