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TESTO Dio c'è già, non ha bisogno che tu lo sostituisca

don Alberto Brignoli   Amici di Pongo

XXX Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (27/10/2019)

Vangelo: Lc 18,9-14 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 18,9-14

In quel tempo, Gesù 9disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: 10«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. 11Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. 12Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”. 13Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. 14Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Che uno sia felice di credere in Dio, ci può stare. Cosa c'è di male, in fondo, nel dimostrare tutto il nostro entusiasmo per le cose di Dio, nel dimostrare agli altri con particolare foga che per noi Dio è importante, che in noi la sua Parola ha fatto cose grandi, che grazie a lui possiamo vivere una vita di fede forte, coerente, incrollabile? C'è forse qualcuno che ci impedisce di ringraziare Dio per i benefici che ha operato nella nostra vita? No, anzi: da buoni cristiani, ci pare doveroso ringraziare Dio per averci fatto dono della fede, e perché noi riusciamo a ripagarlo con una vita religiosa degna di questo nome. E probabilmente, è ciò che spesso facciamo: ringraziare, cioè, il Signore per averci dato il dono della fede e la nostra appartenenza alla Chiesa. La preghiera di ringraziamento, quindi, non solo è una cosa bella nei confronti di Dio, ma addirittura è doverosa, per noi credenti, perché vuole dire riconoscere che tutto ciò che abbiamo è dono della sua bontà e della sua grazia. Tutto, anche le nostre buone opere, anche quello che facciamo di bene nella nostra vita: tutto diventa motivo di grazie perché, appunto, gratuitamente l'abbiamo ricevuto dalla sua Grazia.

E allora, se le cose stanno veramente così, non riusciamo a capire come mai Gesù, nel vangelo, se la prenda con un uomo dalla fede certa e incrollabile, ovvero un fariseo, che ringrazia Dio per ciò che ha operato nella sua vita: una vita di fede talmente forte e intensa da giungere a digiunare due volte la settimana, ovvero più di cento volte in un anno (quando agli ebrei osservanti erano chieste, nell'arco di un anno, non più di quattro giornate di digiuno) e da pagare le tasse, le decime di quanto possedeva, ovvero donare al tempio il dieci per cento dei suoi possedimenti e delle sue proprietà, come la legge richiedeva. Un uomo retto, allora, sia dal punto di vista della sua spiritualità e ascesi, sia dal punto di vista del proprio impegno di onesto cittadino. Uno di quelli che sarebbe stato da prendere come esempio, come metro di paragone, invece di venire condannato dal Maestro al punto da essere ritenuto “meno giusto”, meno “santo” (questo, in buona sostanza, è il senso del termine “giustificato”) di un pubblicano, ovvero di una persona che - notoriamente - con la santità c'entrava poco o nulla, dal momento che aveva scelto una professione - quella di esattore delle tasse - doppiamente ignominiosa, perché collaborazionista con il governo romano di dominazione e perché basata su un sistema di corruzione e di concussione degno della peggior associazione a delinquere dei nostri giorni. Uno, insomma, che non poteva certo essere preso come modello di vita, ancor meno se paragonato al santo fariseo che, un giorno, si trova nel tempio a pregare proprio nel momento in cui egli stesso, non si sa bene perché, caccia dentro la testa nella casa di Dio, forse preso dal rimorso per le sue numerose azioni illegittime. Tra i due, non c'è proprio paragone.

E il problema sta esattamente qui: nel paragone, in quella comparazione, quel parallelo che il fariseo fa tra la propria vita irreprensibile (della quale giustamente rende grazie a Dio) e la vita di tutti gli altri uomini, a suo dire “ladri, ingiusti, adulteri”, emblema dei quali è quel pubblicano che osa profanare un luogo santo come il tempio per venire a fare chissà cosa, magari qualche losco affare con qualche fariseo corrotto, come senz'altro ce ne saranno stati anche allora. Ma di certo non con lui, che era diverso da tutti gli altri, distinto, “separato” (questo significa la parola “fariseo”) dalla massa del popolino. Ecco, ciò che fa problema a Dio è proprio questo paragone tra lui e gli altri, e il Maestro non lo manda certo a dire, dal momento che Luca esplicita subito che questa parabola viene narrata da Gesù proprio “per alcuni che avevano l'intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri”. Della serie: vuoi essere santo? Vuoi essere perfetto? Vuoi essere onesto? Vuoi essere irreprensibile? Vuoi essere un buon ebreo (ma potremmo dire un buon cristiano, o di qualsiasi altro credo religioso)? Fai pure, e ringrazia pure Dio che riesci a essere così. Ma guai a te se ti permetti di paragonarti agli altri, disprezzandoli perché non sono come te. Guai a te se credi di essere migliore di tutti gli altri uomini solo perché osservi irreprensibilmente le leggi di Dio e le leggi dello stato: anzi, addirittura ti fai più grande della legge, visto che digiuni più del dovuto, più di quanto la Legge, la tua Legge, della quale sei osservante e custode in Israele, non ti chieda di fare. Guai a te se cataloghi gli altri come pubblicani, peccatori, infedeli, senza Dio, lontani da lui, gentaglia da quattro soldi, solo perché non sono così santi come te; solo perché nella vita hanno tirato insieme solo fallimenti e disastri (tra l'altro, che ne sai tu, che la colpa non sia tutta solamente loro, ma anche della vita stessa, che a volte ci gode nel prenderci in giro e farcene capitare di tutti i colori?).

Guai a te, soprattutto, se ti permetti ancora di rivolgerti a Dio in quel modo, usando e abusando della preghiera per lodare te stesso e non lui. Sì, perché questo è ciò che sa fare, quest'uomo giusto e santo: stare in piedi, dritto, eretto, di fronte a Dio, quasi a dirgli “Io Sono alla tua altezza”, pregando “tra sé” (ma sarebbe più giusto dire “pregando se stesso”) perché lui non ha bisogno di rivolgersi a Dio per lodarlo, ma solo per ringraziarlo (pieno di umiltà pelosa e falsa) di essere diverso dagli altri e soprattutto uguale a lui, simile in tutto e per tutto a Dio. Il quale, a buon conto, non va pregato come fa il fariseo, bensì come il pubblicano: a debita distanza da Dio (segno evidente che Dio è “altro”, “totalmente altro” da noi), abbassando lo sguardo (perché non siamo nemmeno degni di guardare Dio negli occhi, quando lo chiamiamo “Padre” dopo essere tornati a casa), battendosi il petto nel più sincero dei “mea culpa” (invece di gonfiare il petto per appendervi le medaglie di credente modello), dicendo solo tre parole (“Dio”, “pietà” e “peccatore”), nessuna delle quali hanno “io” come soggetto protagonista, ma solo un “me”, oggetto della misericordia di Dio.

Non so, e dopo questo brano di Vangelo non mi permetto nemmeno di giudicare, quale rapporto ognuno di non abbia con Dio e con la vita di fede: ma speriamo almeno di non avere la sfrontatezza di presumere di essere giusti di fronte a lui, di disprezzare chi sbaglia, e di salvarci senza i meriti della sua Grazia. Perché questo è un peccato che anche Dio fatica a perdonare.

 

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