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TESTO La vita non finisce, e neppure la speranza

don Alberto Brignoli   Amici di Pongo

XXXII Domenica del Tempo Ordinario (Anno C) (06/11/2016)

Vangelo: Lc 20,27-38 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

Visualizza Lc 20,27-38

In quel tempo, 27si avvicinarono a Gesù alcuni sadducei – i quali dicono che non c’è risurrezione – e gli posero questa domanda: 28«Maestro, Mosè ci ha prescritto: Se muore il fratello di qualcuno che ha moglie, ma è senza figli, suo fratello prenda la moglie e dia una discendenza al proprio fratello. 29C’erano dunque sette fratelli: il primo, dopo aver preso moglie, morì senza figli. 30Allora la prese il secondo 31e poi il terzo e così tutti e sette morirono senza lasciare figli. 32Da ultimo morì anche la donna. 33La donna dunque, alla risurrezione, di chi sarà moglie? Poiché tutti e sette l’hanno avuta in moglie». 34Gesù rispose loro: «I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; 35ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: 36infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. 37Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. 38Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

Forma breve (Lc 20, 27.34-38):

In quel tempo, disse Gesù ad alcuni8 sadducèi, 27i quali dicono che non c’è risurrezione: 34«I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito; 35ma quelli che sono giudicati degni della vita futura e della risurrezione dai morti, non prendono né moglie né marito: 36infatti non possono più morire, perché sono uguali agli angeli e, poiché sono figli della risurrezione, sono figli di Dio. 37Che poi i morti risorgano, lo ha indicato anche Mosè a proposito del roveto, quando dice: Il Signore è il Dio di Abramo, Dio di Isacco e Dio di Giacobbe. 38Dio non è dei morti, ma dei viventi; perché tutti vivono per lui».

Ho pure provato a pensarci, qualche volta, ma ho abbandonato prontamente il pensiero. Non so se per paura, o forse perché dentro di me lo ritenessi inutile: ma più di tanto, non vi ho mai indugiato o macchinato sopra. Ripeto, forse tutto nasce da un timore, dalla paura - tutta umana, credo - nel pensare a qualcosa che non conosci, che non vedi, che concretamente non c'è e non sperimenti, eppure che senti dentro di te, come parte di te e della tua esistenza. Un'esistenza che non è quella di questo mondo, ovviamente. Sto parlando dell'aldilà, del mondo che va oltre la morte, di quell'esistenza che travalica i confini del morire e ci apre a un'altra dimensione. Quel mondo a cui molti non credono, a cui molti altri non pongono interesse, e di cui la stragrande maggioranza degli uomini non si preoccupa più di tanto perché "preso" da altro.

Eppure, da che l'uomo è uomo, il pensiero del "dopo la morte" fa parte della nostra esistenza; almeno su questo, stiamo sereni, noi cristiani, che non l'abbiamo inventato noi. Noi, portandoci dietro il bagaglio della nostra storia, siamo figli della nostra dimensione antropologica: e in questi giorni nei quali i viali dei cimiteri risultano essere più affollati e frequentati del solito, non possiamo dire che non ci sia passato anche solo per un istante nella mente il pensiero su cosa ci sia al di là della nostra esistenza terrena. A me, e lo ribadisco, il pensiero un po' intimorisce, forse perché amo alla follia l'intensità e la bellezza del vivere. O forse lo affido, in maniera scontata ed eccessivamente sbrigativa, a quella dimensione così bella e in questi casi così comoda della fede, la quale "ci pensa lei" ad affrontare il problema dandogli la dimensione di "premio per le fatiche", di "patria celeste", di "traguardo finale", di "compimento ultimo", di consolazione dalle tribolazioni quotidiane"; e chi più ne ha, più ne metta. Perciò, anche "se ci rattrista la certezza di dover morire, ci consola la promessa dell'immortalità futura", come cita uno dei prefazi delle messe per i defunti del nostro Messale Romano.

Il problema, comunque, rimane, e così la domanda: "Cosa ci sarà dopo questa vita?", per dirla con le parole della Gaudium et Spes. Nessuno di noi ne ha la certezza; molti ne hanno la speranza; alcuni, hanno la pretesa e l'ardire di riderci sopra, facendosi gioco di chi, in questo aldilà, ha riposto molto più che una speranza. E tra chi "se ne fa un baffo" di questa speranza c'è chi, come i sadducei del Vangelo, ha riposto la propria speranza in qualcosa di senza dubbio molto più concreto, ma altrettanto certamente più effimero. Chi erano, questi "tipetti" con cui Gesù garbatamente si scontra sul tema dell'aldilà? I sadducei erano una delle tante sette in cui era divisa la religione giudaica ai tempi di Gesù: perlopiù, erano esponenti di una classe aristocratica molto potente, discendente da Sadoq, che era il sacerdote che aveva consacrato re Salomone. Un gruppo, quindi, abituato ad avere le mani in pasta nell'elezione dei governanti, forte soprattutto del proprio potere economico. È abbastanza comprensibile, allora, che una setta di questo tipo guardasse molto più alle cose della terra che a quelle del cielo. Il loro stesso modo di leggere la Bibbia era molto particolare: si concentravano solo sui primi cinque libri, quelli della Legge, trascurando totalmente i libri sapienziali e quelli profetici che, guarda caso, erano gli unici che parlavano di resurrezione e di un mondo "aldilà" di quello in cui ci troviamo a vivere. Del resto, a loro un mondo "aldilà" non solo non interessava, ma dava fastidio perché apriva gli occhi alla gente su una speranza, su qualcosa per il quale valesse la pena lottare in questo mondo per dare un senso alla vita. E lottare significava minare il potere di chi si sentiva superiore agli altri, appunto come i sadducei.

E allora il loro "giochetto" con Gesù (che riprende, in burla, la storia di Sara e Tobi) è volto veramente a prendersi gioco della speranza, sia di quella futura sia di quella terrena: per chi nasce disperato, povero, abietto, emarginato, per chi è incapace a produrre e generare vita, pensare di avere una possibilità o una speranza è fuori da ogni logica, né ora né mai. Il potere e il denaro sono le due uniche logiche che governano il mondo: e di fronte a esse non c'è verso di dare speranza a chi ne rimane fuori. Il problema è che i sadducei non hanno fatto i conti con l'oste, e non hanno capito chi era il loro interlocutore. Si sono creduti talmente furbi da poterlo superare citandogli la Parola di Dio, per di più in maniera errata, perché la storia di Tobi e Sara termina positivamente. Ma il loro avversario risponde loro citando proprio il cuore del Pentateuco, degli unici libri che essi conoscevano, ossia l'episodio del roveto ardente, in cui Dio rivela la sua identità a Mosè. E la sua identità non è quella di un Dio di morti sepolti e dimenticati, ma di un Dio la cui forza sta nella sua presenza costante ed eterna lungo la storia, una presenza nella quale anche i patriarchi, gli antepassati, gli antenati di un popolo continuano a vivere nel popolo stesso.

La vita non si ferma mai, la speranza neppure: e chi cerca di averne il sopravvento perché forte delle sue ricchezze e del suo potere, ha già perso la partita. Come sarà, allora, l'aldilà? I sadducei non lo sapranno mai, e in maniera precisa e dettagliata nemmeno il Signore Gesù ce lo dice. Di certo, la vita non finisce, e neppure la speranza: e se c'è un destino di gloria che va oltre la morte, questo è così perché qui, sulla terra, si è vissuta la vita con intensità, con forza e con ostinazione combattendo contro tutto ciò che parla di morte.
Perché "Dio non è Dio dei morti, ma dei viventi".

 

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