TESTO Delitti e castighi? Non secondo Gesù...
don Alberto Brignoli Amici di Pongo
III Domenica di Quaresima (Anno C) (20/03/2022)
Vangelo: Lc 13,1-9
1In quello stesso tempo si presentarono alcuni a riferirgli il fatto di quei Galilei, il cui sangue Pilato aveva fatto scorrere insieme a quello dei loro sacrifici. 2Prendendo la parola, Gesù disse loro: «Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subìto tale sorte? 3No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo. 4O quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, credete che fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? 5No, io vi dico, ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo».
6Diceva anche questa parabola: «Un tale aveva piantato un albero di fichi nella sua vigna e venne a cercarvi frutti, ma non ne trovò. 7Allora disse al vignaiolo: “Ecco, sono tre anni che vengo a cercare frutti su quest’albero, ma non ne trovo. Taglialo dunque! Perché deve sfruttare il terreno?”. 8Ma quello gli rispose: “Padrone, lascialo ancora quest’anno, finché gli avrò zappato attorno e avrò messo il concime. 9Vedremo se porterà frutti per l’avvenire; se no, lo taglierai”».
“Se avessi voluto aspettare che tutti gli uomini fossero diventati intelligenti, sarebbe passato troppo tempo... Poi ho capito anche che questo momento non sarebbe arrivato mai, che gli uomini non cambieranno mai e che nessuno riuscirà a trasformarli e che tentar di migliorarli sarebbe fatica sprecata!”.
Così si esprimeva, oltre un secolo e mezzo fa, Dostoevskij in “Delitto e castigo”. E ho voluto iniziare con questa frase del più famoso scrittore russo per due motivi.
Il primo è per ribadire la necessità di non lasciarci accecare dalla violenza che vediamo in questi giorni e dalla rabbia che ne consegue, al punto da non distinguere più il bene dal male e fare di tutta l'erba un fascio: non può la malvagità e la diabolicità di qualcuno che, posto al comando di una nazione, costringe il proprio popolo alla guerra, portarci a pensare che quel popolo, la sua storia e la sua cultura siano un popolo, una storia e una cultura di malvagi, come invece spesso in questi giorni sentiamo dire da una parte dell'opinione pubblica. Il bene e il bello della storia e della cultura di un popolo non vengono intaccati dalla putrefazione dell'animo di uno solo, foss'anche la persona più importante di quel popolo.
E il secondo motivo è legato al tema della Liturgia della Parola di oggi, in particolare del Vangelo: il padrone della parabola che vorrebbe tagliare il fico sterile perché, tant'è, non potrà più dare nulla di buono, ragiona con la stessa mentalità che viene espressa dalla frase citata, ovvero il male che intacca l'animo umano non può mai essere eliminato, e cercare di rendere buono e utile ciò che non lo è, è tempo sprecato.
Una mentalità che spesso invade anche il nostro cuore e i nostri pensieri, di fronte a situazioni cattive che pensiamo possano essere cambiate solo se eliminate alla radice; del resto, anche nel Vangelo troviamo una mentalità di questo tipo, quando all'inizio della sua predicazione Giovanni Battista minaccia il popolo con la venuta di un Dio castigatore pronto a punire i “delitti” dell'animo umano tagliandoli come la scure taglia alle radici un albero infruttuoso. Delitto e castigo, appunto, inesorabilmente legati da un filo che rende l'uno la conseguenza diretta dell'altro: hai sbagliato, ciò che hai fatto è irreversibile, così come lo sono i tuoi comportamenti che peraltro potrebbero ripetersi, per cui vai eliminato prima che tu possa fare ulteriormente del male. E a volte, nella nostra mentalità, questo filo che unisce delitto e castigo si rafforza ancor di più con un ragionamento “all'inverso” ancor più pericoloso: non solo “a un delitto deve corrispondere un castigo”, ma “un castigo è segno di un delitto”, cosa che induce addirittura a pensare che una sofferenza sia causata da una colpa, che un dolore provato sia la conseguenza di un comportamento cattivo, che una malattia o una disgrazia altro non è che una punizione mandata dall'alto per espiare un peccato commesso. Se così fosse, preferirei non conoscere l'abitante di questi “piani alti” dai quali viene inviata la disgrazia; e se corrispondesse al Dio in cui credo, mi cancellerei subito dall'elenco dei suoi fedeli.
Eppure, questa mentalità è retaggio di una cultura che ci portiamo dentro in maniera radicata, se è vero - come il brano di Vangelo di oggi dimostra - che già al tempo di Gesù circolavano queste idee, e in forma veramente molto forte. Per cui, questi “alcuni” che vanno a riferire a Gesù un fatto di cronaca (la rivolta di un gruppo di Galilei sedata nel sangue dai Romani) con una modalità che sa di avvertimento (“Occhio, perché anche tu sei galileo...”) osano attribuire al fatto in sé il segno di un castigo di Dio caduto sulle loro malvagità; e Gesù smaschera questa loro mentalità citando un altro fatto di cronaca (una torre che crolla su un gruppo di persone, di fatto incolpevoli per ciò che gli è accaduto, e per di più abitanti di Gerusalemme, quindi “gente santa” della Città Santa, secondo la mentalità di molti) che non può essere identificato con un “castigo divino”, per il semplice fatto che le persone che ne sono rimaste vittime non erano certo peggiori ne più “meritevoli” di castigo rispetto ad altri.
Certo, però, che se la mentalità è questa, allora tutti siamo passibili di castighi improvvisi; se - come dice Gesù ai suoi interlocutori - non cambiamo mentalità (questo significa “convertirsi”), allora una disgrazia come tante di quelle che vediamo accadere può colpire ognuno di noi, e se ciò avviene sarà solo colpa dei nostri pessimi comportamenti. Perché ciò che è cattivo va eliminato, e ciò che viene colpito per essere eliminato, certamente è cattivo.
Per fortuna, il Dio di Gesù Cristo non coincide con il Dio di questi “tali”, né con il Dio predicato da Giovanni Battista, e forse neppure con il Dio Giudice e Inquisitore di alcuni personaggi di Dostoevskij.
Il Dio di Gesù Cristo non ha la scure in mano, bensì la zappa; il Dio di Gesù Cristo non ama tagliare, semmai potare; il Dio di Gesù Cristo non sradica, dissoda il terreno e lo concima; il Dio di Gesù Cristo non criminalizza il peccatore, ma il peccato; il Dio di Gesù Cristo non castiga, ma perdona; il Dio di Gesù Cristo piuttosto che farcela pagare preferisce pagare lui al nostro posto; il Dio di Gesù Cristo non invia disgrazie, e nemmeno ce le elimina, ma le affronta insieme a noi; il Dio di Gesù Cristo è come un roveto ardente che arde ma non consuma, che brucia e a volte fa male, ma che non si estingue e quindi non smette di scaldarci e di illuminarci.
Soprattutto, il Dio di Gesù Cristo ha pazienza, e tanta, nei nostri confronti: quella pazienza che a noi manca, e allora piuttosto che il paziente e lento lavoro di costruzione della pace preferiamo l'immediatezza delle armi, e che vinca il più forte, anche se quasi mai si tratta del più buono e del più giusto.
E che Dio tolga dalle nostre mani la scure delle opere e della lingua che usiamo per “tagliare a fette” gli altri, visto che neppure lui si permette - nonostante ne avrebbe tutto il diritto - di farlo con noi.