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TESTO Impariamo a dire grazie, e non solo a chiedere!

don Alberto Brignoli   Amici di Pongo

XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (09/10/2022)

Vangelo: Lc 17,11-19 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 17,11-19

11Lungo il cammino verso Gerusalemme, Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. 12Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi, che si fermarono a distanza 13e dissero ad alta voce: «Gesù, maestro, abbi pietà di noi!». 14Appena li vide, Gesù disse loro: «Andate a presentarvi ai sacerdoti». E mentre essi andavano, furono purificati. 15Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, 16e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano. 17Ma Gesù osservò: «Non ne sono stati purificati dieci? E gli altri nove dove sono? 18Non si è trovato nessuno che tornasse indietro a rendere gloria a Dio, all’infuori di questo straniero?». 19E gli disse: «Àlzati e va’; la tua fede ti ha salvato!».

La lebbra è una malattia conosciuta da migliaia di anni; una malattia così contagiosa da mietere, nel corso dei secoli, moltissime vite umane. Sostenere che oggi la lebbra è stata quasi completamente debellata, non corrisponde a verità: ogni anno, circa 200.000 persone nel mondo si infettano con questo batterio, soprattutto in Africa e in Asia. E lo scorso anno, due casi sono stati riscontrati anche in Italia, fortunatamente trattati in maniera adeguata e curati. Dove non ci si può curare, invece, la lebbra uccide ancora, e spesso in modo doloroso e molto lento, a volte addirittura 30 anni dopo essere stati contagiati. È una malattia terribile che comincia a svilupparsi sulla pelle, per poi penetrare velocemente nei tessuti interni, indebolendo gradualmente l'organismo di chi ne è colpito, fino alla totale invalidità. Per non parlare dell'aspetto esterno della persona affetta da lebbra, letteralmente orrenda da vedersi, totalmente sfigurata nei suoi tratti somatici.

All'epoca di Gesù, e più in generale secondo la mentalità ebraica, c'erano quattro categorie di persone che venivano considerate “morti viventi”, condannate a una morte eterna: il povero, il cieco, colui che era senza figli e, appunto, il lebbroso. Per loro, non c'era, alcuna speranza di redenzione fino al giorno della loro morte. La normativa biblica descritta al capitolo 13 del Libro del Levitico prescriveva che ci veniva colpito dalla lebbra (e la malattia veniva certificata per scritto dai sacerdoti, proprio perché una malattia ritenuta legata alla sfera spirituale) doveva abbandonare immediatamente la sua casa, la sua famiglia e i suoi amici; non gli era più permesso nemmeno di continuare a svolgere il proprio lavoro. Ai lebbrosi era proibito vivere nei centri abitati: erano costretti a vivere assieme ad altri lebbrosi, formando piccole colonie che sostavano al di fuori delle città o dei villaggi. Se, in modo casuale, erano avvicinate da persone sane che pietosamente portavano loro qualcosa di cui vivere, dovevano lanciare un grido di avvertimento, per evitare qualunque genere di contatto con gli altri. Tutto questo, fino alla loro eventuale e completa guarigione: se questo avveniva, il lebbroso doveva andare a presentarsi ai sacerdoti, i soli che potevano dichiarare per scritto, con un certificato, l'avvenuta guarigione riammettendo il lebbroso nella comunità.

Nel linguaggio biblico di allora, con il termine “lebbra” si indicavano, in verità, diverse malattie della pelle, non necessariamente contagiose o mortali: tuttavia, il fatto che la malattia si manifestasse sulla pelle, ovvero la parte più esterna del corpo, era ritenuto un segno del peccato, ovvero del male interiore che invadeva la vita della persona malata e che si esteriorizzava, si rendeva noto a tutti attraverso la cute. Se, in generale, tutte le malattie erano ritenute un castigo di Dio, la lebbra in particolare veniva ritenuta come il simbolo del peccato per eccellenza. Essere lebbrosi ed essere peccatori era, praticamente, la stessa cosa: come un lebbroso era evitato accuratamente da tutti, così il peccatore doveva essere evitato dalle persone che volevano rimanere sane nel corpo e nell'anima. A motivo di tutto ciò, quindi, i lebbrosi si sentivano rifiutati dagli uomini e da Dio.

Capite bene come, in questo contesto, i dieci lebbrosi che supplicano Gesù di avere pietà di loro, fossero ardentemente desiderosi di ricevere da lui un gesto di compassione. Non gli chiedono esplicitamente di essere guariti: gli chiedono un po' di pietà, forse anche solo un po' di cibo. E questa loro richiesta viene esaudita nel migliore dei modi possibili, con la guarigione (o purificazione, per dirla in termini “tecnici”, rituali). Tra l'altro, Gesù si dimostra profondamente rispettoso della sua religione giudaica e di tutto ciò che il rituale di purificazione comporta: li tiene a distanza, non li tocca come invece avviene nella guarigione del lebbroso narrata da Marco (questo per evitare che qualcuno - discepoli compresi - potesse rimanere scandalizzato da lui che stava per entrare in Gerusalemme... non sia mai che vi entrasse impuro!), e solamente dice loro di andare dai sacerdoti, gli unici che potevano dare loro il certificato di guarigione. E mentre vanno, si accorgono che la pietà di Gesù nei loro confronti è andata ben oltre ogni aspettativa: sono rimasti purificati. La cosa che più speravano nella loro vita l'avevano ottenuta: e corrono dai sacerdoti, pensando unicamente al certificato che li avrebbe restituiti alla società, alla famiglia, e alla vita. E tutti si dimenticano di dare gloria a Dio, o anche solo di ringraziare chi ha fatto loro questa grazia.

Tutti, tranne uno: uno che torna a dire grazie a chi lo ha salvato, uno che forse ha capito che, prima di dimostrarsi un buon ebreo andando dai sacerdoti a ritirare il certificato, deve dimostrarsi un buon credente rendendo grazie e gloria a Dio per quanto ricevuto. E notare che questo “buon credente” era... il meno credente dei dieci: era un samaritano, uno straniero, uno che apparteneva a un'altra fede, uno che nonostante professasse un altro culto aveva umilmente accettato l'autorità dei sacerdoti come l'unica che poteva ridare a lui un ruolo nella società.

Ma prima del certificato veniva il “grazie”; prima del sacerdote veniva Dio; prima del dovere veniva la gratitudine. E sì: perché non è proprio sempre tutto un “dovere”; non tutto è sempre “dovuto”; non tutto va da noi “preteso” come se fosse un diritto. Soprattutto nei confronti di Dio. Perché se è vero - come è vero, e Gesù ce lo ha dimostrato - che una malattia non è un castigo inviato da lui per colpa dei nostri peccati, è altrettanto vero che una guarigione o una grazia ottenuta è merito non solo di chi ci ha curati con competenza, ma anche di un Dio che ha avuto misericordia di noi. E allora, come siamo giustamente pronti a invocarlo nel momento della prova, questo benedetto Iddio dobbiamo essere pronti anche a lodarlo e ringraziarlo nel momento in cui ci manifesta la sua misericordia.

E impariamo a essere riconoscenti anche verso tanti fratelli e sorelle che, spesso nel silenzio, ci fanno del bene e ai quali non siamo capaci nemmeno di dire un semplice “grazie”! Perché è vero che nessuno di noi deve operare per sentirsi dire “grazie” dagli altri: ma dirlo a chi ci fa del bene non è solo un piacere per chi lo ascolta, è un dover morale per chi lo dice.

A forza di doni ricevuti gratuitamente da Dio e dagli altri senza un minimo sentimento di riconoscenza, la terra diventa sterile e l'umanità gretta e meschina: perché, come dicevano gli antichi romani, “non c'è cosa più triste sulla terra dell'uomo ingrato”.

 

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