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TESTO Commento su Ml 3,19-20; Sal 97; 2Ts 3,7-12; Lc 21,5-19

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XXXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (17/11/2019)

Vangelo: Ml 3,19-20; Sal 97; 2Ts 3,7-12; Lc 21,5-19 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 21,5-19

In quel tempo, 5mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: 6«Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta».

7Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». 8Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! 9Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine».

10Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, 11e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo.

12Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. 13Avrete allora occasione di dare testimonianza. 14Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; 15io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. 16Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; 17sarete odiati da tutti a causa del mio nome. 18Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. 19Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita.

Il messaggio delle letture che proclamiamo in questa XXXIII domenica del tempo ordinario è sintetizzabile nel termine “fedeltà”. La parola del Signore ci chiama oggi ad essere “fedeli”, superando la nostra innata mediocrità spirituale (e spesso anche umana). Fedeli non a un'istituzione, non a una legge, non a un Tempio, non ai vari “maestri” che vogliono prendere possesso della nostra coscienza, ma a una libertà interiore che sempre più, soprattutto oggi, si rivela difficile. Una “difficile libertà”, la definiva Emmanuel Lévinas, da realizzare in un presente che ha visto troppe crisi di libertà: guerre mondiali, totalitarismi, campi di sterminio, camere a gas, arsenali nucleari, terrorismo, problemi sociali e del lavoro.
Anche qui, nelle letture di oggi, come abbiamo già fatto notare in altre occasioni, ritroviamo una straordinaria analogia tra l'istanza religiosa e personale che ci viene proposta e la vita di coppia e di famiglia, chiamata anch'essa a quella difficile libertà e a una fedeltà che sarebbe quanto meno riduttivo considerare solo sul piano fisico.
Vediamo che cosa dicono i brani di oggi.

Il primo brano è del profeta Malachia. Il nome “Malachia” significa “il mio messaggero”, come d'altronde si legge nel libro a lui attribuito (vedi 3,1). Il profeta, nel suo messaggio breve ma incisivo (in questa domenica ne leggiamo il brano conclusivo), pone in evidenza l'antinomia presente all'interno della nostra vita quotidiana: un'esistenza tesa tra ingiustizia e giustizia, tra infedeltà e fedeltà. Essere “fedeli”, per ognuno di noi, è un cammino impervio, fatto spesso di brusche giravolte o di ritorni all'indietro, in cui disdicevolmente ci rimangiamo la parola data. Il messaggio del “messaggero del Signore” è, al riguardo, duro come quello di tutti i profeti. Nessuno può ingannare il Signore: nella vita è possibile, certo, praticare l'ingiustizia, colpire i più poveri e coloro che fanno più fatica, praticare l'odio razziale e il femminicidio, ma - e qui la metafora è molto chiara - nel giorno finale, rovente come un forno acceso, gli ingiusti, i sopraffattori, gli oppressori saranno come paglia che il fuoco distrugge rapidamente per far sì che sui “giusti”, cioè su coloro che sono stati oppressi in vita, sorga un sole di giustizia.
Questo non autorizza a giudicare alcuno, né a considerarci “giusti” a priori, ma ci impegna a praticare la giustizia e il diritto, non in vista di un premio, e neppure condannando ad un presunto castigo chi non compie opere di giustizia o invocando la pena di morte per i malfattori: non compete a noi, a noi compete solo di vivere una vita degna. Poi, certo, il Signore verrà a giudicare il mondo (Salmo 97), ma noi sappiamo che la venuta non è futura, ma è già qui e ora, e già da ora le opere dell'essere umano sono da Lui giudicate. E noi lo accogliamo - accogliamo cioè il Regno che Egli ha instaurato - cantando inni accompagnati dal suono dell'arpa, della tromba, del corno, inni dal suono melodioso che dicono la nostra esultanza perché la giustizia viene ristabilita in un mondo di perenne ingiustizia. Questa non è utopia, è la speranza che il Salmista proclama con tutti noi. Ma si tratta di una speranza operosa, che ci deve trovare intenti a realizzarla.

Nella seconda lettera ai cristiani di Salonicco, attribuita a Paolo, viene affrontato - restando in questo alveo di giustizia e di libertà - un tema difficile. Difficile anche per noi oggi. Nella comunità di Salonicco, infatti, molti cristiani, quasi ossessionati dall'attesa dei tempi ultimi considerati imminenti, hanno smesso di operare, addirittura di lavorare, adagiandosi in una sorta di rassegnata indifferenza. A costoro Paolo indirizza parole molto dure: chi non vuole lavorare neppure mangi, dice loro; parole che suonano irridenti in tempi come i nostri in cui il lavorare appare quasi un privilegio di pochi, e molte famiglie si ritrovano senza lavoro e quindi senza reddito e quindi senza pane. È di questi giorni (ma covava da anni) la triste vicenda dell'ex-Ilva con la prospettiva per migliaia di famiglie di trovarsi sul lastrico, perché il diritto di chi lavora viene calpestato a beneficio dell'idolatria del profitto. Anche qui - lo diciamo per inciso, ma con un'enorme tristezza nel cuore - emerge quella antinomia storica, un'autentica ingiustizia, tra chi vive con incalcolabili ricchezze sprecate per procurarsi piaceri d'ogni genere e per gestire un enorme potere, e chi invece non può neppure procurarsi il pane con il proprio lavoro. Eppure c'è nelle parole di Paolo una saggezza che solo chi, ritrovandosi con le mani callose, non si è mai fatto sconti, può comprendere pienamente: solo cercando di guadagnarsi il pane non con sotterfugi, non con benevole accondiscendenze dei vari poteri, non con le leggi ad personam, ma con il proprio sudore si può ottenere la vera, ancorché difficile, libertà; essa non è quella che consente, a chi crede di possederla, di fare ciò che ritiene più comodo, più opportuno e più gratificante, ma quella che apre alla dimensione della Trascendenza, agli spazi dell'esistenza libera e degna di questo nome.

Qui si inserisce il brano - non facile come tutti i discorsi escatologici - dell'evangelo di Luca. Quando Luca scrive il suo evangelo, il Tempio di Gerusalemme è già stato distrutto dall'esercito romano. Come afferma l'evangelista, di questo tempio non è rimasta pietra su pietra. Inoltre, per Luca, i tempi ultimi non hanno più quella immediatezza che tanto sconvolgeva i Tessalonicesi. I cristiani del tempo di Luca vivono un tempo di un'attesa più serena, meno affannata; un tempo di ricostruzione non del Tempio (l'eucaristia viene ormai celebrata nelle case, creando quelle comunità domestiche di cui tanto si sente oggi la mancanza), ma di quel Regno di Dio che Gesù è venuto a portare, un Regno che non è nell'aldilà, ma è qui e ora. Per cogliere questo Regno occorre tuttavia possedere discernimento e coraggio. Lo stesso coraggio e lo stesso discernimento di Gesù: e poiché i discepoli non sono più del maestro, a loro è forse riservata la stessa sorte di Gesù: patire ingiustizie, soprusi, insulti, essere derisi dal bullo di turno; essere cioè “crocifissi”, probabilmente non su una collinetta palestinese, ma nel quotidiano di ogni dove. Questa è la testimonianza che il cristiano può dare, senza lasciarsi ingannare dai cattivi maestri, sapendo che purtroppo oggi ci sono troppi maestri e pochi testimoni. Il nostro dunque, non è il tempo apocalittico, anche se alcuni segnali sembrerebbero prefigurarlo, ma il tempo della sequela, che è sempre un tempo di prova, addirittura di persecuzione. Sarebbe bello potersene tirar fuori, estraniarsi da questo tempo della storia in cui abbiamo la ventura di vivere, e rifugiarsi in un tempo metastorico, un tempo irrealistico e dalle false attese, non coinvolgente... Ma quale terribile tentazione!
Non a questo sono chiamate le coppie e le famiglie che oggi, in questa domenica che precede la festività del Regno, sono chiamate a celebrare un'Eucaristia di riconciliazione, di libertà, di pazienza e di perseveranza. Senza giudicare chi ancora non si ritrova in questa tensione, chi ancora non intravede questo orizzonte. Senza pretendere dagli altri ciò che solo ognuno di noi può faticosamente realizzare.

Traccia per la revisione di vita.
- Nonostante le difficoltà che incontriamo, riusciamo sempre ad essere i testimoni della speranza?
- Che cosa facciamo per trasmettere a chi ci vive accanto, in famiglia, sul lavoro, nella vita sociale e politica, la proposta di superare un orizzonte terreno di tranquillità e di utilità immediata, in vista dell'accoglienza di un Regno di giustizia e di pace? Quali impegni concreti ci sentiamo di assumere in questa prospettiva? Siamo disposti a lottare per la giustixia, costi ciò che costa?
- Chiediamoci, pacatamente, senza animosità: che cosa annuncia oggi, concretamente, la nostra comunità cristiana?

Luigi Ghia direttore della rivista dei CPM italiani “Famiglia Domani”

 

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