TESTO Dammi vita, Signore e osserverò la tua parola
don Walter Magni Chiesa di Milano
Domenica che precede il martirio di S. Giovanni il Precursore (Anno A) (27/08/2017)
Vangelo: Mc 12,13-17
13Mandarono da lui alcuni farisei ed erodiani, per coglierlo in fallo nel discorso. 14Vennero e gli dissero: «Maestro, sappiamo che sei veritiero e non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno, ma insegni la via di Dio secondo verità. È lecito o no pagare il tributo a Cesare? Lo dobbiamo dare, o no?». 15Ma egli, conoscendo la loro ipocrisia, disse loro: «Perché volete mettermi alla prova? Portatemi un denaro: voglio vederlo». 16Ed essi glielo portarono. Allora disse loro: «Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?». Gli risposero: «Di Cesare». 17Gesù disse loro: «Quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio». E rimasero ammirati di lui.
Nell'episodio che ci racconta l'evangelo di Marco di questa domenica, alla domanda di chi vuole metterLo alla prova con malizia, Gesù risponde ancora una volta giocando al rialzo, com'è solito fare. Lasciamo pertanto che s'innalzi il livello del nostro ascolto e del nostro coinvolgimento per l'Evangelo del Signore.
Primato di Dio
Al tempo di Gesù in Giudea si era consolidato il dominio di Roma e l'imposta da pagare in moneta romana ne era diventato il segno più evidente. Per gli ebrei non si trattava solo di accettare o combattere la dominazione romana. La questione per il mondo ebraico aveva un risvolto religioso determinante. Proprio quella forma di dominio e di oppressione, esercitato anche attraverso una pesante riscossione di tasse, toccava direttamente la figura di Jahwé, inteso come unico Signore del popolo di Israele. Mentre altre culture orientali tendevano a considerare il re come un Dio, quella ebraica non ammetteva questa mediazione. Nessun re o imperatore poteva oscurare o pretendere di occupare il primato di Dio nei confronti del suo popolo. Quando Gesù, da ebreo convinto, afferma che “quello che è di Cesare rendetelo a Cesare, e quello che è di Dio, a Dio”, è perché vuole riaffermare che Dio è l'unico Signore di Israele. Che non può essere emulato da nessuno. Anzi: è il Dio che rovescia “i potenti dai troni”, come canta Maria nel Magnificat. E a Dio va dato tutto quello che è Suo. C'è un primato di Dio sulla vita di tutti che nessuna regalità umana può eludere. Ciò che è di Dio non può essere strappato dalle Sue mani. E se mai mi trovassi tra le mani qualcosa di Suo, allora tutto andrà subito restituito a Lui, Creatore e Signore del cielo e della terra.
Più che pagare, restituire
C'è un altro passaggio da rilevare nel dialogo tra i farisei e Gesù. Tanto loro domandano se “è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?”, quanto Gesù non sta al loro gioco. Cambia prospettiva, passando dall'uso che quelli fanno del verbo pagare al significato specifico del verbo restituire: “Rendete a Cesare quello che è di Cesare”. Cioè: se questa moneta è di Cesare perché ve l'ha imposta e ha a che fare con lui, allora a lui va restituita. Se ti servi di una moneta, vuol dire che stai al gioco del dare e dell'avere, del do ut des. Sottomesso alle sue regole e al suo giogo. Una restituzione dovuta che l'uso del denaro, con tutte le sue implicanze, semplicemente impone. Un sistema di restituzione che faceva il gioco dell'imperialismo di allora e che continua, in modo più stringente, anche oggi. Quando poi il sistema finanziario si inceppa o va in crisi, allora scattano forme di acquisto alternative, la logica delle facilitazioni, delle evasioni. E anche le domande si fanno più intense: cosa devo restituire ancora a questo sistema che non mi convince? Perché pagare tasse e tributi a non finire? Come combinare una restituzione onesta con l'esosità di un sistema che tende a consumare il cittadino? Domande legittime, da contestualizzare continuamente nell'orizzonte di una restituzione mai scontata, da ridefinire di volta in volta per amore di giustizia autentica e non astratta.
Ringraziare
Gesù ci obbliga però ad andare oltre. A scoprire che alla radice del restituire sta la capacità di ringraziare. Come fossimo sempre in debito con chi ci precede, facendoci dono di qualcosa che non può essere pagato e restituito. L'assolutizzazione dell'individuo, l'esasperazione dei diritti rispetto ai doveri, ci ha fatto dimenticare il primato di un orizzonte di grazia che ci precede e non accetta alcuna ricompensa. Come quando al mattino prego dicendo: “Ti adoro mio Dio, ti ringrazio di avermi creato, fatto cristiano e conservato in questa notte”. Riconoscendo che prima di me c'è Dio e con Lui ci sono gli altri. L'altro, con tutto il suo mistero di grazia insondabile e incalcolabile. Come fossimo chiamati ad essere tra noi in debito continuo, esercitando una reciprocità senza fine. Grazie a Dio, dunque, grazie anche ai miei genitori. Grazie ai poeti e agli scienziati. Grazie a tutti coloro che in modi diversi hanno contribuito alla organizzazione di quella società e anche di quella Comunità che mi accoglie e alla quale appartengo. Quando si impara a ringraziare, intuendo, come pure affermava il Curato di campagna ormai morente, che “tutto è grazia!” (G. Bernanos), significa semplicemente entrare nell'orizzonte di Dio. Questo è il cambio di prospettiva che Gesù chiede quando ci invita a “rendete (...) a Dio quello che è di Dio”. Da Lui viene il respiro, il volere e l'operare, il gioire e l'amare, e quell'anelito di eternità che ritrovi nel cuore e nell'intelligenza. Davanti a Lui, come davanti a ogni uomo noi non saremo mai dei pretendenti, ma solo e sempre degli inguaribili debitori.