TESTO Non si fanno i conti senza l'oste...
don Alberto Brignoli Amici di Pongo
XVIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (04/08/2019)
Vangelo: Lc 12,13-21
In quel tempo, 13uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». 14Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?». 15E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede».
16Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. 17Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? 18Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. 19Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”. 20Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. 21Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio».
“Ho lavorato tutta una vita, anche con grandi sacrifici, purché ai miei figli e alla mia famiglia non mancasse nulla, e così è stato. Ora è arrivato il momento di un meritato riposo, e mi sembra giusto che possa godere dei frutti dei miei sacrifici, senza più l'assillo di alzarmi presto al mattino per timbrare, o la molestia di dovermi fermare fino a tardi in ufficio a finire le mille pratiche da portare avanti. È arrivato il momento di fare le cose che mi piacciono di più e che non ho potuto fare prima: dedicarmi alla famiglia, alla casa, ai nipoti, a togliermi lo sfizio di qualche viaggio... fintanto che la salute me lo concede”.
Ditemi voi che differenza c'è tra un ragionamento - a mio parere, più che legittimo - come quello che ho citato poc'anzi, e molto diffuso tra coloro che (se hanno la grazia di poterlo fare!) stanno per iniziare la meritata vita da pensionati, e il ragionamento dell'uomo ricco del Vangelo, che ha avuto davvero la grazia di poter godere del frutto abbondante del lavoro dei suoi campi, e che ora attende solo di poter mettere da parte quanto guadagnato e di riposare, dedicandosi a ciò che più gli piace, ossia “mangiare, bere e divertirsi”. Ha per caso rubato qualcosa a qualcuno? La terra che ha dato tutti quei frutti, non è forse la sua? E allora? Perché mai deve sentirsi dire dal Maestro “stolto” (anzi, il termine greco usato è ancora più offensivo, suona come “scemo”, “privo di cervello”)? Per di più, con quella macabra minaccia di una possibile morte imminente: un'affermazione quasi irriverente, da parte di Gesù, nei confronti di quelle persone (e quante ce ne sono, purtroppo...) che arrivate al momento di godersi la pensione e il meritato riposo dopo una vita di lavoro, si ammalano gravemente o muoiono improvvisamente.
Dai, ammettiamolo: Gesù oggi nel Vangelo ci pare che quantomeno manchi di un pizzico di sensibilità! Perché Gesù emette un giudizio così sferzante nei confronti degli onesti lavoratori che, senza rubare nulla a nessuno, cercano di sfruttare il loro sacrosanto diritto al riposo, al relax e al divertimento? O il messaggio cristiano non “quaglia” più con la vita concreta e reale di ogni giorno, oppure bisognerà cercare di approfondire meglio cosa Gesù ci vuol dire. Perché altrimenti ha ragione il saggio Qoèlet, che nella prima lettura afferma il non-senso della vita e delle cose che facciamo: “Chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male. Infatti, quale profitto viene all'uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità!”.
E come dargli torto, guardando alla nostra esistenza quotidiana? Corriamo e ci affanniamo come matti tutta una vita per realizzare qualcosa d'importante...e poi? Godiamo appieno, forse, di tutto quello che abbiamo accumulato? Ci portiamo forse via qualcosa, da questo mondo? Riusciamo per caso a sfruttare fino in fondo quello che abbiamo? Ma se nemmeno di tutte le paia di scarpe che abbiamo nell'armadio riusciamo a consumare le suole, prima che arrivi la parola “fine”! Davvero, tutta la nostra vita è “un soffio”: che, guarda caso, in ebraico si dice “havel”, quella nebbiolina mattutina che con un soffio di vento o un raggio di sole viene spazzata via, e non resta più nulla. “Havel havalim hakol havel”: una specie di scioglilingua, per dire che tutto è vano, non serve proprio a nulla, nulla ha senso, perché tutto è fugace e fallace. Tra l'altro, Qoèlet ha la soluzione, nei versetti che seguono quelli che abbiamo letto nella Liturgia. Continua, infatti, dicendo: “Non c'è di meglio per l'uomo che mangiare e bere e godersi il frutto delle sue fatiche; mi sono accorto che anche questo viene dalle mani di Dio. Difatti, chi può mangiare o godere senza di lui?”.
Ecco, allora, dove sta la differenza, la discriminante di cui parlavamo all'inizio, tra il sacrosanto pensiero di un onesto lavoratore che vuole godere dei propri beni in un meritato riposo, e lo sferzante giudizio di Gesù sull'utilizzo delle proprie ricchezze: che tutto questo, come ogni cosa della vita, viene dalle mani di Dio. E come da lui viene, così a lui ritorna. Perché senza di lui “mangiare, bere e divertirsi” perdono di significato; anzi, senza di lui tutti diviene inutile e dannoso.
Che cosa resterà, del resto, di quei “tesori accumulati per sé” senza arricchire davanti a Dio? Ne beneficeranno altri (e magari non senza litigarci su, come avviene tra i due fratelli che chiedono a Gesù di dirimere le questioni legate alla loro eredità... quanta attualità, nel vangelo!); diventeranno motivo di affanno perché dovremo difenderci da chi ce li vuole rubare (e il vangelo di domenica prossima andrà avanti su questa linea); se ne andranno via come un soffio, così come in un soffio se ne va la nostra esistenza, che se dura anche solo un giorno in più perché abbiamo due soldi in più per pagare costose terapie, prima o poi termina pure lei. E da questa nostra vita - non ci stancheremo mai di dirlo - non portiamo via nulla. Resterà tutto qui. E se non avremo imparato a condividerlo con altri, come altri (i nostri padri) lo hanno condiviso con noi; se non lo doneremo, così come a noi è stato donato per grazia di Dio (perché è la campagna di quell'uomo ricco, e non lui, ad avere dato un raccolto abbondante, e i contadini sanno bene cosa significhi che un raccolto abbondante non dipende solo da loro); se su tutte queste cose “si ragiona da sé”, se - come diciamo proverbialmente - si fanno i conti senza l'oste, il conto dell'oste sarà molto più salato di quanto crediamo.
Per fortuna che il nostro “oste”, piuttosto che arrivare all'ultimo a fare i conti con noi suoi avventori, ci mette in guardia prima che ci possiamo inebriare, prima che ci lasciamo ubriacare dalla cupidigia delle ricchezze, dal desiderio di possedere sempre di più, di accumulare per noi stessi senza pensare di arricchirci con le cose di Dio.
E che cosa ci dice, per metterci in guardia? Tutto quello che abbiamo ascoltato nell'abbondante ricchezza della Parola di oggi, l'unica ricchezza che merita di essere accumulata, e che credo di poter sintetizzare nella meravigliosa frase con cui Paolo ci ha esortato all'inizio della seconda lettura: “Se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra”.