TESTO Commento su Ger 20,7-9; Sal 62; Rm 12,1-2; Mt 16,21-27
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XXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (17/09/2023)
Vangelo: er 20,7-9; Sal 62; Rm 12,1-2; Mt 16,21-27
In quel tempo, 21Pietro si avvicinò a Gesù e gli disse: «Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». 22E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette.
23Per questo, il regno dei cieli è simile a un re che volle regolare i conti con i suoi servi. 24Aveva cominciato a regolare i conti, quando gli fu presentato un tale che gli doveva diecimila talenti. 25Poiché costui non era in grado di restituire, il padrone ordinò che fosse venduto lui con la moglie, i figli e quanto possedeva, e così saldasse il debito. 26Allora il servo, prostrato a terra, lo supplicava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò ogni cosa”. 27Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.
28Appena uscito, quel servo trovò uno dei suoi compagni, che gli doveva cento denari. Lo prese per il collo e lo soffocava, dicendo: “Restituisci quello che devi!”. 29Il suo compagno, prostrato a terra, lo pregava dicendo: “Abbi pazienza con me e ti restituirò”. 30Ma egli non volle, andò e lo fece gettare in prigione, fino a che non avesse pagato il debito.
31Visto quello che accadeva, i suoi compagni furono molto dispiaciuti e andarono a riferire al loro padrone tutto l’accaduto. 32Allora il padrone fece chiamare quell’uomo e gli disse: “Servo malvagio, io ti ho condonato tutto quel debito perché tu mi hai pregato. 33Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?”. 34Sdegnato, il padrone lo diede in mano agli aguzzini, finché non avesse restituito tutto il dovuto. 35Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello».
“Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette? E Gesù gli rispose: Non ti dico fino a sette, ma fin a settanta volte sette.”
Cristo non ne fa una questione di quantità, una questione di misura, ma una questione che non ha questione di limiti, anzi il limite è il perdonare senza limite di quantità e senza limiti di qualità.
Nel pensiero di Cristo, il perdono non deriva da motivi sociali, etici, propri del mondo, ma congiunge il perdono dell'uomo al perdono di Dio.
La base di perdono è la conoscenza di essere peccatori. Se non arriviamo ad amare i nostri nemici, ha detto Cristo, non saremo superiori agli etnici e ai repubblicani.
Quando si perdona non cambia il passato, si cambia il futuro.
Se fosse sopravvissuta al tifo, alla fame, al freddo e alle vessazioni del campo di concentramento di Bergen-Belsen, anche Anna Frank si sarebbe certamente sentita chiedere, prima o poi, se avesse perdonato i suoi aguzzini. Con la parola «perdono» si costruiscono sempre titoli d'effetto sui giornali, film strappalacrime, espressioni linguistiche memorabili, ecc..
“Non c'è giustizia senza perdono” raccomanda, è vero, la Chiesa, ma l'imperdonabile esiste, è esistito, continuerà a ripresentarsi nelle pieghe delle vicende terrestri. Non assolvere non implica passare alla vendetta o alimentare le ostilità.
La Storia deve insegnare, formare, comprendere e aiutare a comprendere, anche per evitare che certe apocalissi si ripetano, che certe pulsioni o teorie mostruose possano contagiare nuovamente la società umana, non più protetta dagli anticorpi della consapevolezza e del ricordo.
“Io perdono, ma non dimentico.” Questa è la chiave di lettura per il nostro perdono umano a tempo, la nostra “misura” del sette volte per settanta.
E ancora più raffinato è il concetto “Io non perdono e non dimentico, ma non odio” ripetuto da Liliana Segre, una degli ultimi testimoni viventi della Shoah, formulando la risposta perfetta da tramandare ai posteri. Né odio né rappresaglia, ma neppure oblio e indulgenza, perché rischiano di tradursi in una pericolosa sottovalutazione dei fatti accaduti.
E, anche se ciò non avvenisse, il livello di attenzione si abbasserebbe, non coglierebbe le angosciose analogie con avvenimenti nuovi, e in apparenza diversi, ma che sono in realtà generati dalle stesse malattie - forse, purtroppo, congenite - della specie umana: il razzismo, l‘intolleranza, il sadismo, nonché le loro infide patologie collaterali: l'indifferenza, i pregiudizi, l'avidità, il fanatismo. Sarebbe un sollievo per la coscienza del genere umano rimuovere i sensi di colpa per molte infamie, in particolare quelle recenti o contemporanee.
I grandi cataclismi del secolo scorso, quel «secolo breve» ricordato come «il più violento dell'umanità» dallo scrittore William Golding, si limiterebbero a essere racconti, straordinari racconti con i protagonisti debitamente suddivisi fra «buoni» e «cattivi». Innocenti e colpevoli. Vittime e carnefici. Ognuno al suo posto. Ognuno facilmente riconoscibile, sotto la sua lapide di marmo o sul banco degli imputati.
Troppo facile, non ci stanno molti studiosi, come Walter Barberis, autore di Storia senza perdono che sceglie una frase di Primo Levi, «la memoria è uno strumento meraviglioso, ma fallace», per introdurre il lettore alle sue novanta pagine sul ruolo, i limiti e l'indispensabilità delle testimonianze dirette dell'Olocausto, quelle dei superstiti e di chi, senza patirne le conseguenze, ne fu spettatore, ma tutto ciò non resisterebbe alla prova del tempo, aggiunge, se gli storici non si prendessero la responsabilità di trasformarlo in una lezione permanente, al netto dei ricordi personali, e che possa perpetuarsi quando chi ha visto o patito quelle atrocità non ci sarà più.
Chiaro che il perdono non può essere racchiuso dentro regole e schemi, non può pretendere condizioni e requisiti, ma è la concretezza di un amore che non vuole essere solo una parola o un vago sentimento: un amore che non arriva al perdono non è vero amore; il perdono suppone il male, ma non accetta che esso abbia l'ultima parola.
E allora quando noi possiamo dire di aver perdonato o percepito di aver perdonato?
Molte volte temiamo che il perdono venga interpretato come ammissione di un nostro errore, che dia conseguenze sbagliate, come accondiscendenza al male e all'ingiustizia.
Il perdono è dono e mistero: è dono ricevuto dall'alto che a nostra volta facciamo all'altro, ma per noi esseri umani è sempre una condivisione della nostra fragilità umana, poiché tutte le relazioni hanno bisogno di giustizia e di perdono, c'è sempre un donare e ricevere perché nessuno è mai totalmente innocente.
Eppure non è nemmeno perdono quello che fa fatica a dimenticare, è semplicemente il perdono di cui non siamo capaci, di attendere, di aspettare, di essere alleati anche non sappiamo perdonare.
Il perdono è connesso alla fedeltà “all'alleanza” con Dio l'Eterno: “Plenitudo legis est dilectio”, che si esprime nel “Pater noster”, nel Discorso della montagna, nel Vangelo delle beatitudini...”Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette.”
DOMANDA
- Come singolo, come coppia, come famiglia, come comunità, quale è il mio settanta volte sette come perdono? Il mio perdono umano è un piccolo gesto o una piccola parola poiché di fatto il muro che ci separa dall'altro è ancora alto, e dentro di me continua la fatica e la rabbia?
Claudio Righi