TESTO Il Signore dà vittoria al suo consacrato
don Walter Magni Chiesa di Milano
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VII domenica dopo Pentecoste (Anno B) (08/07/2018)
Vangelo: Gv 16,33–17,3
«33Vi ho detto questo perché abbiate pace in me. Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!».
1Così parlò Gesù. Poi, alzàti gli occhi al cielo, disse: «Padre, è venuta l’ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te. 2Tu gli hai dato potere su ogni essere umano, perché egli dia la vita eterna a tutti coloro che gli hai dato. 3Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo».
Mi piacerebbe rileggere la Parola di questa liturgia attraverso la categoria del tempo. Intendendo il tempo non solo come krònos. Un susseguirsi incolore di istanti, una fredda cronologia di fatti. Ma come kairòs. Come evento, come istante di grazia, dove si consuma l'incontro, la mia relazione con Dio. Come l'Ora della quale parla Gesù nel Vangelo di oggi. Dice Simone Weil: “il tempo è l'attesa di Dio che mendica il nostro amore”.
Il tempo della lotta
Una immagine che ci aiuta a cogliere come capita spesso di vivere nel tempo ce la regala la prima lettura. Giosuè, alla conquista della terra del suo popolo, sta sferrando a Gàbaon una feroce battaglia contro gli Amorrei. Sperimentando addirittura una particolare assistenza del Signore, disposto a fermare il sole per dare al Suo popolo tutto il tempo necessario per giungere alla vittoria. Per quanto poi Qoelèt ci ricordi che “Per ogni cosa c'è il suo tempo (...); un tempo per la guerra e un tempo per la pace” (3,1.8), dobbiamo tuttavia riconoscere che davvero molta parte della nostra esistenza la trascorriamo lottando con noi stessi o con gli altri. Un continuo battagliare su questioni di rilievo, ma anche banali, soprattutto se le rileggiamo a distanza di tempo. Battaglie che sembrano non avere tregua. E il pensiero corre in questi giorni - semplificando forse alcuni conflitti che ci affaticano senza misura - alla lotta per la sopravvivenza, in cerca di libertà, che migliaia e migliaia di profughi stanno vivendo, anche in queste ore. Stipati in quei barconi fatiscenti. Domenico Quirico scriveva in un articolo recentemente (Adesso troviamo il coraggio: parliamo dei morti, La Stampa, 30/6/2018): “I morti: per favore, per una volta invece dei vivi, dei migranti vivi (...) degli aventi diritto e dei clandestini, si abbia il pudore di non parlare. Contiamo gli altri, i morti, i migranti morti”. Tutti questi morti ci guardano mentre continuiamo a discutere sul loro destino come fossero ancora vivi. Loro che la battaglia per la sopravvivenza e un poco di libertà l'hanno comunque persa per sempre.
“Che diremo dunque in proposito?”
Eppure diciamo: il Signore non abbandona chi è nella tribolazione. E Paolo, scrivendo ai Romani, si domanda: “che diremo dunque in proposito? Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?”. E più avanti: “Io sono infatti persuaso che né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio”. La convinzione che il Signore ci accompagna e ci assiste comunque nelle nostre battaglie va chiarita. Soprattutto se ci sentiamo traditi avendo perso qualche nostra battaglia. Allora sulle nostre labbra potrebbe persino affiorare il disappunto, quando non è imprecazione: “anche Dio mi ha abbandonato”. “Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele...” (Lc 24,21), dicevano anche i discepoli di Emmaus, che se ne andavano delusi da Gerusalemme dopo la morte di Gesù. “Io speravo, immaginavo, credevo che almeno Dio fosse dalla mia parte. Salvaguardando certe esigenze, rispondendo almeno un poco alle mie domande. Mi ricredo...”. Come dicessimo che il Dio in cui credo non è affatto Dio. Non è mai esistito. Un Dio tappabuchi di certe battaglie personali, di contenziosi famigliari che si protraggono per generazioni, grazie a Dio non esiste davvero. E neppure il nostro Dio accetterebbe d'essere il vessillo di certe battaglie ideologiche che si perdono nei meandri del pensiero, perdendo di vista la realtà impagabile della vita di un uomo. E allora di quale Dio parla la Parola di oggi, quando ci attesta che Dio è l'Emmanuele, il Dio con noi?
“È venuta l'ora”
Si diceva di rileggere il tempo. Questo nostro tempo. Con le sue domande, le sue attese e le sue speranze infrante. Come rileggerlo nella luce del Vangelo, della grazia? Individuando il modo preciso col quale Dio di sta accanto. Portando a compimento le nostre domande più vere, le nostre speranze più grandi. La breve pericope del Vangelo di Giovanni di questa liturgia è estremamente forte, eloquente. Anzitutto Gesù, nel contesto dell'ultima cena, fa un grande invito a fidarsi di Lui, a stare dalla Sua parte, chiedendo ai Suoi di affidarsi a Lui: “Vi ho detto questo perché abbiate pace in me. Nel mondo avete tribolazioni, ma abbiate coraggio: io ho vinto il mondo!”. Tutto può capitare. Qualche tribolazione potrebbe anche attraversare pesantemente la nostra esistenza, ma se Lui è con noi non possiamo temere: “abbiate pace in me (...). Abbiate coraggio. Io ho vinto il mondo”. Poi l'interlocutore cambia, infatti “alzàti gli occhi al cielo, disse: ‘Padre, è venuta l'ora: glorifica il Figlio tuo perché il Figlio glorifichi te'”. È giunta l'ora di rischiare, di buttarMi così come sono nelle braccia del Padre. Lasciando che la tribolazione e la croce facciano la loro corsa. Come se abbracciando la croce che Gli stava davanti, Gesù stesse semplicemente abbracciando il Padre Suo. Buttandosi in Lui, senza più badare a Sé stesso. Cercando parole che potessero spiegare, giustificare una situazione inspiegabile, umanamente insopportabile. Entrando nel silenzio. Questa è l'ora di Gesù. Ciascuno ha davanti l'opportunità di aderire all'ora di grazia che l'attende.