TESTO Elogio delle anfore fessurate
don Angelo Casati Sulla soglia
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VI domenica dopo il martirio di S. Giovanni il Precursore (Anno A) (04/10/2020)
Vangelo: Lc 17,7-10
«7Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? 8Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? 9Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? 10Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”».
Chiedo perdono. Forse in questi miei pensieri non troverete un ordine. Un po' mi rassicura il fatto che nemmeno la vita ha sempre un ordine, a volte ci appare caotica. Anzi vi dirò che a me sembra illusoria e infelice l'operazione di coloro che, per far sembrare la vita meno caotica, strappano o isolano una pagina. E' quello che è capitato oggi al brano su Giobbe. Il libro ha molti capitoli, come la vita. Forse non si poteva fare diversamente, si è ritagliato un brano, ma a prezzo di fraintendimenti.
Come chiudeva il nostro brano? Allora Giobbe si alzò e si straccio il mantello; si rase il capo, cadde a terra, si prostrò e disse: "Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!". Se la vita di Giobbe la chiudiamo al primo capitolo, non ci fa meraviglia che nel discorrere comune si parli della pazienza di Giobbe: una pazienza da Giobbe. Poi gli occhi corrono alla citazione, capitolo uno. Ma scorriamo. Per esempio, capitolo terzo? "Dopo, Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno; prese a dire: Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si disse: "E' stato concepito un uomo!". E perché non sono morto fin dal seno di mia madre e non spirai appena uscito dal grembo? Perché dare la luce a un infelice e la vita a chi ha l'amarezza nel cuore, a quelli che aspettano la morte e non viene?".
La vita è tutto, quella di Giobbe, come quella di tutti noi: non è custodita in una sola pagina, la vita non è mai ferma, ha tante pagine, è un alternarsi di sentimenti. E se scorriamo le pagine del libro nasce un'altra immagine, quella di un Giobbe impaziente che contesta Dio, fa arringa, chiama a processo Dio - lasciatemi dire - mette in difficoltà Dio. Potremmo dire molte cose. Mi limito a dire che mi intriga l'immagine di un Dio che non zittisce Giobbe. Gli lascia la libertà della domanda e della contestazione, per tutto il libro. Dio non ci vuole arresi, ma liberi, anche davanti a lui.
E, seconda suggestione, che solo evoco: Dio alla fine parla a Giobbe dalla tempesta: quasi non gli riuscisse di placarla? Quasi avesse scelto di stare anche lui con noi nella drammaticità della storia. Ha deciso di stare nella storia che non ha una sola pagina. Ma allora che cosa si salva? So che sul libro si sono affaticati migliaia di esegeti con interpretazioni intriganti e io non ho il loro passo. Alla domanda: "Ma allora che cosa si salva?", mi verrebbe da rispondere - è semplicemente una fessura -: "Si salva, nonostante tutto, la relazione". Noi umani non tutto capiamo e forse nemmeno Dio tutto può fare, ma una cosa rimane ingualcibile: "Che io ci sono per te, o Dio, e tu per me".
Che infine, se ci pensate, è quello che rimane sulla croce: la domanda di Gesù "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" - e non cancelliamola! - e, insieme: " Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito". Ti chiamo "Padre". Sono sicuro delle tue mani. Rimane il contrassegno della fragilità del vivere, ma una fragilità non abbandonata. In questa luce di una confessata fragilità che non è per nulla - proprio non lo è - paralizzante, vorrei leggere il brano di Luca, che un po' - confessiamolo - ci scuote con l'immagine di un Dio che sembra marcare le precedenze: "Prepara da mangiare, stringiti le vesti ai fianchi e servimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu".
Ci scuote l'immagine anche perché un giorno Gesù la capovolse letteralmente, cingendo lui il grembiule e lavando i piedi impolverati dei discepoli e, giorni prima, aveva detto che nel regno futuro sarebbe stato lui a cingersi le vesti, a metterci a tavola e a passare a servirci. Ma vorrei solo sfiorare con voi la frase finale di Gesù che ci lascia più di una domanda. Eccola: "Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: "Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare". Ma in che senso "inutili" se avremo fatto, anzi fatto tutto quello che ci era stato ordinato?
Ebbene la parola greca, usata da Luca, è: "a-kreioi", che significa "che non cercano vantaggi". Servi senza calcolo o pretese, contenti di aver fatto il lavoro affidato. "Un'espressione di umiltà e di disponibilità": dice papa Francesco. E aggiunge: "Questo atteggiamento verso Dio si riflette anche nel modo di comportarsi in comunità: si riflette nella gioia di essere al servizio gli uni degli altri, trovando già in questo la propria ricompensa e non nei riconoscimenti e nei guadagni che ne possono derivare". Il pensiero non può non correre a quanto sta emergendo dalle stanze vaticane in questi giorni. Una ferita mortale a queste parole di papa Francesco, al vangelo. Lo custodiamo nella preghiera.
E allora ti viene spontaneo chiederti: "Dove vedi tu una speranza per un mondo futuro, in chi la poni?". Dove? Negli uomini presuntuosi di sé, quelli che celebrano se stessi, sprezzanti di tutto e di tutti? Vedi lì una forza di cambiamento? O la vedi in un popolo silenzioso, in quelli che non confidano in se stessi, che non usano menzogne, che rispondono con mitezza, che si adoperano per la pace, che si guardano da ogni corruzione, tra quelli che sanno pagare di persona e non si piegano ai potenti? La riflessione, come vedete, è urgente, dentro e fuori le chiese. Ci porta a chiederci. "che cosa, e chi, fa fiorire veramente la terra?".
Vorrei citarvi un racconto. A volte un racconto - Gesù li usava - spiega il vangelo più di mille prediche. Eccolo: "Ogni giorno un contadino portava l'acqua dalla sorgente al villaggio in due grosse anfore che legava sulla groppa dell'asino che gli trotterellava accanto. Una delle anfore, vecchia e piena di fessure, perdeva acqua. L'altra, nuova e perfetta, conservava tutto il contenuto, senza perdere neppure una goccia. L'anfora vecchia e screpolata si sentiva umiliata e inutile, tanto più che l'anfora nuova non perdeva l'occasione di far notare la sua perfezione: "Non perdo neppure una stilla d'acqua io!".
Un mattino la vecchia anfora si confidò con il padrone: "Lo sai, sono cosciente dei miei limiti. Sprechi tempo, fatica e soldi per colpa mia. Quando arriviamo al villaggio io sono mezza vuota. Perdona la mia debolezza, le mie ferite". Il giorno dopo, durante il viaggio, il padrone si rivolse all'anfora screpolata e le disse: "Guarda il bordo della strada". "Ma è bellissimo! Tutto pieno di fiori": rispose l'anfora. "Hai visto? E tutto questo solo grazie a te" disse il padrone. "Sei tu che ogni giorno innaffi il bordo della strada. Io ho comprato un pacchetto di semi di fiori e li ho seminati lungo la strada. Senza saperlo e senza volerlo tu li innaffi ogni giorno". La vecchia anfora non lo disse a nessuno, ma quel giorno si sentì morire di gioia". Vorrei fare l'elogio.
Delle anfore fessurate, dei servi cosiddetti "inutili".