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TESTO Vivo, morto o X

don Cristiano Mauri   La bottega del vasaio

II domenica dopo la Dedicazione (Anno A) (29/10/2017)

Vangelo: Mt 13,47-52 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Chi potrà essere considerato solo buono? E ci sarà mai qualcuno che avrà vissuto così male da risultare “tutto cattivo”? E il giusto che avrà commesso una sola grave ingiustizia come sarà guardato? E il malvagio che avrà compiuto anche una sola volta il bene non lo vedrà riconosciuto?
Ma la potenza amorosa del Padre non si compie uccidendo, piuttosto sempre vivificando. E il Regno non si realizza condannando ma salvando.

Afferra, spinge, stringe, ammassa.
La rete fa il suo lavoro. Ingorda e affamata, prende tutto e assaggia ogni specie. Fino a fare il pieno.
Raduna e mette insieme. Senza attendere permesso, senza pensare alle buone maniere, senza il bisogno di chiedere scusa. Il buono e il marcio (sic!), l'utile e l'inutilizzabile. Nella rete gli opposti si toccano e gli estremi convivono. Insieme a tutto ciò che sta tra l'uno e l'altro. C'è chi impiega energie a disperdere e separare. C'è chi usa tutta la sua forza per radunare e accorciare le distanze.
La rete, raccoglie, anzitutto. E così il Regno dei cieli.
La presenza viva del Padre nella storia degli uomini - questo è il Regno che viene - è una forza che tiene insieme e che tiene l'Insieme. E consola sapere che c'è un Principio Paterno che supera la nostra fatica a stare nell'Insieme, che contrasta le spinte a disperderci ad ogni occasione opportuna, che lotta contro l'aggregarsi per soli interessi. E pacifica avvertire che la potenza del Padre riesce a vincere i nostri singolari “andare a pezzi” tra le cose della vita, ad abbracciare il nostro spaccarci in due tra il bello e il marcio che si alternano in noi, a contenere la paura di essere, alla fine, sempre e solo individui.

Lavora finché è piena, la rete. Fino alla fine.
Ma lavora anche «fino al fine»: che è scegliere, distinguere, discernere. Gettare ciò che è putrescente e già preda della morte. Tenere ciò che è bello e buono, ricco dello spirito di vita. Non si giudica tra ciò che è vivo e ciò che è morto. Non occorre un tribunale morale. Non servono sentenze celebrative o proclami di biasimo. Lo si constata, se ne prende atto. Si gioisce per quel che è salvo, si piange per quel che è perduto. Come la pesca, così il mondo giunge a una fine. Meglio sarebbe dire, ascoltando Matteo, che il mondo «giunge a un fine». C'è un compimento verso cui procede. Un culmine che deve essere raggiunto e che è posto come una certezza ineluttabile. Un tempo, più che uno spazio, in cui ogni cosa è condotta alla pienezza, raggiunge il suo scopo, trova la sua soluzione. Un momento in cui vengono rimosse le mezze misure, cadono i compromessi, trovano conclusione i percorsi. Un'esistenza in cui non si capiscono le cose sempre a metà, non si ama solo per un po', non si gioisce a tempo determinato.
Perché il Regno dei cieli - quella presenza paterna che vivifica la storia - è una forza di compimento. È l'alleato di chi desidera la pienezza, di chi cerca il fine delle cose, di chi lotta per l'autenticità. Chi lo cerca non può che trovarlo. In quella luce spirituale che illumina ciò che è secondo l'amore misericordioso del Padre e oscura ciò che non lo è. In quella forza tutta interiore che si traduce nel coraggio di saper lasciare ciò che è morto per tenere ciò che è vivo.

Un confine preciso viene tracciato, infine, tra il malvagio e il giusto.
Così accade la separazione per mano degli angeli. È una distinzione chiara, definita e definitiva. Non c'è possibilità di malintesi o fraintendimenti. L'inganno non è più dietro l'angolo. Il male non può più mascherarsi da bene. L'ingiustizia non può passare per lealtà. La menzogna non sa più truccarsi da verità. Il grigio è bandito e sparisce la tensione del dover risolvere continuamente l'ambiguità tra ciò che è buono e ciò che non lo è. In questione sono le opere. Sempre in Matteo il discrimine è quello: il Vangelo si comprende con le mani e con ciò che attraverso di esse si realizza. Si tratta di intelligenza pratica, si tratta di professione di fede operativa. Proprio per ciò, però, chi potrà essere considerato solo buono? E ci sarà mai qualcuno che avrà vissuto così male da risultare “tutto cattivo”? E il giusto che avrà commesso una sola grave ingiustizia come sarà guardato? E il malvagio che avrà compiuto anche una sola volta il bene non lo vedrà riconosciuto?
Ma la potenza amorosa del Padre non si compie uccidendo, piuttosto sempre vivificando. E il Regno non si realizza condannando ma salvando. La fine e il fine di ogni esistenza è l'accadere, una volta per tutte di quel «liberaci da ciò che è male». E il giudizio non può che essere l'occasione definitiva in cui si traccia in noi il confine tra il buono e il cattivo, il momento in cui viene risolta la sofferenza del dover convivere con quel po' di malvagio che c'è in ognuno di noi. Tutto viene bruciato nella fornace della Misericordia del Padre - questo è il giudizio - e si apre il tempo della libertà. Quello in cui splenderà solo il bello in noi, e il buono non dovrà più spartirsi lo spazio con il malvagio.

Chissà perché hanno sempre usato questa parabola per spaventare.
Oltretutto presentando il volto di un Dio vendicativo che nulla a che vedere con il Padre di Gesù Cristo. Eppure è un racconto che trasuda speranza e fiducia da ogni parola. Che la storia sia raccolta in un Insieme, che la fame di vita trovi compimento, che accada di essere liberati dal male è puro Vangelo. Da accogliere accorciando le distanze, rinunciando a ogni forma e intenzione di giudizio, spendendosi perché ognuno raggiunga il proprio fine, anticipando la soluzione di ogni ambiguità di vita, rendendo attuale la Misericordia che salva scartando il male e salvando ogni possibile porzione di bene.
Buonissima notizia. Di cui godere da qui all'eternità.

 

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