TESTO L'ecosistema della fede
VI Domenica di Pasqua (Anno A) (01/05/2005)
Vangelo: Gv 14,15-21
«15Se mi amate, osserverete i miei comandamenti; 16e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre, 17lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete perché egli rimane presso di voi e sarà in voi. 18Non vi lascerò orfani: verrò da voi. 19Ancora un poco e il mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. 20In quel giorno voi saprete che io sono nel Padre mio e voi in me e io in voi. 21Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi è colui che mi ama. Chi ama me sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui».
Un discorso di promessa
I discorsi finali di Gesù nel vangelo di Giovanni, prima della Passione, appaiono spesso difficili, astrusi, o all'estremo opposto semplicistici e banali. Occorrono tante parole per dire che bisogna amare e volersi bene? Occorre mettersi con cautela in ascolto, per inquadrare fin dall'inizio di che genere di discorso si tratta. Ciò che Gesù dice non è infatti un racconto: non viene narrata una storia. Non è neppure un ragionamento, che parte da una cosa per dimostrarne un'altra. Non è nemmeno un elenco di precetti, o il chiarimento dell'unico precetto. Il discorso sfugge alle nostre definizioni e alle nostre aspettative. Di che cosa parla Gesù?
Un primo indizio che possiamo rilevare è una serie di espressioni al futuro: osserverete, pregherò, sarà in voi, non vi lascerò, ritornerò... abbiamo quindi una "promessa" (non un progetto, o un programma). In secondo luogo, vediamo che l'oggetto della promessa è una realtà che investe la nostra esistenza dall'interno: lo Spirito che "rimanga per sempre", che "dimora in voi e sarà in voi", "voi in me e io in voi". Si parla di amore, e delle condizioni per rimanere nell'amore. Ma occorrevano tanti discorsi astrusi per dire questo?
Una realtà viva
Il problema è che noi riduciamo l'amore ad un'emozione, a un sentimento, ad uno slancio del cuore che va e che viene. Per Gesù l'amore ha a che fare con la vita stessa di Dio. "Dio è amore" dice la prima lettera di Giovanni, con un'espressione che viene spesso fraintesa, come se quell'amore fosse facile da conoscere, e Dio rientrasse negli schemi ripetitivi dei nostri sentimentalismi. Noi possiamo accettare l'idea di un amore senza radici, che va e che viene; l'amore di cui parla Gesù è una realtà viva, stabile, duratura, che vuole impiantarsi in noi. E qui sta il segreto del discorso di Giovanni: non è un racconto, non è un ragionamento, non è un elenco: è la descrizione di una realtà viva, di un tutto organico, che viene necessariamente descritto nelle sue parti, ma non può essere vivisezionato e anatomizzato. O meglio ancora, visto che gli attori in causa sono diversi (il Padre, lo Spirito, Gesù, i discepoli), potremmo parlare di un ecosistema, un ambiente vitale in cui l'amore può mettere radici, svilupparsi e fiorire.
In rapporto a lui
"Se mi amate, osserverete i miei comandamenti": la persona di Gesù sta al centro dell'attenzione. L'amore di cui si parla ha le sue radici in lui. E tuttavia comporta una fioritura esterna: "chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama". Le due cose stanno assieme: una realtà profonda, di relazione con Cristo, e una manifestazione esteriore, l'osservanza dei "comandamenti". Noi sappiamo che il comandamento è unico: amare Dio e il prossimo. Tuttavia si fa plurale, perché trova un'infinità di realizzazioni, come vediamo in primavera una pianta che, spinta dalla stessa e unica energia vitale, produce un'infinità di fiori e foglie.
Il Consolatore
Ma come è possibile essere uniti in tal modo a Gesù, da avere in noi lo stesso amore, la sua stessa capacità di dono? Una simile prospettiva ci spaventa e ci attrae nel medesimo istante. Gesù risorto ci appare lontano, irraggiungibile. Perciò entra in campo lo Spirito, che prende dimora presso di noi. Il mondo non può riceverlo, perché si accontenta di un amore umano, delle realizzazioni parziali della persona. Il "mondo" qui rappresenta gli uomini che non accettano di instaurare una relazione profonda con Dio, e cercano una propria realizzazione autonoma. Ci si limita a un amore-rampicante, parassita, incapace di espandersi in tutte le sue dimensioni. La vita di cui parla Gesù non può essere costretta nelle paure, nelle meschinità, nelle prospettive umane limitate. E come una pianta senz'aria e senza radici, muore.
Il Padre
Per chi vive nello Spirito, Gesù diventa presente: "non vi lascerò orfani, ritornerò da voi". Ma non si tratta della stessa presenza della sua vita terrena: "il mondo non mi vedrà più". Gesù diventa accessibile solo a chi lo accoglie nella fede, e in lui può vedere il volto del Padre: "io sono nel Padre, e voi in me, e io in voi". L'amore che si esprime nei nostri piccoli gesti quotidiani ci fa scoprire che siamo in contatto con un amore più grande, con la radice stessa dell'amore. Le parole di Gesù sono promessa di un nuovo modo di esistenza, che ci fa oltrepassare i confini del nostro stesso essere. Il quadro delineato dall'evangelista è grandioso, e raccorda le singole azioni della nostra esistenza umana, in cui mostriamo la nostra fedeltà a lui (i "comandamenti"), il centro della nostra interiorità (l'amore), il legame con lo Spirito, il legame con Cristo, il legame con il Padre.
Il tutto inscindibile
Non è possibile rinunciare a nessuno dei componenti del quadro. Sarebbe come bloccare la crescita di una pianta. O farla vivere senza acqua, o senza sole, o senza aria. Cosa che di fatto non è impossibile: ma ne sortisce una piantina rachitica, sbiadita, incapace di portare frutti. Allo stesso modo troppo spesso i cristiani si accontentano di una vita parziale, alla maniera del "mondo", che non può ricevere lo Spirito, e non può vedere Gesù. Tuttavia, proprio per amore di quel mondo il Padre ha dato il Figlio unigenito. E a quel mondo Cristo ci invia. Ma siamo testimoni integrali?
Flash sulla I lettura
"Filippo [...] cominciò a predicare il Cristo". La predicazione in Samaria nasce da una serie di circostanze fortuite: il martirio di Stefano, la dispersione dei discepoli in territori lontani da Gerusalemme, la presenza di Filippo, uno dei compagni più attivi e intraprendenti di Stefano. Dovremo chiamarla fortuna, o presenza attiva dello Spirito? Siamo sicuri che queste fortune non capitino anche a noi?
"seppero che la Samaria aveva accolto la Parola di Dio": l'intervento degli apostoli avviene in un secondo momento. Non sono loro i protagonisti, ma la Parola stessa di Dio, e i Samaritani che le hanno prestato ascolto. Nella trama narrativa degli Atti è un momento di grande importanza: si realizza infatti la promessa di Gesù, posta all'inizio del libro, quando dice "mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria, fino agli estremi confini della terra". La Samaria è una frontiera che viene varcata, una barriera abbattuta. Cominciano a cadere i muri di separazione e le inimicizie.
"... pregarono per loro perché ricevessero lo Spirito Santo...": anche il dono dello Spirito faceva parte della promessa iniziale del Risorto. Nella nuova comunità che si è formata, il dono della Pentecoste si rinnova.
La Chiesa dunque vive soltanto se non si lascia abbattere dalle difficoltà e dalle persecuzioni. Proprio i problemi diventano l'occasione di cui Dio si serve per allargare le sue frontiere. Accanto alla cura e al rafforzamento della comunità, è vitale per i discepoli di Cristo spingersi ai confini, aprire le frontiere, portare l'annuncio del Vangelo a chi non lo conosce.
Flash sulla II lettura
"Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori...": esiste una dimensione interiore della fede che nessuno può conoscere. L'interiorità di ogni credente è il tempio in cui avviene segretamente l'adorazione di Cristo, che coinvolge tutta la persona: l'affettività, l'intelligenza, l'emotività, la volontà.
"... pronti sempre a rendere ragione della speranza che è in voi": tuttavia vivere in profondità la relazione con Cristo porta frutti anche all'esterno. Qui si parla di "rendere ragione", vale a dire spiegare, rispondere a domande, forse anche ad accuse. La testimonianza comincia suscitando delle domande. Ma quali domande suscita oggi la vita dei cristiani? Purtroppo si tratta spesso di interrogativi che nascono dalla dottrina della Chiesa, conosciuta attraverso i giornali o i pregiudizi comuni, e non dalla vita concreta dei credenti. Per di più, tale dottrina sembra essere più un elenco di proibizioni, che un invito alla speranza. In realtà la questione della speranza sta al fondo di ogni dibattito etico attuale: l'eutanasia (che cosa possiamo sperare davanti alla morte?); i vari problemi legati alla vita affettiva (da che cosa possiamo sperare di ottenere la felicità? solo dalla soddisfazione immediata e arbitraria della sessualità? possiamo sperare che duri per sempre l'amore tra uomo e donna?); l'uso e l'abuso della scienza (da chi possiamo attenderci la soluzione ai nostri problemi? solo dalle soluzioni tecnico-scientifiche?); il predominio dell'economia sulla persona (in nome di quale speranza posso rinunciare al guadagno immediato qui ed ora?). Non si tratta dunque di semplici proibizioni, ma di questioni drammatiche, che coinvolgono profondamente il nocciolo stesso della fede e della speranza in Cristo, e anche di una fondamentale fiducia e speranza nell'uomo stesso, al di là della fede professata. Ma noi cristiani viviamo di speranza? Abbiamo nella nostra vita quotidiana la percezione profonda di questa fiducia in Dio e nell'uomo che sorregge il nostro agire? Perché non abbiamo solo bisogno di essere correttamente informati e debitamente istruiti. E gli uomini e donne del nostro tempo non ci chiedono soltanto acute controargomentazioni. Vogliono prima di tutto vedere testimoni della speranza.