TESTO L'ossimoro della salvezza
don Alberto Brignoli Amici di Pongo
XXIV Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (11/09/2022)
Vangelo: Lc 15,1-32
In quel tempo, 1si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3Ed egli disse loro questa parabola:
4«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? 5Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. 7Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
8Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? 9E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. 10Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
11Disse ancora: «Un uomo aveva due figli. 12Il più giovane dei due disse al padre: “Padre, dammi la parte di patrimonio che mi spetta”. Ed egli divise tra loro le sue sostanze. 13Pochi giorni dopo, il figlio più giovane, raccolte tutte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò il suo patrimonio vivendo in modo dissoluto. 14Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. 15Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. 16Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. 17Allora ritornò in sé e disse: “Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! 18Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; 19non sono più degno di essere chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati”. 20Si alzò e tornò da suo padre.
Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò. 21Il figlio gli disse: “Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di essere chiamato tuo figlio”. 22Ma il padre disse ai servi: “Presto, portate qui il vestito più bello e fateglielo indossare, mettetegli l’anello al dito e i sandali ai piedi. 23Prendete il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa, 24perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”. E cominciarono a far festa.
25Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze; 26chiamò uno dei servi e gli domandò che cosa fosse tutto questo. 27Quello gli rispose: “Tuo fratello è qui e tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo”. 28Egli si indignò, e non voleva entrare. Suo padre allora uscì a supplicarlo. 29Ma egli rispose a suo padre: “Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando, e tu non mi hai mai dato un capretto per far festa con i miei amici. 30Ma ora che è tornato questo tuo figlio, il quale ha divorato le tue sostanze con le prostitute, per lui hai ammazzato il vitello grasso”. 31Gli rispose il padre: “Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo; 32ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato”».
Forma breve (Lc 15, 1-10):
In quel tempo, 1si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo. 2I farisei e gli scribi mormoravano dicendo: «Costui accoglie i peccatori e mangia con loro». 3Ed egli disse loro questa parabola:
4«Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella perduta, finché non la trova? 5Quando l’ha trovata, pieno di gioia se la carica sulle spalle, 6va a casa, chiama gli amici e i vicini, e dice loro: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora, quella che si era perduta”. 7Io vi dico: così vi sarà gioia nel cielo per un solo peccatore che si converte, più che per novantanove giusti i quali non hanno bisogno di conversione.
8Oppure, quale donna, se ha dieci monete e ne perde una, non accende la lampada e spazza la casa e cerca accuratamente finché non la trova? 9E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, e dice: “Rallegratevi con me, perché ho trovato la moneta che avevo perduto”. 10Così, io vi dico, vi è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Tutti quanti. Nessuno escluso. E se su cento che erano, ne fosse mancato uno, stiamo pur certi che sarebbe andato a cercarlo. Perché tutti, ma davvero tutti, erano oggetto delle sue cure e delle sue predilezioni. Come un pastore che va in cerca dell'unica pecora perduta affinché tutte stiano al sicuro nell'ovile prima che venga la notte; come una donna che pulisce accuratamente la propria casa finché salti fuori l'unica moneta perduta, e tutti i soldi del budget siano al sicuro prima della fine del mese. Così, Gesù andava in cerca di pubblicani e peccatori perché tutti (davvero “tutti”, e Luca lo dice in maniera esplicita e puntuale, per niente generica) potessero ascoltare da lui una parola che fosse di speranza, e non di disprezzo, di insulto o di ingiuria come erano abituati a sentirsi dire.
Da chi? Beh, da “tutti gli altri”, cioè da quelli che evidentemente non si sentivano peccatori. Da chi non vedeva di buon occhio non solo quelli che peccavano, ma anche quel Maestro che invece di biasimare, di giudicare e di condannare i peccatori e i pubblicani - come un vero profeta avrebbe dovuto fare - li accoglieva tutti. Con un particolare non indifferente, da parte di questi benpensanti: che invece di dire in maniera aperta quello che pensavano, lo “mormoravano”, lo bisbigliavano, se lo dicevano l'un l'altro all'orecchio, per non farsi sentire, riuscendo comunque a far male. Atteggiamento mai venuto meno, quello del “mormorio”, tipico dei farisei e degli scribi di oggi, gente non riconducibile, come era al tempo di Gesù, a una ben precisa categoria, ma che con i farisei e gli scribi di allora hanno una cosa in comune: essere uomini e donne di fede, di Chiesa, di grande fede e di grande vita di Chiesa. Gente che dalla Chiesa non si allontana mai, gente che alla pratica religiosa non viene mai meno, gente che “come loro non ce ne sono”, per quanto concerne le cose di Dio. Gente che, con i farisei e gli scribi del tempo di Gesù, condivide pure un'altra cosa: la rabbia. La rabbia e la tristezza. Una rabbia che porta alla tristezza. La rabbia di chi non accetta che, di fronte a Dio, siamo tutti uguali e siamo tutti suoi figli, e che lui ci ama in uguale maniera: sia che abbiamo disprezzato la paternità di Dio allontanandoci da lui per poi, ravveduti, farvi ritorno; sia che la sua paternità l'abbiamo disprezzata senza mai allontanarci dal tempio e dalle cose della Chiesa, vedendo, però, Dio non come un Padre da amare, ma come un Padrone da servire. E questa cosa, rende la vita di fede piena di rabbia e di tristezza.
Sì, perché le tre parabole di oggi non sono un insegnamento sul perdono, sulla conversione e sul ritorno a Dio che ci abbraccia con la sua misericordia: o per lo meno, non principalmente. Il tema che le tre parabole hanno in comune è quello della gioia per qualcosa che si era perso o si era allontanato da Dio, ed è stato ritrovato: contrapposto alla tristezza, al mormorio e alla rabbia di chi, da Dio e dalle cose di Dio, non si allontana mai, e si permette di giudicare gli altri sulla scorta della propria presunta perfezione. Una perfezione che - anche ammesso che possa dirsi tale - difetta di qualcosa che per la vita di fede è fondamentale: la felicità. Perché - e non mi stancherò mai di ripeterlo - Dio non ci vuole perfetti, perché lo è già lui, e solo lui: Dio ci vuole felici, cosa che tutti possiamo fare, nella vita, per quanto è concesso alle nostre possibilità. Anzi, dirò di più: non solo “possiamo” essere felici, ma “dobbiamo” essere felici, perché la nostra felicità rende felice Dio, e la nostra tristezza lo rattrista.
Non così la nostra ricerca della perfezione, della quale a Dio non importa nulla: primo, perché è consapevole che ne siamo totalmente incapaci; e secondo, perché non ne ha bisogno, perché lui, la perfezione, la possiede già. Vogliamo fare felice Dio, come un figlio rende felice suo Padre? Non smettiamo mai di chiamarlo papà, anche quando siamo lontani anni luce da lui: anzi, forse sono proprio quelli i momenti in cui dobbiamo pensare a Dio come a un Padre. Come fa il figlio minore, che cade nel baratro più profondo della lontananza da Dio (in un paese lontano, di gente senza Dio che alleva animali immondi, vivi e vegeti più del figlio stesso, rimasto senza un soldo) e in quel frangente pensa all'unica cosa che gli è rimasta: la casa di suo Padre.
E allora si rialza e torna verso di lui: per accorgersi, poco prima di incontrarlo, che in realtà è il Padre a non aver mai smesso di attenderlo, di andare in cerca di lui. E ancora una volta gli corre incontro. E gli fa festa, e prima ancora di ascoltare la sua confessione e di rimettere in chiaro le cose lo abbraccia, perché lo ama. Certo, non finisce tutto lì: il padre gli dà piena fiducia, al punto di mettergli l'anello delle spese al dito, l'abito nuziale e i calzari per iniziare di nuovo il cammino, e poi sicuramente arriverà il momento di riprendere il rapporto di figliolanza con lui come si addice a un figlio ravveduto e riconoscente.
Ma intanto è il momento della festa, e a questa festa devono partecipare tutti. Tutti. Questa volta, non solo “tutti” i peccatori, ma anche tutti quei presunti giusti che, come il figlio maggiore, preferiscono starsene fuori a mormorare, rabbuiati dalla tristezza e dalla rabbia nei confronti di un Dio che secondo loro non capisce niente, che non sa mettere le cose a posto, che non sa dare a ciascuno il suo, che tratta tutti alla stessa maniera, buoni e cattivi, che non sa essere riconoscente verso quelli che sgobbano giorno e notte al suo servizio, mentre predilige i fannulloni, gli scialacquatori, i donnaioli e quelli che soffrono di ogni tipo di dipendenza, tranne che di quella da lavoro. A quelli, ogni tipo di privilegio! Come se fossero bravi, bisogna anche premiarli per le fesserie che fanno, vero? No, un Dio così, che vuole fare il Padre prima ancora di essere il giudice giusto, non solo non serve a nulla: è dannoso per la fede, perché butta all'aria un principio fondamentale della giustizia, quello per cui chi sbaglia paga, e chi si comporta bene va premiato. Altrimenti, che senso ha cercare di essere il più possibile perfetti, osservando scrupolosamente tutti i comandamenti di Dio?
Infatti: non ha alcun senso essere perfetti. Per il semplice motivo che nessun uomo lo è, lo è mai stato, e mai lo sarà. Per Dio ha senso solamente che gli uomini siano felici, perché consapevoli di essere amati da lui, comunque essi siano. Buoni o cattivi. Fedeli o peccatori. Santi o pubblicani.
Chi non riesce a capire questa logica, ha ancora molto da imparare. A partire dalla consapevolezza dei propri limiti e delle proprie debolezze, che alla luce dell'amore che Dio ha per noi diventano - come disse sant'Agostino - “una felice colpa”, il più bell'ossimoro della nostra esistenza: quello per cui, dalle colpe che commettiamo nei confronti di Dio, invece che tristezza scaturisce per noi la gioia del perdono e della vita ritrovata.
E ci dispiace per chi si ritiene perfetto: continui pure a mormorare verso Dio, e lasci a noi la gioia del suo amore!