TESTO Celebratela nelle piazze
don Angelo Casati Sulla soglia
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Pentecoste (09/06/2019)
Vangelo: Gv 14,15-20
«15Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; 16e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, 17lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. 18Non vi lascerò orfani: verrò da voi. 19Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. 20In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi».
A volte mi attraversa un pensiero: che questa festa, di Pentecoste, andrebbe celebrata in piazza. Il libro parla sì di una casa investita dal vento e di donne e uomini sfiorati da lingue di fuoco, ma poi subito l'avventura è sulla piazza. E ci sono moltitudini, moltitudini di popoli, evocati puntualmente con il loro nome. Come se la Pentecoste - Il dono dello Spirito, "spirare" - non potesse essere chiusa. Anche per la Pentecoste ci rimangono domande, che hanno il potere di fare disordine nelle nostre classificazioni troppo ordinate. Per esempio, circa il tempo dell'evento. Ci sembrerebbe giusto dire: cinquanta giorni dopo la Pasqua. Ma Poi Giovanni racconta che Gesù sui suoi discepoli soffio lo Spirito la sera stessa di pasqua, entrando per porte chiuse. E ancor prima Giovanni, dopo aver raccontato di Gesù in croce e della spugna imbevuta di aceto, in risposta al suo grido "Ho sete", scrive: "Dopo avere preso l'aceto, Gesù disse: "E' compiuto". E chinato il capo, consegnò lo spirito". Pentecoste il venerdì santo, in un cielo buio.
Qualcuno potrebbe rimanere sconcertato. E invece è bellissimo. Le ore dello Spirito? Quando battono? Non sai quando, né sai quante, né sai da dove viene e dove va. E un'ora di venuta potrebbe essere per noi oggi. E, come abbiamo notato, non tutte le manifestazioni hanno la vistosità e il clamore dell'effusione dei cinquanta giorni dopo la Pasqua, quando Luca sembra raccontare l'evento con i segni della discesa di Dio sul monte Sinai, vento e fuoco. Più che su l'esteriorità dei segni dovremmo sostare su ciò che provoca l'effusione, per lo più invisibile, dello Spirito. E' come se sotto la croce, o la sera di Pasqua o a Gerusalemme cinquanta giorni dopo, ci fosse bisogno di una rianimazione. Perdonate l'allusione al verbo "rianimare". Discepoli da rianimare, e non solo loro.
Quasi il battito - dico il battito del cuore - si fosse fatto nei giorni ormai impercettibile o addirittura assente. Ed ecco il dono di chi ti offre il respiro perché riprenda a battere il cuore. Voi capite di che cosa parlo: sì, facciamo le cose, ma un po' per inerzia, per abitudine, senza metterci il cuore, senza passione, senz'anima. Come fossimo da ri-animare. Ebbene la Pentecoste sembra essere la risposta di Dio a una suggestiva antica promessa, custodita nel rotolo del profeta Ezechiele. dove si parla di "spirito nuovo": "Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne" (Ez 36,26). Non so se concordate con me nel dire che c'è troppa durezza nei nostri giorni, troppa durezza in me. Le parole e i gesti sembrano a volte portare più lo stigma del cuore di pietra che non l'immagine di un cuore di carne: "Donami, Signore, uno spirito nuovo, il tuo spirito; togli da me il cuore di pietra e dammi un cuore di carne".
Lo Spirito - riflettevo - ha anche un altro effetto sorprendente: diventa "ispiratore", suggeritore, muove sogni, accende fantasie, spinge ad azioni, crea bellezza. Ed ecco allora che le cose non le fai per decreto, ma per la libertà dello spirito. Ci libera - voi mi capite - da una "religione per decreto", pallida. Per decreto. E fa sì che alle cose, alle persone, alle situazioni, ci affacciamo perché attratti o, se volete, perché innamorati e non per osservanza di legge. E' come se per l'avvento dello Spirito si passasse da una vita appiattita sull'etica a una vita scarmigliata, sospinta, dall'estetica. Lo ricordava, poco tempo fa, in una sua breve riflessione, sul quotidiano "Avvenire", l'arcivescovo José Tolentino Mendonça.
Scriveva: "La verità è questa: se la gioia dell'incontro, se la sorpresa di un innamoramento, di un "che bello!" gridato con il cuore, non precede le rinunce o i sacrifici, questi non genereranno che tristezza, rigidità, rigorismo e frustrazione. La vita non comincia con l'etica, ma con l'estetica. Procede non per obbligo, ma grazie alla forza dell'attrazione. Nella vita non si va avanti per decreto.(...) La vita umana non è statica, ma piuttosto estatica. La vita è estasi, movimento, desiderio di unirsi all'oggetto dell'amore. Si consuma per una passione che germogli da una bellezza capace di illuminarci. Eppure, apparteniamo a un tempo e a una cultura che sembrano aver rinunciato alla bellezza. Per riscoprirla dovremo probabilmente abbracciare il silenzio e la lentezza dei cammini meno frequentati".
Vorrei infine, ancora una volta, aggiungere che non finisce di stupirmi un segno nella venuta dello Spirito a Gerusalemme nella Pentecoste. I convenuti dalle diverse parti del mondo non possono nascondere la propria meraviglia: "Come mai" dicono "ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa"? E' il contrario - ce lo siamo detti tante volte - il contrario della babele delle lingue. Secondo una pagina antica quando qualcuno fra gli umani pensò di imporre agli altri una sola lingua, la propria, accadde la confusione, fu a Babele. La Bibbia ci ricorda qualcosa di prezioso: se vogliamo creare paura, confusione, insicurezza la strada è tracciata: è quella dell'imposizione di un'unica lingua, di un'unica fede, di un'unica cultura. Al contrario il segno fascinoso, che crea una piazza in festa, è semplicemente l'opposto, quello della Pentecoste: che ognuno sia capito nella sua lingua nativa.
E sul significato di lingua nativa potremmo indugiare a lungo. Quest'anno mi è venuto molto spontaneo pensare che un primo significato potrebbe essere questo: ognuno di noi ha una sua lingua, ogni donna, ogni uomo. E la bellezza che ognuno possa esprimere se stesso, se stessa, nel suo profondo. Ed essere capiti. Poi, allargando il significato di "lingua nativa", mi veniva spontaneo pensare a chi non viene rispettato e ascoltato nella sua lingua: le donne, per esempio, in una società e in una chiesa maschilista; i fedeli, laici e laiche, per esempio, in una chiesa clericale; i poveri, non riconosciuti nella loro lingua perché li si guarda come fossero privi di cultura; i diversi da noi che, lo si dica o no, vengono considerati senza diritti, senza il diritto della loro lingua nativa. E potremmo continuare. Pentecoste dunque è l'arte di far parlare. E' ìl contrario di ogni tentativo di far tacere.
E' l'arte di far parlare tutti: nasce così la festa sulla piazza. E allora va e costruisci piazze. Secondo lo Spirito. Non chiederti se siamo in tanti o se siamo in pochi. Chiediti se siamo secondo lo Spirito.