TESTO Commento su Matteo 23,1-12
Omelie.org - autori vari Home Page
XXXI Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (30/10/2005)
Vangelo: Mt 23,1-12
In quel tempo, 1Gesù si rivolse alla folla e ai suoi discepoli 2dicendo: «Sulla cattedra di Mosè si sono seduti gli scribi e i farisei. 3Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno. 4Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito. 5Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dalla gente: allargano i loro filattèri e allungano le frange; 6si compiacciono dei posti d’onore nei banchetti, dei primi seggi nelle sinagoghe, 7dei saluti nelle piazze, come anche di essere chiamati “rabbì” dalla gente.
8Ma voi non fatevi chiamare “rabbì”, perché uno solo è il vostro Maestro e voi siete tutti fratelli. 9E non chiamate “padre” nessuno di voi sulla terra, perché uno solo è il Padre vostro, quello celeste. 10E non fatevi chiamare “guide”, perché uno solo è la vostra Guida, il Cristo. 11Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; 12chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato».
* Le letture di oggi riguardano innanzitutto coloro che guidano la comunità cristiana, anche se in controluce – come sempre nella Parola di Dio - è possibile intravedere un insegnamento che vale per tutti i discepoli di Gesù. Infatti i destinatari primi delle parole del Signore che leggiamo nel vangelo di questa domenica sono non solo gli scribi, ma anche i farisei. Tutti gli uomini religiosi, potremmo dire dunque, sia coloro che hanno consacrato la loro vita alla conoscenza delle Scritture e alla teologia, e svolgono nella comunità il ministero di maestri della fede, sia coloro che hanno scelto di vivere la fedeltà a Dio nella vita normale, con un lavoro e una famiglia.
Oggi ci è messo davanti come un dittico che da un lato - in Paolo - fa risplendere l'immagine di una vera guida, e dall'altro - nell'oracolo di Malachia e nelle parole di Gesù – ci mette in guardia dai pericoli che sempre allignano nella vita di una persona religiosa, soprattutto quando questa è a capo della comunità. La prima è una immagine nitida, la seconda una offuscata.
* Vediamo prima la parte luminosa del dittico: è il ministero di Paolo, così come è rintracciabile nel brano che ascoltiamo nella liturgia odierna (II lettura). In queste parole di Paolo ai cristiani di Tessalonica c'è una immagine di amore sollecito e premuroso attraverso la quale egli racconta il proprio ministero: quella di una madre che nutre i propri figli preoccupandosi di nutrirli. Subito dopo, a sottolineare questo atteggiamento di affetto premuroso e attento, c'è un riferimento personale di Paolo alla propria scelta di continuare a lavorare, notte e giorno, con fatica, pur di mantenersi da solo. Sembra strano questo riferimento al lavoro personale che Paolo ha sempre voluto continuare negli anni della predicazione, provvedendo alle proprie necessità facendo il tessitore di stoffe e di tende, ma in realtà così strano non è, e questo si capisce proprio considerando che si trova come incastonato tra l'immagine della madre amorevole, che dà e non chiede mai ai figli, e quella contenuta nei versetti successivi, che oggi non leggiamo, in cui egli paragona se stesso ad un padre che esorta tutti. Nel lavorare di Paolo c'è dunque un riferimento alla cura amorevole, al rapporto con la comunità improntato all'amore. Pochi versetti dopo il brano che leggiamo, al cap. 4 della lettera, di nuovo si dice che i discepoli devono stare in pace con tutti e lavorare con le proprie mani attendendo alle proprie cose (cf. 1 Ts 4, 3-8). Perché è così fortemente ribadito il rapporto tra lavoro, autonomia personale, e amore fraterno? Sembra quasi che Paolo voglia suggerire che non è possibile amarsi senza lavorare, che non si possono stabilire rapporti interpersonali secondo l'amore imparato dal Signore se non si affronta la fatica del lavoro. Una prima ragione evidente sta nel fatto che chi lavora non è di peso agli altri, elimina lo sfruttamento e la dipendenza reciproci. Forse c'erano altre guide che, rimanendo nelle comunità per annunciare il vangelo, finivano per sfruttare i fratelli facendosi mantenere da loro. La vera guida, dice Paolo, non è di peso ai fratelli, e reciprocamente non si lega ad essi finendo per dipenderne economicamente. Provvedere a se stessi significa rispettare gli altri, non approfittarne. Ma basta questa ragione a spiegare l'insistenza di Paolo sul lavorare da soli, in autonomia?
* Forse è possibile ricavare una ragione più profonda se guardiamo alla seconda metà del dittico, quella negativa. Sono le due pagine di Malachia e di Matteo.
In entrambi questi due testi, pur se non esplicitamente, è chiamata in gioco una vita religiosa che non ha fatto i conti con una maturità umana, e trova nelle apparenze, nei ruoli, nei riconoscimenti, quell'appoggio che dovrebbe venire invece dall'avere trovato un equilibrio con se stessi.
Le scienze umane ci hanno ormai aiutato a comprendere bene come dietro tanti disagi e tante compensazioni, anche nel nostro mondo religioso, si nasconde un inadeguato senso di stima di se stessi, e di autonomia personale. E la vita religiosa, soprattutto nella sua dimensione comunitaria e istituzionale che è fatta anche di riti, di ruoli, di servizi, più facilmente presta il fianco a creare surrogati e falsi punti di appoggio che illudono di poter sostituire quel cammino di maturazione umana che tutti abbiamo come compito. Un tale cammino certo non è risparmiato a nessuna persona solo perché entra a far parte della Chiesa, o in essa riveste un ministero di guida. Le persone immature sono immature anche quando diventano credenti, e la fede non si sostituisce mai alle dinamiche di crescita umana.
Per i sacerdoti destinatari del monito di Malachia (I lettura), profanare l'alleanza con Dio coincide con "l'agire con perfidia l'uno contro l'altro". Proviamo a pensarci bene: non è forse una educazione all'autonomia personale che ci aiuta a non agire con perfidia l'un contro l'altro? Tante rivalità e cattiverie tra di noi, non nascono forse da tanti corti circuiti nei nostri rapporti interpersonali in cui è in gioco proprio la mancanza di una autonomia, di un senso di intimità con se stessi che ci aiuterebbe a non mendicare riconoscimenti, poteri, superiorità, rispetto agli altri? La vera causa della mancanza di pace con gli altri, non è forse che spesso non siamo in pace con noi stessi? Quando smettiamo di dover dimostrare agli altri chi siamo, perché non ne abbiamo più bisogno, allora diventiamo anche più miti e capaci di relazioni buone. Certo, la pace con se stessi viene, per noi credenti, prima di tutto dalla consapevolezza di essere amati dal Signore, di essere suo figli benedetti e perdonati. Ma questo dono è anche, contemporaneamente, un cammino umano di pacificazione con se stessi, di accettazione di sé, dei propri limiti, del proprio valore. Nessuna fede religiosa, e nessun ministero eccesiale, da soli, possono sostituire il nostro personale cammino di maturazione umana. Nessuna fede è possibile come alibi per ignorare la propria umanità.
* E che dire delle parole del Signore (III lettura), che stigmatizzano tante espressioni esteriori di quella che oggi chiameremmo sacralità delle persone religiose? Ogni tanto nella Chiesa si sentono, soprattutto in riferimento ai ministri ordinati, espressioni come "uomini del sacro". Ma come si fa', ascoltando queste parole di Gesù, a continuare a credere che i credenti sono persone specializzate nel "sacro"? Certo, se con questa espressione vogliamo indicare il mistero di Dio di cui è impastata la nostra esistenza, da cui ci sentiamo sorretti e che è diventata ai nostri occhi - gli occhi della fede! – presenza amica e vicina, va bene. Ma se il sacro sono i filatteri e le frange, e cioè un certo tipo di vestiti, un'aurea di solennità che è solo distanza dagli altri, una esteriorità fine a se stessa, una ricerca di autorevolezza affidata alle forme esterne invece che alla qualità della nostra vita, allora siamo davvero lontani dagli insegnamenti del Signore Gesù! Non sono i nostri vestiti, e i loro colori, a dire la presenza di Dio nell'amore, ma la qualità della nostra vita, di uomini e di credenti. E l'autonomia personale fa parte integrante di una tale maturità, anzi ne è quasi il centro attorno sul quale tutto il resto si costruisce.
* Ai capi della comunità, queste tre pagine della Scrittura ricordano che umanità e ministero non possono essere scissi, e che non si dà nessun ministero autorevole senza maturità umana. E a tutti i credenti esse dicono come la fede non supplisce né risolve da sola i percorsi, a volte lunghi, a volte difficili, che la vita ci chiede di percorrere esigendo da noi di crescere e costruirci in verità e fortezza. Di fede si può vivere, e ci si può nutrire in questo lungo ed affascinante cammino della vita, di sacralità esteriori no. Chi vive di fede cammina. Chi vive di religione prima o poi si fermerà senza riuscire a proseguire il proprio viaggio.
Commento a cura di don Gianni Caliandro