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TESTO La bellezza di riconoscersi alla voce

don Angelo Casati   Sulla soglia

IV domenica T. Pasqua (Anno B) (22/04/2018)

Vangelo: Gv 10,27-30 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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27Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. 28Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano. 29Il Padre mio, che me le ha date, è più grande di tutti e nessuno può strapparle dalla mano del Padre. 30Io e il Padre siamo una cosa sola».

Permettete che inizi, con un pizzico di ironia, riandando per un istante al brano degli Atti degli apostoli, un pizzico di ironia che nasce da un dettaglio che riguarda la comunità di Troade, la notte prima che Paolo si staccasse da loro. Paolo era un fiume di parole: "continuava a conversare senza sosta" è scritto. Tant'è che un ragazzo che si era appollaiato sopra una finestra, preso dal sonno, un sonno profondo, sopraffatto dal sonno, cadde giù dal terzo piano.

Paolo lo restituisce alla vita. Ma credete che la cosa gli abbia insegnato qualcosa? A contenere il fiume di parole? E' scritto che "risalì, spezzò il pane, mangiò e - imperterrito, diremmo noi - parlò ancora molto fino all'alba". Pensate il verbo che nel testo si usa è il verbo greco homilein, che ha significato di "conversare" e allude in modo immediato alla parola "omelia''. Considerando il verbo mi nascevano in cuore due riflessioni. La prima è una domanda: le mie omelie sono un conversare, o sono un dire dall'alto. Anche se non si sale più il pulpito, a metterci sul pulpito può essere anche un tono saccente, supponente, apodittico con cui io sono solito parlare.

Se così è, il mio non è un conversare, non è omelia, è parlare dall'alto. La seconda riflessione riguarda la cosa che Paolo ancora non aveva capito - ma io l'ho capita? -: che le omelie troppo lunghe mettono sonno. Oggi certo, per fortuna, è remoto il pericolo che uno cada per sonno dal terzo piano come quella notte, ma, che qualcuno possa cadere dal sonno, penso proprio sì. Proprio per questo Papa Francesco, parlando dell'omelia all'udienza generale del 7 febbraio scorso - e non era la prima volta - rivolgendosi a noi sacerdoti diceva: "L'omelia deve essere ben preparata, deve essere breve, breve!". E continuava: "E quante volte noi vediamo che nell'omelia alcuni si addormentano, altri chiacchierano o escono fuori a fumare una sigaretta...

Per questo, per favore, che sia breve, l'omelia, ma che sia ben preparata... non deve andare oltre i 10 minuti, per favore" Passa nelle parole del Papa un'ombra di ironia. Ma questo non mi esime dal chiedermi se a volte, troppo volte, io, per il primo - perdonate - disattenda questo forte richiamo. Che -badate bene - sarebbe superficiale ridurre a una questione di minuti. Dice la sensibilità di misurare l'umanità di chi ti sta davanti, di riconoscere che il fiore, se ne hai rispetto, non lo puoi annegare con secchiate d'acqua. Ne conosci la sete e sai dove arriva la sete.

E' questione di stare alla stessa altezza, di non imperversare dall'alto. Ebbene, è proprio in questo orizzonte che mi sembra possibile un aggancio - che a taluni potrà sembrare anche risibile, o forse pallido - con il vangelo di oggi che parla di Gesù il pastore e di riflesso, dunque, dovrebbe gettare luce sui pastori che oggi ne raccontano le orme o dovrebbero essere impegnati a raccontarne le orme. Certo, in quel gruppo di Giudei cui Gesù stava parlando, non mancavano uomini che esibivano il loro ruolo di pastori.

Ma proprio a loro che tenevano il distacco dalla gente, a loro che si facevano chiamare "maestri", a loro che caricavano la gente di pesi insopportabili, a loro che ostentavano con vesti suntuose il loro potere, Gesù parla della sua diversità irriducibile. E' tutto un altro orizzonte il suo. Tra lui è le pecore tutt'altro: che cosa risplende in primo piano? Dico "risplende" perché le parole di Gesù nel vangelo ci incantano: in primo piano non la distanza, ma la relazione, la relazione che vive tra pastore e pecore. Una questione di vita o di morte per un pastore. Se alla figura e al nome di "pastore" tu togli il "vivere accanto", il condividere giorni e notti, tu hai spento la bellezza del nome "pastore".

Gesù direbbe: se togli il "condividere giorno e notti" guardati dal parlare di pastore, ne sporcheresti il nome, ne dissacreresti l'immagine, parla piuttosto di "mercenari". Non di pastori. Ci sono verbi di un incanto mozzafiato oggi nel piccolo brano a dire di che cosa è fatta una relazione. Bellissimi! Lasciatemi dire che sono i verbi dell'amore, dell'amicizia. Riascoltiamoli: ascoltare la voce, conoscere, seguire, e nessuno che possa strappare l'uno all'altro.

Verbi che danno linfa alla nostra relazione con Gesù: "ascoltare la voce", lo riconosci dalla voce, prima ancora che dalle parole, dal timbro della voce, sai come è fatto, non può essere che lui. Lo conosci. Quasi gli indovini i pensieri tanto ti è diventato familiare seguirne le orme nei vangeli. E quelle orme diventano le orme che tu cerchi - non importa se il tuo passo è più lento - cerchi di seguire. E poi una cosa sai, perché l'ha detta lui, e lui non si contraddice. Mai! Una cosa sai: che nessun potrà strapparti a lui. Niente, nessuno. Sto pensando che questo - perché niente è più importante di questo - dovrebbero raccontare, alle donne e agli uomini del loro tempo, i pastori. Ci sono per questo. E se dicessero tutto fuorché questo o altro prima di questo, sarebbe come se al vangelo avessero tolto il cuore.

Ma il racconto del pastore non muore in se stesso, diventa anche spinta alla costruzione di relazioni che accendano nella vita, della comunità, per le strade, nella storia, l'immagine evangelica del pastore e del gregge, l'immagine della relazione. Pensate, riconoscersi alla voce, conoscersi per ciò che si porta nel cuore, essere gli uni e gli altri alla ricerca delle orme di Gesù e portare in cuore la certezza che nulla potrà strapparci gli uni agli altri. Al di là dell'omelia troppo lunga di Paolo, era questo che si respirava nella comunità di Troade, un vibrare di sentimenti, di affetti, di commozione, nella grande stanza al piano superiore, illuminata da numerose lampade nella notte. Penso di aver oltrepassato abbondantemente i dieci minuti. Ve ne chiedo perdono.

 

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