TESTO Commento su Giovanni 13,1-15
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Giovedì Santo (Messa in Cena Domini) (06/04/2023)
Vangelo: Gv 13,1-15
1Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine. 2Durante la cena, quando il diavolo aveva già messo in cuore a Giuda, figlio di Simone Iscariota, di tradirlo, 3Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, 4si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. 5Poi versò dell’acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l’asciugamano di cui si era cinto. 6Venne dunque da Simon Pietro e questi gli disse: «Signore, tu lavi i piedi a me?». 7Rispose Gesù: «Quello che io faccio, tu ora non lo capisci; lo capirai dopo». 8Gli disse Pietro: «Tu non mi laverai i piedi in eterno!». Gli rispose Gesù: «Se non ti laverò, non avrai parte con me». 9Gli disse Simon Pietro: «Signore, non solo i miei piedi, ma anche le mani e il capo!». 10Soggiunse Gesù: «Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro; e voi siete puri, ma non tutti». 11Sapeva infatti chi lo tradiva; per questo disse: «Non tutti siete puri».
12Quando ebbe lavato loro i piedi, riprese le sue vesti, sedette di nuovo e disse loro: «Capite quello che ho fatto per voi? 13Voi mi chiamate il Maestro e il Signore, e dite bene, perché lo sono. 14Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. 15Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi».
COMMENTO ALLE LETTURE
Commento a cura di Francesco Botta
Con questo giovedì santo entriamo nella ricchezza del triduo pasquale, una sorgente inesauribile di grazia. Siamo nella settimana più intensa dell'anno liturgico e abbiamo bisogno di ricevere il nutrimento necessario. La liturgia ci fa sedere in una tavola piena di alimenti. Le letture della Messa in Coena Domini vanno lette tenendo presente dell'atmosfera descritta dai testi biblici proposti: l'atmosfera è l'intimità. Nella prima lettura si fa riferimento alla celebrazione della pasqua ebraica, in cui si invitano le famiglie a riunirsi. C'è bisogno di intimità per fare esperienza di Dio. Gesù lo sa bene e prepara l'atmosfera per vivere con i suoi discepoli il momento cruciale. Si trovano nella stanza al piano superiore, una sala tutta per loro: Gesù e i discepoli. Un momento per loro, per noi. C'è bisogno di entrare in quel cenacolo, fuori dai rumori. C'è bisogno di sedersi a quella tavola, guardarsi negli occhi, posare il capo sul petto del Maestro. L'ultima cena è un trionfo di affettività, con tutto il dramma dell'amore. Anche noi, nella meditazione della Parola di Dio e nella liturgia, vogliamo entrare in questa sala e sedere a questa tavola. Per vivere meglio questa cena, scegliamo tre parole.
La prima parola è “intensità”. Leggiamo all'inizio del vangelo: ‹‹Gesù avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine›› (Gv 13,1). In un versetto è sintetizzato lo stile di Dio: amare fino alla fine. L'evangelista Giovanni, con questa espressione, non vuole evidenziare solamente l'aspetto temporale; vuole esprimere l'intensità dell'amore di Gesù. Amare fino alla fine nel senso dell'intensità: amare fino in fondo. Quante volte ci sfugge questo amore di Dio per noi! Quante volte anche noi rimaniamo sulla superficie! Quante volte non vogliamo comprometterci! Nell'ultima cena Gesù compie ciò che ha anticipato nel corso di tutta la sua esistenza. A quella cena sicuramente sarà arrivato carico di tutte le esperienze che ha vissuto con i discepoli. Si tratta di un'intensità inserita in una storia. Quella cena non è un evento a sé, ma è il compimento di una storia. Quella cena diventerà il cuore di tutta l'esperienza cristiana. Non a caso l'eucarestia per noi è entrare in quell'ora. Lasciamoci raggiungere da questa intensità; è l'unico modo per poter amare a nostra volta. Solamente l'amore di Dio ci permette, come afferma Paolo nella seconda lettura, di trasmettere quello che abbiamo ricevuto.
La seconda parola è “totalità”. ‹‹Gesù, sapendo che il Padre gli aveva dato tutto nelle mani e che era venuto da Dio e a Dio ritornava, si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita›› (Gv 13,3-4). Il tutto vuole tutto. Gesù sa di aver ricevuto tutto dal Padre e vuole coinvolgerci in questa totalità. E come? Deponendo le vesti e cingendo un grembiule. Non possiamo tenere per noi questo tutto. È come il sangue nelle vene: deve circolare. Per farlo è necessario deporre le vesti. La spoliazione, segno di intimità, è orientata a donare questa totalità. Questo fa paura, infatti Pietro dubita, ma è necessario! È con estrema delicatezza che Giovanni descrive la gestualità di Gesù. L'evangelista non si è lasciato sfuggire nulla. I particolari per lui sono importanti. La totalità è fatta di tanti piccoli dettagli. Quanto sarà importante questa esperienza per tutti i discepoli! All'inizio non capiscono, come non capiamo noi. Sarebbe bellissimo vivere ogni eucarestia con questa consapevolezza.
La terza parola è “vulnerabilità”. Qui entra in gioco un ulteriore elemento: la povertà di coloro che siedono a tavola con Gesù. Non ci sono maschere, è un momento di verità. Quella vulnerabilità è scelta da Dio come punto di forza: la forza dell'amore. Fa togliere i sandali ai discepoli e lava loro i piedi. Li lascia scalzi, dopo aver tanto camminato. Quei piedi stanchi indicano la vulnerabilità. Quanta fatica facciamo a chiedere aiuto! ‹‹Signore, tu lavi i piedi a me?›› (Gv 13,6). Immaginiamoci Gesù mettersi il grembiule, inginocchiarsi, lavare con cura i piedi, guardare negli occhi i discepoli, rialzarsi, proseguire. In questo brano è raccontato l'amore di Dio. Solo dopo tempo i discepoli prenderanno coscienza di questa esperienza. Sì, perché l'esperienza si cristallizza in noi dopo averla vissuta. La nostra fragilità ci permette di toccare con mano che solo Dio può farci sperimentare quella pienezza di vita. Rimaniamo un po' in questo cenacolo e quando usciremo di là, non dimentichiamo di tornarci.