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TESTO Cantate al Signore, acclamate il suo santo nome

don Walter Magni   Chiesa di Milano

III domenica dopo il martirio di San Giovanni il Precursore (Anno C) (18/09/2016)

Vangelo: Gv 5,25-36 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

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25In verità, in verità io vi dico: viene l’ora – ed è questa – in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno. 26Come infatti il Padre ha la vita in se stesso, così ha concesso anche al Figlio di avere la vita in se stesso, 27e gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo. 28Non meravigliatevi di questo: viene l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce 29e usciranno, quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna. 30Da me, io non posso fare nulla. Giudico secondo quello che ascolto e il mio giudizio è giusto, perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato.

31Se fossi io a testimoniare di me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera. 32C’è un altro che dà testimonianza di me, e so che la testimonianza che egli dà di me è vera. 33Voi avete inviato dei messaggeri a Giovanni ed egli ha dato testimonianza alla verità. 34Io non ricevo testimonianza da un uomo; ma vi dico queste cose perché siate salvati. 35Egli era la lampada che arde e risplende, e voi solo per un momento avete voluto rallegrarvi alla sua luce.

36Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni: le opere che il Padre mi ha dato da compiere, quelle stesse opere che io sto facendo, testimoniano di me che il Padre mi ha mandato.

Cari amici e care amiche, mi aveva colpito il titolo di un articolo di un giornale di qualche anno fa: Al cristianesimo oggi servono testimoni, non testimonial (Enzo Bianchi, La Stampa, 9/07/ 2006). Altro è testimoniare in prima persona il Vangelo di Gesù e altro è riferirsi a qualche personaggio conosciuto e di immagine per sostenere il valore della testimonianza. Oggi è Gesù stesso che ci spiega che cos'è la testimonianza.

Testimone credibile
Gesù parte dalla testimonianza data da Giovanni Battista, descritto come una "lampada che arde e risplende" e definito: "testimone della verità".
Quando ci confrontiamo con la verità, immaginiamo di doverci rapportare con dei principi e dei valori così alti che stanno oltre la nostra esistenza. Non ci appartengono in prima persona. Finendo spesso per sentirsi come schiacciati da un senso di impotenza. Incapaci di attuarli nella nostra vita. Eppure c'è una verità più nascosta, che ci abita dentro, che si identifica col semplice fatto che esistiamo e viviamo. E questa è la prima verità che chiede d'essere accolta e testimoniata. Perché siamo quello che siamo, fatti in questo modo, più o meno capaci di questo o di quello. Una verità ineludibile che chiede di non essere elusa. Imparando giorno dopo giorno a dare un umile credito a se stessi. Accorgendoci che proprio questa è la strada che ci rende aperti e misericordiosi con coloro che ci stanno accanto. Accogliendo la bellezza della loro originalità e diversità. È proprio Gesù che ci ha invitati ad amare gli altri così come amiamo noi stessi (Mt 22,39).
Sono questi i giorni nei quali riaprono le scuole. Dove sta la sfida educativa? Nel testimoniare anzitutto noi stessi, compromettendoci in prima persona. Prima che bambini e ragazzi siano riempiti di nozioni che spesso la loro memoria non sa come contenere, importa che comprendano con serenità chi siamo. E questo vale anche per l'avvio dei percorsi di catechesi. Se non ci sei tu quando insegni, quando predichi, si rischia sempre un ascolto vuoto. Consegni anzitutto il tuo sguardo sulla realtà, prima di un insieme di concetti appropriati, di esegesi perfette, di frasi consolatorie di circostanza. Questo significa che il mondo aspetta anzitutto dei testimoni, più che esperti o maestri (Paolo VI).

Un amore affidabile
Gesù poi passa a una distinzione, mettendo in atto una differenza tra la testimonianza di Giovanni e la Sua: "Io però ho una testimonianza superiore a quella di Giovanni". Dove sta propriamente la superiorità della Sua testimonianza? Nella credibilità, nella affidabilità del Suo modo di amare.
C'è una espressione del vangelo odierno che ci introduce a comprendere la qualità dell'amore che Gesù ci ha testimoniato. Mentre, infatti, ci sta descrivendo il rapporto di totale affidamento nei confronti del Padre Suo, di Sé afferma: "da me, io non posso fare nulla". Gesù non mette in atto alcuna testimonianza a partire da Sé. Ha una sola preoccupazione: che sia il Padre ad agire in Lui e per Lui. Come affidandoSi al Suo primato, lasciandoSi semplicemente fare, lasciandoSi amare. Come se, per Sua libera decisione, Suo Padre potesse decidere tutto di Lui e in Lui: "perché non cerco la mia volontà, ma la volontà di colui che mi ha mandato. Se fossi io a testimoniare di me stesso, la mia testimonianza non sarebbe vera. C'è un altro che dà testimonianza di me, e so che la testimonianza che egli dà di me è vera".
Come se Gesù dicesse che la testimonianza ultima, compresa quella d'essere credibile e vero agli occhi degli uomini, coincidesse con questa piena disponibilità nei confronti dell'altro. Come se l'altro fosse la Sua definizione, la Sua passione. La qualità della testimonianza di Gesù, superiore a quella di Giovanni, sta nel sentire d'essere uno col Padre Suo: d'essere il Suo sguardo misericordioso, d'essere il Suo cuore smisurato. Dove la misura, la qualità della Sua esistenza è data dal Padre Suo.

Guardare a Gesù
Non ci resta che guardare a Gesù. Come anche Giovanni Battista aveva compreso, quando Lo indicava ai suoi discepoli chiamandolo l'Agnello di Dio, dichiarandosi amico dello sposo che deve diminuire a fronte del Suo crescere. Del resto, questo ci ripete oggi la Lettera agli Ebrei: "anche noi dunque, circondati da tale moltitudine di testimoni, avendo deposto tutto ciò che è di peso e il peccato che ci assedia, corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che dà origine alla fede e la porta a compimento".
Poi cosa ci resta da fare, se guardando alla nostra povera esistenza, non resta gran che da esaltare? Se mai ci sentissimo delusi e abbandonati dalla speranza? Ho trovato in questi giorni una bellissima risposta. Quando tra le mani non ci resta più niente da fare, allora altro non ci resta che "d'essere umani verso gli umani, che fra noi dimori il fra noi che ci rende uomini. Perché se questo venisse a mancare, noi cadremmo nell'abisso, non tanto del bestiale, quanto dell'inumano o del disumano (...). Questo reciproco e primitivo riconoscimento, è in un certo senso il banale e l'ordinario della vita (...). Allora succede che la luce di un viso, la musica di una voce, il gesto offerto da una mano, d'un tratto dicano tutto; e che, per esempio, quest'uomo sfinito, che la gente credeva annegato nell'assenza, indichi, con un movimento quasi invisibile, la presenza della presenza" (M. Bellet, Incipit o dell'inizio, Quaderni di ricerca 54, Servitium, 1997). Ci resta d'essere umani, cercando di restare caparbiamente umani. Senza perdere la speranza, anche davanti a un barlume di umanità. Perché Gesù, il Figlio di Dio, di questa umanità S'è rivestito amandola. Questo ci resta, questo ci basta.

 

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