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TESTO O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra

don Walter Magni   Chiesa di Milano

VI domenica dopo Pentecoste (Anno B) (01/07/2018)

Vangelo: Mt 11,27-30 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Mt 11,27-30

27Tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo.

28Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. 29Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. 30Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero».

Il nostro è un Dio che incanta. Sorprende Abramo mentre guarda un cielo stellato, promettendogli un popolo che abiterà una terra ricca di pascoli. Avvolge Elia con un vento di brezza leggero, dopo che s'era rifugiato in una caverna per ripararsi dalla tormenta. E una folgorazione, un incantamento dice anche l'inizio dell'incontro di Dio con Mosè.

Le orme di Dio
Vivendo in un mondo sempre più artificiale e virtuale, diventa sempre più accattivante cercare di tornare alla natura, a tutto ciò che è naturale. La recente enciclica Laudato Sii (24/5/2015) ce ne dà testimonianza. Perché anche ai cristiani è richiesta una maggiore coscienza ecologica? Ci sono ragioni di sopravvivenza planetaria, ma la natura è da sempre, in tutte le religioni, lo spazio privilegiato nel quale Dio si rende presente e si rivela. Templi e chiese sono segno forte della nostra devozione, ma Dio da sempre ama ritrovarci nell'orizzonte di quella stessa natura che Lui ha creato. Per questo importa raccogliere l'invito a custodirne la bellezza e il mistero. Così un giorno anche Mosè, mentre stava pascolando il gregge di suo suocero Ietro, fu attratto da un fenomeno inconsueto: un roveto che ardeva senza consumarsi. “pensò: ‘Voglio avvicinarmi a osservare questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia?'”. Una domanda posta così - l'avvicinamento curioso e l'osservazione attenta di un grande spettacolo - dice con tutta evidenza la caratteristica fondamentale di ogni uomo: la sua capacità di domandare. Non il gusto estetico della domanda in sé, ma osare una domanda dentro la quale già trapela una risposta sensata, possibile. Quasi una provocazione di Dio per chi crede. Come fosse compiaciuto nel vederci così attratti e incuriositi. Anche in questo modo, passando attraverso i fenomeni della natura. Dio stabilisce una relazione convincente con Mosè, come con ciascuno di noi. Prendendo sul serio le nostre domande.

“Qual è il tuo nome?”
E un'altra domanda Mosè pone a Dio, che lo stava inviando agli egiziani per liberare il popolo di Israele da una schiavitù penosa. D'accordo - sembra dire Mosè - farò quanto chiedi, vado dagli Israeliti e dirò loro: ‘Il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi'. Mi diranno: ‘Qual è il suo nome?' E io che cosa risponderò loro?”. Come facesse lui quella domanda, come dicesse direttamente a Dio: ma tu chi sei davvero? Dimmi ora il tuo nome? Che meraviglia intuire che dentro certi approcci agli infiniti fenomeni della natura, che talvolta esaltano il nostro domandare e talaltra lo caricano di paura, c'è un orizzonte, una sapienza “che non è di questo mondo”, come dice Paolo nella I epistola ai Corinti. Mosè aveva infatti già udito, poco prima, che Colui che gli stava parlando dal roveto ardente S'era definito “(Io sono) il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe”. Ma questo non gli bastava più. Reclamava qualcos'altro. Invocava una relazione, un rapporto più intenso e più vero. Come quando, stando al racconto dell'Esodo, aveva osato chiedere a Dio di poter contemplare il Suo volto, la sua gloria, ottenendo da Dio questa risposta: “Farò passare davanti a te tutta la mia bontà” (33,19). Proprio come canta estasiato il salmo 8: “O Signore, nostro Dio, quanto è grande il tuo nome su tutta la terra: sopra i cieli si innalza la tua magnificenza (...). Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l'uomo perché te ne ricordi e il figlio dell'uomo perché te ne curi?”.

“Nessuno conosce il Padre se non il Figlio”
E la pericope evangelica di questa liturgia non pone domande. Piuttosto Gesù afferma che a partire da Lui non dobbiamo più domandare a Dio il Suo nome. Gli uomini di tutti i tempi e di tutte le religioni continueranno ad innamorarsi di Dio cercando di scoprire il Suo nome, volendo raggiungere i tratti del Suo cuore. Ma Dio tutto Si è riversato nel Figlio. Guardando a Lui, potremo inoltrarci per sempre nel mare infinito del Suo volto: “tutto è stato dato a me dal Padre mio; nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio vorrà rivelarlo”. Non possiamo più prescindere da Gesù per dire Dio, da quando Lui è tutto per noi: “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6). Come ancora cantiamo nelle nostre liturgie: “Tu sei la mia vita, altro io non ho”. Resta il fatto che oggi Dio Si dice anche in tanti altri modi. Ciò comporta la rinuncia all'idea che la verità sia un tesoro di cui solo noi abbiamo la mappa. Continuare piuttosto a ritenere che il magistero cattolico è custode della verità significa non stancarsi di continuare a cercare la verità, tenendo sempre il nostro sguardo fisso su Gesù, senza imbrigliarLo in qualche schema. Accogliendo la bellezza e il rischio di un Dio che sempre e continuamente si rivela nel legarSi, nel mescolarSi, nel donarSi. Non avere paura di confondere i nostri linguaggi con i linguaggi degli uomini, compromettendoci, come ci ha insegnato Gesù, è la sola condizione per continuare a dire il Dio del Vangelo di Gesù, anche nel tempo dell'incertezza.

 

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