TESTO Esultate o giusti nel Signore
don Walter Magni Chiesa di Milano
6a domenica dopo Epifania (anno C) (17/02/2019)
Vangelo: Lc 17,11-19
La lebbra è un morbo della pelle che, nell'immaginario comune, più di ogni altro può sfigurare il volto umano. Il Vangelo di questa domenica narra di un gruppo di dieci lebbrosi che osano andare incontro a Gesù con una buona dose di coraggio. Osando sfidare la Legge sicuramente, ma soprattutto confidando nella Sua umanità, che non si sottrae a chi Lo invoca.
“Lungo il cammino”
Forse non l'avevamo mai pensato seriamente, eppure si diventa credenti solo mettendosi in cammino, camminando. “Camminando s'apre cammino”, recitava il titolo di un libro appassionante (di Arturo Paoli). È solo camminando che una fede, troppo spesso irretita dentro linguaggi irrigiditi, che la nostra fede si dischiude alla speranza e si esprime in una carità operosa e appassionata. E così anche Gesù cammina per compiere la volontà del Padre, viaggiando dalla Galilea delle genti verso Gerusalemme. Anche Gesù, dunque, ha sperimentato la fatica di camminare ascoltando, incontrando, regalando misericordia, pazienza e amore. Soprattutto incontrando tanta gente e incontrando anche noi. “Lungo il cammino verso Gerusalemme, il Signore Gesù attraversava la Samaria e la Galilea. Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi (...)”. Potremmo anche dire che per essere riconosciuti dentro l'autenticità di un cammino di fede, disponibile all'incontro con Dio, con il Figlio di Dio, importa riconoscere con onestà la propria condizione di umanità ferita, toccata in profondità dall'esperienza del male. “Gli vennero incontro dieci lebbrosi”. “perché “non sono i sani che hanno bisogno del medico” e questi sono consapevoli della loro terribile condizione. Quella d'essere affetti da una malattia mortale. Che precludeva ogni rapporto sociale, escludendo qualsiasi relazione religiosa. Il lebbroso era l'immagine plastica della ripugnanza del peccato; umanamente indisponibile a qualche forma di riscatto, salvo il miracolo di una guarigione impensata.
“Gesù Maestro, abbi pietà di noi”
E stando al Levitico, chi era affetto da questa penosa malattia doveva vivere fuori dal villaggio, indossare vestiti strappati tenendo il capo scoperto, gridando lungo la strada questo terribile riconoscimento: “sono immondo, sono immondo”. Ma questi, dopo che s'erano accorti che stava passando Gesù di Nazareth, osano gridare l'impensabile nei Suoi confronti: “Gesù Maestro, abbi pietà di noi”. Perché di fronte a Dio “tutti gli uomini hanno peccato” (Rm 3,23) e la condizione di questi lebbrosi non è altro che l'espressione della condizione dell'intera umanità, sofferente e peccatrice. E qui, dunque, bisogna osare. Avere il coraggio di gridare, esprimendo a Dio la propria condizione. Un bisogno struggente d'essere riconosciuti, ascoltati, abbracciati. È un grido forte quello che ancora sale al cospetto di Dio. Il grido di un'umanità che almeno davanti a Dio non si vergogna e rischia e grida. E questa è già fede, nel suo inizio, nel suo cominciamento e che Gesù non può non ascoltare. Tanto che “appena li vide, Gesù disse loro: ‘Andate a presentarvi ai sacerdoti'. E mentre essi andavano, furono purificati”. Certo Gesù S'attiene alla legge e alle sue prescrizioni, ma ribadendo il Suo diritto di priorità di poterSi rapportare ad ogni uomo, anche al più debole e peccatore, con lo sguardo e il cuore di Dio. Come il suo Creatore, il Suo salvatore: “e mentre essi andavano, furono purificati”. Noi forse talvolta abbiamo osato distinguere a chi e come concedere il perdono. Ma Dio quando si tratta di amare e perdonare non ammette distinzioni e condizionamenti.
“Uno di loro (...) tornò indietro”
Certo, nessuno è escluso dalla salvezza di Dio. A tutti è elargito lo stesso dono. Eppure, a questo punto avviene qualcosa che ci fa comprendere che il dono della fede giunge a compimento solo là dove scatta una consapevolezza, un riconoscimento del valore del dono. E infatti “uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce, e si prostrò davanti a Gesù, ai suoi piedi, per ringraziarlo. Era un Samaritano”. Dunque solo un samaritano miscredente sa tornare sui suoi passi, ritorna indietro. Compiendo il grande passo della conversione, della riconduzione di tutta l'esistenza sotto la signoria del Figlio di Dio, gettandosi “ai suoi piedi, per ringraziarlo”. Riconoscendo che quel Gesù, di cui poco prima aveva solo invocato il nome, non è solo il Maestro, ma è il Signore del mondo, il Figlio di Dio in persona. La nostra fede trova il suo compimento lungo il cammino dell'esistenza, con tutte le sue fatiche e le sue infinite peripezie, là dove nei fatti e negli avvenimenti torniamo a ringraziare Dio per il dono inestimabile della Sua presenza. Facendo eucaristia con Lui, rendendo grazie. La fede che ottiene la salvezza è solo quella che diventa “azione di grazia”, celebrazione della ferita, della relazione guarita tra l'uomo e Dio. E il fatto che solo un samaritano sa tornare per ringraziare ci aiuta a capire quanta grazia e quale amore si nasconde ancora nel cuore di chi magari non pratica le norme di una grande religione. Religione autentica, infatti, è anzitutto quella che ancora serve la fede, senza servirsene per sé e riconoscendo Dio, semplicemente.