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TESTO Le mani che contano

don Mario Simula   ufficio catechistico diocesi di Sassari

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XXXII Domenica del Tempo Ordinario (Anno B) (07/11/2021)

Vangelo: Mc 12,38-44 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mc 12,38-44

38Diceva loro nel suo insegnamento: «Guardatevi dagli scribi, che amano passeggiare in lunghe vesti, ricevere saluti nelle piazze, 39avere i primi seggi nelle sinagoghe e i primi posti nei banchetti. 40Divorano le case delle vedove e pregano a lungo per farsi vedere. Essi riceveranno una condanna più severa».

41Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. 42Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. 43Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. 44Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere».

Due persone da nulla, insignificanti, deboli, inutili. Due di quelle numerosissime persone che aspettano con fatalità e rassegnazione la morte. Due vedove povere diventano le inattese protagoniste della Parola di Dio in questa domenica “ordinaria” e senza speciali solennità.
Le ha scovate l'occhio di Dio e la sua vista selettiva e strabica a confronto con la nostra.
Noi infatti vediamo i potenti. Dio vede gli umili.
Noi vediamo i ricchi e chi si può permettere lo spreco. Dio vede i poveri e la loro inspiegabile e silenziosa generosità.

Sia detto di passaggio, se vuoi trovare la solidarietà che non bada alle differenze, ai costi, alle condizioni dell'altro, all'abito, ai titoli, all'odore, alla pulizia, al portafoglio, alla bella figura, alle pieghe della sottana la troverai soltanto tra coloro che non contano niente e non possiedono niente.
Tutto ciò che per loro “fa ricchezza” appartiene anche agli altri.
I blasonati di ogni tipo non possono, non hanno tempo, non si abbassano, non si accorgono, vivono sempre altrove. Prudentemente lontani da chi possa chiedere loro qualcosa o rubare un attimo del loro tempo.
Elia, nomade di Dio e viandante della terra, deve attraversare, nel suo pellegrinare, una regione straniera e ostile. Non ha nulla con sé, nemmeno per mangiare, se non il fuoco della parola e la fede.
Non a caso il suo nome significa: “Jahvè è il mio Dio”. Dio soltanto è la sua preziosa eredità. Dio lo invia. Dio gli sta sempre vicino anche nelle crisi di depressione e di scoraggiamento.
Deve essere sembrata una luce provvidenziale per il profeta vedere, nel momento del bisogno, una povera vedova che raccoglie legna.
Elia chiede alla sconosciuta un po' d'acqua, perché possa bere. Ha bisogno anche di pane. Il profeta osa domandare quel boccone indispensabile per sopravvivere. Glielo chiede “per favore”, come chi, a sua volta è estremamente indigente. La donna dà una risposta penosa e commovente. Cantata nel silenzio sordo del cuore: “Per la vita del Signore tuo Dio, non ho nulla di cotto, ma solo un pugno di farina nella giara e un po' d'olio nell'orcio; ora raccolgo due pezzi di legna. Dopo andrò a prepararla per me e per mio figlio: la mangeremo e poi moriremo”. E' l'ultima condivisione, l'ultimo grido alla vita.
Elia accoglie quel lamento non distrattamente. Lui è persona che sa fidarsi di Dio e sa infondere la stessa fiducia in coloro che incontra.
La distanza di tanti uomini e donne, di tanti ragazzi e giovani dalla casa-chiesa nasce dalla mancanza di attrattiva da parte dei credenti, di coloro che abitano già nella casa, da sempre. La loro fede è d'occasione, è ripetitiva, insignificante e per nulla stimolante. Stanno e staranno alla porta, sulla soglia, paralizzati da un'attesa senza passione. Aspettano che spunti una luce, il bagliore di qualche “lontano” che si affacci. Nessuno viene. Anzi, capita di più e di peggio: vedono e continueranno a vedere l'esodo da parte di coloro che stanno già in casa e si sono stancati di una fede del non senso, del non incontro con Dio, delle apparenze, della routine, dei privilegi meschini.
Se le nostre orecchie non riescono a sentire, ad ascoltare e ad accogliere l'implorazione della vedova: “Mangeremo il tozzo di pane e poi moriremo”, tutte le nostre progettazioni e tutte le nostre mappe dei sogni resteranno pie illusioni, stupende chimere di carta.
A quella donna, rattristata dalla vita, Elia sa dire una parola che è veramente un sogno concreto: “Impasta il pane. Prima, però, prepara una piccola focaccia per me e portamela”. Sembra la richiesta di un egoista disattento e cinico. Subito Elia aggiunge: “Dopo ne preparerai per te e per tuo figlio, perché così dice il Signore, Dio di Israele: “La farina della giara non si esaurirà e l'orcio dell'olio non diminuirà fino al giorno in cui il Signore manderà la pioggia sulla faccia della terra”.
La fede si rivela una forza sovrumana che non delude,
anzi si rafforza se ci fidiamo della Parola di Dio.
Quella parola alla quale Elia dà timbro e consistenza. Quella parola per cui di ogni sogno si fa una realtà.
Una fede che dovremmo sentire raccontata e vissuta nelle innumerevoli comunità ogni domenica, con una certezza incrollabile, con una forza rivoluzionaria e sovversiva, in grado di mettere in crisi una mentalità che affossa i miserabili. La dovremmo sentire raccontata da chi crede. Da chi conta sulla propria onnipotenza e sogna i “suoi” sogni e non quelli di Dio.
Le nostre chiese sembrano aver perduto l'acustica che permetta di percepire nitidamente ciò che Dio vuole dirci. Le nostre assemblee percepiscono con chiarezza soltanto le nostre parole talvolta respingenti, dure, intolleranti.
Per la vedova povera, per il figlio e per Elia avviene come era stato promesso da Dio. Dio mantiene la parola. Siamo noi incapaci di dare risonanza alla parola fedele di Dio.
Anche il racconto del Vangelo ci fa incontrare una vedova povera.
L'incontro con lei viene dopo una terribile e amara constatazione di Gesù nei confronti di coloro che lo combattono. Sono persone che amano mettersi in mostra nelle piazze, primeggiare nelle sinagoghe e occupare i posti migliori e più in vista nei banchetti.
Sono quelle stesse persone che si occupano delle vedove “per divorarne le case” e raggirarle con le loro furbizie. In compenso quando pregano amano trattenersi a lungo perché il maggior numero di persone li veda.
Accanto a questo quadro desolante e deprimente Gesù ne vede un altro meravigliosamente semplice ed esemplare nella sua bellezza. Mentre i ricchi gettano molte monete nelle casse del tempio, la “vedova povera, vi getta due monetine che fanno un soldo”. Gesù commenta: “Questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Nella sua indigenza non ha potuto gettare il superfluo con ostentazione, ma ha donato quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere”. Gesù tesse l'elogio di queste mani tremanti che contano davvero agli occhi di Dio. Hanno saputo accarezzare. Hanno lavorato per gli altri, hanno diviso sempre con gli altri. Mani adesso incerte e aggrinzite come una pergamena preziosa.
Mani che la fatica ha deformato senza deturparne minimamente la bellezza. Mani che contano e delle quali Dio ancora si serve. Non ne esistono altre più affidabili.

Gesù, ho qualche dubbio che Tu possa riconoscermi dalle mani. Ho lavato tante volte i piedi.
Sempre piedi “eletti”, puliti e profumati in anticipo, per l'occasione. Innumerevoli “Giovedì Santi” nei quali mimavo il servizio, non rendevo un servizio.
Le mie mani non hanno calli. Non sono rattrappite per l'alimentazione poverissima. Non sono abituate a frugare là dove io butto cose e viveri. Non sono ruvide e apparentemente sporche. Le mie mani non conservano le tracce scure e indelebili della donazione, come divine impronte digitali.
Gesù, non posso mostrarti mani rafforzate dalla tua grazia benché ininterrottamente abbiano toccato e tocchino il tuo corpo. Lo hanno fatto e continuano a farlo, con incredulità. Ci volevi Tu a prendere tra le tue mani le mie e appoggiarle sulle tue piaghe e dentro il tuo costato.
Poche volte ho steso le mie mani verso di Te per implorarti. Ho preferito rinchiuderle a pugno, disperate.
Tuttavia, Gesù, niente della mia persona ti fa smettere di cercarmi. Ogni volta che mi ritrovi mi guardi le mani, lavi le ferite e le ristori con l'olio della tua tenerezza. Mi restituisci subito il vincastro per accompagnare chi è smarrito, per sostenere chi ha mani affaticate, perché continui, senza stancarmi, il viaggio della vita dietro di Te, strettamente attaccato alla Tua corda e attento ai Tuoi passi.
Gesù, ho ripreso tra le mani il lino che le ha legate l'una all'altra nel giorno in cui Tu le hai unte con il crisma profumato. Ho provato un'intensa emozione, un'indicibile gratitudine, un'inesauribile energia.
Le mie mani sono davvero mani che contano. Preziose, utili, forse necessarie per toccare ferite, per lavare piedi insanguinati, per sostenere gambe vacillanti, per ungere corpi morenti. Mani”pasquali”, come le Tue.

 

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