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TESTO Perché mai pretendere?

don Alberto Brignoli   Amici di Pongo

XXVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (08/10/2023)

Vangelo: Mt 21,33-43 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: 33Ascoltate un’altra parabola: c’era un uomo che possedeva un terreno e vi piantò una vigna. La circondò con una siepe, vi scavò una buca per il torchio e costruì una torre. La diede in affitto a dei contadini e se ne andò lontano. 34Quando arrivò il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto. 35Ma i contadini presero i servi e uno lo bastonarono, un altro lo uccisero, un altro lo lapidarono. 36Mandò di nuovo altri servi, più numerosi dei primi, ma li trattarono allo stesso modo. 37Da ultimo mandò loro il proprio figlio dicendo: “Avranno rispetto per mio figlio!”. 38Ma i contadini, visto il figlio, dissero tra loro: “Costui è l’erede. Su, uccidiamolo e avremo noi la sua eredità!”. 39Lo presero, lo cacciarono fuori dalla vigna e lo uccisero. 40Quando verrà dunque il padrone della vigna, che cosa farà a quei contadini?». 41Gli risposero: «Quei malvagi, li farà morire miseramente e darà in affitto la vigna ad altri contadini, che gli consegneranno i frutti a suo tempo».

42E Gesù disse loro: «Non avete mai letto nelle Scritture:

La pietra che i costruttori hanno scartato

è diventata la pietra d’angolo;

questo è stato fatto dal Signore

ed è una meraviglia ai nostri occhi?

43Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti.

Siamo così giunti alla conclusione della cosiddetta “Trilogia della Vigna”, ovvero le tre parabole di Matteo lette di seguito, in queste ultime tre domeniche, aventi come tema quello della vigna, intesa come Regno di Dio nel quale ognuno di noi è chiamato a lavorare. La prima parabola (i vignaioli dell'ultima ora) ci metteva in guardia dall'atteggiamento della gelosia nei confronti di chi arriva alla fede in modalità e tempi diversi dai nostri; la seconda (quella dei due figli invitati a lavorare nella vigna) ci mostrava quanto sia sempre in agguato il pericolo dell'apparenza, del fare le cose solo apparentemente, a parole o per metterci in mostra, evitando il più possibile di compiere il nostro dovere, ovvero la volontà di Dio. E oggi, l'insegnamento di Gesù assume toni drammatici, anche perché riguardano la sua vicenda personale: è lui, il figlio del padrone della vigna mandato dal padre a raccoglierne i frutti, per restare poi ucciso dai vignaioli malvagi, come capitato in precedenza a tanti profeti o testimoni inviati a parlare al popolo d'Israele in nome di Dio. Tutto questo, a causa del peggiore degli atteggiamenti che possa verificarsi tra coloro che operano all'interno di quella vigna che è il Regno di Dio, ovvero la prepotenza di ritenersi non solo semplici servitori, bensì proprietari o padroni.

Se - come appare chiaro - questa parabola è riferita a noi, credenti di oggi, l'insegnamento che ne dobbiamo trarre è che siamo certamente costruttori del Regno di Dio, ma non ne siamo padroni; siamo operai della vigna del Signore, ma non ne siamo proprietari: e ciò che più dovrebbe aiutarci a riflettere e a farci comprendere questo è che nemmeno Colui che avrebbe tutto il diritto per dirsi Signore e Padrone del Regno - Gesù Cristo, appunto - si comporta come tale. Proprio la scorsa domenica, la lettera ai Filippesi che stiamo leggendo in maniera continuativa, ci presentava Gesù come colui che, spogliandosi della propria signoria, assunse la condizione di servo dell'uomo, operaio lui stesso di questa vigna di cui era padrone.

Se nemmeno Cristo arroga a sé il diritto - peraltro legittimo - di essere padrone di questa vigna che è il Regno di Dio, che pretese può avanzare l'uomo, in questo senso? Se il Figlio di Dio accetta la sfida di essere simile agli uomini al punto da correre il rischio di essere da loro disprezzato e rifiutato fino alla morte, che pretese abbiamo noi, semplici vignaioli con la testa da padroni, di sentirci superiori a lui tanto da eliminarlo dalla nostra vita con il semplice intento di impadronirci di un Regno che nostro non sarà mai?

Purtroppo, ancora oggi, la vita di fede per alcuni cristiani assume le caratteristiche di un privilegio per pochi, più che di un servizio in favore di tutti. A partire da noi uomini del clero, passando attraverso chi ha fatto la scelta della vita consacrata, fino al laico impegnato che svolge un incarico in una comunità, il rischio di sentirci “padroni” più che servi della vigna del Signore è sempre in agguato, e ci riguarda tutti.

Quante volte anche noi rischiamo di cadere in questo errore, pur senza arrivare a essere vignaioli omicidi! Quante volte ci sentiamo così gelosamente depositari delle verità di fede da disprezzare i nostri fratelli! Quante volte crediamo di essere bravi solo noi! Quante volte il nostro modo di vivere la fede si impone su quello degli altri al punto di ritenere gli altri “cristiani di poco conto”! Quante volte ci sentiamo talmente autosufficienti da non lasciare più spazio all'iniziativa di Dio, quasi eliminandolo dalla nostra esperienza di fede... Eppure, grazie a Dio, il Regno non si ferma, non crolla, non smette di produrre buoni frutti, nonostante le nostre meschinità.

Con questa parabola, Gesù non ci vuol condannare. Ci vuole mettere in guardia da atteggiamenti sbagliati che compromettono il nostro rapporto con lui, ma ci dà anche un segno di grande speranza. Quel “figlio ucciso fuori dalla vigna” (come era il Calvario fuori dalla città) e quella “pietra scartata e divenuta testata d'angolo” stanno a dirci che è sempre possibile ricostruire vita, anche dagli episodi negativi, se essi diventano per noi occasione di conversione, personale e comunitaria.

Leggendo questa parabola in chiave missionaria - come il mese di ottobre ci invita a fare - penso alla necessità, da parte di noi cristiani di antica tradizione, di spogliarci dei nostri atteggiamenti da “privilegiati” e da “depositari della fiaccola della fede”, per aprirci all'incontro con una fede cristiana che arriva da altre esperienze, a volte anche da altri paesi del mondo, ma certamente anche da cristiani “nostrani” che non hanno alle spalle tutta quella tradizione di vita parrocchiale ed ecclesiale che abbiamo noi.

Sempre più, oggi, la fede cristiana (o meglio, quel poco che resta di essa) germoglia da situazioni sociali e familiari che non sono più quelle tradizionali nelle quali è cresciuta la stragrande maggioranza di noi. Se una volta chi veniva da una famiglia cristiana veniva battezzato nei primi mesi di vita, poi faceva il suo itinerario di fede con la celebrazione dei sacramenti dell'iniziazione cristiana entro l'adolescenza, e poi si preparava a vivere la propria vita familiare all'interno della celebrazione sacramentale del matrimonio, oggi non è più così, neppure tra coloro che continuano a dirsi appartenenti alla religione cristiana, condividendone i valori. Ma questo non significa che la fede cristiana e i valori del Vangelo vadano perduti: la parabola, anzi, ci fa vedere chiaramente che la vigna del Signore non muore, a differenza di quanto Isaia sperimentò amaramente, descrivendolo nella prima lettura che abbiamo ascoltato. La realizzazione del Regno di Dio non dipende da noi, perché anche se il nostro atteggiamento ci porta a sentirci padroni e depositari della fede, il Regno di Dio ci può “venir tolto e dato ad altri contadini che consegneranno a lui i frutti a suo tempo”, come è stato al tempo della Chiesa degli Apostoli nei confronti del popolo d'Israele!

Perché allora entrare in conflitto, invece di creare comunione con chi condivide con noi la stessa fede, sia pur in modo diverso dal nostro? Perché litigare, discutere, creare contrapposizioni ed escludere da una comunità di fede chi crede in maniera diversa da noi? Papa Francesco ce lo ha ricordato bene nei giorni scorsi, in occasione dell'apertura della fase finale del Sinodo: la Chiesa, la comunità dei credenti, non può essere un luogo di ideologie polarizzate e contrapposte tra conservatori e progressisti, ma un luogo di grazia, di comunione e di dialogo.

Allora, forse, riusciremo a ribaltare il giudizio di Dio sulla storia espresso dal profeta Isaia quest'oggi: non più spargimento di sangue e grida di oppressi, ma frutti di rettitudine e di giustizia.

 

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